N. 102 SENTENZA 8 marzo - 12 maggio 2016

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Borsa - Intermediazione finanziaria - Abusi di mercato -  Trattamento
  sanzionatorio - Comminatoria congiunta della sanzione penale  e  di
  quella amministrativa. 
- Decreto legislativo 24 febbraio 1998,  n.  58  (Testo  unico  delle
  disposizioni in materia di intermediazione  finanziaria,  ai  sensi
  degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996,  n.  52),  artt.
  187-bis, comma 1, e 187-ter, comma 1; codice di  procedura  penale,
  art. 649. 
-   
(GU n.20 del 18-5-2016 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici  :Giuseppe  FRIGO,  Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,   Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  649  del
codice di procedura penale e degli artt. 187-bis, comma 1, e 187-ter,
comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico
delle disposizioni in  materia  di  intermediazione  finanziaria,  ai
sensi degli articoli 8 e 21 della legge  6  febbraio  1996,  n.  52),
promossi dalla Corte di cassazione con ordinanze  del  15  e  del  21
gennaio 2015, iscritte ai nn. 38 e 52 del registro ordinanze  2015  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica  nn.  12  e  15,
prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti gli atti di costituzione della parte privata C.C.R.,  della
Commissione nazionale per le societa' e  la  borsa  -  CONSOB,  della
Garlsson srl  in  liquidazione  (gia'  Garlsson  Real  Estate  sa  in
liquidazione) ed altri, fuori termine, nonche' gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    uditi nell'udienza pubblica dell'8 marzo 2016 i Giudici  relatori
Giorgio Lattanzi e Marta Cartabia; 
    uditi gli avvocati  Francesco  Arnaud  per  la  Garlsson  srl  in
liquidazione (gia' Garlsson Real Estate sa in liquidazione) ed altri,
Riccardo Olivo per la parte privata C.C.R., Salvatore Providenti  per
la Commissione nazionale per le societa' e la borsa -  CONSOB  e  gli
avvocati dello Stato Mario Antonio  Scino  e  Paolo  Gentili  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 gennaio 2015 (reg. ord. n. 38 del 2015),
notificata il successivo 21 gennaio, la quinta sezione  penale  della
Corte di cassazione ha sollevato, in  via  principale,  questione  di
legittimita' costituzionale,  per  violazione  dell'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, in relazione all'art. 4 del Protocollo  n.
7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e  delle
liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo  il  22  novembre  1984,
ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98  (d'ora
innanzi «Protocollo n. 7 alla CEDU»), dell'art. 187-bis, comma 1, del
decreto legislativo 24  febbraio  1998,  n.  58  (Testo  unico  delle
disposizioni in materia  di  intermediazione  finanziaria,  ai  sensi
degli articoli 8 e 21 della legge 6  febbraio  1996,  n.  52),  nella
parte in cui prevede  «Salve  le  sanzioni  penali  quando  il  fatto
costituisce reato» anziche' «Salvo che il fatto  costituisca  reato».
In  via  subordinata,  ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale, per violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  della
Costituzione in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7  alla  CEDU,
dell'art. 649 del codice di procedura penale nella parte in  cui  non
prevede «l'applicabilita' della disciplina del divieto di un  secondo
giudizio  al  caso  in  cui  l'imputato  sia  stato  giudicato,   con
provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito  di  un
procedimento amministrativo per l'applicazione di una  sanzione  alla
quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per
la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle Liberta' fondamentali e
dei relativi Protocolli». 
    1.1.-  Il  rimettente  ha  premesso  che  l'imputato   e'   stato
condannato per il reato di cui all'art. 184, lettera b),  del  d.lgs.
n. 58 del 1998 - per avere diffuso ad altri, in  data  antecedente  e
prossima al 23 gennaio 2006, informazioni privilegiate di cui era  in
possesso quale analista  finanziario,  fuori  dal  normale  esercizio
della professione - con sentenza del Tribunale  ordinario  di  Milano
del 20 dicembre 2011, confermata dalla Corte d'appello di Milano, con
sentenza del 16 gennaio 2013, oggetto del ricorso per cassazione  del
quale il giudice a quo e' stato investito. 
    Lo stesso rimettente ha precisato  di  aderire  all'orientamento,
avallato dalle sezioni unite della Corte di  cassazione,  secondo  il
quale e' ammissibile la deduzione, per la prima  volta  dinanzi  alla
Corte predetta (come avvenuto nella  specie),  della  violazione  del
divieto del bis in idem. 
    L'imputato ha infatti prodotto sentenza della Corte d'appello  di
Roma con  la  quale  e'  stata  rigettata  l'opposizione  avverso  la
delibera della Commissione nazionale  per  le  societa'  e  la  borsa
(«CONSOB») con la quale al medesimo imputato e'  stata  applicata  la
sanzione pecuniaria e quella accessoria  interdittiva,  in  relazione
all'illecito amministrativo previsto dall'art. 187-bis, comma 1,  del
citato d.lgs. n. 58 del 1998,  contestatogli  per  i  medesimi  fatti
compresi nell'imputazione penale. Inoltre, essendo il reato  commesso
nella vigenza dell'art. 39 della  legge  28  dicembre  2005,  n.  262
(Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati
finanziari), neppure risultava decorso il termine di prescrizione. 
    1.2.- Ad avviso del rimettente, la  questione  sollevata  in  via
principale assumerebbe rilevanza nel giudizio a quo, perche'  il  suo
eventuale accoglimento farebbe venir meno il presupposto del  ne  bis
in  idem,  in  quanto  la  CONSOB  dovrebbe  assumere  le  necessarie
determinazioni per revocare le sanzioni ai sensi dell'art. 30, quarto
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla  costituzione  e
sul funzionamento della Corte  costituzionale):  in  particolare,  il
riconoscimento della natura  sostanzialmente  penale  della  sanzione
irrogata dovrebbe imporre il superamento del giudicato, in base a una
interpretazione della disposizione conforme alla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo. Per altro verso, secondo la Corte di cassazione,
la disciplina limitativa del cumulo delle sanzioni prevista dall'art.
187-terdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, dovrebbe ritenersi operativa
anche nella specie, con la conseguenza che il venir meno  della  base
legale della  sanzione  amministrativa  determinerebbe  la  possibile
esazione in toto della multa. 
    1.3.- Peraltro, secondo il giudice  a  quo,  anche  la  questione
sollevata in via subordinata sarebbe rilevante, posto che, in caso di
accoglimento, la Corte di cassazione potrebbe definire il giudizio in
base all'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., quale risultante
dall'intervento additivo richiesto. 
    1.4.- Il rimettente ha  poi  escluso  la  praticabilita'  di  una
interpretazione  costituzionalmente  orientata   delle   disposizioni
censurate. 
    Per quanto concerne l'art. 187-bis, comma 1, del d.lgs. n. 58 del
1998,  l'incipit  letterale  della  disposizione  e   il   meccanismo
compensativo  previsto  dal  citato  art.  187-terdecies,   sarebbero
compatibili soltanto con la previsione di un concorso delle  sanzioni
previste per il reato e per l'illecito amministrativo. 
    Allo stesso modo l'art. 649 cod. proc. pen. si  pone  all'interno
di un sistema di strumenti volti a prevenire lo svolgimento  di  piu'
procedimenti per il medesimo fatto - come nel caso  della  disciplina
sui conflitti positivi di  competenza,  tra  diversi  giudici,  o  di
attribuzione, tra diversi uffici del pubblico ministero - o di rimedi
stabiliti in sede esecutiva, espressivi tutti del medesimo  principio
del ne bis in idem, che presuppongono  la  comune  riferibilita'  dei
plurimi procedimenti alla sola autorita' giudiziaria penale. 
    1.5.- In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ha
rilevato che la violazione del parametro convenzionale  interposto  -
costituito dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU - e, per il  suo
tramite, dell'art. 117, primo comma, Cost.  si  ricollegherebbe  alla
sentenza della Corte di Strasburgo del 4 marzo 2014, Grande Stevens e
altri contro Italia, divenuta irrevocabile il 7 luglio 2014. In  tale
sentenza  si  sarebbe  rilevata  l'incompatibilita'  con  il  divieto
convenzionale  del  bis  in  idem,  del  regime  del  doppio  binario
sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli  abusi  di
mercato,  in  quanto  andrebbe  riconosciuta  natura  sostanzialmente
penale alla  sanzione  amministrativa  comminata  e  l'identita'  del
fatto, rispetto a quello per il quale sono previste sanzioni  penali,
andrebbe scrutinata con un accertamento in concreto  e  non  mediante
una disamina degli elementi costitutivi delle fattispecie astratte. 
    Posto che la sentenza della Corte di Strasburgo  fa  applicazione
di  criteri  consolidati   nella   sua   giurisprudenza   e   poiche'
l'incompatibilita' accertata risulta di natura sistemica  (in  quanto
derivante  dalla  normativa),  la  portata  della  citata   decisione
andrebbe oltre il caso esaminato, come rilevato  in  altra  occasione
dalla Corte costituzionale (sentenza n. 210 del 2013) e la violazione
strutturale  -  determinata  dall'applicabilita'   cumulativa   delle
sanzioni previste dagli artt. 184 e 187-bis  del  d.lgs.  n.  58  del
1998, che comporta la lesione del  parametro  interposto  e,  quindi,
della norma costituzionale - troverebbe soluzione proprio  attraverso
l'accoglimento   delle   prospettate   questioni   di    legittimita'
costituzionale. 
    1.5.1.- Il recepimento  del  parametro  interposto  non  potrebbe
essere poi  precluso,  ad  avviso  del  rimettente,  sulla  base  del
principio di stretta legalita'  formale  sancito  in  materia  penale
dell'art.  25   Cost.,   ne'   del   principio   dell'obbligatorieta'
dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., posto che,  secondo  la
stessa giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 196 del  2010),  le
misure di carattere punitivo-afflittivo devono  esser  soggette  alla
medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. 
    1.5.2.-  Il  giudice  a  quo  ha  poi  osservato  che   l'assetto
sanzionatorio prescelto dal legislatore italiano non potrebbe neppure
ritenersi imposto dalla normativa europea e, segnatamente,  dall'art.
14,  comma  1,  della  direttiva  28  gennaio  2003,  2003/6/CE   del
Parlamento europeo e del Consiglio relativa all'abuso di informazioni
privilegiate e alla manipolazione del mercato, che  consente  ma  non
impone sanzioni penali per gli abusi di mercato, come  gia'  chiarito
dalla Corte di giustizia con la sentenza 23 dicembre 2009,  in  causa
C-45/08, Spector Photo Group e Van Raemdonck, e  parimenti  consente,
ma non impone, il cumulo di sanzioni amministrative e penali. 
    Del resto, il vincolo di risultato derivante dalla  direttiva  e'
pur sempre quello  di  garantire  misure  efficaci,  proporzionate  e
dissuasive in maniera da non  compromettere  la  tutela  dei  diritti
fondamentali, come parimenti chiarito dalla sentenza  della  medesima
Corte di giustizia del 26 febbraio 2013, in causa C-617/10  Aklagaren
contro Akerberg Fransson,  proprio  in  un  caso  in  cui  si  doveva
definire la portata del principio del ne bis in idem. 
    1.5.3.- Peraltro, ha osservato il  rimettente,  proprio  in  tale
decisione la Corte di Lussemburgo definisce la portata del  principio
- quale codificato nell'art. 50 della Carta dei diritti  fondamentali
dell'Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, adottata  il
12 dicembre 2007 a Strasburgo -  in  modo  differente  rispetto  alla
definizione da parte della Corte di Strasburgo dell'analogo principio
codificato dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. Tale differenza
nella definizione del principio del ne bis in  idem,  impedirebbe  di
pervenire  alla  «inapplicazione»  di  norme  interne  in  base  alla
sovrapponibilita'   delle   previsioni    contenute    nella    norma
convenzionale, quale applicate dalla citata sentenza Grande Stevens e
altri  contro  Italia,  e  di   quella   comunitaria,   eventualmente
considerata   direttamente   efficace,   proprio   in   quanto   tale
sovrapponibilita'  non  sussisterebbe,  in   quanto   la   Corte   di
Lussemburgo nel definire il divieto di doppio  giudizio  fa  comunque
riferimento  alla  necessaria  valutazione   dell'adeguatezza   delle
rimanenti  sanzioni  rispetto  ai  citati  canoni  di   effettivita',
proporzionalita' e dissuasivita'. 
    1.5.4.- Lo stesso rimettente ha aggiunto, d'altro canto,  che  il
diritto dell'Unione europea in materia di abusi di mercato  e'  stato
profondamente innovato, di  recente,  attraverso  il  regolamento  16
aprile 2014, n. 596/2014  del  Parlamento  europeo  e  del  Consiglio
relativo agli abusi di mercato e che abroga  la  direttiva  2003/6/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio e  le  direttive  2003/124/CE,
2003/125/CE e 2004/72/CE, il quale, oltre a  prevedere  l'abrogazione
della direttiva n. 2003/6/CE  con  effetto  dal  3  luglio  2016,  ha
stabilito, all'art.  30,  comma  1,  che  gli  Stati  membri  possono
decidere di non comminare sanzioni amministrative per abusi che siano
gia' soggetti a sanzioni  penali  nel  rispettivo  diritto  nazionale
entro il 3 luglio 2016, data entro la quale dovra' essere recepita la
nuova direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE del Parlamento  europeo
e del Consiglio relativa alla sanzioni penali in  caso  di  abusi  di
mercato. 
    Quest'ultima  direttiva,  infatti,  capovolgerebbe,  secondo   il
rimettente, i rapporti tra sanzioni penali e amministrative  per  gli
abusi di mercato, privilegiando le prime rispetto alle seconde. 
    1.6.- Proprio l'esigenza di  immediato  adeguamento  alla  citata
direttiva 2014/57/UE militerebbe  a  favore  dell'accoglimento  della
questione  proposta  in  via  principale,  volta   ad   ottenere   la
dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  187-bis,
comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 nella parte in cui prevede  «Salve
le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziche' «Salvo
che il fatto costituisca reato». 
    In questo modo, infatti, si assicurerebbe la sussidiarieta' della
fattispecie amministrativa rispetto a quella penale, in  ottemperanza
alla previsione della nuova direttiva e con una migliore  rispondenza
ai  canoni  individuati  nella  citata  sentenza   della   Corte   di
Lussemburgo del 26 febbraio 2013, anche perche' la certezza del  tipo
di risposta sanzionatoria rafforzerebbe l'effettivita' della risposta
stessa. 
    1.7.- Simile certezza sul  tipo  di  risposta  sanzionatoria  non
conseguirebbe  all'accoglimento  della  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., per questo sollevata in
via subordinata. 
    Infatti, la preclusione  scatterebbe  in  base  al  provvedimento
divenuto per primo irrevocabile (sia esso  amministrativo  o  penale)
ponendo cosi' rimedio nei casi concreti,  ma  non  in  generale  alla
violazione strutturale determinata dal divieto del bis in idem, quale
ricostruito dalla Corte di Strasburgo. 
    In questo modo, inoltre, si attribuirebbe all'art. 649 cod. proc.
pen. una portata diversa da quella desumibile dal suo inserimento  in
un  sistema  di  rimedi  che  presuppongono  tutti  che   i   plurimi
procedimenti riguardino l'autorita' giudiziaria penale. 
    Tuttavia, tale incongruenza  sistematica,  non  precluderebbe  la
possibilita' di accoglimento in via subordinata dalla  questione,  in
quanto la Corte costituzionale ha gia' avuto modo di  affermare,  con
la sentenza n. 113 del 2011, che tali  incongruenze  non  esimono  la
Corte dal porre rimedio a vulnera costituzionali  non  emendabili  in
via interpretativa. 
    2.- Con atto depositato il  14  aprile  2015  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,   difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che  la  questione  venga  dichiarata
inammissibile o infondata. 
    La difesa dello Stato ha ritenuto, infatti, che  mancherebbero  i
presupposti di rilevanza della questione, in quanto in sede penale e'
contestato il reato di cui all'art. 184 del d.lgs. n.  58  del  1998,
che  rimarrebbe  immodificato   anche   in   caso   di   accoglimento
dell'intervento manipolativo richiesto invece sull'art.  187-bis  del
d.lgs.  n.  58  del  1998  gia'  definitivamente  applicato  in  sede
amministrativa. 
    Inconferente sarebbe poi il  riferimento  all'art.  187-terdecies
del medesimo decreto che rileva solo  in  sede  esecutiva  e  non  in
quella di cognizione, che caratterizza il giudizio a quo. 
    Ulteriore   ragione   di   inammissibilita'    sarebbe    inoltre
rappresentata dal carattere creativo dell'intervento richiesto,  come
confermato dal fatto che la lettura, adottata dal  rimettente,  della
nuova direttiva in materia, si fonda su valutazioni di  politica  del
diritto, di competenza del legislatore, piu'  che  su  considerazioni
giuridiche, di competenza della giurisdizione. 
    Il rimettente non avrebbe poi motivato sulla necessaria eccessiva
gravita' in concreto della sanzione amministrativa cumulata a  quella
penale. Neppure il giudice a quo avrebbe adeguatamente considerato la
circostanza che la sanzione amministrativa nei  confronti  di  C.C.R.
sarebbe  divenuta  definitiva  proprio  per  la  volontaria  rinuncia
dell'interessato   a   far   valere   tutti   i   rimedi   apprestati
dall'ordinamento per evitare la duplicazione della sanzione. 
    Nel merito la questione di  legittimita'  costituzionale  sarebbe
infondata in quanto l'intervento manipolativo dell'art.  187-bis  del
d.lgs. n. 58 del 1998 sollecitato dal rimettente  contrasterebbe  con
il principio di legalita' ex art. 25 Cost. e, quindi, con la  riserva
di legge,  il  principio  di  tassativita'  delle  fattispecie  e  di
irretroattivita' delle norme penali. Sul punto  e'  stato  richiamato
l'insegnamento  della  sentenza  n.   49   del   2015   della   Corte
costituzionale,  rimarcandosi  come  il  giudice  debba  innanzitutto
obbedienza alla Carta repubblicana. 
    Secondo l'Avvocatura generale  dello  Stato  affidare  alle  sole
sanzioni  penali  la  tutela  dagli  abusi  del   mercato   minerebbe
l'effettivita' della disciplina che, specie nel campo della  finanza,
necessiterebbe  di  un'azione  deterrente  piu'  celere   e   mirata,
svincolata dalle «lungaggini del processo penale». 
    Parimenti infondata sarebbe anche la questione sollevata  in  via
subordinata. 
    Infatti, in primo luogo dovrebbe escludersi in radice che in caso
di «concorso di sanzione amministrativa e di sanzione  penale  aventi
oggettivita' giuridica distinta e diversi  elementi  costitutivi,  in
particolare dal punto di vista dell'elemento soggettivo, si verifichi
in linea di principio  un  concorso  apparente»  di  norme,  solo  in
presenza del quale si determinerebbe una violazione  del  ne  bis  in
idem come inteso dalla Corte di Strasburgo (si cita in  proposito  la
sentenza della Corte di cassazione, sezione quarta penale, 6 febbraio
2015, n. 9168). In secondo luogo,  secondo  l'interveniente,  non  si
potrebbe dare alcun  contrasto  di  giudicati,  dovendosi  a  maggior
ragione applicare al caso di specie  il  principio,  affermatosi  nel
diritto vivente, secondo il quale l'inammissibilita'  di  un  secondo
giudizio non vieterebbe di prendere in considerazione lo stesso fatto
storico per valutarlo liberamente ai fini della  prova  di  un  reato
diverso da quello giudicato. Sulla scorta di  questa  considerazione,
secondo la difesa dello Stato, dovrebbe palesarsi anche una ulteriore
ragione di irrilevanza della questione sollevata, che avrebbe  dovuto
piu' coerentemente fare riferimento all'art. 669 cod. proc. pen. (sul
cosiddetto "conflitto pratico di giudicati"), anziche'  all'impugnato
art. 649 dello stesso codice. 
    Inoltre, l'eventuale accoglimento della questione  determinerebbe
l'incertezza della risposta sanzionatoria (casualmente amministrativa
o penale, a seconda del procedimento conclusosi per primo), cosi'  da
incidere sulla  sua  effettivita',  con  pregiudizio  degli  obblighi
comunitari da salvaguardare ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. 
    L'invocata  manipolazione   dell'art.   649   cod.   proc.   pen.
contrasterebbe, altresi', con l'art. 3 Cost.,  essendo  irragionevole
sottoporre a sanzione amministrativa o penale una determinata persona
sulla base di un accadimento processuale del tutto aleatorio. 
    Infine, risulterebbe pregiudicato il principio di obbligatorieta'
dell'azione penale ex art. 112  Cost.,  posto  che  l'irrevocabilita'
della   decisione   sull'illecito    amministrativo    paralizzerebbe
l'iniziativa del pubblico ministero. 
    3.- Con atto depositato il 13 aprile 2015, si  e'  costituita  la
CONSOB, chiedendo che le questioni vengano  dichiarate  inammissibili
e, comunque, non fondate. 
    In ordine alla questione sollevata in via principale, la medesima
sarebbe inammissibile per l'implausibilita' della  motivazione  sulla
rilevanza. Infatti, per effetto della introduzione della clausola  di
sussidiarieta', continuerebbe a trovare piena applicazione  la  norma
incriminatrice, viceversa  la  eventuale  pronuncia  di  accoglimento
inciderebbe sulla sanzione amministrativa che, in quanto  oggetto  di
una  decisione  definitiva  e  gia'   eseguita,   costituirebbe   una
situazione giuridica i cui  effetti  si  sono  esauriti,  con  palese
inconferenza del richiamo, da parte del giudice rimettente, dell'art.
30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953. 
    Parimenti inconferente sarebbe il richiamo all'art. 187-terdecies
del d.lgs. n. 58 del 1998, trattandosi  di  norma  che  puo'  trovare
applicazione nella sola  fase  di  esecuzione  e  non  in  quella  di
cognizione, in cui e' stata sollevata la questione. 
    Inoltre, l'accoglimento della questione porterebbe ad effetti  in
malam  partem,   come   tali   costituenti   ulteriore   ragione   di
inammissibilita'. 
    Rispetto alla questione sollevata sarebbe, altresi', inconferente
il parametro interposto richiamato, in quanto  l'addizione  richiesta
impedirebbe l'instaurazione di procedimenti paralleli, vale a dire la
stessa litispendenza (anche se  nessuno  dei  procedimenti  sia  gia'
stato definito), cio' non rientra nel divieto convenzionale di bis in
idem come inteso dalla giurisprudenza di Strasburgo. 
    Ancora la questione sarebbe inammissibile,  perche'  l'intervento
sollecitato non avrebbe contenuto costituzionalmente obbligato. 
    Infatti, in primo luogo la nuova direttiva n. 2014/57/UE trovera'
applicazione solo dal 3 luglio 2016, mentre la  precedente  direttiva
n. 2003/6/CE non impone obbligatoriamente la previsione  di  sanzioni
penali per reprimere gli abusi di mercato, come precisato dalla Corte
di giustizia  nella  citata  sentenza  23  dicembre  2009,  in  causa
C-45/08. 
    Secondo  la  CONSOB,  peraltro,  neppure   la   nuova   normativa
comunitaria vincolerebbe il legislatore italiano alla  previsione  di
sanzioni penali per  tali  illeciti,  limitandosi  a  prevedere  che,
mantenendo fermo un impianto sanzionatorio di natura  amministrativa,
per le fattispecie piu' gravi gli Stati membri  abbiano  facolta'  di
stabilire sanzioni  penali  aggiuntive  ovvero  di  discrezionalmente
optare solo per le sanzioni penali. Cio' confermerebbe che si  tratta
di scelte discrezionali di competenza del legislatore nazionale. 
    In ogni  caso,  secondo  l'interveniente,  la  questione  sarebbe
infondata nel merito. 
    In primo luogo, infatti, il suo accoglimento  determinerebbe  una
violazione degli artt. 11 e 117, primo comma,  Cost.,  in  quanto  si
porrebbe in contrasto con la direttiva n. 2003/6/CE che,  sino  al  3
luglio 2016, continuerebbe a trovare applicazione e che  impone  agli
Stati  membri  di  punire  gli  abusi   di   mercato   con   sanzioni
amministrative. 
    In secondo luogo, la qualificazione come "penali" delle  sanzioni
amministrative applicate dalla CONSOB contrasterebbe con  i  principi
costituzionali interni  fondanti  il  sistema  penale  e  processuale
italiano, vale a dire con i principi di legalita', di obbligatorieta'
dell'azione penale e di ragionevolezza. 
    Tale contrasto con  prevalenti  presidi  costituzionali  interni,
impedirebbe  percio'  alla  norma  convenzionale   interposta,   come
interpretata dalla  Corte  di  Strasburgo,  di  integrare  lo  stesso
parametro costituzionale di cui all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,
cio' in ossequio alla giurisprudenza costituzionale in materia. 
    4.- Con atto depositato  il  14  aprile  2015  si  e'  costituito
C.C.R., imputato nel giudizio a quo, chiedendo  l'accoglimento  della
sollevata questione, in particolare di quella concernente l'art.  649
cod. proc. pen. 
    5.- Con ordinanza del 21 gennaio 2015 (reg. ord. n. 52 del 2015),
notificata il successivo 26  gennaio,  la  sezione  tributaria  della
Corte  di  cassazione  ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale, per violazione dell'art. 117, primo comma,  Cost.  in
relazione agli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla  CEDU,  dell'art.
187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58  del  1998,  nella  parte  in  cui
prevede la comminatoria  congiunta  della  sanzione  penale  prevista
dall'art. 185 del medesimo d.lgs. n. 58 del  1998  e  della  sanzione
amministrativa prevista per l'illecito di cui all'art. 187-ter  dello
stesso decreto. 
    In particolare, il rimettente ha premesso che pende dinanzi a se'
ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa il 23 ottobre  2008
dalla Corte d'appello di Roma, con la quale venivano rideterminate le
sanzioni inflitte dalla CONSOB  per  condotte  di  manipolazione  del
mercato. Nel  predetto  giudizio,  inoltre,  era  stata  prodotta  la
sentenza della Corte di cassazione che ha dichiarato inammissibile il
ricorso proposto avverso la sentenza, per cio'  divenuta  definitiva,
emessa il 10 dicembre 2008 dal Tribunale ordinario  di  Roma  con  la
quale era stata disposta l'applicazione della pena su richiesta  agli
attuali ricorrenti per reati corrispondenti ai medesimi fatti oggetto
dell'illecito amministrativo. 
    Ha osservato il rimettente che con la sentenza Grande  Stevens  e
altri contro Italia, apparirebbe «chiaro l'orientamento  dei  giudici
di Strasburgo di rimproverare agli organi giurisdizionali la  mancata
disapplicazione di un principio (ne bis in idem) che  il  legislatore
nazionale ha introdotto in materia penale ma  non  nei  rapporti  tra
sanzione amministrativa di natura penale e sanzione penale». 
    In particolare, con la citata sentenza  la  Corte  di  Strasburgo
avrebbe  riconosciuto  natura  penale  alle  sanzioni  amministrative
previste dal citato art. 187-ter, con conseguente sua  soggezione  al
divieto del bis in idem, contenuto nell'art. 4 del  Protocollo  n.  7
alla CEDU. 
    Secondo  il  giudice  a  quo  il  principio   affermato   sarebbe
«bidirezionale», nel senso che esso troverebbe applicazione  sia  nel
caso di sanzione amministrativa precedente  quella  penale,  sia  nel
caso inverso, come quello occorso nella specie, nel quale il giudizio
penale si e' esaurito prima rispetto a quello  amministrativo  ancora
sub iudice. 
    Inoltre, secondo il rimettente, «in forza del principio del favor
rei, va assimilata la sentenza di patteggiamento a quella  penale  di
condanna», con la conseguente idoneita' della  stessa  a  determinare
base idonea a supportare il  divieto  di  bis  in  idem  nei  termini
affermati dalla Corte di Strasburgo. 
    Lo  stesso  rimettente  ha  poi  richiamato   la   giurisprudenza
costituzionale sugli effetti delle sentenze definitive della Corte di
Strasburgo, desumendo che la violazione  della  norma  convenzionale,
quale parametro interposto, determina la  violazione  dell'art.  117,
primo comma,  Cost.,  ove  non  sia  consentita  una  interpretazione
conforme del diritto nazionale. 
    Il giudice a quo ha quindi osservato che i medesimi comportamenti
oggetto della sentenza di patteggiamento  sarebbero  puniti  con  una
sanzione qualificata come amministrativa dall'art. 187-ter, comma  1,
del d.lgs. n. 58 del 1998, con conseguente rilevanza della  questione
sollevata, in quanto «non appare conforme ai principi  sovranazionali
sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi,  della
cumulabilita' tra sanzione  penale  e  amministrativa,  applicata  in
processi diversi,  qualora  quest'ultima  abbia  natura  di  sanzione
penale». 
    Andrebbe peraltro «rimessa alla Consulta, alla luce dei  principi
CEDU,  determinare  il  rilievo,  ai  fini  della  applicazione   del
principio del "ne bis in  idem",  della  valutazione,  da  parte  del
giudice  nazionale,  della  effettiva  afflittivita'  della  sanzione
penale», posto che nella specie era  stata  applicata  la  sola  pena
detentiva, dichiarata interamente condonata, con la  conseguenza  che
l'imputato non aveva subito alcun «effettivo pregiudizio nella  sfera
personale». 
    Occorrerebbe quindi, secondo il giudice a quo, «verificare se  la
obbligatorieta'  delle  sanzioni  amministrative  nel  sistema  degli
illeciti di market abuse sia  conf[l]iggente  col  sistema  del  c.d.
divieto del bis in idem, allorche' venga preliminarmente  emessa  una
sanzione penale e  se,  eventualmente,  quest'ultima,  a  prescindere
dalla sua afflittivita' e proporzionalita',  in  relazione  al  fatto
commesso,   sia   preclusiva   alla   comminatoria   della   sanzione
amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto  al  fine  della
successiva comminatoria della sanzione  amministrativa»,  cio'  anche
alla luce della direttiva n. 2003/6/CE che impone agli  Stati  membri
di  prevedere  sanzioni  amministrative  effettive,  proporzionate  e
dissuasive  e  del  sistema  previsto  dagli  artt.  187-duodecies  e
187-terdecies del  d.lgs.  n.  58  del  1998  che  impongono  di  non
sospendere i procedimenti amministrativi per abusi di mercato pur  in
pendenza del procedimento penale per i medesimi fatti, stabilendo poi
che la esazione della pena pecuniaria eventualmente inflitta in  sede
penale  sia   limitata   alla   parte   eccedente   quella   riscossa
dall'autorita' amministrativa. 
    6.- Con atto depositato il  5  maggio  2015,  e'  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,   difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che  la  questione  venga  dichiarata
inammissibile o infondata. 
    In  primo  luogo  la  questione  sarebbe  inammissibile  per   le
societa',  che  sono  state  sanzionate  in  via  amministrativa  per
l'illecito di cui all'art. 187-quinquies del d.lgs. n. 58  del  1998,
mentre in sede penale era stato loro  contestato  l'illecito  di  cui
agli artt. 5, 25-ter e 25-sexies del  decreto  legislativo  8  giugno
2001, n. 231 (Disciplina della responsabilita'  amministrativa  delle
persone giuridiche, delle societa' e delle associazioni  anche  prive
di personalita' giuridica, a norma dell'articolo 11  della  legge  29
settembre 2000, n. 300). 
    Quanto all'imputato, non sarebbe stata motivata -  o  addirittura
sarebbe stata esclusa dal rimettente - l'esistenza di una  duplicita'
di sanzioni dotate di afflittivita' tale  da  poter  determinare  una
violazione del ne bis in idem ai sensi dell'art. 4 del Protocollo  n.
7 alla CEDU. 
    Nel merito la questione di  legittimita'  costituzionale  sarebbe
infondata in  quanto  l'intervento  manipolativo  dell'art.  187-ter,
comma  1,  d.lgs.  n.  58  del  1998,  sollecitato  dal   rimettente,
contrasterebbe con il principio di legalita'  ex  art.  25  Cost.  e,
quindi, con la riserva di legge, il principio di  tassativita'  delle
fattispecie e di irretroattivita' delle norme penali.  Sul  punto  e'
stato richiamato l'insegnamento della sentenza n. 49 del  2015  della
Corte costituzionale, rimarcandosi come il giudice debba innanzitutto
obbedienza alla Carta repubblicana. 
    Secondo l'Avvocatura generale  dello  Stato  affidare  alle  sole
sanzioni  penali  la  tutela  dagli  abusi  del   mercato   minerebbe
l'effettivita' della disciplina che, specie nel campo della  finanza,
necessiterebbe  di  un'azione  deterrente  piu'  celere   e   mirata,
svincolata dalle «lungaggini del processo penale». 
    Ad avviso della difesa  dello  Stato,  poi,  la  sentenza  Grande
Stevens non impedirebbe di configurare due  previsioni  sanzionatorie
per lo stesso fatto quando  cio'  sia  necessario  per  esaurirne  il
disvalore plurioffensivo, cio' che appunto avverrebbe  nella  specie,
dove  le  sanzioni  amministrative  sarebbero  volte  a  rendere  non
conveniente l'abuso colpendo il patrimonio del responsabile a  tutela
della fiducia degli investitori in via generale e preventiva,  mentre
l'illecito penale assumerebbe valenza  repressiva  contro  la  figura
professionale dell'operatore che ha commesso l'abuso, in ragione  del
pericolo per la vigilanza che esso rappresenterebbe. 
    7.- Con atto depositato il 5 maggio 2015,  si  e'  costituita  la
CONSOB chiedendo che la questione venga  dichiarata  inammissibile  e
comunque infondata, sollecitando, altresi', che  la  sua  trattazione
venga  fissata  nella  stessa  udienza  nella  quale  si  discute  la
questione di cui all'ordinanza di rimessione iscritta al  n.  35  del
2015, ripercorrendo e  ulteriormente  illustrando  le  argomentazioni
gia' sviluppate nella memoria depositata in quel giudizio. 
    8.- Con memoria depositata fuori termine, il  16  febbraio  2016,
sono intervenute nel giudizio le societa' sanzionate  e  R.S.,  parti
nel giudizio a quo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 gennaio 2015 (reg. ord. n. 38 del 2015),
notificata il successivo 21 gennaio, la quinta sezione  penale  della
Corte di cassazione ha sollevato, in  via  principale,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1,  del  decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico  delle  disposizioni
in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli  8
e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui  prevede
«Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziche'
«Salvo che il fatto costituisca reato», per violazione dell'art. 117,
primo  comma,  della  Costituzione,  in  relazione  all'art.  4   del
Protocollo n. 7 alla Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il  22
novembre 1984, ratificato e reso esecutivo  con  la  legge  9  aprile
1990, n. 98 (d'ora in avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»). 
    In via subordinata, il giudice rimettente ha sollevato  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 649 del codice di  procedura
penale, nella  parte  in  cui  non  prevede  «l'applicabilita'  della
disciplina del  divieto  di  un  secondo  giudizio  al  caso  in  cui
l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento  irrevocabile,  per
il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento  amministrativo  per
l'applicazione di una sanzione alla quale debba  riconoscersi  natura
penale ai sensi della Convenzione per  la  salvaguardia  dei  Diritti
dell'uomo e delle Liberta' fondamentali e dei  relativi  Protocolli»,
in relazione al medesimo parametro e alla medesima  norma  interposta
della questione principale. 
    Il giudice rimettente e' investito del ricorso proposto contro la
condanna di un imputato per il reato previsto dall'art. 184, comma 1,
lettera b), del d.lgs. n. 58 del  1998,  per  abuso  di  informazioni
privilegiate e riferisce  che  era  gia'  passata  in  giudicato  una
pronuncia che  aveva  respinto  l'opposizione  della  stessa  persona
contro  una  sanzione  amministrativa  pecuniaria  inflittale   dalla
Commissione nazionale per le societa' e la borsa, ai sensi  dell'art.
187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, per il medesimo fatto. 
    Applicando un consolidato principio di diritto a un caso  analogo
a quello oggetto del giudizio a quo, la  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia,
ha affermato, sia la natura penale della sanzione prevista  dall'art.
187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, sia la violazione da  parte  della
Repubblica italiana dell'art. 4 del Protocollo n. 7  alla  CEDU,  per
avere proceduto in sede penale ai sensi dell'art. 185 del  d.lgs.  n.
58 del 1998, nonostante fosse  gia'  divenuta  definitiva  una  prima
condanna per il medesimo fatto,  sia  pure  diversamente  qualificato
giuridicamente. 
    La Corte di cassazione ha constatato che una identica  situazione
si era verificata nel caso soggetto  al  suo  scrutinio,  nel  quale,
benche' l'imputato per lo stesso fatto fosse stato gia' punito in via
definitiva, ai sensi dell'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, con
una sanzione amministrativa  particolarmente  gravosa,  si  procedeva
ugualmente nei suoi confronti per il reato  previsto  dall'art.  184,
lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998, e ha rilevato che  cio'  stava
avvenendo in violazione dell'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, il
quale imporrebbe di  arrestare  immediatamente  il  corso  di  questo
secondo processo. 
    Cio'  considerato,  la  Corte  di  cassazione  ha  formulato  due
questioni di costituzionalita', ponendole in ordine subordinato. 
    La prima questione tende ad escludere il concorso tra la sanzione
penale e la  sanzione  amministrativa,  facendo  recedere  l'illecito
amministrativo quando il medesimo fatto e' previsto  come  reato.  In
questo  modo,  secondo  il  giudice  rimettente  si  darebbe  inoltre
attuazione  alla  direttiva  16  aprile  2014,  n.   2014/57/UE   del
Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle sanzioni  penali  in
caso di abusi di mercato, che, invertendo la scelta compiuta  con  la
precedente direttiva 28 gennaio 2003,  n.  2003/6/CE  del  Parlamento
europeo  e  del  Consiglio   relativa   all'abuso   di   informazioni
privilegiate e alla manipolazione  del  mercato,  impone  agli  Stati
membri di adottare sanzioni penali per i casi piu' gravi di abuso  di
mercato, commessi  con  dolo,  e  permette  loro  di  affiancare  una
sanzione amministrativa. 
    La questione subordinata, invece, riguarda l'art. 649 cod.  proc.
pen., nella parte in cui non prevede la sua applicazione anche quando
la persona e' stata giudicata in via definitiva per il medesimo fatto
punito con  una  sanzione  amministrativa  alla  quale  debba  essere
riconosciuta natura penale ai sensi dell'art. 4 del Protocollo  n.  7
alla CEDU. 
    La Corte di cassazione e' consapevole che in caso di accoglimento
della  questione  subordinata  verrebbe   a   generarsi   una   grave
«incongruenza  sistematica»,  giacche'  troverebbe  applicazione   la
sanzione inflitta cronologicamente per prima  in  via  definitiva,  a
seconda  delle  contingenze  delle  singole  vicende  processuali,  e
tuttavia ritiene che una tale  «incongruenza»  non  possa  essere  di
ostacolo alla dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale,  ove
essa sia la sola  via  per  riparare  un  vulnus  costituzionale  dei
diritti della persona. 
    2.- Con ordinanza del 21 gennaio 2015 (reg. ord. n. 52 del 2015),
notificata il successivo 26  gennaio,  la  sezione  tributaria  della
Corte  di  cassazione  ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale, per violazione dell'art. 117, primo comma,  Cost.  in
relazione agli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla  CEDU,  dell'art.
187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58  del  1998,  nella  parte  in  cui
prevede la comminatoria  congiunta  della  sanzione  penale  prevista
dall'art. 185 del medesimo d.lgs. n. 58 del  1998  e  della  sanzione
amministrativa prevista per l'illecito di cui all'art. 187-ter  dello
stesso decreto. 
    La  Corte  di  cassazione  e'  chiamata  a   pronunciarsi   sulla
impugnazione proposta contro una sentenza della  Corte  d'appello  di
Roma,  che  ha  rigettato  l'opposizione  avverso  l'irrogazione   di
sanzioni amministrative, da parte della CONSOB,  ai  sensi  dell'art.
187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998, e con il ricorso  e'  stato  fatto
valere il giudicato penale gia' formatosi sui medesimi fatti  storici
di illecita manipolazione del mercato. 
    In  particolare,  il  giudice  rimettente  ha  ritenuto  che   la
disposizione censurata sia illegittima in quanto permette un  secondo
giudizio per un medesimo fatto concreto,  integrante  sia  l'illecito
amministrativo ex art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58  del  1998,
sia il reato di cui all'art. 185 del medesimo  decreto,  pur  essendo
previste,  per  l'illecito  amministrativo,  misure  da  considerarsi
penali, alla  luce  della  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, in considerazione della natura della violazione  e
della gravita' delle conseguenze. 
    Piu'  precisamente,  secondo  la  Corte  di  cassazione  andrebbe
«rimessa alla Consulta, alla luce dei principi CEDU,  determinare  il
rilievo, ai fini della applicazione del  principio  del  "ne  bis  in
idem", della valutazione,  da  parte  del  giudice  nazionale,  della
effettiva afflittivita'  della  sanzione  penale»,  posto  che  nella
specie  era  stata  applicata  la  sola  pena  detentiva,  dichiarata
interamente condonata, con la conseguenza che  l'imputato  non  aveva
subito alcun «effettivo pregiudizio nella sfera personale». 
    Occorrerebbe quindi, secondo il giudice a quo, «verificare se  la
obbligatorieta'  delle  sanzioni  amministrative  nel  sistema  degli
illeciti di market abuse sia  conf[l]iggente  col  sistema  del  c.d.
divieto del ne bis in idem, allorche'  venga  preliminarmente  emessa
una sanzione penale e se, eventualmente, quest'ultima, a  prescindere
dalla sua afflittivita' e proporzionalita',  in  relazione  al  fatto
commesso,   sia   preclusiva   alla   comminatoria   della   sanzione
amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto  al  fine  della
successiva comminatoria della sanzione  amministrativa»,  cio'  anche
alla luce della direttiva n. 2003/6/CE, che impone agli Stati  membri
di  prevedere  sanzioni  amministrative  effettive,  proporzionate  e
dissuasive  e  del  sistema  previsto  dagli  artt.  187-duodecies  e
187-terdecies del  d.lgs.  n.  58  del  1998  che  impongono  di  non
sospendere i procedimenti amministrativi per abusi di mercato pur  in
pendenza del procedimento penale per i  medesimi  fatti,  stabilendo,
poi, che la esazione della pena pecuniaria eventualmente inflitta  in
sede  penale  sia  limitata  alla  parte  eccedente  quella  riscossa
dall'autorita' amministrativa. 
    3.- Nel procedimento di cui al registro ordinanze n. 38 del 2015,
e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei  ministri  con  atto
depositato il 14 aprile 2015 e si sono costituite  la  parte  privata
C.C.R., con atto depositato il 14 aprile 2015, e la CONSOB  con  atto
depositato il 13 aprile 2015. 
    Nel procedimento di cui al registro ordinanze n. 52 del 2015,  e'
intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  con  atto
depositato il 5 maggio 2015 e si sono costituiti la CONSOB  con  atto
depositato il 5 maggio 2015, R.S.  e  le  societa'  Garlsson  srl  in
liquidazione e Magiste International sa con  atto  depositato,  fuori
termine, il 16 febbraio 2016. 
    4.- In via preliminare deve disporsi la riunione dei  giudizi  in
quanto pongono questioni analoghe per oggetto, termini e parametri. 
    Entrambe le ordinanze di rimessione, infatti,  pongono  questioni
relative al rispetto del ne bis in idem come interpretato dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo, in casi di cosiddetto "doppio binario"
sanzionatorio, cioe' in casi  nei  quali  la  legislazione  nazionale
prevede un doppio livello di  tutela,  penale  e  amministrativo.  In
particolare le due ordinanze riguardano il  settore  degli  abusi  di
mercato. 
    In  questo  ambito,  sino  al  2005  le  figure   dell'abuso   di
informazioni privilegiate e della  manipolazione  del  mercato  erano
sanzionate esclusivamente in sede penale come delitti dagli artt. 184
e 185 del Testo unico della finanza - TUF (d.lgs. n. 58 del 1998). 
    Successivamente, con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni
per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia
alle Comunita' europee.  Legge  comunitaria  2004),  attuativa  della
direttiva n. 2003/6/CE (cosiddetta Market Abuse Directive,  MAD),  ai
delitti di cui sopra sono stati  affiancati  due  paralleli  illeciti
amministrativi  previsti,  rispettivamente,   dagli   artt.   187-bis
(insider trading) e 187-ter (manipolazione di mercato) del  novellato
TUF.   Gli   illeciti   amministrativi   sono   descritti   in   modo
sovrapponibile ai corrispondenti delitti, ovvero con una formulazione
tale da ricomprendere, di fatto, anche l'omologa fattispecie penale. 
    La sovrapposizione dell'ambito applicativo di ciascun delitto con
il corrispondente illecito amministrativo e' contemplata dallo stesso
legislatore, come risulta dalla  clausola  di  apertura  degli  artt.
187-bis e  187-ter  «[s]alve  le  sanzioni  penali  quando  il  fatto
costituisce reato», che, in tal modo,  stabilisce,  da  un  punto  di
vista sostanziale, il cumulo dei due tipi di sanzioni.  Proprio  tali
clausole sono oggetto di censura nelle due ordinanze di rimessione. 
    Una tale disciplina e' stata stigmatizzata  dalla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo in quanto contrastante con il principio del  ne
bis in idem, di cui all'art. 4 del Protocollo n.  7  alla  CEDU,  che
vieta di perseguire o giudicare una persona per un  secondo  illecito
nella misura in cui alla base di quest'ultimo  vi  siano  i  medesimi
fatti. 
    In particolare, due aspetti della giurisprudenza della Corte  EDU
determinano una diversa interpretazione del principio  in  questione,
rispetto a come esso e' applicato nell'ordinamento interno. 
    Il primo riguarda la valutazione della "identita'  del  fatto"  -
l'«idem» -. La Corte europea ritiene  che  tale  valutazione  sia  da
effettuarsi in concreto e non in relazione agli elementi  costitutivi
dei due illeciti. In particolare, la giurisprudenza  europea  ravvisa
l'identita' del fatto quando, da un insieme di circostanze  fattuali,
due giudizi riguardino lo stesso accusato e in relazione a situazioni
inestricabilmente collegate nel tempo e nello spazio. 
    Il secondo aspetto riguarda la nozione  di  sanzione  penale,  da
definirsi non in base alla mera  qualificazione  giuridica  da  parte
della normativa nazionale, ma in base ai cosiddetti  "criteri  Engel"
(cosi' denominati a partire dalla sentenza della  Corte  EDU,  Grande
Camera,  8  giugno  1976,  Engel  e  altri  contro  Paesi   Bassi   e
costantemente ripresi dalle successive  sentenze  in  argomento).  Si
tratta di tre criteri individuati  dalla  consolidata  giurisprudenza
della Corte di Strasburgo, da esaminare congiuntamente per  stabilire
se vi sia o meno una imputazione  penale:  il  primo  e'  dato  dalla
qualificazione giuridica operata  dalla  legislazione  nazionale;  il
secondo e' rappresentato dalla natura della misura (che,  ad  esempio
non deve consistere in mere forme di compensazione pecuniaria per  un
danno subito, ma deve essere finalizzata alla punizione del fatto per
conseguire effetti deterrenti); il terzo e' costituito dalla gravita'
delle conseguenze in cui l'accusato rischia di incorrere.  Alla  luce
di tali criteri, sanzioni qualificate come non aventi  natura  penale
dal diritto nazionale, possono invece essere considerate tali ai fini
della applicazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo  e
delle relative garanzie. 
    In questo panorama giurisprudenziale  si  inserisce  la  sentenza
della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia,  divenuta
definitiva il 7 luglio 2014, a  cui  fanno  riferimento  entrambe  le
ordinanze di rimessione in esame. 
    La  suddetta  pronuncia  censura   specificamente   l'ordinamento
italiano  per  aver  previsto  un   sistema   di   "doppio   binario"
sanzionatorio nel settore degli abusi di mercato. La decisione  della
Corte europea attribuisce natura sostanzialmente penale alle sanzioni
amministrative stabilite per l'illecito di manipolazione del  mercato
ex art. 187-ter del TUF, in considerazione della gravita'  desumibile
dall'importo elevato  delle  sanzioni  pecuniarie  inflitte  e  dalle
conseguenze  delle  sanzioni  interdittive.  La  medesima   pronuncia
sottolinea  poi  la  mancanza   di   un   meccanismo   che   comporti
l'interruzione del secondo procedimento nel momento in cui  il  primo
sia  concluso  con  pronuncia  definitiva.  Infine,  essa   evidenzia
l'identita' dei fatti, dato che  i  due  procedimenti,  dinanzi  alla
CONSOB e davanti al giudice  penale,  riguardano  un'unica  e  stessa
condotta, da parte delle stesse persone, nella stessa data.  Da  tali
considerazioni, la Corte europea desume la violazione dell'art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU. 
    In entrambi i casi, la Corte rimettente sottolinea che il  vulnus
al principio del ne  bis  in  idem,  come  interpretato  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo nella sentenza Grande Stevens,  avrebbe
una valenza sistemica e potenzialmente  riguarderebbe  non  solo  gli
abusi di mercato, ma tutti gli ambiti in cui  l'ordinamento  italiano
ha istituito un sistema di doppio binario sanzionatorio,  in  cui  il
rapporto tra illecito amministrativo e penale non venga  risolto  nel
senso di un concorso apparente di norme. 
    5.- In via preliminare deve confermarsi l'inammissibilita'  della
costituzione di R.S. e delle societa' Garlsson srl, in  liquidazione,
e Magiste International sa,  poiche'  intervenuta  oltre  il  termine
previsto dall'art. 4 delle norme integrative per  i  giudizi  dinanzi
alla Corte costituzionale:  infatti,  l'ordinanza  di  rimessione  e'
stata pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  il  15
aprile 2015 e le parti di cui sopra  si  sono  costituite  ben  oltre
venti giorni dopo, il 16 febbraio 2016. 
    Secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine  per
la  costituzione  e  l'intervento  nei  giudizi  dinanzi  alla  Corte
costituzionale  deve  essere  ritenuto  perentorio  (tra  le   molte,
sentenze n. 220 e n. 128 del 2014, n. 303 del 2010) e il suo  mancato
rispetto determina, per cio', l'inammissibilita' della costituzione. 
    Viceversa deve confermarsi l'ammissibilita'  dell'intervento  del
Presidente del Consiglio dei ministri e delle altre parti private. 
    Invero, secondo la costante giurisprudenza di  questa  Corte  (ex
plurimis, sentenze n. 10 del 2015, n. 162 del 2014, n. 237 del  2013,
n. 272 del 2012, n. 304, n. 293, n. 118 del 2011, n. 138 del  2010  e
n. 263 del 2009; ordinanze n. 240 del 2014, n. 156 del 2013 e n.  150
del 2012), ai sensi degli artt. 3 e 4 delle citate norme  integrative
sono ammessi a costituirsi e intervenire nel giudizio incidentale  di
legittimita' costituzionale il Presidente del Consiglio dei  ministri
(e,  nel  caso  di  legge  regionale,  il  Presidente  della   Giunta
regionale), nonche' le sole parti del giudizio principale:  nel  caso
di specie, tutte le parti private costituite  sono  anche  parti  nei
giudizi a quibus e, dunque, non ci sono ragioni  per  dubitare  della
ammissibilita' del loro intervento. 
    6.- Tutte le questioni di legittimita' costituzionale oggetto del
presente giudizio sono inammissibili. 
    6.1.- La questione  sollevata  in  via  principale  dalla  quinta
sezione penale della Corte di cassazione e' inammissibile  in  quanto
non rilevante nel giudizio a quo. 
    Essa concerne una disposizione, l'art. 187-bis del d.lgs.  n.  58
del 1998, che ha gia' ricevuto definitiva applicazione dall'autorita'
amministrativa nel relativo procedimento, mentre la Corte  rimettente
e' piuttosto chiamata a giudicare in  riferimento  al  reato  di  cui
all'art. 184, comma 1, lettera b), del  medesimo  d.lgs.  n.  58  del
1998. 
    L'eventuale  accoglimento   della   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata in relazione  all'art.  187-bis  del  citato
decreto non solo non consentirebbe di evitare la lamentata violazione
del ne bis in idem, ma semmai contribuirebbe al suo verificarsi, dato
che l'autorita' giudiziaria procedente dovrebbe  comunque  proseguire
il  giudizio  penale  ai  sensi  del  precedente  art.  184,  benche'
l'imputato sia gia' stato assoggettato, per gli stessi  fatti,  a  un
giudizio   amministrativo   divenuto   definitivo   e   benche',   in
considerazione   della   gravita'   delle   sanzioni   amministrative
applicate,  a  tale   giudizio   debba   essere   attribuita   natura
"sostanzialmente"  penale,  secondo  l'interpretazione  della   Corte
europea dei diritti dell'uomo. 
    Tale abnorme effetto tradirebbe l'esigenza che non si produca nel
processo principale la violazione della Costituzione, cui e'  sotteso
il carattere pregiudiziale della questione  di  costituzionalita',  e
con esso il requisito della rilevanza. Difatti, il divieto di bis  in
idem prescritto dall'art. 4 del Protocollo n. 7  alla  CEDU  verrebbe
irrimediabilmente infranto, anziche' osservato, arrestando,  come  si
dovrebbe, il corso del secondo giudizio. 
    Ne' sono utili in senso contrario gli  argomenti  sviluppati  dal
rimettente  per  sostenere  che,  comunque,   la   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale dell'art. 187-bis del d.lgs. n. 58  del
1998 produrrebbe effetti favorevoli all'imputato, posto che, in forza
dell'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n.  87  (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della  Corte  costituzionale),
andrebbe revocata la sanzione amministrativa  pecuniaria  determinata
in base alla norma dichiarata  incostituzionale  e  divenuta  percio'
priva di base legale. 
    Questa Corte non ha motivo, a  tale  proposito,  di  saggiare  la
plausibilita' dell'argomentazione del rimettente  sull'applicabilita'
dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 al caso in cui
sia stato dichiarato incostituzionale non un  reato  ma  un  illecito
amministrativo che assume veste "penale" ai soli  fini  del  rispetto
delle garanzie della CEDU. E' infatti preliminare osservare  che,  in
ogni caso, si tratta di profili attinenti alle vicende della sanzione
amministrativa, privi di  rilevanza  per  il  giudice  rimettente,  e
quindi estranee  al  presente  giudizio.  Ma,  soprattutto,  torna  a
manifestarsi con forza il rilievo che essi  non  scongiurerebbero  in
alcun modo la violazione del ne bis in idem, pienamente integrata dal
proseguimento, auspicato dal giudice  a  quo,  del  giudizio  penale,
quali che siano  poi  gli  effetti  di  quest'ultimo  sulla  fase  di
esecuzione delle sanzioni penali e amministrative. 
    Va aggiunto che la questione posta in via principale dalla  Corte
di cassazione, se da un lato non vale a prevenire il vulnus  all'art.
4 del Protocollo n. 7 alla CEDU nel processo  principale,  dall'altro
lato, sul piano sistematico, eccede lo scopo al quale dovrebbe essere
invece  ricondotta  sulla  base   della   norma   interposta   appena
richiamata. 
    E' infatti pacifico,  in  base  alla  consolidata  giurisprudenza
europea, che il divieto di bis in idem ha  carattere  processuale,  e
non sostanziale. Esso, in altre parole, permette agli Stati  aderenti
di punire il medesimo fatto a piu' titoli, e con diverse sanzioni, ma
richiede che cio' avvenga  in  un  unico  procedimento  o  attraverso
procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della  condizione  che
non si proceda per uno di  essi  quando  e'  divenuta  definitiva  la
pronuncia relativa all'altro. 
    Non  puo'  negarsi  che  un  siffatto  divieto  possa  di   fatto
risolversi in una frustrazione del sistema del  doppio  binario,  nel
quale alla diversa natura, penale o amministrativa, della sanzione si
collegano normalmente procedimenti anch'essi di natura diversa, ma e'
chiaro che spetta anzitutto al legislatore stabilire quali  soluzioni
debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni  che  tale  sistema
genera tra l'ordinamento nazionale e la  CEDU.  E'  significativo  il
fatto che in tale prospettiva si muove il recente art. 11,  comma  1,
lettera m), della legge delega 9  luglio  2015,  n.  114  (Delega  al
Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione  di
altri atti dell'Unione europea. Legge di delegazione  europea  2014),
per l'attuazione alla direttiva n. 2014/57/UE, che impone agli  Stati
membri di adottare sanzioni penali per i casi piu' gravi di abuso  di
mercato, commessi con dolo e permette loro di aggiungere una sanzione
amministrativa nella linea dell'art. 30  del  regolamento  16  aprile
2014, n. 596/2014 del Parlamento europeo  e  del  Consiglio  relativo
agli abusi di  mercato  e  che  abroga  la  direttiva  2003/6/CE  del
Parlamento europeo  e  del  Consiglio  e  le  direttive  2003/124/CE,
2003/125/CE e 2004/72/CE. 
    6.2.- La  questione  sollevata  in  via  subordinata,  avente  ad
oggetto l'art. 649 cod. proc. pen., e' a sua volta inammissibile. 
    Il giudice a quo investe l'art. 649 cod.  proc.  pen.  pur  nella
convinzione  che  tale  via  conduca  a  una  soluzione  di   incerta
compatibilita' con la stessa Costituzione, ma  che  nondimeno  appare
idonea ad impedire  la  lesione  di  un  diritto  della  persona.  La
questione prospettata, infatti, richiede  alla  Corte  un  intervento
additivo, che dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art.  649
cod. proc. pen. «nella parte  in  cui  non  prevede  l'applicabilita'
della disciplina del divieto di un secondo giudizio al  caso  in  cui
l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento  irrevocabile,  per
il medesimo fatto, nell'ambito di un procedimento amministrativo  per
l'applicazione di una sanzione alla quale debba  riconoscersi  natura
penale ai sensi della Convenzione per  la  salvaguardia  dei  Diritti
dell'Uomo e delle Liberta' fondamentali e dei relativi Protocolli». 
    La   stessa   Corte   rimettente,   tuttavia,    evidenzia    che
l'accoglimento di una  tale  questione  determinerebbe  un'incertezza
quanto al tipo di risposta sanzionatoria - amministrativa o penale  -
che   l'ordinamento   ricollega   al   verificarsi   di   determinati
comportamenti, in base alla circostanza  aleatoria  del  procedimento
definito piu' celermente. Infatti,  l'intervento  additivo  richiesto
non determinerebbe  un  ordine  di  priorita',  ne'  altra  forma  di
coordinamento, tra i due procedimenti -  penale  e  amministrativo  -
cosicche' la preclusione del secondo procedimento scatterebbe in base
al provvedimento  divenuto  per  primo  irrevocabile,  ponendo  cosi'
rimedio -  come  osserva  la  Corte  rimettente  -  ai  singoli  casi
concreti, ma non in generale alla  violazione  strutturale  da  parte
dell'ordinamento italiano del divieto di bis in idem, come  censurata
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, nel caso Grande Stevens. 
    La stessa Corte rimettente sottolinea, poi, che l'incertezza e la
casualita' delle sanzioni applicabili potrebbero  a  loro  volta  dar
luogo alla violazione di altri  principi  costituzionali:  anzitutto,
perche'  si   determinerebbe   una   violazione   dei   principi   di
determinatezza e  di  legalita'  della  sanzione  penale,  prescritti
dall'art. 25 Cost.;  in  secondo  luogo  perche'  potrebbe  risultare
vulnerato il principio di ragionevolezza e di parita' di trattamento,
di  cui  all'art.  3  Cost.;  infine,   perche'   potrebbero   essere
pregiudicati  i  principi   di   effettivita',   proporzionalita'   e
dissuasivita'  delle  sanzioni,  imposti  dal   diritto   dell'Unione
europea,  come  esplicitato  dalla  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea (sentenza, 23 febbraio  2013,  in  causa  C-617/10  Aklagaren
contro Akerberg Fransson), in violazione, quindi, degli  artt.  11  e
117 Cost. 
    Nel   ragionamento   del   giudice   rimettente,   pero',    tali
"incongruenze" dovrebbero soccombere di fronte al prioritario rilievo
da conferire alla tutela del diritto personale a non essere giudicato
due  volte  per  lo  stesso  fatto.  Il   sacrificio   dei   principi
costituzionali or  ora  ricordati  e'  percio'  legato  strettamente,
nell'iter logico del giudice a quo, all'infondatezza della  questione
principale, che la Corte  di  cassazione  ha  individuato  quale  via
privilegiata per risolvere il dubbio di costituzionalita'. 
    Sotto questo aspetto  si  coglie  il  carattere  perplesso  della
motivazione  sulla  non  manifesta   infondatezza   della   questione
subordinata, che ne segna l'inammissibilita'. E', infatti, lo  stesso
rimettente a postulare,  a  torto  o  a  ragione,  che  l'adeguamento
dell'ordinamento nazionale all'art. 4 del Protocollo n. 7  alla  CEDU
dovrebbe avvenire prioritariamente attraverso una strada che egli non
puo' percorrere per difetto  di  rilevanza,  cosicche'  la  questione
subordinata  diviene  per  definizione  una  incongrua  soluzione  di
ripiego. 
    6.3.- Parimenti inammissibile e'  la  questione  sollevata  dalla
sezione tributaria della Corte  di  cassazione,  in  ordine  all'art.
187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto  formulata  in
maniera dubitativa e perplessa. 
    Il giudice a  quo,  infatti,  dopo  aver  affermato  che  con  la
sentenza  Grande  Stevens  e  altri  contro  Italia,  «appare  chiaro
l'orientamento dei giudici di Strasburgo di rimproverare agli  organi
giurisdizionali la mancata disapplicazione [sic] di un principio  (ne
bis in idem) che il legislatore nazionale ha  introdotto  in  materia
penale ma non nei rapporti  tra  sanzione  amministrativa  di  natura
penale e sanzione penale» e che il principio  affermato  dalla  Corte
europea sarebbe «bidirezionale»  -  nel  senso  che  esso  troverebbe
applicazione sia  nel  caso  di  sanzione  amministrativa  precedente
quella penale, sia  nel  caso  inverso,  come  quello  occorso  nella
specie, nel quale il giudizio penale si e' esaurito prima  di  quello
amministrativo ancora sub iudice - la sezione tributaria della  Corte
di cassazione ritiene di dover sollevare la questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998,
in quanto «non appare conforme  ai  principi  sovranazionali  sanciti
dalla  CEDU  la  previsione  del  doppio  binario  e,  quindi,  della
cumulabilita' tra sanzione  penale  e  amministrativa,  applicata  in
processi diversi». 
    L'ordinanza prosegue osservando che occorrerebbe, «verificare  se
la obbligatorieta' delle sanzioni amministrative  nel  sistema  degli
illeciti di market abuse sia configgente col sistema del c.d. divieto
del ne bis  in  idem,  allorche'  venga  preliminarmente  emessa  una
sanzione penale e  se,  eventualmente,  quest'ultima,  a  prescindere
dalla sua afflittivita' e proporzionalita',  in  relazione  al  fatto
commesso,   sia   preclusiva   alla   comminatoria   della   sanzione
amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto  al  fine  della
successiva comminatoria della sanzione  amministrativa»,  cio'  anche
alla luce della direttiva europea n. 2003/6/CE che impone agli  Stati
membri di prevedere sanzioni amministrative effettive,  proporzionate
e dissuasive e del  sistema  previsto  dagli  artt.  187-duodecies  e
187-terdecies del  d.lgs.  n.  58  del  1998  che  impongono  di  non
sospendere i procedimenti amministrativi per abusi di mercato pur  in
pendenza del procedimento penale per i  medesimi  fatti,  stabilendo,
poi, che la esazione della pena pecuniaria eventualmente inflitta  in
sede  penale  sia  limitata  alla  parte  eccedente  quella  riscossa
dall'autorita' amministrativa. 
    In tal modo, la Corte rimettente non scioglie i  dubbi  che  essa
stessa formula quanto alla compatibilita' tra la giurisprudenza della
Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  e  i  principi  del  diritto
dell'Unione europea - sia in ordine alla eventuale  non  applicazione
della  normativa   interna,   sia   sul   possibile   contrasto   tra
l'interpretazione del principio del ne bis in  idem  prescelta  dalla
Corte   europea   dei   diritti   dell'uomo   e    quella    adottata
nell'ordinamento dell'Unione europea,  anche  in  considerazione  dei
principi  delle  direttive  europee  che  impongono   di   verificare
l'effettivita',  l'adeguatezza  e  la  dissuasivita'  delle  sanzioni
residue - dubbi che dovevano invece essere  superati  e  risolti  per
ritenere  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la  questione
sollevata. 
    Tali perplessita' e la formulazione dubitativa della  motivazione
si riflettono, poi, sull'oscurita' e incertezza del petitum, giacche'
il rimettente finisce  per  non  chiarire  adeguatamente  la  portata
dell'intervento  richiesto  a  questa  Corte,  cio'  che  costituisce
ulteriore ragione di inammissibilita' della questione sollevata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1, del decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni  in  materia  di
intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli  8  e  21  della
legge 6 febbraio 1996, n. 52) e dell'art. 649 del codice di procedura
penale, sollevate, per violazione dell'art. 117, primo  comma,  della
Costituzione, in relazione  all'art.  4  del  Protocollo  n.  7  alla
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo  il  22  novembre  1984,
ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98,  dalla
quinta sezione penale della  Corte  di  cassazione,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998,
sollevata, per violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7  alla  CEDU,  dalla  sezione
tributaria della Corte di cassazione,  con  l'ordinanza  indicata  in
epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2016. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
            Giorgio LATTANZI e Marta CARTABIA, Redattori 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2016. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA