N. 220 SENTENZA 7 ottobre - 5 novembre 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Reato di omessa corresponsione dell'assegno divorzile,
  e  in  specie  dell'assegno  dovuto  a  titolo  di  contributo   al
  mantenimento di un figlio minore - Regime di procedibilita'. 
- Legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento
  del matrimonio), art. 12-sexies, aggiunto dall'art. 21 della  legge
  6 marzo 1987, n. 74 (Nuove  norme  sulla  disciplina  dei  casi  di
  scioglimento del matrimonio). 
-   
(GU n.45 del 11-11-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici :Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
  Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
  AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  12-sexies
della legge  1°  dicembre  1970,  n.  898  (Disciplina  dei  casi  di
scioglimento del matrimonio), aggiunto dall'art.  21  della  legge  6
marzo  1987,  n.  74  (Nuove  norme  sulla  disciplina  dei  casi  di
scioglimento del matrimonio), promosso  dal  Tribunale  ordinario  di
Verona nel procedimento penale a carico di B.V. con ordinanza  del  7
agosto  2014,  iscritta  al  n.  5  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  6,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7  ottobre  2015  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata  il  7  agosto  2014,  il  Tribunale
ordinario di Verona, in composizione monocratica,  ha  sollevato,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 12-sexies della legge 1° dicembre  1970,  n.
898 (Disciplina dei casi di scioglimento  del  matrimonio),  aggiunto
dall'art. 21 della legge 6 marzo  1987,  n.  74  (Nuove  norme  sulla
disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella  parte  in
cui - nel disporre che «Al coniuge  che  si  sottrae  all'obbligo  di
corresponsione dell'assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della
presente legge si applicano le pene previste dall'art. 570 del codice
penale» -  non  stabilisce,  per  tale  reato,  la  procedibilita'  a
querela. 
    Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale
nei confronti di una persona imputata di violazione continuata  degli
artt. «12-sexies e 6 della  legge  n.  898  del  1970,  in  relazione
all'art. 570, comma 2, n. 2, c.p.», per essersi sottratto all'obbligo
di corresponsione dell'assegno  dovuto  a  titolo  di  contributo  al
mantenimento, all'istruzione e all'educazione  della  figlia  minore,
posto a suo carico con sentenza  del  14  gennaio  2010  in  sede  di
pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio. 
    Riferisce, altresi', che il procedimento penale era stato avviato
a seguito di querela sporta dal coniuge divorziato.  Successivamente,
peraltro, quest'ultimo aveva rimesso la querela  e  l'imputato  aveva
accettato la remissione. 
    Al riguardo, il  giudice  a  quo  osserva  che,  in  base  ad  un
orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di  legittimita',
il  reato  di  omessa  corresponsione  dell'assegno  divorzile   deve
ritenersi procedibile d'ufficio e non gia' a  querela  della  persona
offesa. Il rinvio all'art. 570 cod. pen., operato dall'art. 12-sexies
della legge n. 898 del 1970, si riferisce, infatti, esclusivamente al
regime sanzionatorio del delitto  di  violazione  degli  obblighi  di
assistenza  familiare   e   non   anche   al   relativo   regime   di
procedibilita'. 
    La  conclusione  risulterebbe  avvalorata,  secondo  il   giudice
rimettente, dalla considerazione che l'art. 570 cod. pen. stabilisce,
al suo interno, un regime di procedibilita' differenziato:  sempre  a
querela per le ipotesi previste dal primo comma e d'ufficio solo  per
alcune delle ipotesi piu' gravi previste dal secondo  comma.  Con  la
conseguenza che  apparirebbe  problematico  anche  individuare  quale
regime, tra questi,  sarebbe  stato  eventualmente  richiamato  dalla
norma denunciata. 
    La remissione della querela e la  sua  accettazione,  intervenute
nel caso di specie, rimarrebbero pertanto irrilevanti. 
    Secondo il giudice a quo, tuttavia, la mancata  previsione  della
perseguibilita' a querela  del  reato  in  esame  porrebbe  la  norma
censurata in contrasto con l'art. 3  Cost.,  generando  irragionevoli
disparita' di trattamento di situazioni analoghe. 
    La sperequazione  denunciata  si  riscontrerebbe,  anzitutto,  in
rapporto alla figura criminosa di cui all'art.  388,  secondo  comma,
cod.  pen.,  che  punisce  la  mancata  esecuzione   dolosa   di   un
provvedimento  del  giudice  concernente  l'affidamento  di   minori:
compreso, quindi, il  provvedimento  adottato  con  la  pronuncia  di
cessazione degli effetti civili del matrimonio. Ai sensi  dell'ultimo
comma del medesimo art. 388, tale reato e', infatti,  perseguibile  a
querela. 
    Il diverso regime di procedibilita' delle due  ipotesi  criminose
apparirebbe, peraltro, privo di ogni razionale  giustificazione.  Con
riguardo  al  medesimo  provvedimento  giudiziale,   il   legislatore
avrebbe, infatti, rimesso alla  volonta'  dei  privati  coinvolti  la
perseguibilita' delle condotte illecite che incidono sull'affidamento
dei minori (materia normalmente sottratta al potere dispositivo delle
parti), rendendo, invece, perseguibili d'ufficio quelle che investono
i soli aspetti patrimoniali (soggetti, di norma, al  predetto  potere
dispositivo). 
    La procedibilita' officiosa del reato di cui  all'art.  12-sexies
della legge n. 898 del 1970 non potrebbe essere, dunque, spiegata con
la  maggiore   gravita'   dei   comportamenti   repressi   da   detta
disposizione. Al contrario, sarebbe il reato previsto dalla norma del
codice penale a risultare piu' grave, non soltanto sul piano dei beni
tutelati, ma anche  in  relazione  alla  condotta  e  al  trattamento
sanzionatorio. 
    La norma denunciata reprime, infatti, la mera  inottemperanza  al
provvedimento del giudice, mentre l'art.  388,  secondo  comma,  cod.
pen. colpisce  solo  le  piu'  insidiose  condotte  elusive  di  quel
provvedimento. 
    Con la sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866,  le  sezioni
unite della Corte di cassazione hanno, d'altra parte, chiarito che la
pena applicabile per  la  violazione  dell'obbligo  di  corrispondere
l'assegno divorzile e' quella prevista dal primo comma dell'art.  570
cod. pen.: pena inferiore - quanto al massimo  della  pena  detentiva
alternativa - a quella stabilita per il reato di  cui  all'art.  388,
secondo comma, cod. pen. 
    Una discrasia similare sarebbe ravvisabile in rapporto  al  reato
previsto dall'art. 6 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro
la violenza nelle relazioni  familiari),  che  punisce  con  la  pena
indicata dall'art.  388,  primo  comma,  cod.  pen.  «Chiunque  elude
l'ordine di protezione  previsto  dall'articolo  342-ter  del  codice
civile, ovvero un  provvedimento  di  eguale  contenuto  assunto  nel
procedimento di separazione personale dei coniugi o nel  procedimento
di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio».
Anche in questo  caso,  infatti,  richiamando  l'ultimo  comma  dello
stesso  art.  388  cod.  pen.,  il  legislatore  ha  reso  il   reato
procedibile a querela. 
    La perseguibilita' e', dunque, rimessa alla libera determinazione
delle parti persino nel caso di elusione del provvedimento con cui il
giudice abbia disposto  l'allontanamento  dalla  casa  familiare  del
coniuge o del  convivente  che  ha  tenuto  una  condotta  gravemente
pregiudizievole per l'integrita'  fisica  o  morale,  ovvero  per  la
liberta' dell'altro coniuge o convivente. Il  che  renderebbe  ancora
piu' evidente l'incongruenza di un sistema  che  sottrae,  invece,  a
tale libera determinazione la perseguibilita' dell'inottemperanza  al
provvedimento del  giudice,  reso  anche  nel  medesimo  ambito,  che
stabilisce meri obblighi pecuniari. 
    Da ultimo, anche il raffronto con il delitto di violazione  degli
obblighi di assistenza familiare, previsto dall'art. 570 cod. pen.  -
dal  quale  quello  in  esame  riprende  la   risposta   punitiva   -
evidenzierebbe irrazionali dissimmetrie. 
    Verrebbero in rilievo, al riguardo, le considerazioni  sulla  cui
base la sesta sezione  penale  della  Corte  di  cassazione,  in  una
sentenza del 2004, aveva ritenuto,  in  via  interpretativa,  che  il
reato di cui all'art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970  mutuasse
dall'art. 570 cod. pen. anche il regime di procedibilita'. A sostegno
dell'assunto si era, in particolare, osservato come  la  sostituzione
della perseguibilita' d'ufficio con la procedibilita'  a  querela  di
parte - operata dal legislatore, salve alcune eccezioni, rispetto  al
delitto di violazione degli  obblighi  di  assistenza  familiare  con
l'art. 90 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al  sistema
penale) -  rispondesse  all'idea  che  quel  regime,  «nella  attuale
realta' storica e giuridica della famiglia, si atteggia  come  limite
all'intervento coercitivo statale all'interno dei rapporti familiari,
segnando una svolta che si indirizza  verso  la  privatizzazione  del
diritto di famiglia» (Corte di cassazione, sezione sesta, sentenza  2
marzo-7 maggio 2004, n. 21673). 
    Ancorche'  la  predetta  soluzione  interpretativa  non  abbia  -
giustamente,  secondo  il  rimettente   -   trovato   seguito   nella
giurisprudenza di legittimita' piu' recente, venendo disattesa  anche
dalle sezioni unite, gli «argomenti di sistema» svolti a suo supporto
resterebbero comunque pienamente validi. Essi  risulterebbero,  anzi,
rafforzati nel momento in cui  si  ritenga  -  come  hanno  fatto  le
sezioni unite - che  il  regime  sanzionatorio  richiamato  dall'art.
12-sexies della legge n. 898 del 1970 sia quello previsto  dal  primo
comma dell'art. 570 cod. pen., posto che a quel regime  sanzionatorio
il legislatore ha raccordato la procedibilita' a querela. 
    Ne segue  che  ove  il  coniuge,  in  costanza  del  vincolo  del
matrimonio, si sottragga agli obblighi di assistenza materiale  verso
i figli - senza far mancare radicalmente loro i mezzi di  sussistenza
(ipotesi che, nel caso di figli minori, rientrerebbe nella previsione
dell'art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen.) - la sua  condotta
illecita resta perseguibile a querela. Di contro, se a violare  detti
obblighi di assistenza e' il coniuge divorziato, omettendo di versare
l'assegno stabilito dal giudice civile, si procede d'ufficio. 
    Tale distonia non potrebbe essere giustificata con il rilievo che
il coniuge divorziato viola con il suo comportamento un provvedimento
giurisdizionale,  giacche'  per  la  violazione   dei   provvedimenti
giurisdizionali - attinenti pure alla famiglia e  «ad  aspetti  anche
piu' seri e rilevanti» - la procedibilita'  e'  sempre  rimessa  alla
volonta' privata. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o,  comunque,
infondata. 
    La difesa dello Stato rileva come la  Corte  costituzionale,  con
l'ordinanza n. 423 del 1999,  abbia  gia'  dichiarato  manifestamente
inammissibile una questione di  legittimita'  analoga,  sollevata  in
riferimento agli artt. 3 e 29 Cost. 
    Relativamente  all'art.  3  Cost.  -  unico  parametro   invocato
dall'odierno rimettente - la Corte ha in particolare rilevato che  la
questione prospettata coglieva, «nelle situazioni poste a  raffronto,
solamente l'aspetto della diversa  procedibilita'  del  reato,  senza
considerare altri elementi di diversita' della  disciplina,  relativi
anche   alle   condotte   penalmente   sanzionate,   rispettivamente,
dall'art.12-sexies della legge n. 898 del 1970 e dall'art.  570  cod.
pen.». Sicche' - come gia' affermato dalla Corte stessa in precedenti
occasioni (sentenza n. 325 del 1995, ordinanza n.  209  del  1997)  -
«l'intervento richiesto non renderebbe omogenee le discipline poste a
raffronto, ma [...] toccherebbe esclusivamente uno degli elementi che
diversificano le fattispecie considerate». 
    Tali rilievi, riferiti al delitto di violazione degli obblighi di
assistenza familiare, sarebbero estensibili,  secondo  la  Presidenza
del  Consiglio,  anche  alle  ulteriori  figure   criminose   evocate
dall'odierno rimettente come tertia comparationis. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Verona  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 12-sexies della legge 1° dicembre  1970,  n.
898 (Disciplina dei casi di scioglimento  del  matrimonio),  aggiunto
dall'art. 21 della legge 6 marzo  1987,  n.  74  (Nuove  norme  sulla
disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella  parte  in
cui - nel disporre che «Al coniuge  che  si  sottrae  all'obbligo  di
corresponsione dell'assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della
presente legge si applicano le pene previste dall'art. 570 del codice
penale» -  non  stabilisce,  per  tale  reato,  la  procedibilita'  a
querela. 
    La norma censurata violerebbe,  in  parte  qua,  l'art.  3  della
Costituzione, determinando irragionevoli disparita' di trattamento di
situazioni analoghe. 
    La sperequazione denunciata emergerebbe, anzitutto, dal raffronto
con l'ipotesi disciplinata dall'art. 388, secondo comma,  cod.  pen.,
che punisce la mancata esecuzione  dolosa  di  un  provvedimento  del
giudice concernente l'affidamento di  minori,  compreso,  quindi,  il
provvedimento reso in sede di divorzio: reato - secondo il rimettente
- piu' grave tanto sul piano  degli  interessi  tutelati,  quanto  su
quello della condotta,  quanto  ancora  in  rapporto  al  trattamento
sanzionatorio, e in relazione al quale  e',  nondimeno,  prevista  la
perseguibilita' a querela. 
    Una discrasia analoga si riscontrerebbe,  altresi',  rispetto  al
reato di inosservanza degli ordini di  protezione  contro  gli  abusi
familiari, delineato dall'art. 6 della legge 4 aprile  2001,  n.  154
(Misure  contro  la  violenza  nelle  relazioni  familiari):   figura
criminosa posta anch'essa a presidio di interessi di maggior rilievo. 
    Verrebbe in considerazione, da ultimo, il delitto  di  violazione
degli obblighi di assistenza familiare, previsto  all'art.  570  cod.
pen. In base a tale disposizione, il  coniuge  che,  in  costanza  di
matrimonio, si sottrae agli obblighi di assistenza materiale verso  i
figli, senza far mancare loro radicalmente i mezzi di sussistenza, e'
perseguibile a querela; di contro, se a violare detti obblighi e'  il
coniuge divorziato, omettendo di  versare  l'assegno,  si  procede  -
ingiustificatamente - d'ufficio. 
    2.- Nell'approccio al thema decidendum, giova ricordare  come  la
norma incriminatrice di cui all'art. 12-sexies della legge n. 898 del
1970 tragga origine  dalla  ravvisata  opportunita'  di  colmare  una
lacuna di tutela, emersa a seguito dell'introduzione nell'ordinamento
italiano dell'istituto  del  divorzio:  vale  a  dire,  l'assenza  di
presidi  penalistici  rafforzativi  dell'obbligo   di   corrispondere
l'assegno periodico fissato dal giudice civile, ai sensi dell'art.  5
della stessa legge n. 898 del 1970, in favore del coniuge  divorziato
piu' "debole". 
    Smentendo il precedente indirizzo giurisprudenziale - secondo  il
quale poteva farsi ricorso, a determinate condizioni, alla previsione
dell'art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen.,  nella  parte  in
cui puniva chi facesse mancare i  mezzi  di  sussistenza  al  coniuge
anche legalmente separato, purche' «non per sua colpa» -  le  sezioni
unite della Corte di cassazione  avevano,  infatti,  escluso  che  la
citata norma del codice penale si prestasse a qualificare  penalmente
l'omessa   corresponsione   dell'assegno   divorzile.    Cio',    per
l'assorbente ragione che,  a  seguito  della  sentenza  di  divorzio,
l'avente diritto perdeva la qualita' di  «coniuge»,  richiesta  dalla
norma nel soggetto passivo del reato (Corte  di  cassazione,  sezioni
unite, sentenza 26 gennaio-2 aprile 1985, n. 3038). 
    Tale presa di posizione induceva il legislatore ad intervenire al
fine di accordare una esplicita tutela penale anche agli obblighi  di
assistenza economica nei confronti del coniuge divorziato. In  luogo,
tuttavia, di modificare l'art. 570 cod. pen.,  includendo  nella  sua
sfera applicativa anche  detto  soggetto,  il  legislatore  preferiva
coniare, con la legge  n.  74  del  1987,  una  norma  incriminatrice
autonoma (per l'appunto, il censurato art. 12-sexies), strutturata in
modo sensibilmente diverso  -  e,  cioe',  specificamente  imperniata
sull'omessa  corresponsione  dell'assegno  -  facendo   rinvio   alla
disposizione codicistica solamente quoad poenam. Inoltre, sebbene  la
lacuna di tutela  riguardasse  unicamente  il  coniuge  divorziato  -
apparendo indubbia la perdurante operativita' dell'art. 570 cod. pen.
nel caso di violazione degli  obblighi  di  assistenza  del  genitore
divorziato  nei  confronti  dei  figli  -  il  legislatore   reputava
opportuno  inglobare  nella  nuova   previsione   punitiva,   accanto
all'assegno di divorzio, anche  l'assegno  per  il  mantenimento  dei
figli previsto dall'art. 6 della legge n.  898  del  1970,  cosi'  da
assicurargli una tutela ulteriore rispetto a quella apprestata  dalla
norma del codice penale. In analoga prospettiva, la sfera applicativa
della norma veniva successivamente estesa dall'art. 3 della  legge  8
febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni  in  materia  di  separazione  dei
genitori e affidamento condiviso dei figli) anche all'assegno per  il
mantenimento dei figli di coniugi separati. 
    L'art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 non reca,  peraltro,
alcuna previsione in ordine alla procedibilita' del reato: e  cio'  a
differenza dell'art. 570 cod. pen., il cui  terzo  comma  -  aggiunto
dall'art. 90 della legge 24  novembre  1981,  n.  689  (Modifiche  al
sistema penale) - rende invece perseguibile a querela il  delitto  di
violazione degli obblighi di assistenza  familiare,  fatta  eccezione
per i casi previsti dal numero 1) e, quando il reato e' commesso  nei
confronti dei minori, dal numero 2) del secondo comma. 
    A  fronte  di  tale  dato   normativo,   la   giurisprudenza   di
legittimita',  dopo   qualche   oscillazione,   appare   allo   stato
consolidata nel ritenere che il reato previsto dalla norma  censurata
sia  perseguibile  d'ufficio.   Tale   soluzione   interpretativa   -
recentemente avallata  anche  dalle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione (sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n.  23866)  -  poggia
sul rilievo che il richiamo all'art. 570 cod. pen., operato dall'art.
12-sexies della legge n. 898 del 1970, e'  finalizzato  unicamente  a
determinare  il  trattamento  sanzionatorio  e  non   puo',   dunque,
reputarsi  comprensivo  del  regime  di  perseguibilita'  a   querela
previsto dalla norma richiamata. 
    Questa stessa Corte, d'altra parte, aveva dato per presupposta la
perseguibilita'  officiosa  del  reato  in  esame  nelle   precedenti
occasioni in cui era stata chiamata  a  verificarne  la  legittimita'
costituzionale (sentenza n. 325 del 1995; ordinanze n. 423 del 1999 e
n. 209 del 1997). 
    Di conseguenza, non puo' dubitarsi che la premessa ermeneutica da
cui muove l'odierno rimettente risponda  effettivamente  al  "diritto
vivente". 
    3.- Cio' posto, la questione non e' peraltro fondata. 
    Nella giurisprudenza di questa Corte  e'  assolutamente  costante
l'affermazione che la scelta del regime di procedibilita'  dei  reati
«coinvolge la politica legislativa e deve, quindi, rimanere  affidata
a   valutazioni   discrezionali   del   legislatore,    presupponendo
bilanciamenti di interessi e opzioni  di  politica  criminale  spesso
assai complessi, sindacabili in  sede  di  giudizio  di  legittimita'
costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalita'» (ordinanze
n. 324 del 2013, n. 178 del 2003, n. 91 del 2001 e n. 354  del  1999;
in senso analogo, altresi', sentenze n. 274  del  1997  e  n.  7  del
1987). 
    Si e', altresi', precisato che il modo di perseguibilita' non  e'
necessariamente connesso alla maggiore o minore gravita'  del  reato,
quale si rivela con la misura della pena (sentenza  n.  7  del  1987,
ordinanza  n.  91  del   2001),   potendo   correlarsi   anche   alla
particolarita' della fattispecie e  del  bene  che  con  la  condotta
criminosa venga offeso (ordinanza n. 27 del 1971). 
    L'opzione per il  regime  della  perseguibilita'  a  querela  non
postula,  inoltre,  immancabilmente  il  carattere  disponibile   del
diritto  tutelato  dalla  norma  penale   e   la   natura   meramente
privatistica  dell'interesse  offeso.  A  spiegare  l'istituto  della
querela concorrono, infatti, sia l'interesse pubblico sia l'interesse
privato: la scelta di tale modo di procedibilita', in casi nei  quali
pure e' innegabile la presenza di un interesse  della  collettivita',
deriva dal fatto che il legislatore,  nella  tenuita'  dell'interesse
pubblico, ha preferito,  per  ragioni  di  politica  criminale  e  di
opportunita',   rendere    rilevante,    come    presupposto    della
perseguibilita' del reato, la volonta' del privato (ordinanza n.  204
del 1988). 
    Di tali principi la Corte ha fatto ripetute applicazioni al  fine
di disattendere questioni  di  legittimita'  costituzionale  dirette,
come l'attuale,  a  rendere  perseguibili  a  querela  -  tramite  la
deduzione di ritenute ingiustificate disparita'  di  trattamento  fra
ipotesi in assunto omogenee - reati per i quali il legislatore  aveva
previsto la perseguibilita' d'ufficio (sentenze n. 7 del 1987, n. 189
del 1976 e n. 42 del 1975; ordinanze n. 324 del 2013, n. 91 del 2001,
n. 354 del 1999 e n. 27 del 1971). 
    4.- Questa Corte e' gia' stata chiamata, d'altra parte,  in  piu'
occasioni a pronunciarsi sulla  procedibilita'  d'ufficio  del  reato
previsto dall'art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970:  regime  la
cui legittimita' costituzionale  era  stata  contestata  dai  giudici
rimettenti proprio  in  ragione  della  sua  distonia  rispetto  alla
perseguibilita' a querela del delitto di violazione degli obblighi di
assistenza familiare  (art.  570  cod.  pen.),  ritenuta  foriera  di
ingiustificate disparita' di trattamento tra i coniugi divorziati e i
loro figli, da un lato, e i coniugi conviventi o separati  e  i  loro
figli, dall'altro. 
    Nella circostanza, la Corte ha riconosciuto che le due previsioni
sanzionatorie poste a raffronto avevano una «radice  comune»,  specie
in rapporto alla posizione dei figli,  essendo  «evidente  il  comune
fondamento delle prestazioni inerenti al loro mantenimento  da  parte
dei genitori,  prestazioni  che  possono  atteggiarsi  con  modalita'
diverse, ma che sono comunque  espressione  di  un  medesimo  dovere,
indipendentemente dalla convivenza, dalla separazione o dal  divorzio
dei genitori» (sentenza n. 325 del 1995). 
    Le questioni sono state dichiarate, nondimeno, inammissibili  (e,
indi,  manifestamente  inammissibili),  sul  duplice  rilievo  che  i
rimettenti   avevano   denunciato   disarmonie   normative   la   cui
ricomposizione rimaneva affidata al legislatore, sulla  base  di  una
ponderata valutazione degli interessi coinvolti,  e  che,  per  altro
verso, le fattispecie  considerate  differivano  anche  per  elementi
ulteriori  rispetto  al   regime   di   procedibilita',   cosi'   che
l'accoglimento  delle  questioni  non  sarebbe  comunque   valso   ad
assicurare l'omogeneita' delle discipline (sentenza n. 325 del  1995;
ordinanze n. 423 del 1999 e n. 209 del 1997). 
    5.-  Con  riguardo  alla  questione  oggi   in   esame,   occorre
preliminarmente  rilevare  come  nel  giudizio  a  quo   si   discuta
dell'omesso versamento dell'assegno dovuto dall'imputato a titolo  di
contributo al mantenimento di un figlio minore. 
    E' su tale ipotesi che va,  pertanto,  focalizzata  l'attenzione:
eventuali disparita' di trattamento concernenti le inadempienze  agli
obblighi di assistenza economica nei confronti del coniuge divorziato
non rileverebbero rispetto all'oggetto del processo  principale  (per
un approccio similare, con  riferimento  a  questioni  relative  allo
stesso art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970,  sentenza  n.  472
del 1989, ordinanza n. 48 del 1990). 
    6.- Cio' puntualizzato, si deve osservare  come  i  nuovi  tertia
comparationis evocati  dall'odierno  rimettente  presentino  elementi
differenziali rispetto all'ipotesi  regolata  dalla  norma  censurata
tali da impedire  un  loro  utile  raffronto  ai  presenti  fini,  o,
comunque, da non consentire di ritenere valicato il limite  all'ampia
discrezionalita'  di  cui  il  legislatore  fruisce   nella   materia
considerata. 
    Il discorso vale, in primo luogo, per il reato previsto dall'art.
388,  secondo  comma,  cod.  pen.,  nella  parte   in   cui   reprime
l'inosservanza dolosa di un  provvedimento  del  giudice  concernente
l'affidamento dei minori  (reato  perseguibile  a  querela  in  forza
dell'ultimo comma del medesimo articolo). Al di la'  del  (possibile)
comune collegamento a provvedimenti adottati in sede di divorzio,  la
citata norma incriminatrice salvaguarda, infatti  -  per  il  tramite
della protezione del bene "strumentale-intermedio" dell'imperativita'
delle decisioni giudiziarie - interessi "finali" distinti  da  quello
tutelato dall'art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970  (come,  del
resto, lo stesso rimettente riconosce e sottolinea). 
    L'assunto  del  rimettente,  per  cui  gli   interessi   inerenti
all'affidamento dei figli minori, cui ha riguardo la norma del codice
- da intendere, secondo una corrente esegesi, come interessi relativi
ai  rapporti  personali  con  il  minore  -  dovrebbero  considerarsi
senz'altro "poziori" rispetto all'interesse al mantenimento dei figli
stessi, presidiato dalla norma  della  legge  speciale,  si  risolve,
d'altra parte, in un giudizio di valore. Che si  tratti  di  giudizio
non privo di margini di opinabilita' - segnatamente in  relazione  ai
corollari  che  se  ne  dovrebbero  trarre  in  punto  di  regime  di
perseguibilita' - lo dimostra, peraltro,  la  stessa  disciplina  del
delitto  di  violazione  degli  obblighi  di  assistenza   familiare.
Nell'ambito di quest'ultima, infatti, la procedibilita' d'ufficio  e'
prevista unicamente  in  rapporto  a  violazioni  degli  obblighi  di
assistenza materiale - in specie, per quanto  qui  interessa,  quella
consistente nel far mancare i «mezzi di sussistenza» ai figli  minori
o inabili al lavoro (art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen.)  -
e non anche a violazioni, pur gravi,  degli  obblighi  di  assistenza
morale, che restano comunque perseguibili a querela. 
    In tale prospettiva,  non  puo'  quindi  ritenersi  che  trasmodi
nell'irrazionalita' manifesta e nell'arbitrio la  scelta  legislativa
di prevedere, nelle situazioni di crisi o dissoluzione  del  rapporto
coniugale - divorzio, ma anche separazione, in  virtu'  della  citata
norma estensiva di cui all'art. 3 della legge n. 54  del  2006  -  la
perseguibilita'  d'ufficio  delle  inosservanze   dei   provvedimenti
giudiziali che incidono  sull'interesse  al  mantenimento  dei  figli
minori, pur a  fronte  della  perseguibilita'  a  querela  di  quelle
relative al loro affidamento. 
    Parimenti opinabile - prima ancora che  non  significativa,  alla
luce dei dirimenti rilievi che precedono - appare l'asserita maggiore
gravita' della condotta di «elusione» del  provvedimento  giudiziale,
richiesta dall'art. 388, secondo comma, cod. pen., rispetto a  quella
di «sottrazione»  all'obbligo  di  corrispondere  l'assegno,  cui  si
riferisce l'art. 12-sexies (suscettibile  di  essere  integrata,  per
comune   opinione,   dalla   mera   inadempienza).    Con    riguardo
all'inosservanza  dei  provvedimenti  concernenti  l'affidamento  dei
minori,  la  giurisprudenza   di   legittimita'   risulta,   infatti,
largamente  orientata  a  ritenere  penalmente  rilevanti   anche   i
comportamenti omissivi, escludendo,  in  ogni  caso,  che  l'elusione
dell'esecuzione  del  provvedimento  debba   essere   necessariamente
operata tramite una condotta  subdola  o  con  l'uso  di  particolari
accorgimenti, come parrebbe invece supporre il giudice a quo. 
    Quanto, infine, al raffronto tra le pene edittali dei due  reati,
si e' gia' ricordato come,  per  costante  giurisprudenza  di  questa
Corte, si tratti di elemento  inidoneo,  di  per  se',  a  dimostrare
l'irrazionalita'  del  regime   di   perseguibilita'   adottato   dal
legislatore. Cio', tanto  piu'  nel  caso  in  esame,  nel  quale  la
previsione, per il delitto di cui all'art. 388, secondo  comma,  cod.
pen., di una pena detentiva  alternativa  piu'  elevata  nel  massimo
rispetto a quella che - secondo la soluzione adottata  dalle  sezioni
unite della Corte di cassazione con la citata sentenza 31  gennaio-31
maggio  2013,  n.  23866  -  connota  il  delitto  in   esame,   puo'
giustificarsi anche alla luce dell'ampia varieta' di situazioni  alle
quali e' applicabile la norma incriminatrice del  codice  penale  (la
quale reprime  non  soltanto  l'inosservanza  della  generalita'  dei
provvedimenti giurisdizionali  relativi  all'affidamento  di  persone
minori  o  incapaci,  ma  anche  di  quelli  che  prescrivano  misure
cautelari a difesa della proprieta', del possesso o del credito). 
    7.- Considerazioni similari possono formularsi anche in  rapporto
al reato di inosservanza degli ordini di protezione contro gli  abusi
familiari, di cui all'art. 6 della legge n. 154 del 2001  (che  mutua
dall'art. 388 cod. pen. tanto la risposta punitiva che il  regime  di
perseguibilita' a querela): delitto  la  cui  eterogeneita'  rispetto
alla figura criminosa in esame si presenta ancora piu' marcata. 
    L'ordine di protezione e',  infatti,  una  misura  civilistica  -
temporalmente circoscritta (art. 342-ter, terzo comma, cod.  civ.)  -
contro la violenza delle relazioni familiari, che  si  affianca  alla
misura cautelare penale  dell'allontanamento  dalla  casa  familiare,
prevista dall'art. 282-bis del codice di procedura  penale  (aggiunto
dall'art.  1  della  medesima  legge  n.  154  del  2001).   Il   suo
presupposto, ai sensi dell'art. 342-bis cod. civ.,  e'  rappresentato
da una «condotta del coniuge o di altro convivente» che sia «causa di
grave pregiudizio all'integrita' fisica o morale ovvero alla liberta'
dell'altro coniuge o convivente». 
    In presenza di essa,  il  giudice,  su  istanza  di  parte,  puo'
ordinare la cessazione  della  condotta  pregiudizievole  e  disporre
l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge  o  del  convivente
che se  ne  e'  reso  responsabile,  prescrivendogli,  altresi',  ove
occorra,  di  non  avvicinarsi  ai  luoghi  abitualmente  frequentati
dall'istante (art. 342-ter, primo comma, cod. civ.). 
    Appare,  dunque,  evidente  come  il  provvedimento   giudiziario
salvaguardato dalla sanzione penale - ancorche' adottato  nell'ambito
del procedimento di divorzio, secondo quanto  previsto  dall'art.  8,
comma 1, della legge n. 154 del 2001 - abbia presupposti e  finalita'
ben diversi  da  quelli  del  provvedimento  che  impone  al  coniuge
divorziato di corrispondere un assegno  a  titolo  di  contributo  al
mantenimento dei figli minori: circostanza che  impedisce  nuovamente
di far discendere dalla comparazione  tra  le  due  figure  criminose
l'esigenza costituzionale di rendere perseguibile a querela il  reato
di cui all'art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970. 
    8.- Il giudice a quo torna, da ultimo, a denunciare la disparita'
di trattamento rispetto al delitto di violazione  degli  obblighi  di
assistenza familiare (art. 570  cod.  pen.):  tema  sul  quale,  come
accennato, la  Corte  si  e'  gia'  ripetutamente  pronunciata  nella
seconda meta' degli anni '90 dello scorso secolo. 
    La censura formulata dal rimettente assume,  peraltro,  carattere
di novita', connettendosi alla ricostruzione della sfera  applicativa
della fattispecie operata dalla Corte di cassazione con  la  sentenza
31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866, gia' piu' volte citata ad  altri
fini. 
    Nell'occasione, il giudice della nomofilachia ha affermato che  -
contrariamente a quanto sino ad allora ritenuto dalla  giurisprudenza
di legittimita' - l'indistinto  richiamo  dell'art.  12-sexies  della
legge n. 898 del 1970 alle «pene previste dall'art.  570  del  codice
penale» deve intendersi riferito alle pene alternative  previste  dal
primo comma di tale articolo, e non a quelle congiunte comminate  dal
secondo comma. 
    A fianco di argomenti di ordine storico e sistematico, le sezioni
unite hanno posto a fondamento di tale conclusione una  significativa
rivisitazione dello spettro di tutela  dell'art.  570,  primo  comma,
cod. pen. Secondo la tradizionale lettura giurisprudenziale  -  avuta
di mira anche da  questa  Corte  nelle  precedenti  decisioni  dianzi
ricordate - la violazione  degli  obblighi  di  assistenza  materiale
connessi alla qualita' di coniuge  o  di  genitore  doveva  ritenersi
punita esclusivamente dal secondo  comma  dell'art.  570  cod.  pen.,
attenendo la previsione punitiva del primo comma ai soli obblighi  di
assistenza  morale.  Proprio  da  tale  premessa  la   giurisprudenza
desumeva unanimemente che la pena applicabile per il delitto in esame
fosse quella, piu' grave, prevista dal secondo  comma  dell'art.  570
cod. pen.: cio', in ragione del fatto che l'art.  12-sexies  sanziona
la violazione di un obbligo  di  assistenza  economica,  e  non  gia'
morale, con conseguente assimilabilita' della  figura  criminosa  per
l'appunto alle ipotesi del secondo comma  dell'art.  570  cod.  pen.,
piuttosto che a quelle del primo. Prospettiva nella quale,  peraltro,
la fattispecie codicistica finiva  per  risultare,  anche  sul  piano
oggettivo, marcatamente asimmetrica - e piu'  angusta  -  rispetto  a
quella delineata dalla legge  speciale:  la  rilevanza  penale  della
violazione degli obblighi di assistenza materiale nei  confronti  del
coniuge  convivente  o  separato,  ovvero  del  figlio   di   coniugi
conviventi, risultava, infatti,  subordinata  ad  un  estremo  -  far
mancare i mezzi di sussistenza all'avente diritto (art. 570,  secondo
comma, numero 2, cod. pen.) -  non  richiesto  nell'ipotesi  regolata
dall'art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970. 
    Ad avviso delle sezioni unite, tuttavia,  l'assunto  per  cui  il
primo comma dell'art. 570 cod. pen. sanzionerebbe la  violazione  dei
soli obblighi di assistenza morale non  puo'  essere  condiviso.  Una
nozione "allargata" dell'assistenza  familiare  -  comprensiva  anche
degli obblighi di tipo materiale ed  economico  -  sarebbe,  infatti,
imposta  dalla  normativa  civilistica,   nonche'   dal   consolidato
indirizzo della giurisprudenza civile, secondo il quale l'obbligo  di
assistenza «va ben al di la'  dell'obbligo  di  non  far  mancare  al
coniuge e ai  figli  i  mezzi  di  sussistenza,  ossia  cio'  che  e'
indispensabile per farli vivere» (Corte di cassazione, sezioni unite,
sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013,  n.  23866).  In  questa  diversa
prospettiva, la figura criminosa descritta dall'art. 12-sexies  della
legge n.  898  del  1970  -  imperniata  sul  semplice  inadempimento
dell'obbligo di corrispondere l'assegno stabilito dal giudice  civile
- si avvicinerebbe maggiormente, nella sostanza, a  quella  delineata
dal citato primo comma dell'art. 570 cod. pen.,  che  non  a  quella,
piu'  circoscritta,  del  secondo  comma,  costruita   attorno   alla
privazione dei mezzi di sussistenza e, percio', alla presenza di  uno
stato di bisogno del soggetto passivo. 
    Secondo il rimettente, il nuovo quadro interpretativo determinato
dalla pronuncia delle sezioni unite imporrebbe  di  riconsiderare  le
conclusioni  cui  questa  Corte  era  in  precedenza  pervenuta.   La
fattispecie disciplinata dal primo comma dell'art.  570,  cod.  pen.,
dalla quale il reato in discussione ripete - in base al nuovo arresto
giurisprudenziale - la risposta punitiva, e' infatti  perseguibile  a
querela (diversamente da quella di cui al secondo  comma,  numero  2,
ove  commessa  in  danno  di  minori).  Cio'  renderebbe  del   tutto
irrazionale  l'adozione  di  un  diverso  regime  di   procedibilita'
nell'ipotesi che interessa: non comprendendosi per quale  ragione  si
proceda a querela, ove a violare gli obblighi di assistenza economica
verso i figli (pur senza far loro mancare i mezzi di sussistenza) sia
il genitore coniugato, e si proceda invece d'ufficio ove la  medesima
violazione sia ascrivibile al genitore divorziato. 
    La tesi non puo' essere, peraltro, seguita. 
    Anche attribuendo alla ricostruzione delle sezioni unite il rango
di  (nuovo)  "diritto   vivente",   in   considerazione   del   ruolo
nomofilattico dell'organo da cui promana, permangono comunque tra  le
fattispecie in  comparazione  elementi  differenziali,  tali  da  non
rendere "automatica" - sul  piano  dell'esigenza  di  ripristino  del
principio di eguaglianza - la  richiesta  estensione  del  regime  di
perseguibilita' a querela alla figura criminosa prevista dalla  legge
speciale. 
    Diversamente, infatti, dall'art. 570, primo comma,  cod.  pen.  -
che punisce  in  modo  generico  chi  si  sottrae  agli  obblighi  di
assistenza inerenti alla responsabilita' genitoriale (oltre che  alla
qualita' di coniuge) - l'art. 12-sexies della legge n. 898  del  1970
richiede    l'inosservanza    di    uno    specifico    provvedimento
giurisdizionale, che abbia disposto a carico del  coniuge  divorziato
l'obbligo di corrispondere l'assegno. 
    Ne' giova obiettare che in altri casi - quali quelli disciplinati
dall'art. 388, secondo comma, cod. pen. e dall'art. 6 della legge  n.
154 del 2001 - il legislatore ha  optato  per  la  perseguibilita'  a
querela  di  reati  che  postulano  l'inosservanza  di  provvedimenti
giurisdizionali  parimenti  attinenti   alle   relazioni   familiari,
giacche' in tali casi - per quanto  si  e'  visto  -  l'imperativita'
delle decisioni  giudiziarie  e'  finalizzata  alla  salvaguardia  di
interessi distinti da quello protetto dalla norma censurata. 
    9.- Quale notazione conclusiva, non si puo' misconoscere  che  il
sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari  risulti,
nel suo complesso, frammentario e disarmonico. 
    Come gia' affermato in precedenza da questa Corte, peraltro -  in
assenza  di  discrasie  qualificabili   in   termini   di   manifesta
irrazionalita' - il compito di  ricomporre  le  predette  disarmonie,
sulla base di una ponderata valutazione  degli  interessi  coinvolti,
resta affidato al legislatore. 
    La questione va dichiarata, dunque, non fondata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898  (Disciplina
dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall'art. 21 della
legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei  casi  di
scioglimento del matrimonio), sollevata, in  riferimento  all'art.  3
della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona con l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI