N. 33 SENTENZA 8 novembre 2017- 21 febbraio 2018

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Provvedimenti di contrasto alla criminalita' organizzata  -  Confisca
  c.d.  allargata  -  Applicazione  anche  nel  caso  di  condanna  o
  patteggiamento della pena per il delitto di ricettazione. 
- Decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306  (Modifiche  urgenti  al  nuovo
  codice di  procedura  penale  e  provvedimenti  di  contrasto  alla
  criminalita' mafiosa) - convertito, con modificazioni, in  legge  7
  agosto 1992, n. 356 - art. 12-sexies, comma 1. 
-   
(GU n.9 del 28-2-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
  MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria
  de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  12-sexies,
comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306  (Modifiche  urgenti
al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalita' mafiosa), convertito,  con  modificazioni,  in  legge  7
agosto 1992,  n.  356,  promosso  dalla  Corte  d'appello  di  Reggio
Calabria, nel procedimento a carico di R. V., con  ordinanza  del  17
marzo 2015,  iscritta  al  n.  154  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  34,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti l'atto di costituzione R. V., nonche' l'atto di  intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  7  novembre  2017  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    udito l'avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 17 marzo 2015, la Corte d'appello di Reggio
Calabria ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  12-sexies,  comma
1, del decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306  (Modifiche  urgenti  al
nuovo codice di procedura penale e provvedimenti  di  contrasto  alla
criminalita' mafiosa), convertito,  con  modificazioni,  in  legge  7
agosto 1992, n. 356,  nella  parte  in  cui  include  il  delitto  di
ricettazione tra quelli per i  quali,  nel  caso  di  condanna  o  di
applicazione  della  pena  ai  sensi  dell'art.  444  del  codice  di
procedura penale, e' sempre disposta la  speciale  confisca  prevista
dal medesimo art. 12-sexies. 
    La Corte rimettente riferisce che, con ordinanza depositata  l'11
dicembre  2013,  essa  Corte   d'appello,   in   veste   di   giudice
dell'esecuzione, aveva disposto, inaudita altera parte, la  confisca,
ai sensi della norma censurata,  di  vari  cespiti  mobiliari  (buoni
postali, titoli e un  libretto  postale),  intestati  a  una  persona
condannata con sentenza  irrevocabile  del  14  luglio  2009  per  il
delitto di ricettazione e a due suoi congiunti: cespiti il cui valore
(pari, nel complesso, ad oltre  170.000  euro)  appariva,  alla  luce
degli accertamenti svolti dalla polizia  giudiziaria,  sproporzionato
rispetto alla capacita' reddituale del condannato e  del  suo  nucleo
familiare (attestatasi, nel periodo compreso tra il 1990 e  il  2011,
attorno a una media di 12.000 euro anni lordi,  ossia  a  livelli  di
mera sussistenza). 
    Avverso il provvedimento avevano proposto  opposizione,  a  norma
degli artt. 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., il  condannato  e  i
terzi interessati, assumendo che i redditi  del  nucleo  familiare  -
ricostruiti in modo incompleto  dalla  polizia  giudiziaria,  essendo
rappresentati, per  una  considerevole  parte,  anche  da  poste  non
oggetto di dichiarazione fiscale  -  erano,  in  realta',  del  tutto
compatibili con la disponibilita' dei beni oggetto di confisca. 
    Cio' premesso, la  Corte  rimettente  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 12-sexies, comma 1,  del  d.l.  n.  306  del
1992, nella parte in cui riconnette la speciale misura ablativa anche
alla condanna (o al "patteggiamento") per il delitto di ricettazione. 
    La questione sarebbe rilevante  nel  giudizio  a  quo,  giacche',
anche riconoscendo «valenza implementativa» ad alcuni  degli  apporti
finanziari evidenziati dagli opponenti, non considerati dalla polizia
giudiziaria, il  provvedimento  opposto  dovrebbe  essere  confermato
«pressoche' integralmente». Le  deduzioni  difensive  risulterebbero,
infatti,  inidonee  a  sovvertire   la   valutazione   di   manifesta
sproporzione tra i flussi reddituali degli interessati  e  il  valore
dei beni confiscati (sostanzialmente, denaro contante): cio',  tenuto
conto anche del fatto che nel medesimo torno  di  tempo  erano  stati
operati dagli opponenti  consistenti  investimenti  immobiliari  (non
oggetto di confisca), atti ad erodere ulteriormente la loro capacita'
di risparmio. 
    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, la Corte  calabrese
osserva che, per far luogo alla  misura  ablativa  in  questione,  e'
necessario - ma anche sufficiente - che sussista una sproporzione tra
il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attivita'
economica  e  il  valore  dei  beni  di  cui  e'  titolare  o  ha  la
disponibilita', anche  per  interposta  persona,  e  che  non  venga,
altresi',  fornita  una  giustificazione  credibile  in  ordine  alla
provenienza dei beni stessi. Come chiarito dalle sezioni unite  della
Corte di cassazione con la sentenza 17 dicembre 2003-19 gennaio 2004,
n. 920, dirimendo un pregresso contrasto di  giurisprudenza,  non  e'
invece richiesta la dimostrazione che i beni da  confiscare  derivino
dal singolo reato per cui la condanna e' intervenuta, o da  una  piu'
ampia attivita' criminosa del  condannato;  ne',  d'altra  parte,  il
provvedimento ablativo resta escluso dal fatto che i beni siano stati
acquisiti in epoca anteriore o successiva al  reato  per  cui  si  e'
proceduto, o che il loro valore superi il provento di quest'ultimo. 
    Alla stregua di tale lettura  della  norma,  qualificabile  ormai
come  «ius  receptum»,  il  condannato  e  il  suo  nucleo  familiare
dovrebbero subire, nel caso di  specie,  l'ablazione  forzosa  di  un
cospicuo patrimonio mobiliare - che,  per  una  considerevole  parte,
potrebbe  anche  essere   frutto   dell'accaparramento   di   risorse
finanziarie provenienti dalla liquidazione di cespiti appartenenti ad
un affine premorto, in danno degli altri coeredi (punto sul quale  e'
mancata, peraltro, «un'autentica e piena allegazione difensiva») - in
ragione di  un'unica  condanna  definitiva  per  la  ricettazione  di
un'autovettura, commessa in epoca prossima alla  data  del  furto  (8
aprile 2003) e accertata il 31 agosto 2004. 
    Occorrerebbe considerare, tuttavia, che l'istituto si basa  sulla
presunzione  che  le  risorse  economiche,   sproporzionate   e   non
giustificate,   rinvenute   in   capo    al    condannato    derivino
dall'accumulazione di illecita  ricchezza  che  talune  categorie  di
reati sono ordinariamente idonee a produrre:  accumulazione  ritenuta
socialmente pericolosa, a fronte della possibile utilizzazione  delle
risorse  per  il  finanziamento  di  ulteriori  delitti  o  del  loro
reimpiego nel circuito economico-finanziario, con effetti  distorsivi
del  sistema  economico  legale;  donde   l'esigenza   di   sottrarle
all'interessato. 
    Il giudice rimettente si dichiara consapevole del  fatto  che  la
Corte  costituzionale  ha  ritenuto  non  irragionevole  la  predetta
presunzione, escludendo conseguentemente che la  confisca  cosiddetta
"allargata" si ponga in contrasto con il principio di  eguaglianza  e
il  diritto  di  difesa,  anche  in  riferimento  all'art.  42  Cost.
(ordinanza n. 18 del 1996). 
    Ma, se questo vale per l'istituto «globalmente considerato»,  non
altrettanto potrebbe dirsi - secondo il giudice a quo - con  riguardo
alla sua applicabilita' alle condanne per ricettazione. 
    Come posto in evidenza  anche  nella  richiamata  sentenza  delle
sezioni unite, la ragionevolezza della presunzione di cui si  discute
rimarrebbe collegata alla circostanza che ci si trovi al cospetto  di
delitti usualmente perpetrati «in forma quasi professionale» e che si
pongano come fonte ordinaria di un illecito accumulo di ricchezza. 
    Simili connotati  non  sarebbero  riscontrabili  in  rapporto  al
delitto  di  ricettazione.  Alla  luce  dell'esperienza  giudiziaria,
infatti, tale reato risulta non solo ampiamente diffuso, ma presenta,
altresi', una casistica estremamente  varia,  «sia  sul  piano  della
criminogenesi che sul piano del modello di agente tipo». 
    Mentre i condannati per ognuno degli altri delitti cui  la  norma
denunciata riconnette la presunzione - ad esempio, l'associazione  di
tipo mafioso, il traffico di stupefacenti, l'estorsione, il sequestro
di persona a  scopo  di  estorsione,  l'usura,  la  corruzione  o  il
riciclaggio - apparirebbero razionalmente  omologabili  tra  loro  ai
fini considerati, altrettanto non avverrebbe riguardo  ai  condannati
per ricettazione. Accanto al condannato corrispondente «ad un modello
di  agente   tipico   [...]   abbastanza   delineato»,   assimilabile
sostanzialmente all'autore del reato  di  cui  all'art.  648-bis  del
codice penale (riciclaggio), rispetto al quale la presunzione  legale
di accumulo di ricchezza illecita manterrebbe un «certo  fondamento»,
si porrebbe la «stragrande maggioranza» dei condannati per il delitto
in  questione,  costituita  da  soggetti  in  rapporto  ai  quali  la
presunzione non avrebbe ragione di operare. Si tratterebbe,  infatti,
di  persone  che  hanno  commesso   il   reato   «estemporaneamente»,
procurandosi cose provenienti da delitto sul «mercato nero» solo  per
realizzare un risparmio di spesa o per  acquisire  beni  fuori  dalla
loro portata economica o legale, o «per altre innumerevoli ragioni». 
    Ne',  al  fine  di  contenere  in  limiti  accettabili   siffatta
eterogeneita' di situazioni, basterebbe la circostanza che all'ambito
applicativo della confisca cosiddetta "allargata"  sia  espressamente
sottratta la  fattispecie  attenuata  di  ricettazione  prevista  dal
secondo comma dell'art. 648 cod. pen. Per consolidata giurisprudenza,
l'ipotesi del fatto «di particolare  tenuita'»,  cui  fa  riferimento
tale disposizione, sarebbe ravvisabile solo entro  ristretti  limiti,
venendo al riguardo in rilievo precipuamente  il  valore  della  cosa
ricettata, con esclusione di qualsiasi valutazione della personalita'
del reo e della sua pericolosita' sociale. 
    In questa prospettiva, la norma censurata  violerebbe,  in  parte
qua, l'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo. 
    In primo luogo, per l'irragionevole assimilazione del delitto  di
ricettazione  agli  altri  gravi   delitti   indicati   dalla   norma
denunciata, rispetto ai quali la presunzione di illecito accumulo  di
ricchezza potrebbe ritenersi legittimata dalle caratteristiche  della
condotta incriminata. 
    In  secondo  luogo,  per  la  ingiustificata  equiparazione   del
trattamento dei condannati per il reato in questione. Il  riferimento
alla condanna per il delitto di  cui  all'art.  648  cod.  pen.  come
presupposto  della  misura,  senza   ulteriori   specificazioni   che
consentano o impongano al giudice  una  valutazione  della  effettiva
riconducibilita'  del  fatto  per  cui  e'  intervenuta  condanna  al
«modello» atto a  fondare  la  presunzione  legale  di  arricchimento
illecito, si risolverebbe, infatti, nell'omologazione «di  situazioni
ontologicamente   affatto   diverse   ed   esplicanti   una   diversa
significativita'   in   termini   di   ragionevole   presunzione   di
pericolosita' sociale». 
    A quanto precede non gioverebbe opporre che  la  norma  censurata
non autorizza il giudice ad espropriare un patrimonio quando  sia  di
ingente valore, ma solo ove se ne accerti la sproporzione rispetto ai
redditi e alle attivita' economiche  del  condannato.  Alla  verifica
della sproporzione si procede, comunque sia, in forza e a  motivo  di
una  presunzione  che  non  troverebbe  adeguata  giustificazione  in
rapporto all'esperienza applicativa del delitto di ricettazione. 
    D'altra  parte,  tenuto   conto   anche   dell'eventualita'   che
l'indagine sulla sproporzione investa  periodi  di  tempo  ampiamente
anteriori a  quello  dell'accertamento  del  reato,  con  conseguente
difficolta'  per  gli  interessati   di   recuperare   gli   elementi
dimostrativi della provenienza lecita dei beni, apparirebbe  evidente
come il rischio che  la  confisca  "allargata"  colpisca  anche  beni
lecitamente acquisiti resti circoscritto in limiti  tollerabili  solo
ove la presunzione  di  illecito  arricchimento  che  sta  alla  base
dell'istituto mantenga un fondamento razionale. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. 
    La  questione  coinvolgerebbe,  infatti,   scelte   discrezionali
spettanti in via esclusiva al  legislatore,  quali  quelle  attinenti
all'individuazione delle condotte punibili e alla determinazione  del
relativo  trattamento  sanzionatorio:  scelte  che  -  per   costante
giurisprudenza della Corte costituzionale - possono  formare  oggetto
di censura, in sede  di  scrutinio  di  costituzionalita',  solo  ove
trasmodino nell'irragionevolezza manifesta o nell'arbitrio. 
    La speciale ipotesi di confisca regolata dall'art. 12-sexies  del
d.l.  n.  306  del  1992  configurerebbe  una  misura  di   sicurezza
patrimoniale atipica, modellata sulla falsariga della similare misura
di prevenzione prevista dalla  legislazione  antimafia,  della  quale
mutua la finalita' preventiva. Il legislatore avrebbe individuato, in
specie, delitti particolarmente allarmanti, potenzialmente  idonei  a
creare un'accumulazione di ricchezza, a sua volta possibile strumento
di ulteriori delitti,  traendone  una  presunzione  iuris  tantum  di
origine illecita del patrimonio a  disposizione  del  condannato  per
tali delitti, non proporzionato al reddito dichiarato ai  fini  delle
imposte sul reddito o all'attivita' economica svolta: presunzione che
puo' essere vinta dal condannato tramite  l'allegazione  di  elementi
che attestino la legittima provenienza dei beni. 
    Nel corso degli anni, vi e' stato un progressivo ampliamento  dei
delitti ricompresi nell'ambito di operativita' della norma, derivante
dalla maggiore  attenzione  del  legislatore  per  gli  strumenti  di
aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati. 
    La questione apparirebbe inammissibile, o comunque sia infondata,
anche in considerazione della  contraddittorieta'  della  motivazione
posta a suo sostegno. Lo stesso giudice rimettente avrebbe,  infatti,
riconosciuto che il delitto di ricettazione e' potenzialmente  idoneo
a creare un'accumulazione economica, possibile strumento di ulteriori
delitti, nel caso del condannato  che  risponda  «ad  un  modello  di
agente tipico», analogamente all'autore del delitto di  cui  all'art.
648-bis cod. pen. (riciclaggio). 
    Al  fine  di  riportare  nell'ambito  della   ragionevolezza   la
disciplina della confisca "allargata" per  i  casi  di  condanna  per
ricettazione, il rimettente avrebbe chiesto, in sostanza, alla  Corte
costituzionale un intervento modificativo che consenta al giudice una
concreta  verifica  della  riconducibilita'  del  fatto  per  cui  e'
intervenuta  condanna  al  «modello  di  ricettazione   fondante   la
presunzione  legale  di  arricchimento  illecito»:   intervento   che
risulterebbe, tuttavia, precluso, non potendo la Corte sostituire  la
sua valutazione a quella spettante al legislatore. 
    3.- Si e' costituita, altresi', R. V., opponente nel  giudizio  a
quo, chiedendo l'accoglimento della questione. 
    Secondo la parte privata,  la  norma  censurata  si  porrebbe  in
contrasto - oltre che  con  l'art.  3  Cost.,  per  le  condivisibili
considerazioni svolte nell'ordinanza di rimessione - anche con l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1,  paragrafo  2,  del
Protocollo addizionale  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi  il
20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4  agosto  1955,
n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Pur avendo manifestato in  piu'  occasioni  un  atteggiamento  di
favore  nei  confronti  degli  strumenti  di  confisca   "allargata",
previsti  da  diversi  ordinamenti   per   contrastare   il   crimine
organizzato,  e  in  particolare  nei  confronti  della  confisca  di
prevenzione, la Corte di Strasburgo ha,  tuttavia,  affermato  -  con
giurisprudenza costante - che ogni interferenza  con  il  diritto  di
proprieta' deve esprimere un  «giusto  equilibrio»  tra  le  esigenze
dell'interesse generale  della  comunita'  e  quelle  di  tutela  dei
diritti fondamentali della persona: equilibrio non riscontrabile, per
converso, nell'ipotesi in esame. 
    4.- Con successiva  memoria,  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri ha insistito per la dichiarazione di inammissibilita'  o  di
infondatezza della questione. 
    L'Avvocatura generale dello Stato osserva come lo stesso  giudice
a quo  abbia  sottolineato  l'evidente  sproporzione  tra  il  denaro
contante nella disponibilita' del nucleo familiare del  condannato  e
le entrate di detto nucleo familiare: cio', tenuto  conto  del  fatto
che erano stati operati anche notevoli investimenti immobiliari,  non
interessati dal provvedimento di confisca, i quali avevano  diminuito
il montante della liquidita'. 
    In tale prospettiva, la questione sollevata  si  risolverebbe  in
una   mera   quaestio   facti,   attinente   all'interpretazione    e
all'applicazione della norma censurata, senza  toccarne  la  coerenza
con i principi costituzionali. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  La  Corte  d'appello  di  Reggio   Calabria   dubita   della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  12-sexies,  comma   1,   del
decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306  (Modifiche  urgenti  al  nuovo
codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di  contrasto   alla
criminalita' mafiosa), convertito,  con  modificazioni,  in  legge  7
agosto 1992, n. 356,  nella  parte  in  cui  include  il  delitto  di
ricettazione tra quelli per i  quali,  nel  caso  di  condanna  o  di
applicazione  della  pena  ai  sensi  dell'art.  444  del  codice  di
procedura  penale,  e'  sempre  disposta  la  speciale   confisca   -
cosiddetta "allargata" - prevista dal medesimo art. 12-sexies. 
    Il  giudice  a  quo  rileva  come,   rispetto   al   delitto   di
ricettazione, la  presunzione  legale  di  provenienza  illecita  del
patrimonio del condannato, sottesa  all'istituto,  risulti  priva  di
giustificazione razionale, non trattandosi, alla luce dell'esperienza
giudiziaria,  di  reato  normalmente   commesso   «in   forma   quasi
professionale» e costituente «fonte ordinaria di illecito accumulo di
ricchezza». 
    In questa prospettiva, la norma  censurata  violerebbe  l'art.  3
della Costituzione sotto un duplice profilo. 
    Da un lato, per l'irragionevole assimilazione del predetto  reato
agli altri gravi delitti indicati dalla norma censurata, rispetto  ai
quali la presunzione apparirebbe  invece  razionalmente  giustificata
alla luce delle caratteristiche della condotta incriminata. 
    Dall'altro   lato,   per   l'irragionevole   equiparazione    del
trattamento delle diverse ipotesi riconducibili al paradigma punitivo
considerato, fortemente eterogenee tra loro sul piano  dell'idoneita'
a fondare una presunzione di pericolosita' sociale. 
    2.-  In  via  preliminare,  va  rilevato   che   resta   estranea
all'odierno  scrutinio  l'ulteriore  censura  formulata  dalla  parte
privata costituita,  la  quale  ha  denunciato  anche  la  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., conseguente all'asserito contrasto
della norma in esame  con  l'art.  1,  paragrafo  2,  del  Protocollo
addizionale  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia   dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo
1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto  1955,  n.  848,
cosi' come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Per costante giurisprudenza di  questa  Corte,  infatti,  non  e'
consentito alle parti  ampliare  -  con  la  deduzione  di  ulteriori
questioni e profili di costituzionalita' - il  thema  decidendum  del
giudizio incidentale, che  resta  limitato  alle  disposizioni  e  ai
parametri  indicati  nell'ordinanza  di  rimessione   (ex   plurimis,
sentenze n. 251 del 2017, n. 214 del 2016, n. 231 e n. 83 del 2015). 
    3.-  Sempre  in  via  preliminare,  si   deve   osservare   come,
successivamente all'ordinanza di rimessione, la norma  censurata  sia
stata oggetto di ben cinque interventi novellistici. 
    I primi tre - operati rispettivamente dall'art. 1, comma 4, della
legge 22 maggio 2015, n.  68  (Disposizioni  in  materia  di  delitti
contro l'ambiente), dall'art. 5 della legge 29 ottobre 2016,  n.  199
(Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni  del  lavoro  nero,
dello sfruttamento del lavoro  in  agricoltura  e  di  riallineamento
retributivo  nel  settore  agricolo)  e  dall'art.  5   del   decreto
legislativo 29 ottobre  2016,  n.  202  (Attuazione  della  direttiva
2014/42/UE  relativa  al  congelamento  e  alla  confisca  dei   beni
strumentali e dei proventi da reato nell'Unione europea)  -  si  sono
esauriti in un (ulteriore)  ampliamento  dell'elenco  dei  reati  cui
accede  la  confisca  "allargata",  apparendo   percio'   chiaramente
ininfluenti sull'odierno giudizio. 
    Ben piu' ampie ed  articolate  risultano,  invece,  le  modifiche
introdotte  dall'art.  31  della  legge  17  ottobre  2017,  n.   161
(Modifiche  al  codice  delle  leggi  antimafia  e  delle  misure  di
prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n.  159,
al codice penale e alle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
transitorie del codice di  procedura  penale  e  altre  disposizioni.
Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende  sequestrate
e confiscate). Oltre a riscrivere integralmente il denunciato comma 1
dell'art. 12-sexies del d.l. n.  306  del  1992,  inserendo  in  esso
l'intiero elenco dei reati presupposto, prima scisso nei commi 1 e  2
(elenco  che,  nell'occasione,  e'  stato  ancora  rimaneggiato),  la
novella legislativa ha anche apportato consistenti  innovazioni  alla
disciplina della misura  patrimoniale  recata  dai  commi  successivi
dello stesso art. 12-sexies. 
    Neppure tali modifiche giustificano,  tuttavia,  la  restituzione
degli atti  al  giudice  a  quo,  per  una  nuova  valutazione  della
rilevanza e della non  manifesta  infondatezza  della  questione.  Le
innovazioni si muovono, infatti, nella direzione del potenziamento  e
dell'ampliamento del campo di operativita' della confisca "allargata"
- dunque, in direzione antitetica rispetto  all'intervento  auspicato
dall'ordinanza  di  rimessione,  di  segno  riduttivo  -   lasciando,
comunque  sia,  inalterate  tanto  le  condizioni  di  applicabilita'
dell'istituto, quanto l'inclusione della  ricettazione  tra  i  reati
presupposto, contro cui specificamente si rivolgono  le  censure  del
rimettente. 
    Da ultimo, il comma 1 dell'art. 12-sexies del  d.l.  n.  306  del
1992 e' stato novamente sostituito dall'art. 13-ter del decreto-legge
16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia  finanziaria
e per esigenze  indifferibili),  convertito,  con  modificazioni,  in
legge 4 dicembre 2017, n. 172, ma al solo fine  di  reinserire  nella
lista dei reati presupposto le figure criminose  che,  gia'  aggiunte
dall'art. 5 del d.lgs. n. 202 del 2016 in attuazione della  normativa
dell'Unione europea, ne erano state espunte in  sede  di  riscrittura
della disposizione ad opera dell'art. 31 della legge n. 161 del 2017.
Anche in questo  caso,  dunque,  l'ininfluenza  della  sopravvenienza
normativa sul presente giudizio e' palese. 
    4.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha   eccepito
l'inammissibilita' della questione sotto vari profili. Nessuna  delle
eccezioni e', tuttavia, fondata. 
    L'Avvocatura  generale   dello   Stato   evoca,   anzitutto,   la
discrezionalita' del legislatore nell'individuazione  delle  condotte
punibili   e   nella   determinazione   del   relativo    trattamento
sanzionatorio: rilievo  che  attiene,  pero',  piu'  propriamente  al
merito della questione. 
    Viene prospettata, poi, la contraddittorieta'  della  motivazione
dell'ordinanza   di   rimessione,   avendo   lo   stesso   rimettente
riconosciuto che il  delitto  di  ricettazione  e'  idoneo  a  creare
un'accumulazione economica, possibile strumento di ulteriori delitti,
nel caso del  condannato  che  risponda  «ad  un  modello  di  agente
tipico», analogamente all'autore del delitto di cui all'art.  648-bis
del codice penale (riciclaggio). La denunciata contraddittorieta'  si
rivela, tuttavia, insussistente, posto che il giudice a quo  basa  il
dubbio di costituzionalita' proprio sulla considerazione  che  quella
ora  indicata  non  rappresenterebbe  una  costante,  ma   una   mera
eventualita', per di piu' marginale nell'esperienza applicativa della
figura delittuosa in questione. 
    L'Avvocatura  generale  dello  Stato  assume,  ancora,   che   il
rimettente avrebbe chiesto, nella sostanza, una modifica della  norma
censurata che consenta al  giudice  di  verificare  se  il  fatto  di
ricettazione  per  cui  e'  intervenuta  condanna   giustifichi,   in
concreto, la presunzione legale di arricchimento illecito: intervento
che  risulterebbe  precluso,  tuttavia,  alla  Corte  costituzionale,
implicando una manipolazione della disciplina  dell'istituto  rimessa
alla discrezionalita' del legislatore. Anche tale eccezione - che  fa
leva su alcuni passaggi argomentativi dell'ordinanza di rimessione  -
non coglie nel segno. Il giudice a quo non invoca  una  pronuncia  di
tipo additivo, ma formula - inequivocamente -  un  petitum  di  segno
meramente ablativo, richiedendo la  rimozione  pura  e  semplice  del
delitto di ricettazione dal catalogo dei reati cui accede  la  misura
patrimoniale in discussione. 
    Da ultimo, va escluso che le considerazioni svolte dal giudice  a
quo  in  sede  di  motivazione   sulla   rilevanza,   riguardo   alla
sproporzione, nel caso di specie, delle disponibilita' economiche del
nucleo  familiare  del  condannato  rispetto   alle   sue   capacita'
reddituali, trasformino l'odierno incidente di  costituzionalita'  in
una «quaestio facti» attinente all'interpretazione e all'applicazione
della norma censurata, cosi' come sostenuto dall'Avvocatura  generale
dello Stato nella memoria illustrativa. 
    5.- Sotto diverso  profilo,  nessun  problema  di  ammissibilita'
della questione si pone in ragione del fatto che la Corte  rimettente
sia stata chiamata a pronunciarsi sull'applicabilita' della  confisca
"allargata" in veste di giudice dell'esecuzione. 
    E',  infatti,  pacifico  in  giurisprudenza,  dopo   l'intervento
chiarificatore delle sezioni unite della Corte di cassazione  con  la
sentenza 30 maggio-17 luglio 2001, n. 29022, che la confisca prevista
dall'art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992  possa  essere  disposta
dal giudice dell'esecuzione a norma  dell'art.  676,  comma  1,  cod.
proc.  pen.,  qualora  non  vi  abbia  provveduto  il  giudice  della
cognizione. La competenza del giudice dell'esecuzione  si  ricollega,
infatti, alla natura obbligatoria della  confisca,  senza  che  possa
operarsi alcuna distinzione tra  la  fattispecie  generale  descritta
dall'art. 240 cod. pen. e le fattispecie speciali introdotte da altre
disposizioni. 
    La giurisprudenza e',  altresi',  unanime  nel  ritenere  che  la
confisca "allargata"  possa  essere  disposta  senza  formalita'  con
ordinanza, a norma del combinato disposto  degli  artt.  676  e  667,
comma 4, cod. proc. pen. (cosiddetta  procedura  de  plano):  ipotesi
nella quale l'iniziale deficit di  garanzie  verrebbe  colmato  dalla
facolta'  dell'interessato  di  attivare,  mediante  opposizione,  il
procedimento di esecuzione ai sensi dell'art. 666  cod.  proc.  pen.,
che assicura il contraddittorio e l'acquisizione delle  prove,  cosi'
come  e'  avvenuto   nel   procedimento   a   quo.   Tale   soluzione
giurisprudenziale risulta ora normativamente recepita dal nuovo comma
4-sexies dell'art. 12-sexies del  d.l.  n.  306  del  1992,  aggiunto
dall'art. 31 della legge n. 161 del 2017. 
    6.- Nel merito, la questione non e' fondata. 
    La misura patrimoniale prevista dalla norma censurata si  colloca
nell'alveo delle forme "moderne" di  confisca  alle  quali,  gia'  da
tempo, plurimi Stati europei  hanno  fatto  ricorso  per  superare  i
limiti di efficacia della confisca penale "classica":  limiti  legati
all'esigenza di dimostrare l'esistenza di un nesso di pertinenza - in
termini di strumentalita' o di derivazione - tra i beni da confiscare
e il singolo reato per cui e' pronunciata  condanna.  Le  difficolta'
cui  tale  prova  va  incontro  hanno  fatto  si'  che  la   confisca
"tradizionale" si rivelasse inidonea a contrastare in  modo  adeguato
il fenomeno dell'accumulazione di ricchezze illecite da  parte  della
criminalita', e in specie della  criminalita'  organizzata:  fenomeno
particolarmente allarmante, a fronte tanto  del  possibile  reimpiego
delle risorse per il finanziamento di ulteriori  attivita'  illecite,
quanto del  loro  investimento  nel  sistema  economico  legale,  con
effetti distorsivi del funzionamento del mercato. 
    Di qui,  dunque,  la  diffusa  tendenza  ad  introdurre  speciali
tipologie di confisca, caratterizzate  sia  da  un  allentamento  del
rapporto tra  l'oggetto  dell'ablazione  e  il  singolo  reato,  sia,
soprattutto, da un  affievolimento  degli  oneri  probatori  gravanti
sull'accusa. 
    Tra i diversi modelli di intervento in tale  direzione,  il  piu'
diffuso nel panorama europeo e' quello della cosiddetta confisca  dei
beni di sospetta origine illecita: modello al quale e'  riconducibile
anche la confisca "allargata" prevista dalla  norma  oggi  censurata.
Esso poggia,  nella  sostanza,  su  una  presunzione  di  provenienza
criminosa dei beni  posseduti  dai  soggetti  condannati  per  taluni
reati, per lo piu' (ma non sempre) connessi a forme  di  criminalita'
organizzata: in  presenza  di  determinate  condizioni,  si  presume,
cioe', che il condannato abbia commesso non solo il  delitto  che  ha
dato luogo  alla  condanna,  ma  anche  altri  reati,  non  accertati
giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone. 
    Il ricorso a forme di confisca congegnate  in  questa  chiave  e'
caldeggiato  anche  a  livello   sovranazionale.   Sollecitazioni   a
prevedere inversioni  dell'onere  della  prova  riguardo  all'origine
illecita dei beni suscettibili di confisca si rivengono,  in  specie,
nella Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito  di
stupefacenti e sostanze psicotrope, fatta a  Vienna  il  20  dicembre
1988, ratificata e resa esecutiva con legge 5 novembre 1990,  n.  328
(art. 5, paragrafo 7), e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro
la criminalita' organizzata transnazionale, adottata a Palermo il  15
dicembre 2000, ratificata e resa esecutiva con legge 16  marzo  2006,
n. 146 (art. 12, paragrafo 7). 
    Assai  piu'  puntuali  e  stringenti  risultano,   peraltro,   al
riguardo,  le  indicazioni  promananti  dalla  normativa  dell'Unione
europea. Nella cornice del generale processo di valorizzazione  degli
strumenti patrimoniali di lotta  alla  criminalita'  organizzata,  da
tempo in atto a livello dell'Unione, dapprima la decisione quadro  24
febbraio 2005, n. 2005/212/GAI del Consiglio, relativa alla  confisca
di beni, strumenti e proventi di reato (art. 3), e indi la  direttiva
3 aprile 2014, n. 2014/42/UE del Parlamento europeo e del  Consiglio,
relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali  e  dei
proventi da reato nell'Unione europea, hanno, infatti, specificamente
richiesto agli Stati membri di riconoscere all'autorita'  giudiziaria
poteri di «confisca estesa», collocabili chiaramente all'interno  del
ricordato genus della confisca dei beni di sospetta origine illecita. 
    L'art. 5, paragrafo 1,  della  citata  direttiva  stabilisce,  in
particolare,  che  gli  Stati  membri  devono  adottare  «le   misure
necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale,  dei
beni  che  appartengono  a  una  persona  condannata  per  un   reato
suscettibile di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio
economico, laddove l'autorita' giudiziaria, in base alle  circostanze
del caso,  compresi  i  fatti  specifici  e  gli  elementi  di  prova
disponibili, come il fatto che il valore dei beni  e'  sproporzionato
rispetto al reddito legittimo della persona condannata, sia  convinta
che  i  beni  in  questione   derivino   da   attivita'   criminose».
Diversamente dalla decisione quadro 2005/212/GAI,  la  direttiva  non
limita  l'applicazione  della  confisca  estesa  ai  soli  reati   di
criminalita' organizzata o collegati al terrorismo,  ma  la  richiede
anche in relazione ad una serie di altri reati previsti da  strumenti
normativi  dell'Unione,  benche'   non   commessi   nel   quadro   di
organizzazioni criminali. 
    7.- Per quanto piu' specificamente attiene alla  misura  prevista
dall'art.  12-sexies  del  d.l.  n.  306  del  1992,  essa  e'   nata
storicamente come "sostituto" del delitto di «possesso ingiustificato
di valori»,  gia'  previsto  dall'art.  12-quinquies,  comma  2,  del
medesimo  decreto-legge.  Tale   disposizione   puniva   la   persona
sottoposta a procedimento  penale  per  il  delitto  di  associazione
mafiosa  o  per  altre  ipotesi  delittuose  ritenute  tipiche  delle
organizzazioni criminali - compresa  la  ricettazione  -  o  nei  cui
confronti  fosse  in  corso  di  applicazione  o  si  procedesse  per
l'applicazione di una misura  di  prevenzione  personale,  la  quale,
anche per interposta persona, avesse  la  disponibilita'  di  denaro,
beni o altre utilita' di valore sproporzionato al proprio  reddito  o
alla propria attivita' economica e dei quali non potesse giustificare
la legittima provenienza. Era altresi' prevista la confisca dei beni,
del denaro o di altre utilita'. 
    La norma  incriminatrice  fu  dichiarata  illegittima  da  questa
Corte, dopo un breve periodo di vigenza, con la sentenza  n.  48  del
1994, per violazione della presunzione di  non  colpevolezza  sancita
all'art. 27,  secondo  comma,  Cost.  Si  rilevo',  infatti,  che  la
previsione punitiva, «ispirandosi con fin troppa chiarezza a  modelli
tipici del procedimento di prevenzione» - e cosi' agglomerando in  un
«confuso ordito normativo [...] settori  dell'ordinamento  del  tutto
eterogenei» - fondava sulla qualita' di indagato  o  di  imputato  il
presupposto soggettivo che rendeva punibile un dato  di  fatto  -  la
sproporzione non giustificata tra beni e redditi - che altrimenti non
sarebbe stato perseguito: col risultato che  la  persona  indagata  o
imputata, ancorche' presunta non colpevole, veniva sottoposta a  pena
per una condotta che  rimaneva  invece  penalmente  indifferente  ove
posta in essere da qualsiasi altro soggetto. 
    A fronte di tale declaratoria, il legislatore introdusse, con  il
decreto-legge 20 giugno 1994, n. 399 (Disposizioni urgenti in materia
di confisca di valori ingiustificati), convertito, con modificazioni,
in legge 8 agosto 1994, n. 501, non gia' una nuova  figura  criminosa
diversamente  strutturata,  ma  una  speciale  ipotesi  di  confisca,
disciplinata in un articolo  aggiunto,  immediatamente  successivo  a
quello caducato (il 12-sexies). 
    La formulazione della norma fu  motivata  con  la  necessita'  di
creare un nuovo strumento che  fosse  in  grado,  per  un  verso,  di
realizzare le medesime finalita' che si volevano raggiungere  con  la
disposizione dichiarata illegittima (permettere,  cioe',  dinanzi  ad
una situazione di  evidente  sproporzione  tra  beni  e  reddito,  di
aggredire, nel corso del processo penale per  reati  di  criminalita'
organizzata  o  a  questi  collegati,   i   patrimoni   illecitamente
costituiti); per altro verso, di recepire le indicazioni  offerte  da
questa Corte con la citata sentenza n. 48 del 1994 (venendo la misura
ablativa collegata alla condanna per il reato presupposto, e non gia'
al semplice avvio del procedimento penale). 
    In tale ottica, la norma  prevedeva  -  e  tuttora  prevede,  per
questa parte - che, in caso di condanna o di applicazione della  pena
su richiesta delle parti per taluno dei delitti in essa indicati,  e'
«sempre  disposta»  (si  tratta,   dunque,   di   confisca   speciale
obbligatoria) «la  confisca  del  denaro,  dei  beni  o  delle  altre
utilita' di cui il condannato non puo' giustificare la provenienza  e
di cui, anche per interposta  persona  fisica  o  giuridica,  risulta
essere titolare o avere  la  disponibilita'  a  qualsiasi  titolo  in
valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato  ai  fini  delle
imposte sul reddito, o alla propria attivita' economica». 
    La norma denunciata riconnette,  dunque,  a  due  elementi  -  la
qualita' di condannato per determinati reati e  la  sproporzione  del
patrimonio  di  cui  il  condannato  dispone,  anche  indirettamente,
rispetto  al  suo  reddito  o  alla  sua  attivita'  economica  -  la
presunzione che il patrimonio stesso derivi  da  attivita'  criminose
che non e' stato possibile  accertare:  presunzione,  peraltro,  solo
relativa, potendo il condannato vincerla giustificando la provenienza
dei beni. 
    La  confisca  "allargata"  italiana  si   caratterizza,   quindi,
rispetto al modello di confisca "estesa" prefigurato dalla  direttiva
2014/42/UE (la quale si limita, peraltro, a stabilire «norme minime»,
senza  impedire  agli  Stati  membri  di  adottare   soluzioni   piu'
rigorose), per il diverso e  piu'  ridotto  standard  probatorio.  La
sproporzione tra il  valore  dei  beni  e  i  redditi  legittimi  del
condannato - che in base all'art. 5 della direttiva  costituisce  uno
dei «fatti specifici» e  degli  «elementi  di  prova»  dai  quali  il
giudice puo' trarre la convinzione che i beni da confiscare «derivino
da condotte criminose» - vale, invece, da sola a  fondare  la  misura
ablativa  in  esame,  allorche'  il  condannato  non  giustifichi  la
provenienza  dei   beni,   senza   che   occorra   alcuna   ulteriore
dimostrazione della loro origine delittuosa. 
    8.- Al riguardo, costituisce,  in  effetti,  approdo  ermeneutico
ampiamente consolidato nella giurisprudenza di legittimita' -  specie
dopo l'intervento delle sezioni unite della Corte di  cassazione  con
la sentenza 17 dicembre 2003-19  gennaio  2004,  n.  920  -  che,  in
presenza delle condizioni indicate dalla norma, il giudice non  debba
ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni  confiscabili  ed  il
reato per cui e' stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi
beni e una piu' generica attivita' criminosa del condannato. 
    Si  rileva,  infatti,  che,  se  fosse  richiesto  il  nesso   di
"pertinenzialita'" al  reato  per  cui  si  e'  proceduto,  la  norma
risulterebbe  priva  di  "valore  aggiunto"  rispetto  alla  generale
previsione  dell'art.  240   cod.   pen.,   limitandosi   a   rendere
obbligatoria la confisca di  alcune  cose  che  la  disposizione  del
codice configura come facoltativa (senza considerare,  peraltro,  che
in  rapporto  a  plurimi  delitti  inseriti  nella  lista  dei  reati
presupposto - quali, ad esempio, l'associazione mafiosa o  l'usura  -
la confisca  dei  beni  derivati  dal  reato  e'  gia'  prevista,  in
generale, come obbligatoria). L'art. 12-sexies del d.l.  n.  306  del
1992 risulterebbe, anzi, paradossalmente piu' restrittivo della norma
del  codice,  col   richiedere   anche   la   prova   del   carattere
"sproporzionato" del patrimonio del condannato  (si  tratterebbe,  in
pratica, di una interpretatio abrogans). Ne'  le  cose  cambierebbero
ove il nesso di  derivazione  fosse  rapportato  ad  una  piu'  ampia
attivita' delittuosa del condannato. Parlare di attivita'  delittuosa
non significa altro che fare riferimento, sia pur generico,  a  reati
commessi dal condannato: sicche' il vincolo di  derivazione  andrebbe
accertato per i  singoli  reati  che  compongono  la  serie,  con  le
incongrue conseguenze in precedenza poste in evidenza. 
    Di qui la conclusione per cui la confiscabilita' non  e'  esclusa
dal fatto che i beni  siano  stati  acquisiti  in  data  anteriore  o
successiva al reato per cui si e' proceduto, o  che  il  loro  valore
superi il provento di tale reato. 
    In questa prospettiva - come ulteriormente rilevato dalle sezioni
unite nella sentenza da ultimo citata - la disposizione in  esame  si
presenta  espressiva  di  una  «scelta  di  politica  criminale   del
legislatore,  operata  con  l'individuare   delitti   particolarmente
allarmanti, idonei a creare una accumulazione economica, a sua  volta
possibile strumento di ulteriori delitti, e  quindi  col  trarne  una
presunzione,  iuris  tantum,  di  origine  illecita  del   patrimonio
"sproporzionato" a disposizione del  condannato  per  tali  delitti»:
presunzione  che  trova  «base  nella  nota  capacita'  dei   delitti
individuati dal legislatore [...] ad essere perpetrati in forma quasi
professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza». 
    Si tratta di presunzione che questa Corte ha avuto gia'  modo  di
ritenere,  in  termini  generali,  non  irragionevole,   all'indomani
dell'introduzione della misura, con l'ordinanza n. 18 del 1996. 
    9.- Dichiarandosi di cio'  consapevole,  il  giudice  a  quo  non
censura, tuttavia, l'istituto in se', ma l'articolazione  dell'elenco
dei reati presupposto della misura, dolendosi segnatamente del  fatto
che in esso figuri (peraltro, fin dalle origini) anche il delitto  di
ricettazione: delitto che - a suo avviso - sarebbe privo,  sul  piano
socio-criminologico, delle  connotazioni  che  rendono  razionalmente
giustificabile la presunzione in parola. 
    Secondo la Corte  calabrese,  a  differenza  dei  condannati  per
ciascuno degli altri delitti inclusi nella lista - i quali dovrebbero
ritenersi  tutti  parimente  espressivi  di  un  «modello  di  agente
tipico», consentaneo alla presunzione di  illecita  accumulazione  di
ricchezza  sottesa  alla  misura  ablatoria  -   i   condannati   per
ricettazione  rappresenterebbero  una  platea  tanto   vasta   quanto
eterogenea,  costituita,  comunque  sia,  in  modo  preponderante  da
soggetti rivoltisi  estemporaneamente  al  «mercato  nero»  dei  beni
provenienti da delitto per realizzare risparmi di spesa o  per  altre
analoghe ragioni, e dunque da  delinquenti  meramente  "occasionali".
Annettere alla condanna per un simile reato la presunzione di origine
illecita  dell'intero  patrimonio  "sproporzionato"  del  condannato,
salvo che questi ne dimostri la legittima provenienza - onere il  cui
assolvimento puo' risultare oltremodo problematico, specie  allorche'
si discuta  di  beni  acquisiti  molti  anni  prima  -  costituirebbe
soluzione  ineluttabilmente  contrastante   con   il   principio   di
eguaglianza:  e  cio'  sia   per   l'indebita   assimilazione   della
ricettazione agli altri delitti  elencati  dalla  norma,  di  diversa
caratura ai fini considerati;  sia  per  l'altrettanto  irragionevole
omologazione dell'intera platea dei  condannati  per  il  delitto  in
questione, composta da "tipi d'autore" marcatamente differenziati  in
punto  di  idoneita'  a  fondare  una  presunzione  di  pericolosita'
sociale. 
    10.- A questo  proposito,  occorre  peraltro  osservare  come  la
visione della Corte rimettente -  secondo  la  quale  il  delitto  di
ricettazione  rappresenterebbe,  per  le  sue   caratteristiche,   un
"unicum" nell'ambito della lista dei  reati  presupposto,  sul  piano
dell'asserito difetto di correlazione con la ratio della misura - non
trovi, in realta', conforto dall'analisi di detta lista. 
    Sebbene  l'obiettivo  della  confisca  "allargata"  fosse   stato
esplicitamente  individuato  nel  contrasto   all'accumulazione   dei
patrimoni della criminalita' organizzata, e mafiosa in specie, e alla
loro infiltrazione massiccia nel circuito economico,  la  scelta  dei
"reati matrice" e' risultata  fin  dal  principio  non  rigorosamente
sintonica rispetto a tale dichiarazione d'intenti. 
    A fianco di  figure  criminose  che  postulano  un'organizzazione
stabile e strutturata, diretta al conseguimento di profitti illeciti,
quali l'associazione di tipo mafioso o l'associazione finalizzata  al
traffico illecito di stupefacenti,  la  norma  censurata  richiamava,
infatti, sin  dall'origine,  una  serie  di  altri  delitti  -  quali
l'estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l'usura,
il riciclaggio, il reimpiego, l'intestazione  fittizia  di  beni,  il
traffico illecito di stupefacenti, il contrabbando aggravato  (oltre,
appunto, alla ricettazione, esclusa  l'ipotesi  del  fatto  di  lieve
entita' di cui all'art. 648, secondo comma, cod. pen.) - i quali, pur
essendo considerati tipici della criminalita' organizzata (e  mafiosa
in particolare), in fatto ben possono essere perpetrati  in  contesti
del tutto avulsi da questa e che neppure implicano, in modo  assoluto
e indefettibile,  la  qualita'  di  delinquente  "seriale"  del  loro
autore. 
    Lo stesso delitto di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.)  -  che
la Corte  rimettente  addita,  in  opposto  alla  ricettazione,  come
uniformemente evocativo di un «modello di  agente  tipico»  sintonico
con la presunzione espressa dalla norma denunciata  -  abbraccia,  in
realta',  anch'esso   fattispecie   eterogenee   sotto   il   profilo
considerato. L'analisi della casistica giurisprudenziale  rivela,  in
effetti, come una significativa porzione delle  condanne  pronunciate
per tale delitto riguardi, non  necessariamente  la  "ripulitura"  di
"denaro sporco" derivante dalle attivita' del crimine organizzato, ma
pure fatti di manomissione di autoveicoli  di  provenienza  illecita,
volti ad  ostacolare  l'accertamento  di  quest'ultima,  che  possono
risultare anche affatto episodici per il  loro  autore,  allo  stesso
modo di quelli di ricettazione. 
    In  prosieguo  di  tempo,  peraltro,  il   catalogo   dei   reati
presupposto   e'   stato   arricchito,   in   modo   progressivo   ed
"alluvionale", da una serie di interventi novellistici. Tale processo
di implementazione - proseguito, senza soluzione di continuita' anche
dopo l'odierna ordinanza di rimessione - si e' ispirato, in piu' d'un
caso,  a   logiche   chiaramente   estranee   a   quella   primigenia
dell'istituto. 
    Emblematica,  in  tale  direzione,  appare   l'estensione   della
confisca "allargata"  ad  una  ampia  platea  di  delitti  contro  la
pubblica amministrazione, disposta  dall'art.  1,  comma  220,  della
legge  27  dicembre  2006,  n.  296,  recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale  e  pluriennale  dello  Stato  (legge
finanziaria 2007)». Come e' stato da piu' parti osservato, si  tratta
di una categoria di reati che - specie in rapporto ad  alcune  figure
(vengono citati, ad esempio,  il  peculato  e  il  peculato  mediante
profitto dell'errore altrui, la malversazione a  danno  dello  Stato,
l'utilizzazione di invenzioni o scoperte conosciute  per  ragioni  di
ufficio) - risulta del  tutto  priva  di  diretta  attinenza  con  la
criminalita' organizzata,  e  che  neppure  denota,  nell'autore  del
singolo  fatto,  una  necessaria   "professionalita'"   o   dedizione
all'illecito. 
    11.- Cio' posto, va  peraltro  rilevato  che  -  come  lo  stesso
rimettente, del resto, riconosce - la ricettazione (reato  contro  il
patrimonio,  integrato  dal  fatto  di  chi,  a  fini  di   profitto,
«acquista,  riceve  od  occulta  denaro  o  cose  provenienti  da  un
qualsiasi delitto, o comunque si  intromette  nel  farle  acquistare,
ricevere od occultare») resta, per sua natura, un  delitto  idoneo  a
determinare un'illecita accumulazione di  ricchezza  e  suscettibile,
secondo l'osservazione "sociologica", di essere perpetrato  in  forma
"professionale" o, comunque sia, continuativa. 
    La presunzione  di  origine  illecita  dei  beni  del  condannato
insorge, d'altro canto, non  per  effetto  della  mera  condanna,  ma
unicamente ove si appuri  -  con  onere  probatorio  a  carico  della
pubblica accusa -  la  sproporzione  tra  detti  beni  e  il  reddito
dichiarato  o  le  attivita'  economiche   del   condannato   stesso:
sproporzione che - secondo i correnti indirizzi  giurisprudenziali  -
non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e  possidenze,
ma in uno squilibrio incongruo e  significativo,  da  verificare  con
riferimento al momento dell'acquisizione dei singoli beni. 
    La  presunzione,  d'altra  parte,  e'  solo  relativa,  rimanendo
confutabile  dal  condannato   tramite   la   giustificazione   della
provenienza dei cespiti.  Per  giurisprudenza  costante  -  almeno  a
partire dalla citata sentenza delle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione n. 920 del 2004 - non si tratta  neppure  di  una  vera  e
propria inversione dell'onere della prova, ma di un semplice onere di
allegazione di elementi che rendano credibile la  provenienza  lecita
dei beni (per la valorizzazione  di  analogo  elemento,  al  fine  di
escludere  l'illegittimita'  costituzionale  della   presunzione   di
destinazione illecita di determinati oggetti da parte del  condannato
per delitti contro il patrimonio - tra cui anche la ricettazione - si
veda gia' la sentenza n. 225 del 2008). 
    Occorre  rilevare,  inoltre,  che  secondo  un  indirizzo   della
giurisprudenza di legittimita',  emerso  gia'  prima  dell'intervento
delle sezioni unite (Corte di cassazione,  sezione  prima  penale,  5
febbraio-21 marzo 2001, n. 11049; sezione quinta penale, 23 aprile-30
luglio 1998, n. 2469) e ribadito anche in recenti pronunce (Corte  di
cassazione, sezione prima penale, 16 aprile-3 ottobre 2014, n. 41100;
sezione quarta penale, 7 maggio-28 agosto  2013,  n.  35707;  sezione
prima penale, 11 dicembre 2012-17 gennaio 2013, n. 2634) -  indirizzo
che il giudice a quo non ha preso in considerazione, anche  solo  per
contestarne la validita' - la presunzione di illegittima acquisizione
dei beni oggetto della misura resta circoscritta, comunque sia, in un
ambito  di  cosiddetta  «ragionevolezza  temporale».  Il  momento  di
acquisizione del bene non dovrebbe risultare, cioe', talmente lontano
dall'epoca di realizzazione del "reato spia" da  rendere  ictu  oculi
irragionevole la presunzione di derivazione del bene  stesso  da  una
attivita' illecita, sia  pure  diversa  e  complementare  rispetto  a
quella  per  cui  e'  intervenuta  condanna.   Si   tratta   di   una
delimitazione temporale corrispondente, mutatis  mutandis,  a  quella
che le stesse sezioni unite hanno ritenuto operante  con  riferimento
alla misura affine della  confisca  di  prevenzione  antimafia,  gia'
prevista  dall'art.  2-ter  della  legge  31  maggio  1965,  n.   575
(Disposizioni contro le organizzazioni  criminali  di  tipo  mafioso,
anche straniere) e attualmente disciplinata dall'art. 24 del  decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto  2010,  n.  136),  anch'essa  imperniata  sull'elemento  della
sproporzione tra redditi e disponibilita' del soggetto: misura che si
e' ritenuta trovare un limite temporale  nella  stessa  pericolosita'
sociale  del  soggetto,  presupposto   indefettibile   per   la   sua
applicazione (Corte di cassazione, sezioni unite,  26  giugno  2014-2
febbraio 2015, n. 4880). 
    La ricordata tesi della «ragionevolezza temporale»  risponde,  in
effetti, all'esigenza di evitare una abnorme dilatazione della  sfera
di operativita' dell'istituto della confisca  "allargata",  il  quale
legittimerebbe altrimenti - anche a  fronte  della  condanna  per  un
singolo reato compreso nella lista  -  un  monitoraggio  patrimoniale
esteso all'intiera vita del condannato. Risultato che - come la Corte
rimettente pure denuncia - rischierebbe  di  rendere  particolarmente
problematico   l'assolvimento    dell'onere    dell'interessato    di
giustificare la  provenienza  dei  beni  (ancorche'  inteso  come  di
semplice allegazione), il quale tanto piu' si complica quanto piu' e'
retrodatato l'acquisto del bene da confiscare. 
    In  una  simile  prospettiva,  la   fascia   di   «ragionevolezza
temporale», entro la quale la presunzione e'  destinata  ad  operare,
andrebbe   determinata   tenendo   conto    anche    delle    diverse
caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque,  del  grado
di pericolosita' sociale che  il  fatto  rivela  agli  effetti  della
misura ablatoria. 
    Nella medesima ottica di valorizzazione della ratio  legis,  puo'
ritenersi, peraltro, che - quando si discuta di reati che,  per  loro
natura, non implicano  un  programma  criminoso  dilatato  nel  tempo
(com'e' per la ricettazione) e che non risultino  altresi'  commessi,
comunque sia, in un ambito di criminalita' organizzata -  il  giudice
conservi  la  possibilita'  di  verificare  se,  in  relazione   alle
circostanze del caso concreto e alla personalita' del suo autore - le
quali valgano, in particolare, a connotare la vicenda criminosa  come
del  tutto  episodica  ed  occasionale  e   produttiva   di   modesto
arricchimento - il fatto per cui e'  intervenuta  condanna  esuli  in
modo manifesto dal "modello" che vale a  fondare  la  presunzione  di
illecita accumulazione di ricchezza da parte del condannato. 
    12.- Alla  luce  di  quanto  precede,  i  denunciati  profili  di
violazione  del  principio  di  eguaglianza  si   rivelano,   dunque,
insussistenti, sicche' la questione va dichiarata non fondata. 
    A fronte del ricordato processo di accrescimento della  compagine
dei reati cui e' annessa la misura ablativa  speciale,  questa  Corte
non  puo'  astenersi,  peraltro,  dal  formulare  l'auspicio  che  la
selezione dei "delitti matrice" da parte del legislatore avvenga, fin
tanto che l'istituto conservi  la  sua  attuale  fisionomia,  secondo
criteri  ad  essa  strettamente  coesi  e,  dunque,   ragionevolmente
restrittivi. Ad evitare, infatti, evidenti tensioni sul  piano  delle
garanzie  che  devono  assistere  misure  tanto  invasive  sul  piano
patrimoniale, non puo' non sottolinearsi l'esigenza che  la  rassegna
dei reati presupposto si fondi su tipologie e modalita' di  fatti  in
se' sintomatiche di un illecito arricchimento del  loro  autore,  che
trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata, cosi' da poter
veramente annettere il patrimonio "sproporzionato" e "ingiustificato"
di cui l'agente dispone ad una ulteriore attivita' criminosa  rimasta
"sommersa". 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306
(Modifiche  urgenti  al  nuovo   codice   di   procedura   penale   e
provvedimenti di contrasto alla  criminalita'  mafiosa),  convertito,
con modificazioni, in legge 7 agosto  1992,  n.  356,  sollevata,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte  d'appello  di
Reggio Calabria con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 novembre 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA