N. 150 SENTENZA 26 maggio - 14 luglio 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Retribuzione aggiuntiva per le  festivita'  civili
  nazionali ricadenti di domenica - Esclusione. 
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione  del
  bilancio annuale e pluriennale  dello  Stato  -  legge  finanziaria
  2006), art. 1, comma 224. 
-   
(GU n.29 del 22-7-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
  Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,  Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  1,  comma
224, della legge 23  dicembre  2005,  n.  266  (Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale  dello  Stato  -  legge
finanziaria  2006),  promosso  dalla  Corte  di  cassazione,  sezione
lavoro, nel procedimento vertente tra P. E. ed altri e  il  Ministero
della giustizia con ordinanza del 20 gennaio 2014, iscritta al n.  64
del registro ordinanze 2014 e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visti l'atto di costituzione di P. E. ed altri, nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  26  maggio  2015  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra; 
    uditi l'avvocato Ferdinando Emilio Abbate per P. E.  ed  altri  e
l'avvocato dello Stato Daniela Giacobbe per Presidente del  Consiglio
dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza, depositata il 20 gennaio  2014,  la  Corte  di
cassazione, sezione lavoro, ha sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre  2005,
n. 266  (Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato - legge  finanziaria  2006),  per  violazione
dell'art.117, primo comma, della Costituzione, in relazione  all'art.
6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4  novembre
1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    1.1.- La Corte rimettente premette che, con  sentenza  depositata
il 16 dicembre 2009, la Corte d'appello di  Roma,  in  riforma  della
decisione di primo grado  emessa  dal  Tribunale  di  Viterbo,  aveva
accolto le opposizioni proposte dal Ministero della giustizia avverso
i decreti ingiuntivi emessi in  favore  di  alcuni  dipendenti  dello
stesso  Ministero,  ritenendone  infondata  la  pretesa  diretta   ad
ottenere il compenso previsto dall' art. 5, terzo comma, della  legge
27 maggio  1949,  n.  260  (Disposizioni  in  materia  di  ricorrenze
festive), relativo alle festivita' coincidenti con  la  domenica.  La
Corte di cassazione precisa che la Corte d'appello aveva  escluso  il
riconoscimento del compenso di cui al citato  art.  5,  terzo  comma,
della legge n. 260 del 1949 ed aveva riformato la sentenza  di  primo
grado, sulla base del rilievo che l'art. 1, comma 224, della legge n.
266 del 2005, norma di natura interpretativa  o  comunque  dotata  di
efficacia retroattiva, aveva elencato  il  suddetto  art.  5  fra  le
disposizioni inapplicabili al lavoro pubblico ai sensi dell'art.  69,
comma 1, del  decreto  legislativo  30  marzo  2001,  n.  165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni  pubbliche),  una   volta   stipulati   i   contratti
collettivi nazionali di lavoro per il quadriennio 1998-2001. 
    La Corte rimettente precisa, pertanto, di essere stata adita  con
ricorso proposto dai dipendenti del  Ministero  avverso  la  sentenza
d'appello e ricorda che, fra l'altro, i  ricorrenti  avevano  chiesto
anche di sollevare questione di legittimita' costituzionale del comma
224 dell'art. 1 in  esame,  ritenendo  che  la  retroattivita'  della
citata norma, che si applica a fattispecie anteriori alla sua entrata
in vigore, «salva l'esecuzione dei giudicati»,  formatisi  fino  alla
data dell'entrata in vigore della medesima norma, violasse il divieto
di  ingerenza  del  potere  legislativo  nell'amministrazione   della
giustizia, influisse sulla definizione delle controversie giudiziarie
in corso (art. 117, primo comma, Cost. e art. 6 della CEDU),  ledesse
l'autonomia e l'indipendenza della magistratura (art. 104  Cost.)  ed
il principio di imparzialita' della pubblica amministrazione (art. 97
Cost.). 
    1.2.-  Cio'  premesso,  la  Corte   di   cassazione,   in   linea
preliminare, ritiene non sia  possibile  adottare  un'interpretazione
della   disposizione   censurata,   che   fa   espressamente   «salva
l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata  in  vigore
della presente legge» (art. 1, comma 224, ultimo  periodo),  conforme
alla  CEDU.  Ne'  ritiene  di  poter   accogliere   la   tesi   della
disapplicazione da parte del giudice comune di norme contrastanti con
l'art. 6 della CEDU (ma anche con gli artt. 47, secondo comma, e  52,
terzo  comma,  della  Carta  dei  diritti  fondamentali   dell'Unione
europea,  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e  adattata  a
Strasburgo  il  12  dicembre  2007),   alla   luce   della   costante
giurisprudenza costituzionale e della giurisprudenza della  Corte  di
giustizia  dell'Unione  europea.  Pertanto,  solleva   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 224,  della  legge  n.
266 del 2005, nella parte in  cui,  applicandosi  anche  ai  processi
pendenti, sarebbe intervenuto a determinare la modifica dell'esito di
un giudizio in corso - nel quale si era riconosciuto il  diritto  dei
dipendenti pubblici ad un compenso aggiuntivo in caso di  coincidenza
delle festivita' con la  domenica  -  a  favore  dell'amministrazione
statale, parte in  giudizio.  E  cio'  senza  che  sussistessero  gli
"impellenti  motivi   di   interesse   generale"   prescritti   dalla
giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti   dell'uomo,   in
riferimento all'art. 6 della CEDU,  per  giustificare  la  deroga  al
principio di irretroattivita' della legge.  Non  sarebbero,  infatti,
riconducibili ai predetti motivi ne' le finalita' di "razionalizzare"
ed "omogeneizzare" il trattamento dei pubblici impiegati indicate dal
Ministero, ne' le generiche  esigenze  di  compressione  della  spesa
pubblica connesse all'equilibrio del bilancio dello Stato. 
    Detta norma, pertanto, risulterebbe lesiva dell'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU,  come  interpretato
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Quest'ultima ha,  infatti,
ripetutamente  affermato  che,  nonostante  non   sia   precluso   al
legislatore intervenire, mediante nuove disposizioni  retroattive,  a
disciplinare diritti derivanti da leggi in vigore, i  principi  della
preminenza del diritto e del processo equo di cui  all'art.  6  della
CEDU impediscono, tranne che per motivi  di  interesse  generale  non
riconducibili  a  mere  esigenze  finanziarie,   l'interferenza   del
legislatore nell'amministrazione della giustizia, con il proposito di
influenzare  la  determinazione  giudiziaria  di   una   controversia
azionata contro lo Stato. 
    Il  Collegio  rimettente   ricorda,   inoltre,   che   la   Corte
costituzionale ha gia' avuto occasione piu' volte  di  ravvisare  una
coincidenza di impostazione fra la giurisprudenza della Corte europea
dei  diritti  dell'uomo  e  la  propria  giurisprudenza  (in  specie,
sentenza n. 264 del 2012) in  ordine  al  divieto  di  retroattivita'
della  legge,  secondo  la  quale   il   legislatore   puo'   emanare
disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purche'
la retroattivita' trovi  adeguata  giustificazione  nell'esigenza  di
tutelare principi, diritti e  beni  di  rilievo  costituzionale,  che
costituiscono altrettanti "motivi imperativi di  interesse  generale"
ai  sensi  della  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    1.3.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o  che
venga  dichiarata  non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata. 
    Nella specie, l'Avvocatura generale dello Stato  ritiene  che  la
norma di cui all'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005,  pur
avendo efficacia retroattiva, non sia  innovativa  e  sia  rivolta  a
chiarire  il  significato  di  una  legge   precedente,   ovvero   ad
esplicitare  uno  dei   significati,   tra   quelli   ragionevolmente
ascrivibili alle statuizioni interpretate. 
    Essa non contrasterebbe con l'art. 117, primo  comma,  Cost.,  in
primo luogo perche'  la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  non
avrebbe  affermato  il  principio  del  divieto  assoluto  di   leggi
retroattive,  ma  avrebbe   ritenuto   legittimo   l'intervento   del
legislatore che, per porre rimedio ad un'imperfezione  tecnica  della
legge interpretata, avesse inteso, con legge retroattiva, ristabilire
un'interpretazione  piu'   aderente   all'originaria   volonta'   del
legislatore stesso. Alla  luce  di  tutto  cio',  la  difesa  statale
ritiene che la norma censurata abbia un'indubbia natura di  norma  di
interpretazione autentica dell'art. 69 del d.lgs. n.  165  del  2001.
Essa,  infatti,   tenderebbe   a   risolvere   dubbi   interpretativi
sull'ambito  di  efficacia  della  predetta  norma  a  seguito  della
stipulazione della seconda tornata di contratti collettivi in materia
di  lavoro  alle  dipendenze  delle  pubbliche  amministrazioni.   La
specificazione di tale ambito di efficacia  risponderebbe  a  precise
esigenze di razionalizzazione e perequazione del sistema  retributivo
dei   dipendenti   pubblici,   anche   alla   luce   della   ritenuta
ragionevolezza  della  norma  in  base  alla  sentenza  della   Corte
costituzionale n. 146 del 2008. 
    1.4.- Si  sono  costituite  in  giudizio  le  parti  private  del
giudizio principale, chiedendo  che  venga  dichiarata  la  manifesta
infondatezza  della  questione  sollevata  in  quanto   una   lettura
adeguatrice e  costituzionalmente  orientata  della  norma  censurata
consentirebbe di escluderne la natura retroattiva. Ove intesa in  tal
modo, la predetta norma sarebbe, infatti, applicabile ai soli giudizi
instaurati successivamente alla sua entrata in vigore e non,  quindi,
al giudizio principale. 
    In via subordinata, le predette parti chiedono che sia dichiarata
l'illegittimita' costituzionale della norma oggetto  di  censura  per
violazione dell'art. 117, comma primo, Cost., in relazione all'art. 6
della CEDU. 
    L'art. 1, comma 224, della legge  n.  266  del  2005  sarebbe  in
contrasto con i principi di  parita'  delle  armi,  di  certezza  del
diritto, nonche' piu' in generale del diritto ad un  giusto  ed  equo
processo, sanciti dall'art. 6 della CEDU, principi  che  fanno  parte
anche  dell'ordinamento  giuridico  europeo,  per  effetto  del  loro
recepimento da parte del Trattato di Lisbona, firmato il 13  dicembre
2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, ed
entrato in vigore il 1° dicembre 2009. 
    Tale  contrasto  sussisterebbe  per  le  seguenti   ragioni:   la
disposizione censurata sarebbe inserita nel testo di  una  legge,  la
legge finanziaria per il 2006, destinata a tutt'altri fini;  essa  e'
intervenuta a distanza di cinque anni dal d.lgs. n. 165 del  2001  ed
oltre quarantacinque anni dopo la legge n. 260 del 1949, quando sulla
predetta legislazione si era formato un diritto vivente che, derivato
dall'orientamento univoco  della  Corte  di  cassazione,  riconosceva
pacificamente ai lavoratori pubblici le pretese negate dalla norma in
esame; essa risulterebbe  solo  formalmente  interpretativa,  essendo
nella sostanza innovativa, in quanto il tenore letterale delle  norme
interpretate (d.lgs. n. 165 del 2001 e legge n.  260  del  1949)  non
comprenderebbe, fra le possibili combinate letture, l'interpretazione
in parte  qua  fornita  dal  legislatore;  infine,  essa  andrebbe  a
regolare fattispecie in cui lo Stato italiano e'  direttamente  parte
in causa. 
    2.- All'udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio ed  il
Presidente  del  Consiglio   dei   ministri   hanno   insistito   per
l'accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  La  Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 224,  della  legge  23
dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), la' dove
prevede  che  «[t]ra  le  disposizioni   riconosciute   inapplicabili
dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del  decreto  legislativo
30 marzo 2001, n. 165, a seguito  della  stipulazione  dei  contratti
collettivi del quadriennio 1994/1997,  e'  ricompreso  l'articolo  5,
terzo comma, della legge 27 maggio  1949,  n.  260,  come  sostituito
dall'articolo 1 della legge 31 marzo  1954,  n.  90,  in  materia  di
retribuzione nelle festivita' civili nazionali ricadenti di domenica.
E' fatta salva l'esecuzione dei  giudicati  formatisi  alla  data  di
entrata in vigore della presente legge». 
    Tale norma e'  censurata  per  violazione  dell'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950  ratificata  e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Essa, infatti,  nella
parte in cui stabilisce che l'art. 69, comma 1, secondo periodo,  del
decreto  legislativo  30  marzo  2001,   n.   165   (Norme   generali
sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche), deve intendersi nel senso di  escludere  l'applicabilita'
ai lavoratori pubblici, a seguito della  stipulazione  dei  contratti
collettivi del quadriennio 1994/1997, dell'art. 5, terzo comma, della
legge n. 260  del  1949,  escludendo  quindi  il  riconoscimento  del
diritto dei predetti ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza
delle festivita' con la  domenica,  anche  con  riguardo  ai  giudizi
pendenti, conterrebbe una  norma  retroattiva,  lesiva  dei  principi
della preminenza del diritto e del processo equo di  cui  all'art.  6
della CEDU. 
    In particolare, la norma sarebbe  intervenuta  nel  corso  di  un
giudizio, al fine di determinare la modifica dell'esito dello  stesso
in favore dello Stato, parte del medesimo  giudizio,  in  assenza  di
motivi imperativi di interesse generale,  non  potendosi  configurare
come tali ne' le finalita' di "omogeneizzare" e  "razionalizzare"  il
trattamento  nel  pubblico  impiego,  ne'   le   generiche   esigenze
finanziarie richiamate. 
    2.- La questione non e' fondata nei termini di seguito precisati. 
    2.1.-   Preliminarmente   occorre   riconoscere   la   fondatezza
dell'assunto  del  rimettente  secondo  cui  non  e'  possibile   una
interpretazione della norma  censurata  che  ne  escluda  la  portata
retroattiva e  dunque  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso,  ivi
compreso il giudizio principale. Il  tenore  letterale  dell'art.  1,
comma 224, della legge n. 266 del 2005 che, nel delimitare la propria
sfera di applicazione, espressamente fa salva solo «l'esecuzione  dei
giudicati formatisi alla data di entrata  in  vigore  della  presente
legge» (secondo periodo), impedisce di assegnare  a  detta  norma  un
significato diverso  da  quello  sospettato  di  illegittimita',  non
consentendo di attribuirle effetti solo pro futuro,  poiche'  risulta
ictu oculi il suo  carattere  retroattivo  e  la  sua  incidenza  sul
giudizio in corso. Questa Corte ha piu' volte affermato  che  l'onere
dell'interpretazione conforme grava sul giudice «entro i  limiti  nei
quali cio' sia permesso dai testi delle norme» (sentenza n.  349  del
2007). Qualora cio' non sia possibile, ove cioe'  la  verifica  della
praticabilita' di una interpretazione della norma  interna  in  senso
conforme alla CEDU, realizzata dal giudice comune avvalendosi di ogni
strumento ermeneutico a sua disposizione, dia esito negativo,  questi
non  puo'  far  altro  che  sollevare   questione   di   legittimita'
costituzionale per  violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.
(sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009,).  Questa
soluzione si collega  all'impossibilita'  di  disapplicare  la  norma
ritenuta in contrasto con  la  norma  convenzionale,  come  affermato
dalla costante giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, sentenze
n. 80 del 2011 e n. 349 del 2007). 
    2.2.- Il suddetto contrasto con la norma convenzionale e, quindi,
con l'art. 117, primo comma, Cost.,  tuttavia,  non  sussiste  per  i
motivi che si precisano di seguito. 
    L'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte  in
cui dispone che l'art. 5, terzo comma, della legge n. 260  del  1949,
come successivamente modificato, e' una fra le disposizioni  divenute
inapplicabili a seguito della stipulazione dei  contratti  collettivi
del quadriennio 1994/1997,  ai  sensi  dell'art.  69,  comma  1,  del
d.l.gs. n. 165 del 2001, interviene  sul  contenuto  di  tale  norma.
Quest'ultima, nel dettare norme transitorie volte  ad  assicurare  la
graduale attuazione della riforma del lavoro pubblico, prescrive che,
«[s]alvo che per le materie di cui all'articolo 2, comma  1,  lettera
c), della legge 23  ottobre  1992,  n.  421,  gli  accordi  sindacali
recepiti in decreti del Presidente  della  Repubblica  in  base  alla
legge 29 marzo 1983, n. 93,  e  le  norme  generali  e  speciali  del
pubblico impiego, vigenti  alla  data  del  13  gennaio  1994  e  non
abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto  di
lavoro,  la  disciplina  di  cui  all'  articolo  2,  comma  2.  Tali
disposizioni sono inapplicabili  a  seguito  della  stipulazione  dei
contratti collettivi  del  quadriennio  1994-1997,  in  relazione  ai
soggetti e alle materie dagli stessi contemplati.  Tali  disposizioni
cessano  in  ogni  caso  di  produrre  effetti  dal   momento   della
sottoscrizione, per ciascun  ambito  di  riferimento,  dei  contratti
collettivi del quadriennio 1998-2001». 
    Il citato art. 69 si  inserisce  nel  quadro  della  riforma  del
lavoro pubblico, introdotta con il  decreto  legislativo  3  febbraio
1993,   n.   29    (Razionalizzazione    dell'organizzazione    delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia  di
pubblico impiego, a norma dell'articolo  2  della  legge  23  ottobre
1992, n. 421), ed ispirata, come gia' riconosciuto da  questa  Corte,
«alle finalita' di "accrescere l'efficienza delle amministrazioni  in
relazione a quella dei corrispondenti  uffici  e  servizi  dei  paesi
della Comunita' europea", di  "razionalizzare  il  costo  del  lavoro
pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e
indiretta, entro i vincoli della  finanza  pubblica",  di  "integrare
gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del  lavoro
privato" (v. art. 1)» (sentenza n. 359 del 1993).  Tale  riforma  «ha
profondamente innovato la disciplina in precedenza posta dalla  legge
quadro  sul  pubblico  impiego  (legge  29  marzo   1983,   n.   93),
ricostruendo  l'intera  materia  intorno  ai  nuovi  principi   della
"privatizzazione" e della "contrattualizzazione" enunciati  nell'art.
2, primo comma, lett. a), della legge n. 421 del 1992 e attuati,  nel
decreto  n.  29  del  1993,  mediante  l'inquadramento  dei  rapporti
d'impiego  pubblico  nella  cornice  del  diritto  civile   e   nella
contrattazione collettiva e individuale» (sentenza n. 359 del 1993). 
    Il d.lgs. n. 165  del  2001,  seguito  alla  cosiddetta  "seconda
privatizzazione" del lavoro pubblico operata  dalla  legge  15  marzo
1997, n. 59 (Delega al Governo per  il  conferimento  di  funzioni  e
compiti alle regioni ed enti locali, per la  riforma  della  Pubblica
Amministrazione  e  per  la   semplificazione   amministrativa),   ha
confermato l'impianto della riforma del 1993, diretta a  «valorizzare
la distinzione tra organizzazione della pubblica amministrazione,  la
cui disciplina viene affidata in primo luogo alla legge,  e  rapporto
di lavoro dei pubblici  dipendenti,  tendenzialmente  demandato  allo
strumento della contrattazione collettiva» (sentenza n. 313 del 1996;
sentenza n. 88 del  1996),  in  linea  con  la  configurazione  della
contrattazione collettiva come strumento di partecipazione. 
    In questa prospettiva l'art. 2 del predetto d.l.lgs. n.  165  del
2001, nell'individuare le fonti di disciplina del lavoro pubblico, ha
assegnato  alla  legge  il  compito  di  regolare,  quanto  meno  nei
principi, l'organizzazione degli uffici,  demandando  viceversa  alla
contrattazione collettiva la regolamentazione dei rapporti di  lavoro
dei dipendenti. In particolare, al comma  2,  ha  statuito  che  «[i]
rapporti di lavoro dei  dipendenti  delle  amministrazioni  pubbliche
sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro
V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro  subordinato
nell'impresa, fatte  salve  le  diverse  disposizioni  contenute  nel
presente decreto». Fra di esse c'e' il comma 3 nel quale ha  disposto
che  «[l]'attribuzione  dei  trattamenti  economici   puo'   avvenire
esclusivamente mediante contratti [...] collettivi o, alle condizioni
previste, mediante contratti individuali» e che «[l]e disposizioni di
legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi
retributivi non previsti da contratti cessano di  avere  efficacia  a
far data dall'entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale». 
    Questa Corte ha  gia'  avuto  modo  di  desumere  dalle  indicate
disposizioni  che  il   legislatore   «ha   voluto   riservare   alla
contrattazione  collettiva  l'intera  definizione   del   trattamento
economico, eliminando progressivamente tutte le voci  extra  ordinem»
(sentenza n. 146 del 2008)  al  fine  di  realizzare,  ad  un  tempo,
l'obiettivo  della  contrattualizzazione  del  rapporto   di   lavoro
pubblico e della razionalizzazione del  costo  del  lavoro  pubblico,
mediante il contenimento della spesa complessiva  per  il  personale,
diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica. 
    L'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell'annoverare
tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'art. 69, comma 1,
secondo periodo,  del  d.lgs.  n.  165  del  2001)  a  seguito  della
stipulazione dei  contratti  collettivi  del  quadriennio  1994/1997,
l'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, in base al  quale
e' riconosciuto il diritto ad una ulteriore retribuzione nel caso  in
cui le festivita' ricorrano di  domenica,  si  pone  in  armonia  con
l'obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di
definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le  voci  extra
ordinem. Come questa Corte ha  gia'  avuto  occasione  di  affermare,
scrutinando la medesima norma, pur sotto altro profilo, si deve anche
evidenziare la finalita' del contenimento e  della  razionalizzazione
della spesa per il settore del pubblico impiego,  finalita'  «che  e'
imposta dall'art. 2, comma 1, della legge 23  ottobre  1992,  n.  421
[...], e ribadita dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165
del 2001» (sentenza n. 146 del 2008). 
    Risulta, pertanto, evidente che la norma censurata si  limita  ad
assegnare alla disposizione interpretata un significato gia' in  essa
contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture  del  testo
originario, cosicche' la portata retroattiva della  medesima  non  si
rivela irragionevole, ne' si pone in contrasto  con  altri  interessi
costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257  del  2011,
n. 236 del 2009). 
    Questa Corte ha piu' volte affermato che, posto che il divieto di
retroattivita' della legge, pur costituendo  fondamentale  valore  di
civilta' giuridica, non e' stato elevato a  dignita'  costituzionale,
salva la previsione dell'art. 25 Cost. per la materia penale, (fra le
altre, sentenze n. 156 del 2014, n. 78 del 2012, n.  257  del  2011),
deve riconoscersi come «al legislatore  non  sia  [...]  precluso  di
emanare   [...]   norme   retroattive   (sia   innovative   che    di
interpretazione autentica), "purche' la retroattivita' trovi adeguata
giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti  e  beni
di  rilievo  costituzionale  che  costituiscono  altrettanti   motivi
imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza  della
Corte EDU" (sentenza n. 264 del 2012)» (sentenza  n.  156  del  2014;
cosi' anche, ex plurimis, sentenze n. 78 del 2012, n. 15  del  2012).
Questa Corte ha ritenuto che cio' accade  allorquando  una  norma  di
natura interpretativa persegua lo scopo  di  chiarire  situazioni  di
oggettiva incertezza del dato normativo in ragione  di  un  dibattito
giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un'interpretazione  piu'
aderente all'originaria volonta' del legislatore (sentenza n. 311 del
2009; cosi' anche Corte europea dei diritti  dell'uomo,  sentenza  23
ottobre 1997, National & Provincial Building Society ed altri  contro
Regno  Unito),  nonche'  di  riaffermare  l'intento   originale   del
Parlamento (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza  27  maggio
2004, OGIS-Institut Stanislas e altri contro Francia) a tutela  della
certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini. 
    Nella specie, l'art. 1, comma 224, della legge n. 266  del  2005,
nell'escludere l'applicabilita' ai lavoratori  pubblici  della  norma
recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva  nel
caso in cui le festivita' ricorrano di domenica,  all'indomani  della
stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997,  non
ha fatto altro che dare attuazione ad  uno  dei  principi  ispiratori
dell'intero d.lgs.  n.  165  del  2001.  Tale  e'  da  intendersi  la
contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico,  principio  cui
era informata la norma interpretata (l'art. 69 del citato  d.lgs.  n.
165 del 2001),  nella  parte  in  cui  disponeva,  in  via  generale,
l'inapplicabilita' «delle norme  generali  e  speciali  del  pubblico
impiego»,  a  seguito  appunto  della  stipulazione   dei   contratti
collettivi del  quadriennio  1994-1997.  La  norma  in  questione  ha
chiarito - risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla
presenza di pronunce di  segno  contrastante  (Corte  di  cassazione,
sezione lavoro, sentenza 28 marzo 1981, n. 1803; Corte di cassazione,
sezione  lavoro,  sentenza  10  gennaio  2011,  n.  258;   Corte   di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 luglio 2006, n. 15331)  -  che
l'art. 5, terzo comma, della legge  n.  260  del  1949  ha  carattere
imperativo. Esso e',  pertanto,  applicabile  a  tutti  i  lavoratori
dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai privati  (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza  22  febbraio  2008,  n.  4667),
rientrando fra le «norme generali [...] del pubblico impiego», di cui
l'art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce l'inapplicabilita'  a
seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con  il
principio della onnicomprensivita' della retribuzione e  del  divieto
di  ulteriori  corresponsioni,  diverse  da  quelle  contrattualmente
stabilite (sentenza n. 146 del 2008). 
    Alla  luce  di  quanto  detto,  l'intervento  interpretativo  del
legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza
«che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate  disparita'  di
trattamento» (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte gia'
nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione  della  peculiarita'
del regime del rapporto di lavoro  alle  dipendenze  delle  pubbliche
amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai  contratti
collettivi  ivi  richiamati,  ma  neppure   determina   una   lesione
dell'affidamento.  Il  testo  originario  rendeva,  sin  dall'inizio,
plausibile, come si e' gia' rilevato, una lettura diversa  da  quella
che  i  destinatari  della  norma  interpretata  hanno  ritenuto   di
privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i  principi  ai
quali e' informato il rapporto di lavoro pubblico. Ne' si ravvisa una
lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame,
infatti, avendo natura interpretativa, ha  operato  sul  piano  delle
fonti,  senza  toccare  la  potesta'  di  giudicare,  limitandosi   a
precisare  la  regola  astratta  ed  il  modello  di  decisione   cui
l'esercizio di tale potesta' deve attenersi, definendo e  delimitando
la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170  del
2008), proprio al fine  di  assicurare  la  coerenza  e  la  certezza
dell'ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 1,  comma  224,  della  legge  23  dicembre  2005,  n.  266
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - legge  finanziaria  2006),  sollevata,  in  riferimento
all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione  all'art.
6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4  novembre
1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,  n.  848,
dalla  Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  con  l'ordinanza  di
rimessione riportata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2015. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                     Silvana SCIARRA, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI