N. 59 SENTENZA 10 gennaio - 23 marzo 2018

Giudizio su conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. 
 
Immunita' parlamentare - Procedimento penale a carico di un  senatore
  - Conflitto sollevato dal Tribunale ordinario di Bergamo. 
- Deliberazione del Senato della Repubblica  del  16  settembre  2015
  (Atti Senato, XVII legislatura, Doc. IV-ter, n. 4). 
-   
(GU n.13 del 28-3-2018 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito della deliberazione del Senato della  Repubblica  del
16 settembre 2015, relativa alla insindacabilita', ai sensi dell'art.
68, primo comma, della  Costituzione,  delle  opinioni  espresse  dal
senatore Roberto Calderoli nei confronti dell'onorevole Cecile Kyenge
Kashetu,  promosso  dal   Tribunale   ordinario   di   Bergamo,   con
ordinanza-ricorso  notificata  il  27  giugno  2016,  depositata   in
cancelleria il 28 giugno 2016, novamente notificata e  depositata,  a
seguito dell'ordinanza della Corte costituzionale n.  101  del  2017,
rispettivamente il 25 maggio e il 12 giugno 2017, e iscritta al n.  3
del registro conflitti tra poteri dello Stato 2016, fase di merito. 
    Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  9  gennaio  2018  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    udito l'avvocato Francesco Saverio Bertolini per il Senato  della
Repubblica. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza-ricorso depositata il 29 gennaio 2016 (d'ora in
avanti: ricorso), il Tribunale  ordinario  di  Bergamo,  sezione  del
dibattimento penale, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica,  in  relazione
alla  deliberazione  del  16  settembre  2015  (Atti   Senato,   XVII
legislatura,  Doc.  IV-ter,  n.  4),  con  la  quale  l'Assemblea  ha
affermato che «il fatto, ai sensi dell'articolo 3  del  decreto-legge
n. 122 del 1993, convertito dalla legge n.  205  del  1993»,  per  il
quale pende giudizio penale davanti al Tribunale ricorrente, relativo
alle dichiarazioni rese dal senatore Roberto Calderoli nei  confronti
dell'allora Ministro  per  l'integrazione,  onorevole  Cecile  Kyenge
Kashetu, concerne opinioni  espresse  da  un  membro  del  Parlamento
nell'esercizio delle sue funzioni, come tali insindacabili  ai  sensi
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. 
    Il ricorrente  premette  di  essere  investito  del  procedimento
penale nei confronti del senatore  Roberto  Calderoli,  imputato  del
reato  di  diffamazione  per  aver  offeso  l'onore   e   il   decoro
dell'onorevole Kyenge con frasi pronunciate nel corso di  un  comizio
tenuto «alla presenza di una vasta platea di circa 1.500 spettatori»,
nell'ambito della «festa indetta dalla Lega Nord» a Treviglio  il  13
luglio 2013, e poi ampiamente diffuse da organi di stampa a  tiratura
nazionale. Al senatore Calderoli si addebita, in particolare, di aver
affermato che l'onorevole Kyenge «sarebbe un ottimo  Ministro,  [...]
ma dovrebbe esserlo in Congo non in Italia,  perche'  se  c'e'  [...]
bisogno di un Ministro per le pari opportunita'  per  l'integrazione,
c'e' bisogno la', perche' [...] se vedono passare un bianco  la'  gli
sparano»,  attribuendo,  altresi',  alla  stessa   onorevole   Kyenge
«sembianze di orango», tali da lasciare  «sconvolto»  il  dichiarante
nel vederla comparire sul sito internet del Governo italiano. Con  le
aggravanti di aver commesso il fatto  con  un  mezzo  particolare  di
pubblicita', quale il comizio (art.  595,  terzo  comma,  del  codice
penale), e per finalita' di  discriminazione  razziale  (art.  3  del
decreto-legge 26 aprile 1993, n.  122,  recante  «Misure  urgenti  in
materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa», convertito,
con modificazioni, in legge 25 giugno 1993, n. 205). 
    Il Tribunale ordinario di Bergamo riferisce  che,  non  ravvisata
«l'evidenza  del  collegamento  funzionale   tra   le   dichiarazioni
dell'imputato  e  la  sua   attivita'   politica»,   aveva   disposto
«l'immediata trasmissione degli atti al Senato della  Repubblica»  ai
sensi dell'art. 3, comma 4,  della  legge  20  giugno  2003,  n.  140
(Disposizioni per l'attuazione dell'articolo  68  della  Costituzione
nonche' in materia  di  processi  penali  nei  confronti  delle  alte
cariche dello Stato). Il Senato della Repubblica - prosegue ancora il
ricorrente - a seguito di votazioni per parti separate, nella  seduta
del 16 settembre 2015,  «esprimeva  voto  favorevole  alla  relazione
della  Giunta  [delle  elezioni  e  delle   immunita'   parlamentari]
sull'insindacabilita'  del   fatto   ai   sensi   dell'art.   3   del
decreto-legge n. 122 del 1993, e voto contrario sull'insindacabilita'
del fatto» ai sensi dell'art. 595, terzo comma, cod. pen. 
    1.1.- Tanto premesso, il Tribunale ricorrente  solleva  conflitto
di attribuzione tra poteri dello Stato «sotto un duplice profilo». 
    Sotto un primo aspetto, il ricorrente afferma che  compito  delle
Camere, ai sensi degli artt. 68, primo comma, Cost. e 4  della  legge
n. 140 del 2003, e' esclusivamente quello di valutare la  sussistenza
o non del nesso tra opinioni espresse dal parlamentare  ed  esercizio
delle relative funzioni, mentre sarebbe riservata alla  giurisdizione
la «qualificazione giuridica del fatto». Il Senato della  Repubblica,
ritenendo la sindacabilita' della  diffamazione  aggravata  ai  sensi
dell'art. 595, terzo comma, cod.  pen.,  e  l'insindacabilita'  della
circostanza aggravante di cui all'art. 3 del d.l. n.  122  del  1993,
avrebbe invece invaso  un  «settore  riservato  alla  giurisdizione»:
avrebbe  infatti  «apprezzato  non   un   fatto,   naturalisticamente
unitario, ma la sua qualificazione giuridica», con la conseguenza che
il Tribunale si troverebbe a  giudicare  «su  un  fatto  diversamente
qualificato rispetto a quello contestato dal Pubblico Ministero». 
    Sotto un secondo profilo, il giudice  bergamasco  assume  che  le
dichiarazioni oggetto del procedimento penale non  sarebbero  coperte
dalla guarentigia di cui all'art. 68,  primo  comma,  Cost.  -  come,
invece, ritenuto dal Senato della Repubblica -  non  avendo  esse  un
contenuto sostanzialmente identico a quello delle  opinioni  espresse
nei due atti di sindacato ispettivo richiamati nella relazione  della
Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari (atto n. 4-00166
del 14 maggio 2013 e atto n. 4-00324 del 6  giugno  2013):  atti  nei
quali erano state mosse  critiche  alle  dichiarazioni  del  Ministro
Kyenge, secondo le quali la «clandestinita'»  costituirebbe  un  «non
reato»,  rilevando  come  esse  rischiassero  di  tradursi   in   una
«istigazione a delinquere» nei confronti degli  immigrati,  «in  nome
della rivendicazione di un diritto inesistente». 
    Per un verso, infatti, l'assimilazione di una signora di colore a
un  orango  giustificherebbe,   comunque   sia,   «in   astratto   la
contestazione della natura razzista dell'insulto», escludendone  ogni
possibile collegamento con l'attivita' parlamentare. 
    Per un altro, non  sarebbe  ravvisabile  alcun  collegamento  tra
simili espressioni e «il contenuto delle problematiche  politiche  in
tema di immigrazione, fenomeno che tra l'altro non riguarda solamente
soggetti di colore». 
    1.2.- Ad avviso del ricorrente,  infine,  sussisterebbero  sia  i
presupposti soggettivi del conflitto - essendo il  Tribunale  «organo
competente a decidere,  nell'ambito  delle  funzioni  giurisdizionali
attribuite,  sull'asserita  illiceita'  delle  condotte  oggetto   di
contestazione  in  sede  penale»  -  sia  i  presupposti   oggettivi,
discutendosi, da un  lato,  della  sussistenza  dei  presupposti  per
l'applicazione dell'art. 68, primo comma, Cost. e, dall'altro,  della
«lesione   di   attribuzioni    giurisdizionali    costituzionalmente
garantite». 
    2.- Il conflitto e' stato dichiarato ammissibile con  l'ordinanza
n. 139 del 2016. 
    3.- Il Senato della Repubblica, con atto depositato  l'11  agosto
2016, si  e'  costituito  in  giudizio  esclusivamente  per  eccepire
l'improcedibilita' del conflitto, «senza accettare il contraddittorio
nel merito, al solo fine di contestare in radice l'instaurazione  del
relativo  rapporto  processuale  a   causa   dell'inesistenza   della
notificazione  degli  atti  introduttivi»,  eseguita  a  mezzo  della
polizia giudiziaria. 
    Questa Corte, con ordinanza n. 101 del 2017, ha reputato, «tenuto
conto anche della natura del giudizio per conflitto di attribuzione e
degli  interessi  che  in  esso  vengono  fatti   valere»,   che   la
notificazione eseguita  nei  giudizi  costituzionali  a  mezzo  della
polizia giudiziaria debba considerarsi «nulla e non gia' inesistente,
in quanto attuata con modalita' non  totalmente  avulse  dal  modello
legale contemplato dall'ordinamento, con conseguente sanabilita'  del
vizio».  Tuttavia,  in  considerazione  della  peculiarita'  e  della
novita' della questione,  nonche'  del  fatto  che  il  Senato  della
Repubblica si era costituito al  solo  fine  di  eccepire  l'asserita
inesistenza della notificazione, ha disposto  la  rinnovazione  della
notificazione, da parte del  ricorrente  Tribunale  di  Bergamo,  del
ricorso e delle anzidette ordinanze di questa Corte. 
    4.- Con ordinanza letta in udienza e allegata alla  ordinanza  n.
101 del 2017,  questa  Corte  ha  dichiarato  inammissibile,  perche'
tardivo, l'intervento in giudizio del senatore Calderoli. 
    5.- Rinnovata il 25 maggio 2017  la  notificazione  dei  predetti
atti, depositati il successivo 12 giugno, si e' novamente  costituito
in giudizio il Senato  della  Repubblica  in  data  27  giugno  2017,
chiedendo che il ricorso sia  dichiarato  inammissibile  o,  comunque
sia, non fondato. 
    5.1.- Ad avviso del resistente, il ricorso sarebbe  inammissibile
in rapporto ad entrambi i denunciati profili  di  interferenza  della
delibera censurata con le attribuzioni del potere giurisdizionale. 
    Quanto al primo, relativo al preteso intervento del Senato  della
Repubblica sulla qualificazione giuridica  del  fatto  contestato  al
senatore Calderoli, il resistente assume che il  Tribunale  ordinario
di Bergamo si troverebbe «in una posizione non diversa da  quella  in
cui  si  trova  qualsivoglia  autorita'  giurisdizionale»   nei   cui
confronti   una   delle   Camere   faccia   valere   la   prerogativa
dell'insindacabilita'. Ove, infatti, ritenga che le dichiarazioni per
cui si procede integrino la  mera  diffamazione  aggravata  ai  sensi
dell'art. 595, terzo comma, cod. pen., il  Tribunale  ricorrente  non
rinverrebbe  alcun  ostacolo  all'esercizio  della  propria  funzione
giurisdizionale nella delibera parlamentare, con conseguente  difetto
di interesse a promuovere il conflitto. Di contro,  ove  ritenga  che
«la fattispecie debba essere apprezzata ai sensi della previsione  di
cui all'art. 3 del d.l. n. 122 del 1993», la delibera  varrebbe  come
affermazione che l'opinione e' stata  espressa  nell'esercizio  della
funzione   parlamentare   e,   dunque,   coperta    dalla    garanzia
dell'insindacabilita': nel qual caso il  conflitto  si  presenterebbe
«nella forma consueta ed ordinaria della verifica  della  sussistenza
del nesso fra dichiarazione e funzioni parlamentari». 
    Con riferimento,  poi,  al  secondo  profilo  di  interferenza  -
relativo alla presunta assenza del suddetto nesso - il  Senato  della
Repubblica  rammenta  come,  secondo   la   costante   giurisprudenza
costituzionale, sia «onere del ricorrente riportare in modo esaustivo
il contenuto delle dichiarazioni in assunto lesive» (e' richiamata la
sentenza  n.  334  del  2011),  al  fine  di  consentire  alla  Corte
costituzionale di valutare se l'opinione espressa extra  moenia  «sia
complessivamente riconducibile a  quella  gia'  consegnata  nell'atto
parlamentare». Tale onere non sarebbe stato assolto  dal  ricorrente,
essendosi il medesimo limitato a  una  «pedissequa  trascrizione  del
capo di imputazione [...] consistente, in particolare,  di  una  mera
estrapolazione di poche parole dal contesto di una dichiarazione  del
parlamentare che, nel caso di specie, ha dato luogo ad un  articolato
intervento nel corso di un comizio».  Risulterebbe,  di  conseguenza,
pregiudicata la possibilita' di verificare se  le  dichiarazioni  per
cui si procede in sede penale siano riconducibili all'esercizio delle
funzioni parlamentari. 
    5.2.- Nel merito, la difesa del Senato della  Repubblica  afferma
che «vale il riferimento agli atti tipici della funzione compiuti dal
Senatore Calderoli ed indicati nella relazione della  Giunta  per  le
autorizzazioni,   approvata   dal   Senato   con   la   delibera   di
insindacabilita'». 
    6.- Con memoria depositata il 18 dicembre 2017, il resistente  ha
insistito per l'accoglimento della seconda delle  riferite  eccezioni
di inammissibilita'. 
    Secondo la difesa del Senato della Repubblica, la  rappresentanza
della Nazione che ogni parlamentare esercita ai  sensi  dell'art.  67
Cost.  sarebbe  caratterizzata  da  «ambivalenza».  Per   un   verso,
significherebbe  «esercizio  della  sovranita'  nazionale  nella  sua
unita' ed indivisibilita'», cui si  collega  ogni  atto  parlamentare
tipico compiuto dal parlamentare, perche' preordinato all'espressione
dell'Assemblea. Per altro verso, implicherebbe una «relazione diretta
e veritiera con i titolari della sovranita' che il  parlamentare  non
possiede ma solo esercita». Il parlamentare, in  questa  prospettiva,
sarebbe legato da un «rapporto reale» con i titolari della sovranita'
e sarebbe responsabile per il proprio mandato elettorale, per  quanto
non vincolante, nei confronti di coloro che lo scelgono «come  membro
della Camera rappresentativa». 
    Questo  «duplice  valore  del  mandato  parlamentare»  troverebbe
conferma,   a   parere   del   resistente,    nella    giurisprudenza
costituzionale, la quale sarebbe particolarmente attenta a  tutelare,
«sotto  il  profilo  dell'insindacabilita',   il   versante   rivolto
all'esercizio indipendente, da parte  dell'eletto,  dei  suoi  poteri
formali di governo». A  tali  fini,  la  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale avrebbe  evitato  che  atti  contemplati  dal  diritto
parlamentare possano essere forieri di responsabilita' giuridica  per
il parlamentare che li adotti, ma avrebbe  lasciato  scoperti  quegli
atti «con cui il parlamentare mantiene vivo nella sua concretezza  il
rapporto con  gli  elettori,  al  fine  di  porli  in  condizione  di
conoscere e valutare il suo operato e quindi di attivare quella forma
di responsabilita' che e' tramite essenziale  dell'inveramento  della
sovranita' popolare». 
    Anche tali atti non tipici dovrebbero, allora, essere coperti  da
insindacabilita': in detti casi, la verifica  sulla  sussistenza  del
nesso funzionale  dovrebbe  incentrarsi  sul  merito  delle  opinioni
espresse,  valutando  se  queste  possano  «sensatamente»  collegarsi
all'esercizio delle funzioni parlamentari. 
    Cosi' ricostruita la prerogativa di cui all'art. 68, primo comma,
Cost., risulterebbe evidente, a parere della difesa  del  resistente,
l'inammissibilita' del ricorso: il Tribunale  ordinario  di  Bergamo,
infatti, al fine di consentire alla Corte costituzionale di  valutare
l'attinenza del discorso del senatore Calderoli  all'esercizio  delle
funzioni  parlamentari,  avrebbe   dovuto   indicare   specificamente
l'oggetto dell'intervento pubblico nel corso  del  quale  sono  state
pronunciate le frasi  per  cui  si  procede  penalmente.  Invece,  il
ricorrente  ha  soltanto  riprodotto  il  capo  d'imputazione,  cosi'
precludendo  la  verifica  della   riconducibilita'   alle   funzioni
parlamentari  «della   complessiva   posizione   assunta   nel   caso
dall'interessato  in  un  contesto  di  diretta  interlocuzione   con
l'elettorato». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Bergamo, sezione  del  dibattimento
penale, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello  Stato
nei  confronti  del  Senato  della   Repubblica,   in   ordine   alla
deliberazione del 16 settembre 2015 (Atti Senato,  XVII  legislatura,
Doc. IV-ter, n. 4), con la quale l'Assemblea  ha  affermato  che  «il
fatto, ai sensi dell'articolo 3 del decreto-legge n.  122  del  1993,
convertito dalla legge n. 205 del 1993», per il quale pende  giudizio
penale davanti al Tribunale ricorrente, relativo  alle  dichiarazioni
rese  dal  senatore  Roberto  Calderoli  nei  confronti   dell'allora
Ministro  per  l'integrazione,  onorevole  Cecile   Kyenge   Kashetu,
concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio
delle sue funzioni, come tali insindacabili ai  sensi  dell'art.  68,
primo comma, della Costituzione. 
    Il Tribunale ricorrente premette che  il  senatore  Calderoli  e'
imputato del reato di diffamazione aggravata, per aver offeso l'onore
e il decoro dell'onorevole Kyenge mediante un mezzo  di  pubblicita',
quale il comizio (art. 595, terzo comma, del codice  penale),  e  per
finalita' di discriminazione razziale (art. 3  del  decreto-legge  26
aprile  1993,  n.  122,  recante  «Misure  urgenti  in   materia   di
discriminazione  razziale,  etnica  e  religiosa»,  convertito,   con
modificazioni, in legge 25 giugno 1993, n.  205),  assimilandola,  in
particolare, a un orango. 
    Con la  delibera  all'origine  del  conflitto,  il  Senato  della
Repubblica  ha  ritenuto  le  espressioni  del   senatore   Calderoli
insindacabili, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost., in rapporto
all'aggravante della finalita' di discriminazione razziale, mentre ha
escluso l'insindacabilita' del  fatto  quale  reato  di  diffamazione
aggravata dal mezzo di pubblicita'. 
    Ad avviso del ricorrente,  la  delibera  censurata  lederebbe  le
proprie attribuzioni costituzionali sotto un duplice profilo. 
    In  primo  luogo,  il  Senato  della  Repubblica,  ritenendo  «la
sindacabilita' del reato-base e l'insindacabilita' della  circostanza
aggravante»,   avrebbe   invaso   un    «settore    riservato    alla
giurisdizione», qual e' quello  della  qualificazione  giuridica  del
fatto. 
    Il Tribunale ordinario di  Bergamo  contesta,  altresi',  che  le
dichiarazioni in questione possano essere funzionalmente collegate ai
due atti di sindacato ispettivo  del  senatore  Calderoli  richiamati
dalla delibera  del  Senato.  Peraltro,  il  contenuto  stesso  della
dichiarazione, da un lato, giustificherebbe  la  contestazione  della
natura razzista  dell'insulto  e,  dall'altro,  escluderebbe  il  suo
collegamento con qualsiasi attivita' parlamentare. 
    2.-  Preliminarmente,  deve  rilevarsi  come,  a  seguito   della
ordinanza n. 101 del 2017, con la quale questa Corte  aveva  disposto
la rinnovazione della notifica del ricorso, il Tribunale ordinario di
Bergamo abbia ad essa ritualmente provveduto nelle forme previste dal
codice di procedura civile, applicabili nel  processo  costituzionale
in forza del richiamo contenuto nell'art. 39, comma 2, del codice del
processo  amministrativo,   approvato   dall'art.   1   del   decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo 44  della
legge 18 giugno 2009,  n.  69,  recante  delega  al  Governo  per  il
riordino  del  processo  amministrativo):  codice   al   quale   deve
intendersi attualmente riferito  il  rinvio  al  regolamento  per  la
procedura innanzi al Consiglio di Stato in  sede  giurisdizionale  di
cui all'art. 22 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  (Norme  sulla
costituzione  e  sul  funzionamento   della   Corte   costituzionale)
(sentenza n. 144 del 2015). 
    3.-  Ancora  in   via   preliminare,   deve   essere   confermata
l'ammissibilita' del conflitto, delibata con l'ordinanza n.  139  del
2016, sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi. 
    4.- Costituendosi in giudizio,  il  Senato  della  Repubblica  ha
formulato distinte eccezioni di inammissibilita' in rapporto alle due
doglianze nelle quali si articola il ricorso: eccezioni  che  debbono
essere, tuttavia, dichiarate non fondate. 
    4.1.- Con riferimento alla prima censura del ricorrente, relativa
alla denunciata invasione della  funzione  giurisdizionale  attinente
alla qualificazione giuridica del fatto, il resistente assume che  il
Tribunale ordinario di Bergamo si  troverebbe,  in  realta',  in  una
posizione non diversa da quella in cui si trova  qualsiasi  autorita'
giurisdizionale nei cui  confronti  la  Camera  di  appartenenza  del
parlamentare faccia valere la prerogativa dell'insindacabilita'.  Ove
ritenga che il fatto oggetto di  giudizio  integri  la  sola  ipotesi
della  diffamazione  aggravata  dall'utilizzazione  di  un  mezzo  di
pubblicita' (art. 595, terzo comma, cod. pen.), il giudice ricorrente
non vedrebbe, infatti, limitata in alcun  modo  la  propria  funzione
giurisdizionale dalla delibera censurata  e  non  avrebbe,  pertanto,
alcun interesse a promuovere il conflitto. Per converso, ove  ritenga
che  il  fatto  debba  essere  giudicato  anche  in  relazione   alla
previsione dell'art. 3 del d.l. n. 122 del 1993, la delibera varrebbe
come affermazione che le dichiarazioni sono state rese nell'esercizio
della funzione parlamentare, sicche' il  conflitto  si  presenterebbe
«nella forma consueta ed ordinaria della verifica  della  sussistenza
del nesso fra dichiarazione e funzioni parlamentari». 
    In senso contrario, va peraltro rilevato che, nel caso in  esame,
la  delibera  censurata  presenta   la   peculiarita'   di   riferire
l'affermazione dell'insindacabilita',  non  gia'  alle  dichiarazioni
rese dal parlamentare in quanto tali, ma alle dichiarazioni in quanto
sussunte  in  un  determinato  paradigma   punitivo,   quale   quello
dell'aggravante della finalita' di discriminazione razziale.  Proprio
in questa operazione il Tribunale ravvisa una esorbitanza,  ad  opera
del Senato della Repubblica, dalla  funzione  di  salvaguardia  della
guarentigia prevista dall'art. 68, primo comma, Cost.  e  l'esercizio
di un compito - quello di qualificazione giuridica del  fatto  -  che
dovrebbe rimanere  riservato  agli  organi  titolari  della  funzione
giurisdizionale. 
    Appurare se l'invasione denunciata sussista effettivamente o  non
attiene al merito, e non gia' all'ammissibilita' del conflitto. 
    4.2.-  Con  riguardo  alla  seconda   doglianza   del   Tribunale
bergamasco, intesa a  contestare  l'identita'  di  contenuto  tra  le
dichiarazioni per cui si procede  e  le  opinioni  espresse  in  atti
tipici   della   funzione   parlamentare,   il   conflitto    sarebbe
inammissibile,  secondo  il  resistente,  perche'  il  Tribunale  non
avrebbe adempiuto all'onere  di  riprodurre  in  modo  esauriente  le
dichiarazioni contestate in sede penale al senatore Calderoli: il che
impedirebbe a questa Corte di valutare se le  opinioni  extra  moenia
siano o non sostanzialmente  riproduttive  di  quelle  gia'  espresse
negli atti parlamentari tipici, richiamati dalla contestata  delibera
del Senato. 
    Nella memoria depositata in prossimita' dell'udienza pubblica, la
difesa del Senato della Repubblica ha insistito per l'accoglimento di
questa seconda eccezione con ulteriori argomenti. In particolare,  ha
rilevato come i parlamentari, in ragione della  rappresentanza  della
Nazione che  esercitano  ai  sensi  dell'art.  67  Cost.,  dovrebbero
necessariamente avere una «relazione diretta» con gli  elettori,  che
si concretizzerebbe in atti non contemplati dal diritto parlamentare:
atti  i  quali,  pero',  dovrebbero  parimente  essere   coperti   da
insindacabilita' ai sensi dell'art. 68, primo comma,  Cost.  In  tali
circostanze, bisognerebbe valutare  se,  in  ragione  del  contenuto,
l'opinione espressa possa  «sensatamente»  collegarsi  alla  funzione
rappresentativa  del  parlamentare.  Di  qui,  nel  caso  di  specie,
l'esigenza - a pena d'inammissibilita' - di  indicare  specificamente
l'oggetto dell'intervento pubblico del senatore Calderoli durante  il
quale sono state pronunciate le dichiarazioni per cui e' in corso  il
procedimento penale: solo in tal modo, infatti,  si  consentirebbe  a
questa  Corte  di  verificare  la  riconducibilita'   alle   funzioni
parlamentari  «della   complessiva   posizione   assunta   nel   caso
dall'interessato  in  un  contesto  di  diretta  interlocuzione   con
l'elettorato». 
    Pure questa seconda eccezione d'inammissibilita', come si e' gia'
rilevato, non e' pero' fondata. 
    Movendo dagli argomenti utilizzati, nella memoria illustrativa, a
sostegno di detta eccezione, va posto in luce  come  essi,  piu'  che
contestare l'ammissibilita' del conflitto,  finiscano  per  affermare
l'esigenza che la garanzia dell'insindacabilita' di cui all'art.  68,
primo  comma,  Cost.  copra   in   maniera   particolarmente   estesa
l'attivita' esterna del parlamentare. 
    Al riguardo, non puo' qui che ribadirsi il costante  orientamento
di questa Corte, secondo il quale le opinioni espresse  extra  moenia
sono coperte da insindacabilita'  solo  ove  assumano  una  finalita'
divulgativa dell'attivita' parlamentare: il che richiede che il  loro
contenuto  risulti  sostanzialmente  corrispondente   alle   opinioni
espresse nell'esercizio delle  funzioni  «al  di  la'  delle  formule
letterali usate (sentenza n. 333 del 2011), non  essendo  sufficiente
ne'  un  semplice  collegamento   tematico   o   una   corrispondenza
contenutistica parziale (sentenza n.  334  del  2011),  ne'  un  mero
"contesto politico" entro cui le dichiarazioni extra  moenia  possano
collocarsi (sentenza n. 205 del 2012), ne',  infine,  il  riferimento
alla generica attivita' parlamentare o l'inerenza a temi  di  rilievo
generale, seppur dibattuti in Parlamento» (sentenza n. 144 del  2015;
nello stesso senso, altresi', ex plurimis, sentenze n. 265, n. 221  e
n. 55  del  2014).  Una  diversa  interpretazione  della  prerogativa
dell'insindacabilita',    infatti,    «dilaterebbe    il    perimetro
costituzionalmente  tracciato,  generando   un'immunita'   non   piu'
soltanto funzionale ma,  di  fatto,  sostanzialmente  "personale",  a
vantaggio di chi sia stato eletto membro del Parlamento» (sentenze n.
264 e n. 115 del 2014, n. 313 del 2013; nel medesimo  senso  gia'  le
sentenze n. 508 del 2002, n. 56, n. 11 e n. 10 del 2000). 
    Va d'altra parte rammentato come, nell'affrontare il  tema  della
insindacabilita' delle opinioni espresse da membri del  Parlamento  a
salvaguardia di prerogative inerenti lo specifico munus proprio della
carica, la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  abbia  operato  una
netta distinzione tra le dichiarazioni rilasciate intra moenia,  vale
a dire nello specifico esercizio di quelle funzioni,  e  quelle  rese
fuori dalla sede tipica, e percio' stesso in  assenza  di  un  legame
evidente con l'attivita' parlamentare, affermando in  piu'  occasioni
la necessita' di una  interpretazione  stretta  del  requisito  della
ragionevole  proporzionalita'  tra  i  mezzi  impiegati  e  lo  scopo
perseguito, cui restano subordinate  le  limitazioni  al  diritto  di
accesso a un tribunale,  sancito  dall'art.  6,  paragrafo  1,  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con  legge  4  agosto  1955,  n.  848.  E  cio',  in
particolare, proprio nei casi in cui  dette  limitazioni  derivino  -
come nella specie - da una deliberazione di insindacabilita' da parte
della Camera cui appartiene il parlamentare, la  quale  impedisce  al
giudice di esercitare la propria funzione nel  caso  devolutogli  dal
soggetto che esercita il proprio diritto (Corte europea  dei  diritti
dell'uomo, sentenza  6  aprile  2010,  C.G.I.L.  e  Cofferati  contro
Italia; sentenza  24  febbraio  2009,  C.G.I.L.  e  Cofferati  contro
Italia; sentenza 20 aprile 2006, Patrono, Cascini e Stefanelli contro
Italia; sentenza 6 dicembre 2005,  Ielo  contro  Italia;  sentenza  3
giugno 2004, De  Jorio  contro  Italia;  sentenza  30  gennaio  2003,
Cordova contro Italia). 
    Cosi'   ribadita   la   corretta   lettura   della    prerogativa
dell'insindacabilita' di cui all'art. 68, primo  comma,  Cost.,  deve
rilevarsi  che  il  ricorrente  non  e'  venuto  meno  all'onere   di
riprodurre in modo esauriente le  dichiarazioni  contestate  in  sede
penale al senatore Calderoli. Questa Corte, infatti,  ha  gia'  avuto
modo di affermare in piu' occasioni che il  riferimento  al  capo  di
imputazione formulato in sede penale vale ad assolvere  detto  onere,
allorche' l'analiticita' dell'imputazione ascritta al parlamentare  e
riportata in ricorso consenta alla Corte stessa di  identificare  con
sufficiente grado di  precisione  il  contenuto  delle  dichiarazioni
asseritamente diffamatorie rese extra moenia al fine di  raffrontarlo
con quello di  eventuali  atti  tipici  della  funzione  parlamentare
(sentenze n. 55 del 2014, n. 205 del 2012, n. 334 del  2011,  n.  330
del 2008). Tale ipotesi e' riscontrabile nel caso di  specie,  stante
la  dettagliata  formulazione  del  capo  di  imputazione  riprodotto
nell'atto introduttivo del presente conflitto,  che  indica  in  modo
puntuale e testuale le dichiarazioni in assunto lesive. 
    5.- Nel merito, il ricorso e' fondato sotto  entrambi  i  profili
per cui esso e' promosso. 
    5.1.- Riguardo al primo, vale osservare che quando le Camere sono
chiamate a deliberare sull'insindacabilita' ai  sensi  dell'art.  68,
primo comma, Cost. di opinioni  espresse  da  loro  componenti,  esse
debbono compiere una  valutazione  sulla  riconducibilita'  di  dette
opinioni alle funzioni parlamentari. A tale fine, non  assume  alcuna
rilevanza la  qualificazione  giuridica  del  fatto  storico  operata
dall'autorita' giudiziaria in base alla legge, poiche' le Camere  non
sono chiamate a pronunciarsi sugli effetti che la  singola  autorita'
giudiziaria fa derivare dall'opinione espressa dal  parlamentare,  ma
solo sulla correlazione tra quest'ultima e l'esercizio delle funzioni
parlamentari. 
    L'eventuale  effetto  inibitorio  derivante  dalla  deliberazione
assembleare  presuppone,   si',   che   quest'ultima   si   riferisca
specificamente alle opinioni che  formano  oggetto  del  giudizio  di
responsabilita' (sentenze n. 302 del 2007 e n. 265 del 1997), ma  non
e' limitato al contenzioso da cui ha avuto origine la decisione della
Camera:  l'insindacabilita'  e',   infatti,   una   «"qualita'"   che
caratterizza,  in  se'  e   ovunque,   la   opinione   espressa   dal
parlamentare, la quale, proprio per il fondamento costituzionale  che
la assiste, e' necessariamente destinata ad operare, oggettivamente e
soggettivamente, erga omnes» (sentenza n. 194  del  2011).  In  altri
termini, dalla riscontrata sussistenza del nesso funzionale ad  opera
della deliberazione assembleare consegue, quale  «deroga  eccezionale
[...]  alla  normale  esplicazione  della  funzione  giurisdizionale»
(sentenza n. 265 del  1997),  l'insindacabilita'  di  quell'opinione,
quale che sia la sede in cui il  parlamentare  sia  (o  eventualmente
sara') chiamato a risponderne. 
    E' di esclusiva spettanza del giudice,  invece,  valutare  se  le
dichiarazioni ascritte al parlamentare  diano  luogo  a  una  qualche
forma   di   responsabilita'   giuridica,   ovvero   «concretino   la
manifestazione del diritto di critica politica, di cui egli, al  pari
di qualsiasi altro soggetto, fruisce  ai  sensi  dell'art.  21  della
Costituzione» (sentenza  n.  347  del  2004).  Altrimenti  detto,  e'
soltanto l'autorita' giudiziaria,  nell'ambito  di  una  attribuzione
costituzionale  esclusiva,  che   puo'   qualificare   giuridicamente
l'opinione  espressa,  ricollegando  al  fatto  storico  gli  effetti
giuridici previsti dalla legge. Ed e' sempre al  potere  giudiziario,
secondo i rimedi consueti riconosciuti dagli ordinamenti processuali,
che  spetta  il  controllo  sulla  correttezza  di  tale  definizione
giuridica. 
    Con la delibera contestata dal ricorrente Tribunale ordinario  di
Bergamo, il Senato  della  Repubblica  e',  per  converso,  in  tutta
evidenza, intervenuto  sulla  qualificazione  giuridica  delle  frasi
pronunciate dal senatore Calderoli. 
    Secondo  l'ipotesi  accusatoria  la  cui  fondatezza  il  giudice
ricorrente e' chiamato a verificare, dette frasi integrano  il  reato
di diffamazione, aggravato tanto perche'  l'offesa  e'  stata  recata
mediante comizio, quale particolare mezzo di pubblicita'  (art.  595,
terzo comma, cod. pen.), quanto  perche'  sorretta  da  finalita'  di
discriminazione razziale (art. 3 del d.l. n. 122 del  1993):  non  si
tratta, pertanto, di due fatti storici autonomamente  valutabili,  ma
di un medesimo fatto,  naturalisticamente  unitario,  sussunto  sotto
plurime norme di legge. 
    Il Senato della Repubblica - non limitandosi  a  valutare  se  le
opinioni  siano  state   espresse   nell'esercizio   delle   funzioni
parlamentari, ma affermando che «il fatto [...] per il  quale  e'  in
corso il procedimento a carico del senatore Calderoli» e' sindacabile
in  rapporto  al  reato  di  diffamazione  aggravata  dal  mezzo   di
pubblicita' ed e', invece, insindacabile in  rapporto  all'aggravante
della finalita' di discriminazione razziale - si e' espresso, dunque,
sulla qualificazione giuridica del fatto storico, invadendo cosi'  un
campo costituzionalmente riservato al potere giudiziario.  Il  tutto,
fra l'altro, nel quadro di una non consentita scissione del  concetto
di  insindacabilita'  delle  opinioni  espresse  da  un  membro   del
Parlamento, tra contenuto della  opinione  in  se'  e  finalita'  che
caratterizzerebbe quella esternazione. 
    5.2.- Le opinioni espresse  dal  senatore  Calderoli  non  hanno,
inoltre,  alcun  nesso  funzionale  con  l'esercizio   dell'attivita'
parlamentare. 
    5.2.1.-  Va  innanzitutto  osservato  che,  per  il  loro  tenore
testuale, le frasi per cui e' in corso  il  procedimento  penale  non
risultano ex se  riconducibili  a  opinioni  espresse  nell'esercizio
delle funzioni  parlamentari.  La  prerogativa  parlamentare  di  cui
all'art. 68, primo comma, Cost.,  infatti,  non  puo'  essere  estesa
«sino a ricomprendere gli insulti - di cui e' comunque discutibile la
qualificazione  come  opinioni  -  solo  perche'  collegati  con   le
"battaglie" condotte da esponenti parlamentari» (sentenza n. 137  del
2001; analogamente sentenza n. 257 del 2002). 
    5.2.2.- Le frasi per le quali e' in corso il procedimento  penale
a carico del senatore Calderoli, inoltre, non hanno  alcun  contenuto
sostanzialmente corrispondente a quello dei  due  atti  di  sindacato
ispettivo cui si fa riferimento nella relazione  della  Giunta  delle
elezioni e delle immunita' parlamentari, cosi' venendo a mancare  una
delle condizioni richieste dalla gia'  richiamata  giurisprudenza  di
questa Corte affinche' l'attivita' esterna del membro del  Parlamento
possa essere legittimamente ricompresa nelle funzioni parlamentari. 
    La  prima  delle  interrogazioni  parlamentari  richiamate  nella
relazione della Giunta (n. 4-00166 del  14  maggio  2013)  -  movendo
dalla vicenda concernente l'aggressione omicida, a colpi di  piccone,
perpetrata da un cittadino extracomunitario a Milano nel maggio  2013
-   criticava   alcune   dichiarazioni   dell'allora   Ministro   per
l'integrazione Kyenge, che aveva definito «la clandestinita' un  "non
reato"»,  e  chiedeva  al  medesimo  Ministro  quali  interventi   di
contrasto all'immigrazione irregolare intendesse adottare. La seconda
interrogazione (n. 4-00324 del 6 giugno 2013) - movendo,  invece,  da
uno sbarco avvenuto nel giugno 2013 in provincia di  Reggio  Calabria
di 121 migranti di nazionalita' afghana e  siriana,  gran  parte  dei
quali donne e bambini - metteva in correlazione talune  dichiarazioni
del  Ministro  Kyenge,  relative   all'abrogazione   del   reato   di
clandestinita'  e  all'introduzione  del  cosiddetto  ius  soli,  con
l'aumento di simili sbarchi sulle coste italiane, per poi chiedere al
Governo quali interventi  di  contrasto  all'immigrazione  irregolare
intendesse adottare, con particolare riguardo ai minori e alle  donne
in stato di gravidanza. 
    E' palese, dunque,  come  il  contenuto  di  entrambi  tali  atti
parlamentari tipici non abbia alcuna  sostanziale  corrispondenza  di
significato con le espressioni,  per  cui  e'  pendente  procedimento
penale. 
    6.- La delibera del Senato  della  Repubblica  del  16  settembre
2015, in conclusione, deve considerarsi, per entrambi i  profili  per
cui   e'   sollevato    conflitto,    lesiva    delle    attribuzioni
costituzionalmente garantite del ricorrente  Tribunale  ordinario  di
Bergamo  e,  conseguentemente,  deve,  per   questa   parte,   essere
annullata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara che non spettava al Senato della Repubblica affermare
che «il fatto, ai sensi dell'articolo 3 del decreto-legge n. 122  del
1993, convertito dalla legge n. 205 del 1993», per il quale pende  il
procedimento penale a carico del senatore Roberto  Calderoli  davanti
al Tribunale ordinario di Bergamo, di  cui  al  ricorso  indicato  in
epigrafe, concerne opinioni espresse  da  un  membro  del  Parlamento
nell'esercizio delle sue  funzioni,  ai  sensi  dell'art.  68,  primo
comma, della Costituzione; 
    2) annulla, per l'effetto, la deliberazione  di  insindacabilita'
adottata dal Senato della Repubblica, nella seduta del  16  settembre
2015 (Atti Senato, XVII legislatura, Doc. IV-ter, n. 4). 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2018. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA