N. 223 SENTENZA 7 ottobre - 5 novembre 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Reati contro il patrimonio mediante frode - Previsione
  della non punibilita' per fatti commessi a danno di congiunti. 
- Codice penale, art. 649, primo comma. 
-   
(GU n.45 del 11-11-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici :Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
  Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
  AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 649,  primo
comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario  di  Parma
nel procedimento penale  a  carico  di  R.D.  con  ordinanza  del  22
settembre 2014, iscritta al n. 229  del  registro  ordinanze  2014  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  52,  prima
serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7  ottobre  2015  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 settembre 2014 il Tribunale ordinario di
Parma, in composizione monocratica, ha sollevato  -  con  riferimento
agli artt. 3, primo  e  secondo  comma,  e  24,  primo  comma,  della
Costituzione - questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
649, primo comma, del codice penale. 
    Il rimettente e' chiamato alla celebrazione di  un  giudizio  che
concerne fatti asseritamente commessi dall'imputato  in  danno  della
moglie,   all'epoca   convivente   e   non    legalmente    separata.
L'interessato, abusando della fiducia della consorte e della  propria
posizione di funzionario di banca,  avrebbe  compiuto  una  serie  di
operazioni non concordate, e  in  qualche  caso  illecite,  su  conti
correnti di comune intestazione: dirottando fondi verso altri  conti,
da lui solo controllati; ottenendo mutui garantiti da  ipoteca  sulla
casa coniugale (iscritta in base  ad  una  falsa  procura  notarile);
emettendo  o  facendo  emettere  assegni  circolari  con   la   falsa
sottoscrizione della persona offesa; richiedendo prestiti in appoggio
su  conti  comuni,  aperti  mediante  documenti  con   sottoscrizioni
apocrife. La scoperta degli illeciti - illustra ancora il  rimettente
- sarebbe stata ostacolata dall'imputato, tra l'altro, esibendo  alla
moglie falsi estratti di  conto  corrente,  e  serbando  il  silenzio
sull'intervenuto suo licenziamento per ragioni disciplinari. 
    Nel complesso, stando all'accusa, l'imputato si  era  appropriato
della somma di circa  337.000,00  euro,  cagionando  un  danno  ancor
superiore in ragione dell'indebitamento provocato. Dopo la definitiva
emersione dei fatti, lo stesso imputato  aveva  abbandonato  la  casa
coniugale, disinteressandosi del mantenimento dei figli  e  lasciando
tutti i congiunti in condizioni economiche disagiate,  oltre  che  in
uno stato di grave prostrazione psicologica. 
    In relazione ai fatti indicati, si procede nel giudizio a quo per
i delitti di truffa aggravata (art. 640, secondo comma, in  relazione
all'art. 61, numero 5, cod. pen.), falso pluriaggravato in  scrittura
privata (art. 485 in relazione all'art. 61, numeri 2, 5, 7 e 11, cod.
pen.), falso in atto pubblico (art. 479 cod. pen.). 
    Cio' premesso, il Tribunale rimettente assume che, almeno per  il
delitto di truffa, dovrebbe trovare  applicazione  la  causa  di  non
punibilita' prevista dalla norma censurata, che attiene  tra  l'altro
al coniuge non  legalmente  separato  e  comprende  tutti  i  delitti
previsti nel Titolo XIII del Libro  II  del  codice  penale,  esclusi
quelli commessi mediante violenza alle persone (e,  comunque,  quelli
di cui agli artt. 628, 629 e 630). 
    Sennonche', a parere del giudice a quo, la  norma  contrasterebbe
con gli art. 3 e 24 Cost.  La  ratio  comunemente  riconosciuta  alla
previsione, quella cioe'  di  prevenire  il  turbamento  connesso  ad
indagini e sentenze di condanna che colpiscano il  nucleo  familiare,
avrebbe perso di ogni attualita'.  La  fisionomia  della  istituzione
familiare sarebbe mutata, rispetto all'epoca in cui la disciplina  e'
stata concepita, dal punto di vista sociale, culturale ed  economico,
e la stessa frequenza degli illeciti intrafamiliari, di  conseguenza,
non  sarebbe  paragonabile  a  quella  in  origine   apprezzata   dal
legislatore. 
    Dovrebbe riconoscersi, sempre secondo il giudice a  quo,  come  i
nuclei familiari vengano semmai turbati dai  comportamenti  criminosi
tenuti in danno  di  congiunti,  e  come  risulti  irragionevole,  di
conseguenza, l'assoluta preminenza assegnata ad un fine  di  coesione
che, nei fatti, risulterebbe irrealizzabile. 
    Lo stesso fine,  del  resto,  potrebbe  essere  perseguito  anche
mediante la previsione generalizzata della perseguibilita' a  querela
per i fatti in considerazione. 
    La disciplina censurata contrasterebbe dunque con il principio di
uguaglianza, diversificando in senso  ingiustificatamente  favorevole
il trattamento dei familiari rispetto a quello dei  soggetti  esterni
che,  a  parita'  di  condotta  offensiva  per  il  patrimonio,   non
potrebbero valersi della  causa  di  non  punibilita'.  Ma  sarebbero
violate anche le previsioni del secondo comma dell'art. 3 e del primo
comma  dell'art.  24  Cost.,  in  quanto,  per  effetto  della  norma
censurata, sarebbe  indebitamente  precluso  l'accesso  di  «soggetti
deboli» alla  tutela  penale  dei  loro  diritti  nei  confronti  dei
familiari. 
    Dalla  disposizione  censurata,  sempre  secondo  il  rimettente,
deriverebbe un pregiudizio  per  il  principio  di  coerenza  interna
dell'ordinamento, se  si  considera  che,  ad  altri  fini,  i  reati
commessi in ambito familiare o con abuso delle  relazioni  domestiche
sono connotati addirittura da un disvalore piu' marcato (sono  citate
le aggravanti di cui all'art. 576, primo comma, numero 2, e  all'art.
61, numero 11, cod. pen.). 
    2.- E' intervenuto nel giudizio, con atto depositato il 5 gennaio
2015, il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,   che   ha   chiesto
dichiararsi la questione inammissibile o comunque infondata. 
    La disposizione censurata mirerebbe, secondo l'indicazione  della
stessa giurisprudenza costituzionale, a privilegiare l'interesse alla
riconciliazione familiare rispetto a quello concernente la  punizione
del  colpevole,  secondo  una  logica  di  bilanciamento  tipicamente
riferibile alla discrezionalita' del legislatore, e dunque  sottratta
al sindacato di legittimita' costituzionale. 
    L'inammissibilita' della questione  sarebbe  evidente  alla  luce
della sua stessa formulazione. Il rimettente,  infatti,  non  avrebbe
indicato alcun parametro cui ancorare l'asserita irragionevolezza del
bilanciamento operato  con  la  norma  censurata,  fatto  ancor  piu'
rimarchevole alla luce  della  particolare  rilevanza  costituzionale
assegnata alla famiglia  fondata  sul  matrimonio.  Muovendo  da  una
affermazione  indimostrata  (i   reati   intrafamiliari   contro   il
patrimonio  segnerebbero  nuclei  gia'  deteriorati  e  difficilmente
ricomponibili), il giudice a quo non avrebbe posto in  luce  norme  e
principi utili a documentare  un  nuovo  assetto  costituzionale  dei
valori e l'obsolescenza di quello asseritamente superato. 
    La questione sarebbe inammissibile dunque, ed in primo luogo, per
la genericita' della  prospettazione  e  l'insufficiente  indicazione
delle  ragioni  di  contrasto  tra  norma   censurata   e   parametri
costituzionali. 
    Allo  stesso  esito  di  inammissibilita'  dovrebbe   pervenirsi,
d'altra parte, considerando che viene sollecitata, nella specie,  una
dichiarazione di illegittimita' con effetti in malam partem.  Dunque,
una soluzione che la  giurisprudenza  costituzionale  ha  considerato
preclusa, riguardo a norme inerenti la punibilita', anche nell'ambito
di pronunce recenti (e' citata l'ordinanza n. 285 del 2012). 
    In ogni caso, la questione sarebbe infondata in  modo  manifesto.
Il differente  trattamento  fra  rei,  a  seconda  che  siano  o  non
congiunti della persona offesa, sarebbe  giustificato  proprio  dalla
diversa relazione con la vittima del reato. Escludendo l'applicazione
della sanzione penale,  d'altra  parte,  l'art.  649  cod.  pen.  non
priverebbe affatto la persona offesa della tutela giurisdizionale del
proprio diritto,  che  ben  potrebbe  essere  sollecitata  attraverso
l'esercizio dell'azione civile. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Parma, in composizione monocratica,
ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art.  649,
primo comma, del codice penale. 
    La norma violerebbe anzitutto il primo comma  dell'art.  3  della
Costituzione. La previsione di non punibilita'  dei  congiunti  della
persona  offesa   da   determinati   reati   contro   il   patrimonio
comporterebbe  un  trattamento  ingiustificatamente  piu'  favorevole
rispetto  a  quello  riservato  a  soggetti  che  pongano  in  essere
l'identica condotta e siano privi,  pero',  di  un'analoga  relazione
familiare con la vittima. 
    La  previsione  censurata  violerebbe  anche  il  secondo   comma
dell'art. 3 Cost., per l'ostacolo posto all'esercizio del diritto  di
«soggetti deboli» ad ottenere tutela giudiziale,  nei  confronti  dei
congiunti, alla pari con tutti gli altri consociati. 
    La compressione del diritto della  persona  offesa  di  agire  in
giudizio per la tutela dei propri diritti  determinerebbe  anche,  ed
infine, una violazione dell'art. 24, primo comma, Cost. 
    2.- Collocato sotto la rubrica «Non punibilita' e  querela  della
persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti», l'art.  649
cod.   pen.   disegna   una   tradizionale   area    di    protezione
dell'istituzione familiare rispetto all'intervento punitivo  statale,
specificamente riferita ai delitti di cui al Titolo XIII del Libro II
dello stesso codice, purche' - come gia'  rilevato  da  questa  Corte
(sentenza n. 302 del  2000)  -  rechino  offesa  solo  al  patrimonio
individuale del congiunto. 
    Il bilanciamento tra l'interesse  alla  repressione  dei  delitti
indicati e quello alla tutela di beni afferenti la vita familiare  e'
compiuto dal legislatore penale in modo che il grado della protezione
in  parola  sia  direttamente  proporzionale   all'intensita'   della
relazione esistente tra il reo e la persona offesa:  facendosi  cosi'
corrispondere  la  non  punibilita'  dell'autore  (maggioritariamente
ricostruita quale causa personale di esclusione della pena) al  reato
commesso in  danno  dei  familiari  piu'  diretti  (primo  comma),  e
rimettendosi invece alla vittima la decisione sull'attivazione  della
reazione  penale,  in  caso  di  reati  commessi  nei  confronti  dei
congiunti meno stretti (secondo comma). 
    Al terzo ed ultimo comma dell'art.  649  cod.  pen.,  infine,  si
prevede che l'intervento punitivo statale operi secondo le  modalita'
ordinarie, ove l'offesa al patrimonio individuale del  congiunto  sia
attuata mediante  violenza  alla  persona  o  integri,  comunque,  un
delitto di rapina, estorsione o  sequestro  di  persona  a  scopo  di
estorsione. 
    Varie le ragioni comunemente evocate a  fondamento  della  scelta
legislativa. Al fianco di notazioni sulla pericolosita' asseritamente
meno intensa di chi delinque in ambito familiare,  si  evidenzia,  in
genere, il rischio che le indagini  necessarie  all'accertamento  del
reato, e la stessa successiva punizione del responsabile,  provochino
danni  alla  qualita'  della  relazione  familiare  (e  alla   stessa
sopravvivenza del nucleo) maggiori di quelli derivanti dalla  mancata
punizione  del  fatto.  Viene  prospettata,  per  altro  verso,   una
peculiarita' dei rapporti patrimoniali interni alla famiglia, che  si
sostanzierebbe  -  affermava  gia'  la  Relazione  ministeriale   sul
progetto di codice penale del 1887 - in «una specie di confusione  di
sostanze, di comune destinazione dei beni per piena comunicazione  di
diritti, per continuazione di personalita', per  necessaria  societa'
di vita»: in sintesi, una comunanza di interessi (evocata anche dalla
sentenza n.  423  del  1988  di  questa  Corte)  che  legittimerebbe,
all'interno della famiglia, un assetto di protezione dei diritti  sul
patrimonio diverso da quello ordinariamente vigente. 
    Per parte sua, scrutinando la stessa disposizione qui  censurata,
la giurisprudenza costituzionale ha gia' sottolineato  (motivando  il
rigetto d'una questione di legittimita' mirata ad estendere il regime
di non punibilita' al convivente more uxorio del reo) le finalita' di
protezione  dell'istituzione  familiare  proprie  della   disciplina,
«anche ad eventuale discapito del singolo componente, il quale  viene
privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici  poste
a presidio del patrimonio  pure  se  abbia,  nel  caso  concreto,  un
personale interesse alla punizione del colpevole»  (sentenza  n.  352
del 2000). 
    3.- Contestando frontalmente queste giustificazioni,  almeno  con
riguardo  all'attuale  fisionomia  dell'istituzione   familiare,   il
giudice a quo afferma che proprio la commissione  degli  illeciti  in
questione minerebbe alla radice il rapporto di fiducia tra congiunti,
conducendo spesso alla cessazione della convivenza e,  percio',  alla
dissoluzione del nucleo  familiare.  Del  resto,  a  suo  avviso,  la
realizzazione di un fatto illecito di natura  patrimoniale  ai  danni
del congiunto  precluderebbe  la  stessa  possibilita'  di  ravvisare
quella comunanza di interessi che, in tesi, legittimerebbe la  scelta
legislativa, costituendone la ratio di fondo. 
    Il rimettente non manca di ricordare come,  gia'  nel  corso  dei
lavori preparatori del  codice  vigente,  taluno  avesse  prospettato
l'inopportunita' della soluzione, non sembrando «morale ingenerare la
persuasione che sia lecito rubare in  danno  di  genitori,  fratelli,
figli ecc.». 
    La protezione indiscriminata dei componenti il  nucleo  familiare
rispetto all'intervento punitivo, riguardando situazioni  in  realta'
gia'  deteriorate,  sarebbe  comunque  posta  -  sempre  secondo   il
Tribunale - a presidio d'un modello  di  famiglia  «i  cui  caratteri
ormai si sono persi nel tempo», in base  ad  una  scelta  «del  tutto
anacronistica, ancorata ad un  sistema  di  rapporti  socio-familiari
profondamente differenti da quelli attuali». 
    In sostanza, un assetto di gia' dubbia  opportunita'  si  sarebbe
trasformato, oggi, in una  situazione  di  irragionevolezza,  poiche'
l'applicazione  dell'art.  649  cod.   pen.   determinerebbe,   senza
giustificazione, l'impunita' dell'autore dei reati in questione,  con
conseguente, e altrettanto ingiustificata, disparita' di  trattamento
rispetto ai  soggetti  terzi,  non  legati  alla  persona  offesa  da
rapporti di parentela, in violazione dell'art. 3, primo comma, Cost. 
    Il  rimettente,  connettendola  in  termini  assai  sintetici  al
secondo comma dell'art. 3 Cost. e all'art. 24 Cost., prospetta  anche
una irragionevole discriminazione tra le vittime di reati lesivi  del
patrimonio, a seconda che sussista o non un  rapporto  familiare  con
l'autore del fatto, e comunque la  violazione  del  loro  diritto  ad
ottenere tutela giudiziale. 
    4.- L'Avvocatura generale dello Stato solleva  plurime  eccezioni
d'inammissibilita' con riferimento alle questioni indicate. 
    4.1.-  Con  la  prima,  l'inammissibilita'  e'  addebitata   alla
genericita'  della  prospettazione  e  all'insufficiente  indicazione
delle  ragioni  di  contrasto  tra  norma   censurata   e   parametri
costituzionali invocati. 
    Tale eccezione non e' fondata,  con  specifico  riferimento  alla
questione posta per violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. 
    Sia  pure  in  sintesi,   il   rimettente   individua   parametro
costituzionale  in   ipotesi   violato   e   tertium   comparationis,
identificando quest'ultimo nella situazione del soggetto che commette
un reato contro il patrimonio e, non essendo legato  da  rapporti  di
parentela con la vittima, non puo' beneficiare della non  punibilita'
prevista dalla norma censurata. 
    Una siffatta identificazione del  tertium  non  e'  generica  ne'
palesemente arbitraria, giacche', attraverso la  sua  evocazione,  e'
chiamata  in  causa  la  stessa  ragionevolezza  dell'eccezione  alla
punibilita' apprestata dall'art. 649, primo comma, cod. pen. 
    E' vero, come sostiene l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  che
l'ordinanza di rimessione si alimenta, sul  punto,  solo  di  qualche
cenno al mutamento  dei  rapporti  socio-familiari,  senza  ulteriori
argomentazioni  di  rilievo   costituzionale,   che   consentano   di
apprezzare  l'asserita  irragionevolezza  manifesta  del  trattamento
differenziale, il quale dovrebbe essere valutato, in ogni caso,  alla
luce della particolare posizione che l'art. 29  Cost.  assicura  alla
famiglia  fondata  sul  matrimonio.  Il  mutato  contesto  sociale  e
culturale costituisce, tuttavia, il  profilo  essenziale  e  puntuale
delle  censure  prospettate,  che  non  implausibilmente  interrogano
l'effettiva necessita' della  disciplina  derogatoria  denunciata  (e
dunque  la  attuale  sua  ragionevolezza),  quale  presidio  efficace
dell'istituzione familiare. 
    Secondo il giudice a quo, il regime penale dei delitti contro  il
patrimonio in ambito familiare deve  essere  apprezzato,  oggi,  alla
luce delle trasformazioni che hanno  interessato  la  famiglia  ed  i
rapporti  tra  i  suoi  componenti.  In  definitiva,  e'  posto   con
precisione il tema della perdurante attualita' di una risalente ratio
legis,  della  sua  adeguatezza  a   reggere   ragionevolmente,   nel
particolare settore  dei  delitti  contro  il  patrimonio,  l'assetto
penalistico dei rapporti endofamiliari. 
    La circostanza  che  l'ordinanza  esibisca,  sul  punto,  carenze
argomentative - poiche' neppure specifica quali  profili  di  novita'
della disciplina normativa  e  della  realta'  sociale  dei  rapporti
interni alla famiglia contrasterebbero con la norma censurata -  puo'
certo essere oggetto di rilievi. Ma essi  riguarderebbero  semmai  il
merito della questione sollevata, non la sua ammissibilita'.  Non  si
tratta, in effetti, di carenze tali da rendere oscuro od impreciso il
senso  della  censura  proposta  dal  Tribunale,  e  tali  dunque  da
giustificare una pronuncia in limine, che la giurisprudenza di questa
Corte  ancora  alla   estrema   genericita'   della   prospettazione,
all'omessa indicazione dei parametri di riferimento, o all'assente  o
insufficiente  motivazione  in  ordine  alle  ragioni  per   cui   la
disposizione censurata ne comporterebbe la violazione (di recente, ex
multis, sentenze n. 178, n. 126, n. 120, n. 113, n. 100, n. 70  e  n.
52 del 2015). 
    4.2.-  Risulta  evidente,  piuttosto,  l'inammissibilita'   delle
questioni sollevate con riferimento alla pretesa violazione, da parte
della norma censurata, degli artt. 3, secondo comma, e 24 Cost. 
    E' palese, in proposito,  il  carattere  generico  ed  apodittico
della prospettazione del rimettente, che non consente di comprendere,
da un lato,  in  che  senso  i  familiari  vittime  del  reato  siano
necessariamente  da  considerare  «soggetti  deboli»  e,  dall'altro,
perche' mai la compressione della tutela penale debba tradursi  nella
generalizzata eliminazione, in capo alle persone offese, di qualunque
altra possibilita' di  usufruire  della  tutela  giurisdizionale,  in
asserita violazione del diritto di  difesa.  Il  rimettente,  a  tale
ultimo proposito, non ha neppure indicato se ritenga  (in  contrasto,
tra l'altro, con la  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte:  ex
multis, da ultimo, sentenza n. 23 del 2015) che il diritto di  azione
debba essere sempre garantito in sede penale o se  piuttosto  ritenga
preclusa, per la persona offesa dal reato, finanche la tutela  civile
del diritto patrimoniale violato dal comportamento del congiunto. 
    Quando il provvedimento introduttivo risulta  carente  in  ordine
alle ragioni di contrasto tra  la  norma  censurata  ed  i  parametri
costituzionali evocati, la giurisprudenza costituzionale e'  costante
nel senso che la relativa questione deve  considerarsi  inammissibile
(ex multis, oltre alle decisioni gia' citate,  sentenza  n.  326  del
2008, ordinanze n. 16 del 2014 e n. 175 del 2009). 
    4.3.- L'Avvocatura generale dello Stato sostiene che la questione
sollevata sarebbe inammissibile anche perche' mirata ad ottenere  una
pronuncia d'incostituzionalita', in materia penale,  con  effetti  in
malam partem. 
    A seguito di un'eventuale sentenza d'accoglimento, in effetti, il
coniuge che tenesse una condotta come  quella  ascritta  all'imputato
nel giudizio principale diverrebbe  soggetto  al  comune  trattamento
previsto per la commissione del reato di truffa aggravata. 
    Richiamando  una  recente  pronuncia,  resa   su   questione   di
legittimita' costituzionale relativa proprio all'art. 649  cod.  pen.
(ordinanza  n.  285  del  2012),  la  difesa  erariale  afferma,   in
particolare,  che  la  dedotta  inammissibilita'  discenderebbe   dal
principio sancito all'art. 25, secondo comma, Cost.: il quale demanda
in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da  sottoporre  a
pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo a questa  Corte  di
creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti  a
casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius  sulla  risposta
punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilita'. 
    Tale eccezione non e' fondata. 
    L'art. 649, primo comma, cod. pen.  sancisce  una  causa  di  non
punibilita',  e  introduce  una  deroga   riguardo   all'applicazione
generalizzata delle previsioni  incriminatrici  comprese  nel  Titolo
XIII del Libro II del codice penale. Per tale sua funzione, la  norma
rientra senza dubbio nell'ambito delle cosiddette  «norme  penali  di
favore», cioe' delle disposizioni che sottraggono determinati  gruppi
di soggetti o di condotte alla sfera  applicativa  di  norme  comuni,
accordando loro un trattamento piu' benevolo. Nel caso di specie,  si
tratta di una disposizione che sottrae l'autore del  reato,  commesso
in danno di congiunti,  all'applicazione  delle  diverse  fattispecie
criminose, gia' sopra richiamate. 
    Fermo restando che la riserva di  legge  scolpita  nell'art.  25,
secondo comma, Cost. impedisce a questa Corte  di  configurare  nuove
previsioni punitive, la giurisprudenza costituzionale, allo scopo  di
escludere l'esistenza di «zone franche» dal controllo di legittimita'
costituzionale,  ha  da  tempo   chiarito   premesse,   modalita'   e
conseguenze del  sindacato  sulle  cosiddette  norme  di  favore  (in
generale, e da ultimo, sentenze n. 46 e n. 5 del 2014, n. 273 e n. 28
del 2010, n. 57 del 2009, n. 325 del 2008 e  n.  394  del  2006).  In
particolare, riguardo alle questioni concernenti tali norme, e mirate
alla relativa eliminazione, e' possibile riscontrare positivamente il
requisito della rilevanza,  poiche'  l'eventuale  accoglimento  delle
questioni  medesime   inciderebbe,   comunque,   sulle   formule   di
proscioglimento o sui dispositivi delle sentenze  penali  (imperniati
sul primo comma dell'art. 2 cod. pen., sorretto dall'art. 25 Cost., e
non piu' sulla disposizione in ipotesi  dichiarata  incostituzionale:
sentenza n. 148 del 1983). D'altro canto, la riserva  al  legislatore
delle scelte di criminalizzazione non viene incisa, perche' l'effetto
in malam partem derivante dall'eventuale accoglimento della questione
non dipende dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di
norme esistenti ad opera della  Corte  costituzionale,  la  quale  si
limita a rimuovere la disposizione  giudicata  lesiva  dei  parametri
costituzionali:  tale  effetto  dipende,  piuttosto,  dall'automatica
espansione delle norme comuni, dettate dallo stesso  legislatore,  al
caso gia'  oggetto  di  una  (in  tesi)  incostituzionale  disciplina
derogatoria. 
    Nella fattispecie qui in esame,  l'eventuale  accoglimento  della
questione determinerebbe l'applicazione, a carico  del  soggetto  che
agisca in  danno  di  prossimi  congiunti,  delle  comuni  norme  che
puniscono i delitti contro il patrimonio. 
    Proprio da questo punto di vista, puo' apprezzarsi la  differenza
tra la fattispecie qui considerata e quella definita con  l'ordinanza
n. 285 del 2012, invocata  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato  a
sostegno della propria  eccezione,  e  dichiarativa  della  manifesta
inammissibilita' d'una questione concernente l'art. 649 cod. pen. Era
stato censurato, nell'occasione, il terzo comma della norma, al  fine
di ottenere l'inserimento d'una ulteriore figura  di  reato  -  cioe'
quella  dell'usura  (art.  644  cod.  pen.)   -   nell'elenco   delle
fattispecie escluse dall'applicazione della causa di non  punibilita'
(o  di  procedibilita'  a  querela).   L'obiettivo   del   rimettente
consisteva quindi nell'ampliamento di una previsione  eccezionale  di
deroga ad un regime di favore, e non nella rimozione d'un trattamento
favorevole derogatorio  ad  una  previsione  generale.  Cio'  che  si
rendeva  evidente,  tra  l'altro,  in  base  al  contenuto   additivo
dell'intervento richiesto a questa Corte, diverso da quello ablatorio
che  sarebbe  implicato,   invece,   dall'accoglimento   dell'odierna
questione. 
    5.- Sia pure per ragioni  del  tutto  diverse  da  quelle  appena
esaminate, anche la questione  posta  con  riguardo  al  primo  comma
dell'art. 3 Cost. deve essere dichiarata tuttavia inammissibile. 
    5.1.- Non vi e' dubbio che una disposizione come quella censurata
-  ispirata  ad  un  criterio  di  rigida  tutela  della  istituzione
familiare e della sua  coesione,  attuato  a  discapito  dei  diritti
individuali dei  componenti  del  nucleo  e  dello  stesso  interesse
pubblico alla repressione dei reati (sentenza  n.  352  del  2000)  -
debba essere valutata, in  punto  di  ragionevolezza,  «alla  stregua
dell'attuale realta' sociale» (cosi' come questa  Corte  si  espresse
con la sentenza n. 126 del 1968). 
    Sul piano dei rapporti patrimoniali, alla tradizionale  comunanza
di interessi (la «confusione di sostanze» cui alludeva la gia' citata
relazione al Codice Zanardelli) si affianca oggi, e in molti casi  si
sostituisce, la  reciproca  autonomia  economica  dei  componenti  il
nucleo familiare. Un  regime  formale  di  comunione,  salva  diversa
opzione, regola la relazione patrimoniale fra  i  coniugi  ed  incide
profondamente sugli ambiti di applicazione delle norme penali poste a
tutela  della  proprieta'.   D'altro   canto,   si   percepisce   con
immediatezza la frequenza  assai  maggiore  dei  casi  di  plurima  e
indipendente acquisizione di  redditi  ad  opera  dei  componenti  la
famiglia, in un maturo contesto  di  uguaglianza  tra  i  coniugi,  e
dunque di loro autonomia nel concorso alle scelte di  gestione  delle
esigenze riferibili al nucleo comune. 
    Non stupisce, dunque, che una causa di non punibilita'  concepita
in epoca segnata dal ruolo dominante del marito  e  del  padre,  gia'
criticata in epoca risalente per la sua  inopportunita'  (sebbene  il
Guardasigilli  Rocco  avesse   stimato   di   conservarla   per   non
allontanarsi «da una tradizione legislativa universalmente accolta»),
sia posta oggi  in  discussione:  la  protezione  assoluta  stabilita
intorno al nucleo familiare, a prezzo dell'impunita' per fatti lesivi
dell'altrui patrimonio,  non  e'  piu'  rispondente  all'esigenza  di
garantire i diritti individuali e gli stessi  doveri  di  rispetto  e
solidarieta',  che  proprio  all'interno  della  famiglia  dovrebbero
trovare il migliore compimento. 
    Questa Corte ha gia' rilevato, sia pure riguardo a situazioni  ed
interessi diversi da quelli patrimoniali, che  la  Costituzione  «non
giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone  e  dei
loro  diritti»  (sentenza  n.  494  del  2002).  D'altra  parte,   il
fondamento  di  ogni  deroga  al  principio  dell'uguaglianza  tra  i
cittadini innanzi alla legge deve  essere  misurato,  in  termini  di
razionalita' (dunque in termini di congruenza  dei  suoi  presupposti
logici e dei suoi concreti effetti), con riguardo alle condizioni  di
fatto e di diritto nelle  quali  la  deroga  stessa  e'  chiamata  ad
operare. E poiche' tali condizioni sono per definizione  soggette  ad
una  costante   evoluzione,   la   ragionevolezza   della   soluzione
derogatoria adottata dal legislatore puo' essere posta in discussione
anche secondo un criterio di  anacronismo,  come  questa  Corte,  del
resto, ha piu' volte stabilito (ad esempio, sentenze n. 231 del 2013,
n. 354 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 41 del 1999). 
    Ben vero che la discrezionalita' legislativa si esercita non solo
nella espressione di nuove scelte normative, ma  anche  nella  stessa
conservazione,  nel  tempo,  dei  valori  normativi  gia'   affermati
nell'ordinamento. Ne' puo' dimenticarsi il limite fondamentale  posto
all'azione di questa Corte, cui e' precluso «ogni sindacato  sull'uso
del potere discrezionale del Parlamento»  (art.  28  della  legge  11
marzo  1953,  n.  87,  recante  «Norme  sulla  costituzione   e   sul
funzionamento della Corte costituzionale»). 
    E tuttavia, l'intervento di questa Corte si  legittima  in  casi,
come quello in esame, nei quali l'inopportuno trascinamento nel tempo
di discipline maturate in un determinato contesto trasmodi, alla luce
della mutata realta' sociale, in una regolazione non proporzionata  e
manifestamente irragionevole degli interessi coinvolti. 
    5.2.-  Sennonche',   nella   fattispecie   oggetto   dell'odierno
giudizio, nemmeno la  constatazione  di  effetti  manifestamente  non
ragionevoli sul piano dell'uguaglianza  tra  cittadini  innanzi  alla
legge penale e' sufficiente al  fine  di  consentire  alla  questione
sollevata di superare il vaglio di ammissibilita'. 
    Sono infatti  prospettabili  una  molteplicita'  di  alternative,
costituzionalmente compatibili, idonee ad evitare che prevalga sempre
e  comunque,  per  determinate   figure   parentali,   la   soluzione
dell'impunita', anche contro  la  volonta'  della  vittima  ed  anche
quando non vi sia, nel concreto, alcuna coesione da difendere per  il
nucleo familiare. 
    Un segnale immediato in tal senso viene dalla stessa ordinanza di
rimessione, ove, sia pur con un brevissimo passaggio, si afferma  che
l'esigenza protetta dall'attuale formulazione della  norma  censurata
«risulterebbe  sufficientemente  tutelata  dalla   previsione   della
procedibilita' a querela  della  parte  offesa».  A  prescindere  dal
connotato di  perplessita'  che  tale  affermazione  introduce  nella
motivazione dell'ordinanza, il rilievo mette in chiara evidenza  che,
nella stessa prospettiva adombrata dal  giudice  a  quo,  vi  sarebbe
almeno un'altra soluzione, alternativa a quella richiesta, per  porre
rimedio al vulnus denunciato: non gia' la completa caducazione  della
fattispecie di non punibilita', ma  la  generalizzata  subordinazione
della procedibilita' dell'azione contro il reo  all'iniziativa  della
vittima. 
    Per inciso, il  rimettente  ha  censurato  il  solo  primo  comma
dell'art.  649  cod.  pen.,  che,  in  effetti,  e'  la  disposizione
direttamente  applicabile  nel  giudizio   principale.   E'   chiaro,
peraltro,  che  un'ipotetica  pronuncia  di  accoglimento  lascerebbe
intatto il secondo comma dell'art. 649  cod.  pen.,  che  prevede  la
punibilita' a querela dei fatti commessi a danno dei congiunti  "meno
stretti"  (coniuge  legalmente  separato,  fratello  o  sorella   non
conviventi con l'autore del fatto, zio, nipote o  affine  in  secondo
grado con lui conviventi), producendo un'evidente  irrazionalita'  di
sistema. I  congiunti  in  questione,  infatti,  nei  casi  di  reati
usualmente  perseguibili  di   ufficio,   sarebbero   trattati   piu'
favorevolmente del coniuge non separato o dei parenti "piu' stretti". 
    Il rilievo vale, anch'esso, a porre in  immediata  evidenza  come
l'inammissibilita' della questione derivi dalla mancanza di un  unico
rimedio, costituzionalmente  obbligato,  al  vizio  rilevato,  in  un
settore, quello delle scelte di  politica  criminale,  caratterizzato
oltretutto da una discrezionalita'  del  legislatore  particolarmente
ampia riguardo al bilanciamento dei  diversi  interessi  contrapposti
(ex multis, sentenze n. 214 del 2014, n. 279 del 2013, n. 134 e n. 36
del 2012). 
    Va aggiunto  che  l'alternativa  tra  soluzioni  compatibili  non
coinvolge solo l'eventuale eliminazione della disciplina di favore  o
la sua graduazione mediante l'introduzione  della  perseguibilita'  a
querela (la quale, a sua volta, e' scelta che  la  giurisprudenza  di
questa Corte ha costantemente riferito  alla  piena  discrezionalita'
del legislatore: ex multis, ordinanze n. 324 del  2013,  n.  178  del
2003 e n. 91 del 2001). Nuove e particolari opzioni potrebbero essere
compiute, ad esempio, riguardo alla selezione dei delitti che  ancora
giustificherebbero un trattamento di favore, o  riguardo  anche  alle
figure parentali da includere nella speciale disciplina. 
    Spetta insomma  al  ponderato  intervento  del  legislatore,  non
sostituibile attraverso la radicale ablazione proposta con  l'odierna
questione  di  legittimita',  l'indispensabile  aggiornamento   della
disciplina  dei  reati  contro  il  patrimonio  commessi  in   ambito
familiare,  che  realizzi,  pur   nella   perdurante   valorizzazione
dell'istituzione familiare e della relativa norma  costituzionale  di
presidio (art. 29 Cost.), un nuovo bilanciamento, in questo  settore,
tra diritti dei singoli ed esigenze di tutela del nucleo familiare. 
    La forte opportunita' di un intervento  legislativo  di  riforma,
qui sollecitato, deve infatti accompagnarsi al  dovere  di  «rigorosa
osservanza  dei  limiti  dei  poteri  del   giudice   costituzionale»
(sentenza n. 22 del 2007; ex multis, inoltre, ordinanza  n.  145  del
2007). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara la  inammissibilita'  della  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  649,  primo  comma,  del  codice   penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e  24,
primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Parma, in
composizione monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI