N. 111 SENTENZA 5 aprile - 12 maggio 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Previdenza - Disciplina  intertemporale  del  collocamento  a  riposo
  delle impiegate pubbliche. 
- Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per  la
  crescita, l'equita' e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici)  -
  convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214
  -  art. 24, comma 3, primo periodo, come interpretato dall'art.  2,
  comma 4, del decreto-legge 31 agosto  2013,  n.  101  (Disposizioni
  urgenti per il  perseguimento  di  obiettivi  di  razionalizzazione
  nelle pubbliche amministrazioni),  convertito,  con  modificazioni,
  dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125; legge 8 agosto  1995,  n.  335
  (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio  e  complementare),
  art. 2, comma 21, in combinato disposto. 
-   
(GU n.20 del 17-5-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
  MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria
  de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale   del   combinato
disposto dell'art. 24, comma 3, primo periodo,  del  decreto-legge  6
dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,
l'equita' e il consolidamento dei conti  pubblici),  convertito,  con
modificazioni,  dalla  legge  22  dicembre   2011,   n.   214,   come
interpretato dall'art. 2, comma 4, del decreto-legge 31 agosto  2013,
n. 101 (Disposizioni urgenti per il  perseguimento  di  obiettivi  di
razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125,  e  dell'art.  2,
comma 21, della legge 8 agosto 1995,  n.  335  (Riforma  del  sistema
pensionistico obbligatorio e complementare), promosso  dal  Tribunale
ordinario di Roma, nel procedimento vertente tra A. C. e il Ministero
dei beni e delle attivita' culturali e del turismo, con ordinanza del
7 aprile 2016, iscritta al n.  207  del  registro  ordinanze  2016  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  42,  prima
serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  5  aprile  2017  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica e
in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 7  aprile  2016,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11,  37,  primo  comma,  e
117, primo comma, della Costituzione - l'art. 11 Cost.  in  relazione
all'art.  141  (recte:  art.  157)  del  Trattato  sul  funzionamento
dell'Unione europea (TFUE) e all'art.  21  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) e l'art. 117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 2 della  direttiva  5  luglio  2006,  n.
2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
riguardante l'attuazione del  principio  delle  pari  opportunita'  e
della parita' di  trattamento  fra  uomini  e  donne  in  materia  di
occupazione  e  impiego  (rifusione)»  -  questioni  di  legittimita'
costituzionale del combinato disposto dell'art. 24, comma  3  (recte:
24, comma 3, primo periodo), del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.
201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,   l'equita'   e   il
consolidamento dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall'art.  2,
comma 4, del decreto-legge  31  agosto  2013,  n.  101  (Disposizioni
urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione  nelle
pubbliche  amministrazioni),  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell'art. 2, comma 21, della legge 8
agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare), «nella misura in cui detto combinato disposto  impone
il collocamento a riposo al raggiungimento del 65° anno di eta' delle
impiegate che abbiano maturato i requisiti per il conseguimento della
pensione con il raggiungimento del 61° anno di eta' e di  venti  anni
di  contribuzione  alla  data  del  31  dicembre  2011,  laddove  gli
impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa,  sono
collocati a riposo al raggiungimento  dell'eta'  di  66  anni  e  tre
mesi/sette mesi». 
    1.1.- Il Tribunale rimettente riferisce in punto  di  fatto  che,
con ricorso depositato il 7 maggio 2015, la ricorrente A. C., nata il
28 gennaio 1950, esponeva di avere prestato servizio alle  dipendenze
del Ministero dei beni e delle attivita' culturali e del turismo, con
incarico di funzionario bibliotecario e che, con provvedimento del 17
dicembre 2014, detto Ministero aveva disposto il suo  collocamento  a
riposo  dal  1°  febbraio  2015,  nonostante  ella  avesse  diffidato
l'amministrazione a trattenerla in servizio  fino  al  raggiungimento
dell'eta' di sessantasei anni e tre mesi; sosteneva che,  non  avendo
maturato, alla data del 31 dicembre 2011, alcuno dei requisiti per il
pensionamento  dei  dipendenti  pubblici,  aveva  diritto,  a   norma
dell'art. 24 del  decreto-legge  n.  201  del  2011,  a  rimanere  in
servizio fino al compimento dell'eta' di sessantasei anni e tre mesi,
come previsto, per tutti i dipendenti, a  decorrere  dal  1°  gennaio
2012; chiedeva pertanto che fosse  accertato  il  proprio  diritto  a
essere trattenuta in servizio fino  al  raggiungimento  dell'eta'  di
sessantasei anni e tre mesi e  che,  conseguentemente,  il  convenuto
Ministero dei beni e delle attivita' culturali e  del  turismo  fosse
condannato a trattenerla in servizio e, per l'effetto, a reintegrarla
nell'incarico di  funzionario  bibliotecario.  Lo  stesso  rimettente
riferisce altresi' che  il  Ministero  dei  beni  e  delle  attivita'
culturali e del turismo si era costituito in giudizio il  30  ottobre
2015, sostenendo che la ricorrente non rientrasse tra i soggetti  che
maturano i requisiti per il pensionamento a decorrere dal 1°  gennaio
2012, giacche' la stessa, alla data  del  31  dicembre  2011,  avendo
trentatre' anni e due mesi di contribuzione  e  avendo  raggiunto  il
sessantunesimo anno di eta', aveva gia' maturato i requisiti  per  il
pensionamento di anzianita'. 
    1.2.-  Il  rimettente  ricostruisce  poi  il   complesso   quadro
normativo in cui le disposizioni censurate si inseriscono. 
    1.2.1.- Il  Tribunale  ordinario  di  Roma  espone  anzitutto  la
normativa   dettata,   nel   regime    dell'assicurazione    generale
obbligatoria e per le forme di previdenza sostitutive ed esclusive di
tale assicurazione, in tema di eta' e  di  requisiti  assicurativi  e
contributivi per il pensionamento di vecchiaia. 
    Quanto all'eta', l'art. 1, comma 1, del  decreto  legislativo  30
dicembre 1992,  n.  503  (Norme  per  il  riordinamento  del  sistema
previdenziale  dei   lavoratori   privati   e   pubblici,   a   norma
dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), stabilisce  che
«Il diritto alla pensione di vecchiaia  a  carico  dell'assicurazione
generale obbligatoria per l'invalidita', la vecchiaia ed i superstiti
dei lavoratori dipendenti  e'  subordinato  al  compimento  dell'eta'
indicata, per ciascun periodo, nella  tabella  A  allegata»;  tabella
che, come sostituta, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della  legge  23
dicembre 1994, n. 724  (Misure  di  razionalizzazione  della  finanza
pubblica), dalla tabella A allegata a tale legge, a decorrere dal  1°
gennaio 2000,  fissava  l'eta'  richiesta  per  il  pensionamento  di
vecchiaia in 65 anni per gli uomini e in 60 anni per le donne. Quanto
ai requisiti assicurativi e contributivi,  l'art.  2,  comma  1,  del
d.lgs. n. 503 del 1992 stabilisce che «Nel regime  dell'assicurazione
generale obbligatoria per i lavoratori  dipendenti  ed  i  lavoratori
autonomi il diritto alla pensione di vecchiaia e' riconosciuto quando
siano trascorsi almeno venti anni  dall'inizio  dell'assicurazione  e
risultino versati o  accreditati  in  favore  dell'assicurato  almeno
venti anni di contribuzione,  fermi  restando  i  requisiti  previsti
dalla previgente normativa per le pensioni ai superstiti». 
    Tale regime dell'assicurazione  generale  obbligatoria  e'  stato
esteso, dagli artt. 5, comma 1, e 6, comma 1, dello stesso d.lgs.  n.
503 del 1992, anche  alle  forme  di  previdenza  diverse  da  quella
generale per i lavoratori subordinati privati e, quindi,  anche  alla
previdenza dei dipendenti pubblici. 
    1.2.2.- Il rimettente richiama poi  l'art.  2,  comma  21,  della
legge n. 335 del 1995, nel suo testo originario - secondo  cui,  «Con
effetto dal 1°(gradi) gennaio  1996,  le  lavoratrici  iscritte  alle
forme  esclusive   dell'assicurazione   generale   obbligatoria   per
l'invalidita',  la  vecchiaia  e  i  superstiti  al  compimento   del
sessantesimo  anno  di  eta',  possono  conseguire   il   trattamento
pensionistico secondo le regole previste dai singoli  ordinamenti  di
appartenenza  per  il  pensionamento  di  vecchiaia  ovvero  per   il
collocamento a riposo per raggiunti limiti di eta'» - osservando come
tale  disposizione  non   avesse   modificato   la   disciplina   del
collocamento a riposo per raggiunti limiti di eta', previsto, per gli
impiegati, dall'art. 4, comma 1, del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione  del  testo  unico
delle norme sul trattamento di quiescenza  dei  dipendenti  civili  e
militari dello Stato), al compimento del sessantacinquesimo  anno  di
eta', senza distinzione tra uomini e donne. 
    1.2.3.- Il giudice a quo afferma quindi che le  impiegate,  fermo
restando il loro collocamento a riposo al  raggiungimento  del  detto
limite massimo di sessantacinque anni di eta', avevano  la  facolta',
purche'  avessero  maturato  anche   i   requisiti   assicurativo   e
contributivo ventennali,  di  accedere,  a  domanda,  al  trattamento
pensionistico di vecchiaia al compimento  del  sessantesimo  anno  di
eta'. 
    1.2.4.- Tanto esposto, il Tribunale ordinario  di  Roma  passa  a
esaminare la sentenza della Corte di giustizia 13 novembre  2008,  in
causa C-46/07, Commissione delle Comunita' europee contro  Repubblica
italiana, nonche' le misure successivamente adottate dal  legislatore
al fine di adeguare l'ordinamento italiano a tale pronuncia. 
    Il rimettente rammenta che la  citata  sentenza  della  Corte  di
giustizia aveva statuito che la normativa  italiana  in  forza  della
quale i dipendenti pubblici avevano diritto a percepire  la  pensione
di vecchiaia a eta' diverse, a seconda che fossero  uomini  o  donne,
violava l'art. 141 del Trattato che istituisce la  Comunita'  europea
(TCE), secondo cui «Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del
principio della parita'  di  retribuzione  tra  lavoratori  di  sesso
maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o  per  un
lavoro di pari valore» (comma 1). 
    Il giudice a quo  ricorda  quindi  che,  al  dichiarato  fine  di
attuare tale sentenza, l'art. 22-ter, comma 1, del  decreto-legge  1°
luglio 2009, n.  78  (Provvedimenti  anticrisi,  nonche'  proroga  di
termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3  agosto  2009,
n. 102, nell'intento  di  introdurre  un  meccanismo  di  progressivo
adeguamento dell'eta' pensionabile delle donne a quella degli uomini,
aveva aggiunto alcuni periodi al citato art. 2, comma 21, della legge
n. 335 del 1995. 
    Poiche', peraltro,  la  Commissione  aveva  sollecitato  un  piu'
rapido  adeguamento  alla  sentenza  della  Corte  di  giustizia,  il
legislatore intervenne nuovamente con  l'art.  12,  comma  12-sexies,
lettera a), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78  (Misure  urgenti
in  materia  di  stabilizzazione  finanziaria  e  di   competitivita'
economica), convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  30  luglio
2010, n. 122, con cui, sostituendo il comma 1  dell'art.  22-ter  del
decreto-legge n. 78 del 2009, fu prevista la parificazione  dell'eta'
pensionabile delle donne a quella degli uomini dal 1° gennaio 2012. A
seguito di tale ulteriore intervento normativo, l'art. 2,  comma  21,
della legge n. 335 del 1995, dispone attualmente:  «Con  effetto  dal
1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle forme  esclusive
dell'assicurazione  generale  obbligatoria  per   l'invalidita',   la
vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di eta',
possono conseguire il trattamento  pensionistico  secondo  le  regole
previste dai singoli ordinamenti di appartenenza per il pensionamento
di vecchiaia ovvero per il collocamento a riposo per raggiunti limiti
di eta'. A decorrere dal 1º gennaio 2010, per le predette lavoratrici
il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo periodo  del
presente comma e il requisito anagrafico  di  sessanta  anni  di  cui
all'articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto  2004,  n.
243, e successive modificazioni, sono incrementati di un  anno.  Tali
requisiti anagrafici sono ulteriormente incrementati di quattro  anni
dal  1º  gennaio  2012  ai  fini  del  raggiungimento  dell'eta'   di
sessantacinque anni. Restano ferme la disciplina vigente  in  materia
di decorrenza del trattamento pensionistico e le disposizioni vigenti
relative a specifici ordinamenti che prevedono  requisiti  anagrafici
piu' elevati, nonche' le  disposizioni  di  cui  all'articolo  2  del
decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 165. Le lavoratrici di cui  al
presente comma, che abbiano maturato entro  il  31  dicembre  2009  i
requisiti di eta' e di anzianita' contributiva previsti alla predetta
data ai fini del diritto all'accesso al trattamento pensionistico  di
vecchiaia nonche' quelle che abbiano maturato entro  il  31  dicembre
2011 i requisiti di eta' e di anzianita' contributiva previsti  dalla
normativa vigente alla predetta  data,  conseguono  il  diritto  alla
prestazione pensionistica secondo la  predetta  normativa  e  possono
chiedere all'ente di appartenenza la certificazione di tale diritto». 
    1.2.5.- Il Tribunale ordinario di  Roma  prosegue  rappresentando
che  sul  descritto  quadro  normativo  si  e'  innestata  la   nuova
disciplina dei trattamenti pensionistici  dettata  dall'art.  24  del
decreto-legge n. 201 del 2011, che ha previsto  un  generale  aumento
dell'eta'  pensionabile  da  sessantacinque  a  sessantasei  anni   a
decorrere dal 1° gennaio 2012 e  che  ha  eliminato  le  pensioni  di
vecchiaia anticipata e di anzianita'. 
    Il rimettente cita in particolare i commi 3, 6, lettera c), e  14
del detto art. 24. 
    In particolare, il comma 3 dispone che «Il lavoratore che  maturi
entro il 31 dicembre  2011  i  requisiti  di  eta'  e  di  anzianita'
contributiva, previsti dalla normativa vigente, prima della  data  di
entrata  in  vigore  del  presente  decreto,  ai  fini  del   diritto
all'accesso  e  alla  decorrenza  del  trattamento  pensionistico  di
vecchiaia o di  anzianita',  consegue  il  diritto  alla  prestazione
pensionistica secondo tale normativa  e  puo'  chiedere  all'ente  di
appartenenza la certificazione  di  tale  diritto.  A  decorrere  dal
1°(gradi) gennaio 2012 e con riferimento ai soggetti che, nei  regimi
misto e contributivo, maturano i requisiti a partire  dalla  medesima
data,  le  pensioni  di  vecchiaia,  di  vecchiaia  anticipata  e  di
anzianita' sono sostituite dalle seguenti prestazioni:  a)  "pensione
di vecchiaia", conseguita esclusivamente sulla base dei requisiti  di
cui ai commi 6 e 7, salvo quanto stabilito ai commi 14, 15-bis e  18;
b) "pensione anticipata", conseguita esclusivamente  sulla  base  dei
requisiti di cui ai commi 10 e 11, salvo quanto  stabilito  ai  commi
14, 15-bis, 17 e 18». Il comma 14 conferma che  «Le  disposizioni  in
materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze  vigenti
prima della data di entrata in vigore del presente decreto continuano
ad applicarsi ai soggetti  che  maturano  i  requisiti  entro  il  31
dicembre  2011».  Il  comma  6,  lettera  c),  infine,  prevede   che
«Relativamente ai soggetti di cui al comma 5  [cioe'  coloro  che,  a
decorrere  dal  1°  gennaio  2012,  maturano  i  requisiti   per   il
pensionamento secondo la nuova disciplina dettata dai commi da 6 a 11
dello stesso art. 24], al fine di conseguire una convergenza verso un
requisito uniforme per il conseguimento del  diritto  al  trattamento
pensionistico di vecchiaia  tra  uomini  e  donne  e  tra  lavoratori
dipendenti e lavoratori autonomi, a decorrere dal  1°(gradi)  gennaio
2012 i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione di  vecchiaia
sono ridefiniti nei termini di  seguito  indicati:  [...]  c)  per  i
lavoratori  dipendenti  e  per  le  lavoratrici  dipendenti  di   cui
all'articolo 22-ter, comma  1,  del  decreto-legge  1°(gradi)  luglio
2009, n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009,
n. 102, e successive modificazioni e integrazioni, la cui pensione e'
liquidata a carico dell'assicurazione generale obbligatoria  e  delle
forme sostitutive ed esclusive della medesima il requisito anagrafico
di sessantacinque anni per l'accesso alla pensione di  vecchiaia  nel
sistema misto e il requisito anagrafico di sessantacinque anni di cui
all'articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto  2004,  n.
243, e successive modificazioni, e' determinato  in  66  anni»  (eta'
successivamente aumentata, dal 1° gennaio 2013, a sessantasei anni  e
tre mesi e, dal 1° gennaio 2016, a sessantasei anni e sette mesi, dai
decreti direttoriali del  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze
emanati, ai sensi dell'art. 12, comma 12-bis, del decreto-legge n. 78
del 2010, rispettivamente, il 6 dicembre 2011 e il 16 dicembre 2014). 
    Il  rimettente  ricorda  infine  che,   essendo   insorti   dubbi
interpretativi circa le pensioni liquidabili sulla base dei requisiti
vigenti alla data del 31 dicembre 2011, il legislatore ha dettato  la
norma di interpretazione autentica di cui all'art. 2,  comma  4,  del
decreto-legge n. 101 del 2013, secondo cui «L'art. 24, comma 3, primo
periodo, del decreto-legge 6 dicembre 2011,  n.  201,  convertito  in
legge 22 dicembre 2011, n.  214,  si  interpreta  nel  senso  che  il
conseguimento da parte di un lavoratore  dipendente  delle  pubbliche
amministrazioni di un  qualsiasi  diritto  a  pensione  entro  il  31
dicembre 2011 comporta obbligatoriamente l'applicazione del regime di
accesso e delle decorrenze previgente rispetto all'entrata in  vigore
del predetto articolo 24». 
    1.3.- Tornando alla controversia sottoposta al proprio esame,  il
Tribunale ordinario di Roma osserva che la  ricorrente  A.  C.,  alla
data del 31 dicembre 2011, aveva gia'  compiuto  sessantuno  anni  di
eta'  e  aveva  altresi'  i  requisiti  assicurativi  e  contributivi
ventennali, avendo maturato - come indicato da entrambe le  parti  in
causa - trentatre' anni, due mesi e un giorno di anzianita'. 
    Ne deriva, sempre secondo il giudice a quo, che, in base all'art.
2, comma 21, della legge n. 335 del 1995 (come da  ultimo  modificato
dall'art. 12, comma 12-sexies, del decreto-legge  n.  78  del  2010),
«che stabilisce in 61 anni il limite per le dipendenti pubbliche  per
chiedere il trattamento di pensione di vecchiaia», nonche' in base al
combinato disposto degli artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 503 del 1992,  che
fissa in venti anni i requisiti minimi di anzianita'  assicurativa  e
contributiva per la stessa pensione, alla data del 31  dicembre  2011
la  ricorrente  aveva  gia'  maturato  il  diritto  di  chiedere   il
trattamento pensionistico di vecchiaia. 
    Ne conseguirebbe che la  ricorrente  doveva  essere  collocata  a
riposo d'ufficio al raggiungimento  del  sessantacinquesimo  anno  di
eta', a norma dell'art. 4 del d.P.R. n. 1092 del 1973, non  trovando,
per lei, applicazione le disposizioni di cui all'art. 24, commi  3  e
6, lettera c), secondo cui, dal 1°  gennaio  2012,  il  diritto  alla
pensione   di   vecchiaia   si   acquista   al   raggiungimento   del
sessantaseiesimo anno di eta'. 
    1.4.- In punto  di  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
ritiene che il «sistema  normativo  sopra  indicato»  faccia  sorgere
dubbi di legittimita' costituzionale in riferimento agli artt. 3, 11,
37, primo comma, e 117 Cost. 
    In effetti, considerato che l'art. 2, comma 4, del  decreto-legge
n. 101 del 2013 impone di interpretare  l'art.  24,  comma  3,  primo
periodo,  del  decreto-legge  n.  201  del  2011,  nel  senso  che  i
lavoratori dipendenti delle  pubbliche  amministrazioni  che  abbiano
conseguito un qualsiasi diritto a pensione entro il 31 dicembre  2011
«devono essere collocati a riposo entro il limite di  eta'  stabilito
dalle disposizioni previgenti, anche  se  lo  raggiungano  quando  e'
ormai in vigore il limite generale di 66  anni»,  il  detto  «sistema
normativo» determinerebbe una disparita' di trattamento tra uomini  e
donne rispetto alle condizioni di  lavoro  e  alla  retribuzione.  Il
giudice a quo osserva in proposito che  un  lavoratore  della  stessa
eta' e con la medesima anzianita' assicurativa e  contributiva  della
ricorrente, non avendo maturato, entro il 31 dicembre 2011, in quanto
uomo, alcun diritto  a  pensione,  non  sarebbe  collocato  a  riposo
d'ufficio al compimento del sessantacinquesimo anno di  eta'  -  come
invece la ricorrente - ma solo al compimento dell'eta' di sessantasei
anni e tre mesi, secondo la disciplina vigente nel febbraio del 2015,
epoca  del  collocamento  a  riposo  della  ricorrente,   ovvero   di
sessantasei anni e sette mesi, a  seguito  dell'ulteriore  incremento
operante dal 1° gennaio 2016. Ne  consegue  che  la  posizione  della
lavoratrice risulta deteriore rispetto a quella del lavoratore che si
trovi nelle medesime condizioni di eta' e di anzianita'  assicurativa
e contributiva, atteso che quest'ultimo potra' rimanere  in  servizio
per un anno e tre (o sette) mesi in piu' della prima,  continuando  a
percepire  la  retribuzione,  anziche'  il  (solitamente   inferiore)
trattamento pensionistico,  incrementando  posizione  contributiva  e
anzianita'  di  servizio,  con  il  conseguente   miglioramento   del
trattamento pensionistico, e percependo, al  termine  dell'attivita',
un  maggiore  trattamento  di  fine  rapporto,  senza  trascurare   i
possibili sviluppi di carriera nell'arco di tempo tra  il  compimento
del sessantacinquesimo anno di eta' e il collocamento a riposo. 
    1.4.1.- Il deteriore trattamento della  lavoratrice  rispetto  al
lavoratore   contrasterebbe,   anzitutto,   con   il   principio   di
eguaglianza, sancito dall'art. 3 Cost., in assenza di ragioni  idonee
a giustificare questa  disparita',  non  potendosi,  in  particolare,
considerare  tali  i  possibili  vantaggi  per  la  finanza  pubblica
derivanti da una  riduzione  del  personale  femminile,  collocato  a
riposo  prima  di  quello  maschile,  con  il  riconoscimento  di  un
trattamento pensionistico inferiore. 
    1.4.2.- La  normativa  censurata  lederebbe,  in  secondo  luogo,
l'art. 37, primo comma, Cost., esplicazione del generale principio di
cui all'art. 3 Cost. Tenuto anche  conto  di  quanto  ritenuto  dalla
Corte di giustizia nella menzionata sentenza del 13 novembre 2008, il
trattamento pensionistico dei dipendenti dello Stato  costituisce  un
regime «professionale» di previdenza sociale ed e', quindi,  soggetto
al  principio  della  parita'  di  trattamento   retributivo,   senza
distinzioni di sesso. Il rimettente ribadisce  quindi  che,  in  base
alla normativa censurata, «le donne che abbiano maturato i  requisiti
per poter fruire di pensione raggiungendo il 61° anno di  eta'  entro
il 31.12.2011, si trovano in posizione deteriore rispetto agli uomini
che abbiano raggiunto la medesima eta' entro lo stesso  termine,  non
potendo continuare a  lavorare  per  almeno  altri  quindici  mesi  e
perdendo quindi la relativa retribuzione con quanto ne consegue». 
    1.4.3.- Il censurato combinato disposto, ponendosi  in  contrasto
con disposizioni del diritto primario e derivato dell'Unione europea,
violerebbe infine gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. 
    Il   deteriore    trattamento    riservato    alle    lavoratrici
contrasterebbe, anzitutto, con il gia' citato art. 157 del TFUE. 
    Esso si porrebbe in contrasto, in secondo luogo,  con  l'art.  21
della  CDFUE,  secondo   cui   «E'   vietata   qualsiasi   forma   di
discriminazione fondata, in particolare,  sul  sesso,  la  razza,  il
colore della pelle o l'origine etnica o sociale,  le  caratteristiche
genetiche, la lingua, la religione o  le  convinzioni  personali,  le
opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una
minoranza nazionale,  il  patrimonio,  la  nascita,  la  disabilita',
l'eta' o l'orientamento sessuale» (comma 1). 
    Lo stesso combinato disposto colliderebbe, infine, con  l'art.  2
della  direttiva  n.  2006/54/CE,  che   considera   «discriminazione
diretta» una «situazione nella quale una  persona  e'  trattata  meno
favorevolmente in base al sesso di quanto un'altra persona  sia,  sia
stata o sarebbe trattata in una situazione analoga». Ribadisce ancora
il rimettente che cio' si verificherebbe nella  fattispecie,  in  cui
«un impiegato che si fosse trovato nelle medesime condizioni di  eta'
e di posizione  assicurativa  e  contributiva  della  ricorrente  non
sarebbe stato collocato a  riposo  ed  avrebbe  potuto  continuare  a
lavorare almeno per altri quindici mesi». 
    Il Tribunale rimettente afferma conclusivamente sul punto che  il
contrasto  con  principi  fondamentali  dell'ordinamento  dell'Unione
europea si traduce in una lesione dell'art. 11 Cost.,  in  quanto  la
normativa censurata «appare impedire o pregiudicare l'osservanza  del
Trattato in uno dei suoi principi essenziali,  quale  quello  di  non
discriminazione per ragioni di sesso», mentre  il  contrasto  con  la
direttiva n. 2006/54/CE si traduce  in  una  lesione  dell'art.  117,
primo comma, Cost. 
    1.5.- In punto  di  rilevanza,  il  rimettente  afferma  che  «la
questione [...] e' certamente  rilevante  poiche'  la  domanda  sulla
quale si deve giudicare trova ostacolo proprio  nella  normativa  che
impone il collocamento a riposo ad eta' inferiore a quella  stabilita
per gli uomini». 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  chiedendo  che  le  questioni  sollevate   siano   dichiarate
inammissibili o infondate. 
    2.1.-  La  difesa  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri
afferma, preliminarmente, che il giudice a quo avrebbe  «erroneamente
valutato positivamente il requisito della rilevanza». 
    Essa osserva che la ricorrente nel giudizio principale, alla data
del 31 dicembre 2011, aveva conseguito il diritto  alla  pensione  di
vecchiaia sulla base della normativa  vigente  prima  della  data  di
entrata in vigore del decreto-legge  n.  201  del  2011,  il  che  le
consentiva, con sua richiesta, di essere  collocata  a  riposo  «dopo
aver  "scontato"  la  finestra  mobile»  e  di  godere   dell'assegno
pensionistico di  vecchiaia  secondo  quanto  previsto  dalla  stessa
(previgente) normativa. 
    Tale condizione esclude  la  ricorrente  dall'applicazione  della
"nuova"  normativa,  modificativa  dei  requisiti  per  l'accesso  al
trattamento  pensionistico,  dettata  dall'art.  24,  comma  3,   del
decreto-legge n. 201 del 2011, non essendo configurabile,  alla  luce
di una  lettura  «complessiva»  dell'art.  24,  una  possibilita'  di
«opzione» del dipendente per il "vecchio" o per il "nuovo" regime. 
    Tanto precisato, l' Avvocatura generale dello Stato  osserva  che
la ricorrente nel giudizio a quo  e'  stata  collocata  a  riposo  al
raggiungimento del limite ordinamentale di permanenza in servizio del
compimento del sessantacinquesimo anno di eta' previsto  dall'art.  4
del d.P.R. n. 1092 del 1973 «in quanto aveva maturato il diritto alla
pensione di vecchiaia secondo la disciplina previgente  e  non  aveva
esercitato tale diritto a pensione a partire dal  compimento  dei  61
anni». 
    La stessa difesa sottolinea ancora come tale limite ordinamentale
sia stato richiamato dall'art. 24, comma 4, del decreto-legge n.  201
del 2011, anche nell'ambito della "nuova"  disciplina  e  «confermato
nella sua  valenza  di  limite».  Questa  conferma  comporta  che  il
dipendente  che  abbia  conseguito  un  diritto  alla  pensione,   al
raggiungimento del limite ordinamentale, «deve  essere  collocato  in
quiescenza, poiche' le  norme  non  consentono  la  prosecuzione  del
rapporto». 
    Tale disciplina, prosegue ancora la difesa dell'interveniente, e'
stata ribadita dall'art. 2, commi 4 e 5, del decreto-legge n. 101 del
2013. 
    La stessa difesa conclude sul punto affermando che la  ricorrente
nel giudizio principale e' stata collocata  a  riposo  per  raggiunti
limiti di eta'  al  compimento  del  sessantacinquesimo  anno  «senza
nessuna disparita' di  trattamento  rispetto  alle  stesse  posizioni
attribuite ai dipendenti di sesso maschile». 
    2.2.- Secondo l'Avvocatura  generale  dello  Stato  le  questioni
sarebbero, comunque, infondate. 
    2.2.1.- Essa afferma anzitutto che l'art. 24 del decreto-legge n.
201 del 2011 deve essere interpretato nel senso che, per i dipendenti
pubblici, il limite ordinamentale, previsto dai  singoli  settori  di
appartenenza per il collocamento a riposo d'ufficio  e  vigente  alla
data di entrata in vigore dello stesso decreto-legge n. 201 del 2011,
non e' stato modificato dall'elevazione dei requisiti anagrafici  per
la pensione di vecchiaia e costituisce un limite non  superabile,  se
non per il trattenimento in servizio o per consentire all'interessato
di conseguire la prima decorrenza utile della pensione ove  essa  non
sia immediata, al raggiungimento del quale l'amministrazione deve far
cessare il rapporto di lavoro  o  di  impiego  se  il  lavoratore  ha
conseguito,  a  qualsiasi  titolo,  i  requisiti  per  il  diritto  a
pensione. 
    La difesa del Presidente del Consiglio  dei  ministri  asserisce:
«Pertanto, il limite di eta' anagrafica per la permanenza in servizio
dei dipendenti pubblici previsto dagli ordinamenti di settore non  e'
modificato   dalla   riforma   c.d.   Fornero   con   il   meccanismo
dell'incremento a 66 anni e con le successive elevazioni, qualora  il
lavoratore  abbia  conseguito,  a  qualsiasi  titolo,   i   requisiti
contributivi minimi entro il limite di eta' anagrafico previsto dagli
ordinamenti vigenti nei vari settori per il diritto a  pensione  alla
data del 31.12.2011». La stessa difesa conclude sul punto  affermando
che, «[i]n altre parole, l'elevazione del limite a 66 anni non e' ne'
fine a se stessa ne' assoluta e, quindi, assume  rilievo  decisivo  e
preponderante il raggiungimento del limite d'eta' ordinamentale». 
    2.2.2.- Con riguardo al  prospettato  contrasto  con  il  diritto
dell'Unione europea, l'Avvocatura generale dello Stato cita l'art. 7,
comma 1, lettera a), della direttiva 19 dicembre  1978,  n.  79/7/CEE
(Direttiva  del  Consiglio  relativa  alla  graduale  attuazione  del
principio di parita' di trattamento tra gli  uomini  e  le  donne  in
materia di sicurezza  sociale),  nonche'  l'interpretazione  di  tale
disposizione fatta propria dalla sentenza della Corte di giustizia  7
luglio 1992, in causa C-9/91, The Queen contro Secretary of State for
Social Security. 
    Ad avviso dell'Avvocatura  generale  dello  Stato,  non  sarebbe,
infine, condivisibile, la tesi del rimettente secondo cui, in base al
diritto dell'Unione europea, il regime pensionistico  dei  lavoratori
del   pubblico   impiego   italiano   dovrebbe   qualificarsi    come
«professionale». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione  di  giudice  del
lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo  comma,  e
117, primo comma, della Costituzione - l'art. 11 Cost.  in  relazione
all'art.  141  (recte:  art.  157)  del  Trattato  sul  funzionamento
dell'Unione europea (TFUE) e all'art.  21  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) e l'art. 117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 2 della  direttiva  5  luglio  2006,  n.
2006/54/CE, recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
riguardante l'attuazione del  principio  delle  pari  opportunita'  e
della parita' di  trattamento  fra  uomini  e  donne  in  materia  di
occupazione   e   impiego   (rifusione)»   -    della    legittimita'
costituzionale del combinato disposto dell'art. 24, comma  3  (recte:
24, comma 3, primo periodo), del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.
201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,   l'equita'   e   il
consolidamento dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come interpretato dall'art.  2,
comma 4, del decreto-legge  31  agosto  2013,  n.  101  (Disposizioni
urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione  nelle
pubbliche  amministrazioni),  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 30 ottobre 2013, n. 125, e dell'art. 2, comma 21, della legge 8
agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare). 
    La prima di tali disposizioni individua  i  lavoratori  per  cui,
ratione   temporis,   resta   applicabile   la   normativa    vigente
anteriormente alla  riforma  dei  trattamenti  pensionistici  dettata
dall'art.  24  del  d.l.  n.  201   del   2011.   La   seconda,   con
interpretazione  autentica   della   prima,   chiarisce   il   regime
intertemporale applicabile, specificamente, ai lavoratori  dipendenti
delle pubbliche amministrazioni.  La  terza  determina  la  normativa
vigente prima della citata riforma,  con  riguardo  alle  lavoratrici
iscritte al  regime  esclusivo  della  previdenza  per  i  dipendenti
pubblici. Queste disposizioni stabiliscono, in particolare, che:  «Il
lavoratore che maturi entro il 31 dicembre 2011 i requisiti di eta' e
di anzianita' contributiva, previsti dalla normativa  vigente,  prima
della data di entrata in vigore del presente  decreto,  ai  fini  del
diritto all'accesso e alla decorrenza del  trattamento  pensionistico
di vecchiaia o di anzianita', consegue il  diritto  alla  prestazione
pensionistica secondo tale normativa  e  puo'  chiedere  all'ente  di
appartenenza la certificazione di tale diritto» (art.  24,  comma  3,
primo periodo, del d.l. n.  201  del  2011).  Tale  disposizione  «si
interpreta nel senso che il conseguimento da parte di  un  lavoratore
dipendente delle pubbliche amministrazioni di un qualsiasi diritto  a
pensione  entro  il  31  dicembre  2011  comporta   obbligatoriamente
l'applicazione del regime di accesso e  delle  decorrenze  previgente
rispetto all'entrata in vigore del predetto  articolo  24»  (art.  2,
comma 4,  del  decreto-legge  n.  101  del  2013.  «Con  effetto  dal
1°(gradi) gennaio 1996, le lavoratrici iscritte alle forme  esclusive
dell'assicurazione  generale  obbligatoria  per   l'invalidita',   la
vecchiaia e i superstiti al compimento del sessantesimo anno di eta',
possono conseguire il trattamento  pensionistico  secondo  le  regole
previste dai singoli ordinamenti di appartenenza per il pensionamento
di vecchiaia ovvero per il collocamento a riposo per raggiunti limiti
di eta'. A decorrere dal 1º gennaio 2010, per le predette lavoratrici
il requisito anagrafico di sessanta anni di cui al primo periodo  del
presente comma e il requisito anagrafico  di  sessanta  anni  di  cui
all'articolo 1, comma 6, lettera b), della legge 23 agosto  2004,  n.
243, e successive modificazioni, sono incrementati di un anno. [...]»
(art. 2, comma 21, della legge n. 335 del 1995). 
    Per comprendere le ragioni delle  doglianze  del  rimettente,  e'
necessario anzitutto evidenziare tre presupposti. Il primo e' che, ai
sensi dell'art. 24, comma 3, primo periodo, del d.l. n. 201 del 2011,
l'applicazione   della   normativa   pensionistica   vigente    prima
dell'entrata in vigore di tale decreto - in luogo di  quella  "nuova"
da esso introdotta - dipende dal fatto che  il  lavoratore  maturi  i
requisiti di eta' e di anzianita' contributiva previsti dalla  stessa
previgente normativa ai fini  dell'accesso  e  della  decorrenza  del
trattamento pensionistico entro il 31 dicembre 2011.  Il  secondo  e'
che, ai sensi della disposizione di interpretazione autentica di  cui
all'art. 2, comma 4, del d.l. n. 101 del 2013,  l'applicazione  della
previgente normativa e' obbligatoria  nei  confronti  dei  dipendenti
delle pubbliche amministrazioni che,  alla  menzionata  data  del  31
dicembre 2011, abbiano conseguito un qualsiasi diritto a pensione. Il
terzo presupposto e' che, a norma dell'art. 2, comma 21, della  legge
n. 335 del 1995, alla stessa data del 31 dicembre 2011, i  lavoratori
di sesso femminile del settore pubblico conseguivano il diritto  alla
pensione di vecchiaia all'eta'  di  sessantuno  anni,  a  fronte  dei
sessantacinque anni di eta'  richiesti  per  il  conseguimento  della
stessa pensione da parte dei lavoratori di sesso maschile. 
    Muovendo da questi presupposti, il Tribunale  ordinario  di  Roma
osserva che, in presenza dei requisiti di anzianita'  assicurativa  e
contributiva per l'accesso a tale  pensione,  mentre  alle  impiegate
pubbliche che abbiano raggiunto l'eta' di sessantuno anni entro il 31
dicembre 2011, avendo esse conseguito il  diritto  alla  pensione  di
vecchiaia, si applica obbligatoriamente la  normativa  vigente  prima
dell'entrata in vigore del d.l.  n.  201  del  2011,  agli  impiegati
pubblici di sesso maschile della stessa eta'  -  i  quali  non  hanno
maturato,  entro  la  stessa  data,  il   requisito   di   eta'   (di
sessantacinque anni) per l'accesso al medesimo diritto - si  applica,
invece, la "nuova" disciplina dell'art. 24 del d.l. n. 101 del  2011.
Da cio' discendono le doglianze del rimettente. Mentre  le  impiegate
pubbliche, in applicazione della normativa vigente prima dell'entrata
in vigore del d.l. n. 201 del  2011,  in  particolare,  della  regola
"ordinamentale" di  cui  all'art.  4,  primo  comma,  del  d.P.R.  29
dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme  sul
trattamento di quiescenza dei  dipendenti  civili  e  militari  dello
Stato),  devono  essere  collocate  a  riposo  «al   compimento   del
sessantacinquesimo anno di eta'», gli  impiegati  pubblici  di  sesso
maschile che si trovino in una situazione  analoga,  in  applicazione
della  "nuova"  normativa  pensionistica,  sono  invece  collocati  a
riposo, sempre secondo il rimettente, all'eta'  di  sessantasei  anni
(successivamente elevata a sessantasei anni e tre  mesi  a  decorrere
dal 1° gennaio 2013 e a sessantasei anni e sette mesi a decorrere dal
1° gennaio 2016). 
    Ad avviso del giudice a quo, la normativa denunciata viola dunque
gli  invocati  parametri  «nella  misura  in  cui  [...]  impone   il
collocamento a riposo al raggiungimento del 65° anno  di  eta'  delle
impiegate che abbiano maturato i requisiti per il conseguimento della
pensione con il raggiungimento del 61° anno di eta' e di  venti  anni
di  contribuzione  alla  data  del  31  dicembre  2011,  laddove  gli
impiegati, che si trovino nella medesima condizione lavorativa,  sono
collocati a riposo al raggiungimento  dell'eta'  di  66  anni  e  tre
mesi/sette mesi». 
    In  considerazione  del  ritenuto  deteriore  trattamento   delle
impiegate  pubbliche  rispetto  agli  impiegati  pubblici  di   sesso
maschile riguardo all'eta' del collocamento a  riposo,  il  Tribunale
rimettente   prospetta   la   violazione   di    quattro    parametri
costituzionali. La normativa censurata lederebbe: l'art. 3 Cost., che
sancisce il principio  dell'eguaglianza  davanti  alla  legge,  senza
distinzione di sesso; l'art. 37, primo comma, Cost.,  che  stabilisce
il principio della parita' di  retribuzione,  a  parita'  di  lavoro,
della donna lavoratrice rispetto  al  lavoratore;  l'art.  11  Cost.,
stante il contrasto sia con l'art. 157 TFUE,  secondo  cui  «Ciascuno
Stato membro assicura l'applicazione del principio della  parita'  di
retribuzione tra lavoratori di  sesso  maschile  e  quelli  di  sesso
femminile per uno stesso lavoro o  per  un  lavoro  di  pari  valore»
(comma 1), sia con l'art. 21 CDFUE, che  vieta  «qualsiasi  forma  di
discriminazione fondata, in  particolare,  sul  sesso»;  l'art.  117,
primo comma, Cost., atteso il contrasto con l'art. 2 della  direttiva
n. 2006/54/CE, la'  dove  definisce  «discriminazione  diretta»,  una
«situazione nella quale una persona e' trattata  meno  favorevolmente
in base al sesso di quanto un'altra persona sia, sia stata o  sarebbe
trattata in una situazione analoga» (comma 1, lettera a). 
    2.- Preliminarmente,  deve  essere  esaminata  l'eccezione  della
difesa del Presidente del  Consiglio  dei  ministri  secondo  cui  le
questioni  sollevate  sarebbero  inammissibili,  poiche'  il  giudice
rimettente avrebbe «erroneamente valutato positivamente il  requisito
della rilevanza». 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il rimettente riferisce di essere investito del ricorso  proposto
da un'impiegata del Ministero dei beni e delle attivita' culturali  e
del turismo che, alla data del 31 dicembre 2011, aveva gia'  maturato
i requisiti di eta' e di anzianita' assicurativa e  contributiva  per
la pensione di vecchiaia, e che la stessa  lavoratrice,  collocata  a
riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di eta', ha  chiesto
l'accertamento del suo diritto a rimanere in servizio  fino  all'eta'
di sessantasei anni e tre mesi corrispondente alla superiore eta' che
sarebbe prevista per il collocamento  a  riposo  degli  impiegati  di
sesso maschile con la stessa eta' anagrafica e le  stesse  anzianita'
assicurativa e contributiva. 
    Lo stesso giudice a quo  afferma  poi  che  l'accoglimento  della
domanda trova ostacolo nelle disposizioni impugnate, che impongono il
collocamento a riposo della  ricorrente  all'eta'  di  sessantacinque
anni. 
    A quest'ultimo proposito, alla luce del tenore letterale di  tali
disposizioni, non risulta implausibile la valutazione del  rimettente
secondo cui, proprio in ragione del combinato disposto delle  stesse,
la ricorrente nel giudizio a quo, avendo maturato, alla data  del  31
dicembre 2011, i requisiti di eta' e  di  anzianita'  assicurativa  e
contributiva per la pensione di  vecchiaia  -  e  non  avendo  ancora
esercitato il diritto a tale  pensione  -  deve  essere  collocata  a
riposo  secondo  le  regole  previste  dal  proprio  ordinamento   di
appartenenza e, quindi, ai sensi dell'art. 4, primo comma, del d.P.R.
n. 1092 del 1973, all'eta' di sessantacinque  anni.  Da  cio'  deriva
l'impossibilita' di accogliere la sua domanda di rimanere in servizio
fino all'eta' di sessantasei anni e tre mesi, prevista,  in  assunto,
per il collocamento a  riposo  di  un  impiegato  pubblico  di  sesso
maschile che si trovi in una situazione analoga. 
    Tenuto conto  della  giurisprudenza  di  questa  Corte  circa  la
sufficienza di una motivazione non implausibile sulla rilevanza  (tra
le piu' recenti, sentenze  n.  203,  n.  200  e  n.  133  del  2016),
l'eccezione   di   inammissibilita'   delle    questioni    sollevata
dall'Avvocatura generale dello Stato deve essere, quindi, rigettata. 
    3.- Le questioni sono tuttavia, inammissibili  per  i  motivi  di
seguito illustrati. E' preliminare la considerazione del fatto che il
rimettente, nel sollevare le questioni relative alla violazione degli
artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ha prospettato il  contrasto  con
norme di diritto dell'Unione europea, alcune delle quali  sicuramente
provviste di efficacia diretta. 
    In particolare, il principio di parita' retributiva tra uomini  e
donne, incardinato nel Trattato di Roma  fin  dall'istituzione  della
Comunita' economica  europea  come  principio  fondante  del  mercato
comune nonche' come uno degli «scopi sociali della  Comunita',  [...]
che [...] non si limita all'unione economica»  (Corte  di  giustizia,
sentenza 8 aprile 1976, in causa C-43-75, Gabrielle  Defrenne  contro
Sabena, punti da 7 a 15), e' stato ritenuto  dalla  stessa  Corte  di
giustizia vincolante per i soggetti pubblici e privati, perche' volto
a impedire pratiche discriminatorie lesive della libera concorrenza e
dei diritti fondamentali dei lavoratori. L'efficacia diretta di  tale
principio, sancita con la citata sentenza  Defrenne  (punti  4/40)  e
ribadita  nel  corso  degli  anni  dalla  Corte  di  Lussemburgo  (ex
plurimis, sentenze: 27 marzo 1980, in  causa  129/79,  Macarthys  LTD
contro Wendy Smith, punto 10; 31 marzo 1981,  in  causa  96/80,  J.P.
Jenkins contro Kingsgate LTD, punti da 16 a 18; 7 febbraio  1991,  in
causa C-184/89, Helga Nimz contro Freie und Hansestadt Hamburg, punto
17), fa nascere per il giudice nazionale l'obbligo di  non  applicare
la norma di diritto interno confliggente con il diritto  europeo.  La
stessa Corte di giustizia  ha  altresi'  precisato  come  l'efficacia
diretta del principio della parita' di retribuzione non possa  essere
intaccata da alcuna normativa di attuazione,  sia  essa  nazionale  o
comunitaria (in tale senso, le citate sentenze Defrenne, punti 61/64,
e Jenkins, punto 22). 
    Questo principio  e'  stato  poi  corroborato  dall'evolvere  del
quadro normativo: l'Unione «promuove» la parita' tra donne  e  uomini
(art. 3, comma 3, del Trattato sull'Unione  europea)  e  conferma  un
tale impegno nelle sue «azioni» (art. 8 TFUE). 
    Anche  l'art.  21  della  CDFUE   vieta   «qualsiasi   forma   di
discriminazione fondata [...] sul  sesso»,  mentre  l'art.  23  della
stessa Carta dispone che «La parita' tra donne e uomini  deve  essere
assicurata in tutti i campi, compreso in materia di  occupazione,  di
lavoro e di retribuzione». Entrambe queste norme in tanto si  possono
richiamare in quanto si verta in una materia di attuazione, da  parte
dello  Stato,  del  diritto  dell'Unione,   secondo   le   rispettive
competenze (art. 51, comma 1, della medesima CDFUE). 
    Il giudice  rimettente,  ritenendo  che  la  normativa  censurata
contrasti con l'art. 157 del  TFUE,  anche  alla  luce  della  citata
giurisprudenza della Corte di giustizia che ha  riconosciuto  a  tale
norma efficacia diretta, avrebbe dovuto non applicare le disposizioni
in conflitto con il  principio  di  parita'  di  trattamento,  previo
ricorso,  se  del  caso,  al  rinvio  pregiudiziale,   ove   ritenuto
necessario, al fine di interrogare la  medesima  Corte  di  giustizia
sulla corretta  interpretazione  delle  pertinenti  disposizioni  del
diritto dell'Unione e, quindi, dirimere eventuali  residui  dubbi  in
ordine all'esistenza del conflitto (sentenze n. 226 del 2014, n.  267
del 2013, n. 86 e n. 75 del 2012, n. 227 e n. 28 del 2010, n. 284 del
2007; ordinanze n. 48 del 2017 e n. 207 del 2013).  Questo  percorso,
una  volta  imboccato,  avrebbe  reso  superflua   l'evocazione   del
contrasto con i parametri costituzionali  in  sede  di  incidente  di
legittimita'  costituzionale.  L'art.  157  del  TFUE,   direttamente
applicabile dal giudice  nazionale,  lo  vincola  all'osservanza  del
diritto europeo, rendendo inapplicabile nel  giudizio  principale  la
normativa  censurata  e,  percio',  irrilevanti  tutte  le  questioni
sollevate. 
    La non applicazione delle disposizioni di  diritto  interno,  non
equiparabile in alcun modo a ipotesi di abrogazione o di deroga,  ne'
a forme di caducazione o di annullamento per invalidita' delle stesse
(sentenza n. 389 del 1989), rientra, in effetti, tra gli obblighi del
giudice nazionale, vincolato all'osservanza del  diritto  dell'Unione
europea e alla garanzia dei diritti che lo stesso ha generato, con il
solo limite del rispetto dei principi  fondamentali  dell'ordinamento
costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. 
    4.- Si deve aggiungere che la complessita' della  materia,  cosi'
come emerge dalle disposizioni censurate e dal  quadro  normativo  in
cui esse si inseriscono, avrebbe potuto  tanto  piu'  indirizzare  il
giudice rimettente verso la strada del rinvio pregiudiziale, al  fine
di verificare l'effettiva incompatibilita'  della  normativa  interna
con il diritto a una effettiva parita' di trattamento tra  lavoratori
uomini e donne. 
    In tale prospettiva, anziche' muovere dall'assunto secondo cui il
limite di eta' per il collocamento a riposo degli impiegati pubblici,
a decorrere dal 1° gennaio 2012, sarebbe stato elevato  dall'art.  24
del decreto-legge n. 201 del 2011 a sessantasei anni,  il  giudice  a
quo  ben  avrebbe  potuto  considerare  che,  come  precisato   dalla
disposizione di interpretazione autentica di cui all'art. 2, comma 5,
del decreto-legge n. 101 del 2013, il detto limite di  eta'  continua
ad assestarsi, sia per gli uomini sia per le donne, al compimento del
sessantacinquesimo anno di  eta',  «limite  ordinamentale»  stabilito
dall'art. 4, primo comma,  del  d.P.R.  n.  1092  del  1973,  per  il
collocamento a riposo degli impiegati civili dello Stato. 
    Cio'  nonostante,  il  dipendente  pubblico  che,   raggiunti   i
sessantacinque anni, non abbia maturato i requisiti  di  eta'  (o  di
anzianita' contributiva) per conseguire  il  diritto  alla  pensione,
puo', secondo lo stesso art. 2, comma 5, del decreto-legge n. 101 del
2013,  chiedere  di  rimanere  in  servizio  anche  oltre  l'eta'  di
collocamento a riposo, fino al conseguimento del requisito anagrafico
per il diritto alla pensione di vecchiaia e, quindi, per i lavoratori
di sesso maschile che si trovino in una situazione analoga  a  quella
della ricorrente nel giudizio a quo,  fino  all'eta'  di  sessantasei
anni e tre mesi. 
    La coincidenza dell'estinzione del  rapporto  di  lavoro  con  la
diversa  eta'  pensionabile  di  uomini  e  donne  potrebbe   lasciar
intravvedere una discriminazione  a  danno  di  queste  ultime  e  un
potenziale contrasto con disposizioni di diritto dell'Unione  europea
(Corte di giustizia, sentenze 26 febbraio 1986, in causa 262/84, Vera
Mia Beets-Proper contro F. Van Lanschot Bankiers NV, punti  34-35,  e
18 novembre  2010,  in  causa  C-356/09,  Pensionversicherungsanstalt
contro Christine Kleist, punto 46). 
    Il diritto europeo secondario, in particolare,  la  direttiva  n.
2006/54/CE - che, in maniera riduttiva, il rimettente richiama per la
sola definizione di discriminazione diretta - specifica,  del  resto,
che nelle  disposizioni  contrarie  al  principio  della  parita'  di
trattamento sono da includere quelle che  si  basano  sul  sesso  per
«stabilire limiti di eta' differenti per il  collocamento  a  riposo»
(art. 9, comma 1, lettera f,  inserito  nel  Capo  2,  dedicato  alla
«Parita' di trattamento  nel  settore  dei  regimi  professionali  di
sicurezza  sociale»)  e  che  e'  vietata  qualsiasi  discriminazione
fondata  sul  sesso  per  quanto  attiene  «all'occupazione  e   alle
condizioni di lavoro, comprese le condizioni di  licenziamento  e  la
retribuzione come previsto dall'art.  141  del  trattato»  (art.  14,
comma 1, lettera c, inserito,  invece,  nel  Capo  3,  dedicato  alla
«Parita' di trattamento per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla
formazione  e  alla  promozione  professionali  e  le  condizioni  di
lavoro»). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale del combinato disposto dell'art. 24,  comma  3,  primo
periodo, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201  (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  22  dicembre
2011,  n.  214,  come  interpretato  dall'art.  2,   comma   4,   del
decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101  (Disposizioni  urgenti  per  il
perseguimento  di  obiettivi  di  razionalizzazione  nelle  pubbliche
amministrazioni),  convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  30
ottobre 2013, n. 125, e dell'art. 2, comma 21, della legge  8  agosto
1995, n.  335  (Riforma  del  sistema  pensionistico  obbligatorio  e
complementare),  sollevate  dal  Tribunale  ordinario  di  Roma,   in
riferimento agli artt. 3, 11, 37, primo comma, e  117,  primo  comma,
della Costituzione, agli artt. 11  e  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 157 del  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea, all'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea e all'art. 2 della direttiva 5 luglio  2006,  n.  2006/54/CE,
recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante
l'attuazione del principio delle pari opportunita' e della parita' di
trattamento fra uomini e donne in materia di  occupazione  e  impiego
(rifusione)», con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                     Silvana SCIARRA, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2017. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA