N. 46 ORDINANZA 11 febbraio - 9 marzo 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Elezioni - Cariche elettive e di Governo - Sospensione di diritto  in
  caso di condanna non definitiva  per  determinati  reati  -  Durata
  massima di diciotto mesi in caso di prima  condanna  in  appello  -
  Denunciata disparita' di trattamento rispetto alla "doppia sentenza
  conforme" di condanna - Manifesta infondatezza della questione. 
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, artt.  11,  commi  1,
  lettera a), e 4. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.11 del 11-3-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  11,  commi
1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e  di
divieto di ricoprire cariche elettive  e  di  Governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge  6  novembre  2012,  n.  190),
promosso  dal  Tribunale  ordinario  di  Vercelli  nel   procedimento
vertente tra P. T. e la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo
di Vercelli e altro, con ordinanza del 15 febbraio 2019, iscritta  al
n. 84  del  registro  ordinanze  2019  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 24,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2019. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 29 gennaio  2020  il  Giudice
relatore Daria de Pretis; 
    deliberato nella camera di consiglio dell'11 febbraio 2020. 
    Ritenuto che il Tribunale ordinario di  Vercelli,  con  ordinanza
del 15 febbraio 2019  (reg.  ord.  n.  84  del  2019),  ha  sollevato
questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  commi  1,
lettera a), e 4 del decreto legislativo  31  dicembre  2012,  n.  235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e  di
divieto di ricoprire cariche elettive  e  di  Governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.  190),  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione; 
    che la questione e' sorta nel corso di un giudizio promosso da P.
T. nei confronti della Prefettura - Ufficio territoriale del  Governo
di Vercelli e  del  Ministro  dell'interno,  avente  per  oggetto  il
decreto del 20 dicembre 2018 con  cui  il  Prefetto  di  Vercelli  ha
dichiarato la sussistenza in capo a P. T. di una causa di sospensione
di diritto dalla carica di Sindaco di B. ai sensi dell'art. 11, comma
1, lettera a), del d.lgs.  n.  235  del  2012,  secondo  cui  «[s]ono
sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell'articolo 10
[...] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per  uno
dei delitti indicati all'articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)»; 
    che il giudice a quo riferisce che la sospensione dalla carica di
sindaco si fonda su una sentenza di condanna non  definitiva  per  il
delitto di concorso in peculato di cui  agli  artt.  110  e  314  del
codice penale, compreso tra quelli indicati  all'art.  10,  comma  1,
lettera c), del d.lgs. n. 235 del 2012, e che la  condanna  e'  stata
pronunciata dalla Corte di appello di Torino il 24  luglio  2018,  in
riforma della sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado  dal
Tribunale ordinario di Torino  il  5  gennaio  2017  con  la  formula
«perche' il fatto non sussiste»; 
    che  la  norma  e'  censurata  nella  parte  in  cui  prevede  la
sospensione per diciotto mesi dalle  cariche  indicate  all'art.  10,
comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 anche di coloro che, gia' assolti
con sentenza di primo grado, abbiano riportato  in  appello  condanna
non definitiva per uno dei delitti  indicati  allo  stesso  art.  10,
comma 1, lettere a), b) e c); 
    che,  quanto  alla  rilevanza,  il  rimettente  precisa  che  per
definire la controversia e' necessario applicare la norma  censurata,
poiche' il provvedimento prefettizio impugnato, pur non indicando  la
durata del periodo  di  sospensione  dalla  carica  di  sindaco,  non
sarebbe per cio' solo  illegittimo,  dovendo  essere  «integrato  dal
disposto del comma 4 dell'art.  11»  del  d.lgs.  n.  235  del  2012,
secondo cui «[l]a sospensione cessa di diritto  di  produrre  effetti
decorsi diciotto mesi» (primo periodo); 
    che,  quanto  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
osserva che la condanna in appello determina  una  durata  differente
della sospensione dalla carica a  seconda  che  l'amministratore  sia
stato assolto oppure sia stato gia' condannato  in  primo  grado:  in
caso di condanna in appello a seguito di  una  assoluzione  in  primo
grado la durata della sospensione sarebbe, come  visto,  di  diciotto
mesi, mentre in caso di condanna confermata  in  appello  sarebbe  di
dodici mesi, stante che ai sensi del secondo periodo del citato comma
4, qualora «l'appello proposto dall'interessato avverso  la  sentenza
di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva,  decorre
un ulteriore periodo di sospensione che  cessa  di  produrre  effetti
trascorso il termine  di  dodici  mesi  dalla  sentenza  di  rigetto»
(secondo periodo); 
    che  da  tale  assetto  normativo  sorgerebbe   un'ingiustificata
disparita' di trattamento  dei  condannati  per  la  prima  volta  in
secondo grado rispetto a coloro che, per lo stesso  delitto,  abbiano
riportato una  doppia  sentenza  di  condanna,  in  quanto  solo  nei
confronti di questi ultimi la sospensione dalle cariche  avrebbe  una
durata di dodici  mesi  anziche'  di  diciotto,  con  violazione  dei
principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.; 
    che secondo il rimettente - che evoca  lo  scopo  perseguito  dal
legislatore con il d.lgs. n. 235 del  2012,  di  allontanare  chi  ha
commesso determinati reati dall'amministrazione della  cosa  pubblica
anche con misure cautelari, come  la  sospensione  dalla  carica,  in
attesa della definitivita' della condanna - la posizione di  chi  sia
stato assolto in primo grado e condannato in appello per  un  delitto
quale il peculato «non  e'  certamente  piu'  censurabile,  ne'  piu'
pericolosa per la pubblica amministrazione, rispetto a quella di  chi
sia stato condannato per lo stesso reato tanto  in  primo  quanto  in
secondo grado», cosicche' sarebbe «irragionevole prevedere  che,  per
effetto della sentenza di condanna in appello, l'allontanamento dalla
carica pubblica sia di dodici mesi per  chi  ha  gia'  riportato  una
precedente condanna e di diciotto mesi per chi sia stato  assolto  in
primo  grado»;  in  quanto  «all'amministratore  con   la   posizione
processuale  piu'  lieve»,  perche'  condannato   in   appello   dopo
l'assoluzione   in   primo   grado,   verrebbe   contraddittoriamente
consentito di riprendere l'esercizio  della  carica  «sei  mesi  dopo
l'amministratore con la posizione processuale piu' gravosa»,  perche'
soggetto alla doppia  sentenza  di  condanna,  in  contrasto  con  la
finalita' di tutela della cosa pubblica perseguita dal d.lgs. n.  235
del 2012 e con la necessita'  di  non  comprimere  eccessivamente  il
diritto di elettorato passivo garantito dall'art. 51 Cost.; 
    che  la  disparita'  di  trattamento  non  sarebbe   giustificata
dall'esigenza di evitare a chi sia stato  gia'  condannato  in  primo
grado, e abbia percio' gia' subito la sospensione  dalla  carica  per
diciotto  mesi,  «l'inflizione  di  una  nuova  sospensione  di  pari
durata»: ad avviso del rimettente, la previsione  censurata  potrebbe
si' «essere ragionevole avendo riguardo alla complessiva posizione di
colui   che   riporta   una   doppia   condanna»,    ma    rimarrebbe
«comparativamente  l'irrazionalita'  della  disposizione  [...]   che
infligge al condannato soltanto  in  secondo  grado  una  sospensione
maggiore (di diciotto mesi,  anziche'  dodici)»,  non  comprendendosi
«perche', all'esito della pronuncia  di  una  condanna  in  grado  di
appello, l'assolto in primo grado sia trattato piu'  severamente  del
condannato anche in primo grado»; 
    che nemmeno sarebbe possibile  interpretare  diversamente  l'art.
11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012, in quanto  la  durata  della
sospensione  e'  stabilita  dal  legislatore  «in  misura   fissa   e
predeterminata», non modificabile dal giudice; 
    che, con atto depositato il 2  luglio  2019,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  che  ha  concluso  per
l'inammissibilita' e comunque per l'infondatezza della questione; 
    che,  secondo  la   difesa   erariale,   la   questione   sarebbe
inammissibile per la palese erroneita' del presupposto interpretativo
della «normativa di riferimento»  su  cui  si  fonda,  in  quanto  il
rimettente individuerebbe il tertium  comparationis  della  lamentata
disparita' di trattamento in una situazione insussistente in astratto
e, pertanto, non  verificabile  in  concreto,  come  quella  di  chi,
condannato in appello per uno dei reati di cui all'art. 10, comma  1,
lettere a), b e c), del d.lgs. n. 235 del 2012, sia assoggettato a un
periodo di sospensione dalla carica pubblica di "soli" dodici mesi; 
    che l'art. 11, comma 4, dello  stesso  d.lgs.  n.  235  del  2012
detterebbe, in via generale, una  disciplina  uniforme  sulla  durata
della sospensione dalle cariche elettive, che in caso di condanna del
pubblico funzionario (comminata in primo grado o per la  prima  volta
in appello) e' di diciotto mesi; 
    che, prevedendo poi un  «ulteriore»  periodo  di  sospensione  di
dodici mesi nel caso di rigetto dell'appello avverso la  sentenza  di
condanna,  la  norma  renderebbe  evidente  che  l'unica  ipotesi  di
sospensione di dodici mesi,  per  effetto  della  cosiddetta  "doppia
sentenza conforme", e' quella di chi sia  gia'  stato  sospeso  dalla
carica per un periodo  massimo  di  diciotto  mesi  a  seguito  della
condanna in primo grado: con il risultato che la durata massima della
sospensione potra' essere di diciotto o di trenta mesi complessivi  e
mai, in nessun caso, di "soli" dodici mesi; 
    che l'affermazione del rimettente, secondo  cui  «[a]ppare  [...]
irragionevole  prevedere  che,  per  effetto  della  pronuncia  della
sentenza  di  condanna  in  appello,  l'allontanamento  dalla  carica
pubblica sia di dodici mesi per chi ha gia' riportato una  precedente
condanna e di diciotto mesi  per  chi  sia  stato  assolto  in  primo
grado», sarebbe pertanto frutto di un palese  errore  interpretativo,
in quanto chi riporta una condanna confermata in appello subirebbe un
periodo massimo di sospensione non di dodici mesi, bensi' di trenta; 
    che, in subordine, la questione sarebbe  comunque  infondata  per
l'insussistenza della lamentata disparita' di trattamento; 
    che, per la natura essenzialmente cautelare della sospensione (e'
citata la sentenza n. 276 del 2016), la norma censurata  delineerebbe
un'equilibrata disciplina, contemperando, bilanciandoli,  il  diritto
di elettorato passivo e il  buon  andamento  dell'amministrazione:  a
fronte di una sentenza di condanna non definitiva, il legislatore  fa
prevalere  per  un  periodo  di  diciotto   mesi   l'interesse   alla
salvaguardia della funzione elettiva  nelle  more  della  definizione
giudiziale, comprimendo il  diritto  di  elettorato  passivo  per  un
ulteriore  periodo  massimo  di  dodici  mesi  ove  la  condanna  sia
confermata in appello, ma tali finalita'  diventano  recessive  e  si
ritraggono, consentendo la riespansione  del  diritto  di  elettorato
passivo, se i tempi di definizione del processo si  prolungano  oltre
quei limiti di durata massima della sospensione; 
    che, alla luce di questi principi, non  si  potrebbe  condividere
l'affermazione del rimettente secondo cui irragionevolmente la  norma
tratterebbe l'assolto in primo grado e condannato  in  appello  «piu'
severamente» del condannato in primo e in secondo grado, e  cio'  non
soltanto  perche',  come  visto,  chi  riporta  una  doppia  sentenza
conforme di condanna non subirebbe  un  trattamento  piu'  lieve,  ma
soprattutto perche' l'esigenza di proporzionalita' insita nel sistema
andrebbe  commisurata  al  grado  di  avvicinamento  alla   "certezza
processuale" della colpevolezza, onde quanto piu' si e' vicini a tale
momento, tanto  piu'  l'esigenza  di  tutelare  l'onorabilita'  della
carica e il buon andamento  dell'amministrazione  dovrebbe  prevalere
sull'esigenza di tutelare il diritto di elettorato passivo; 
    che, per questa ragione, il legislatore avrebbe discrezionalmente
stabilito in diciotto mesi la durata massima  della  sospensione  nel
caso di condanna comminata da un solo giudice (in primo o in  secondo
grado) e ne avrebbe prolungato la durata di  altri  dodici  mesi  nel
caso di conferma della condanna da parte del giudice d'appello, salva
la decadenza dalla carica una volta sopravvenuto il giudicato; 
    che non rileverebbe il fatto che, come osserva il rimettente,  il
condannato  per  la   prima   volta   in   appello   puo'   rientrare
nell'esercizio della carica «sei mesi dopo» il condannato in entrambi
i gradi, giacche' invece la situazione complessiva  di  quest'ultimo,
che subisce la sospensione di dodici mesi sul presupposto  di  averla
gia'  subita  al  massimo  per  diciotto,   comporta   una   maggiore
compressione del diritto di elettorato passivo; 
    che le parti del processo principale non si  sono  costituite  in
giudizio. 
    Considerato che il Tribunale ordinario di Vercelli  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'art. 11, commi 1, lettera  a),  e  4
del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo  unico  delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a  sentenze  definitive  di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma  63,
della legge 6 novembre 2012, n. 190), in riferimento all'art. 3 della
Costituzione; 
    che la questione e' sorta nel corso di un giudizio  vertente  sul
decreto con cui il Prefetto di Vercelli ha dichiarato la  sussistenza
in capo al Sindaco di B. di una causa di sospensione di diritto dalla
carica ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n.  235
del 2012, secondo  cui  «[s]ono  sospesi  di  diritto  dalle  cariche
indicate al comma 1 dell'articolo 10 [...] coloro che hanno riportato
una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all'articolo
10, comma 1, lettere a), b) e c)»; 
    che  la  norma  e'  censurata  nella  parte  in  cui  prevede  la
sospensione per diciotto mesi dalle  cariche  indicate  all'art.  10,
comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 anche di coloro che  siano  stati
assolti con sentenza di primo grado, ma abbiano riportato in  appello
condanna non definitiva per uno dei delitti indicati allo stesso art.
10, comma 1, lettere a), b) e c); 
    che  il  rimettente  solleva  una  questione  di  disparita'   di
trattamento normativo, lamentando  la  violazione  del  principio  di
uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.; 
    che le situazioni messe a confronto sono quelle  di  coloro  che,
gia' assolti in primo grado, sono stati condannati in  secondo  grado
in via non definitiva per un reato che  comporta  la  sospensione  di
diritto dalle cariche elettive negli enti locali (come il  ricorrente
nel processo principale, che riveste  la  carica  di  sindaco  di  un
Comune piemontese ed e' stato condannato in appello per peculato dopo
essere stato assolto in primo grado dalla  medesima  imputazione  con
formula piena) e di coloro che hanno invece riportato per  lo  stesso
reato  una  cosiddetta  "doppia  sentenza  conforme"   di   condanna,
anch'essa non definitiva; 
    che la disparita' di trattamento consisterebbe nel fatto che  gli
uni sono soggetti alla sospensione dalla  carica  per  la  durata  di
diciotto mesi, ai sensi dell'art. 11, comma  4,  primo  periodo,  del
d.lgs. n. 235 del 2012, ai sensi del quale «[l]a sospensione cessa di
diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi», mentre gli  altri
subirebbero la sospensione per la minore durata di  dodici  mesi,  ai
sensi dello stesso comma 4,  secondo  periodo,  ai  sensi  del  quale
«[n]el caso in cui l'appello  proposto  dall'interessato  avverso  la
sentenza di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva,
decorre un ulteriore periodo di sospensione  che  cessa  di  produrre
effetti trascorso  il  termine  di  dodici  mesi  dalla  sentenza  di
rigetto»; 
    che quest'ultima norma e' dunque assunta a tertium comparationis; 
    che,    quanto    alla    rilevanza,    il    rimettente    offre
un'interpretazione plausibile dell'art. 11, comma 4,  primo  periodo,
del d.lgs. n. 235 del 2012, nel senso che la  sospensione  automatica
dalla  carica  di  amministratore   locale,   in   riferimento   alla
fattispecie dedotta nel giudizio a quo (condanna non  definitiva  per
peculato), produce effetti per diciotto mesi  senza  distinguere  tra
condanna pronunciata in primo grado o per la prima volta in  appello:
il  presupposto  di  tale  efficacia  va  infatti   ricercato   nella
previsione del comma 1, lettera a), dello  stesso  art.  11,  che  fa
dipendere la sospensione dalla «condanna non definitiva» per uno  dei
delitti previsti all'art. 10, comma 1,  lettere  a),  b)  e  c),  del
d.lgs. n. 235 del 2012, essendo indifferente il grado di giudizio nel
quale essa e' pronunciata; 
    che le stesse considerazioni portano poi a ritenere che l'oggetto
della questione sia stato correttamente  individuato  dal  rimettente
nei commi 1,  lettera  a),  e  4  (limitatamente  al  primo  periodo)
dell'art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, poiche' dal  loro  combinato
disposto deriva la regola per determinare la durata della sospensione
concretamente applicabile nel giudizio a quo, che investe  anche  gli
effetti nel tempo di tale misura; 
    che l'eccezione di inammissibilita' proposta dal  Presidente  del
Consiglio dei ministri per «erronea individuazione della  fattispecie
astratta che costituisce il tertium comparationis» non e' fondata, in
quanto la ragione dedotta riguarda il merito; 
    che, nel merito, la questione e' manifestamente infondata; 
    che il giudice a quo, muovendo da un'interpretazione del  tertium
comparationis palesemente  erronea,  ha  infatti  messo  a  confronto
situazioni non comparabili, perche' non omogenee; 
    che, come visto, il rimettente  assume  a  tertium  comparationis
l'art. 11, comma 4, secondo periodo, del d.lgs. n. 235 del  2012  sul
convincimento che, alla stregua di tale disposizione, i condannati in
primo  grado  con  sentenza  confermata  in   appello   ricevano   un
trattamento piu' favorevole, subendo la sospensione automatica  dalla
carica per un periodo inferiore (dodici mesi) a quello previsto dalla
norma censurata  per  coloro  che,  assolti  in  primo  grado,  siano
condannati in appello (diciotto mesi); 
    che, tuttavia, come parimenti visto, il secondo periodo del comma
4 prevede che in caso di rigetto dell'appello avverso la sentenza  di
condanna decorra un «ulteriore» periodo di sospensione che  cessa  di
produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi  dalla  sentenza
di rigetto; 
    che,  in   quanto   «ulteriore»,   tale   periodo   non   decorre
isolatamente, ma si  aggiunge,  senza  soluzione  di  continuita',  a
quello che consegue in via automatica alla  condanna  pronunciata  in
primo grado, la cui efficacia  non  cessa  se  entro  il  termine  di
diciotto mesi sopravviene la sentenza di conferma in appello; 
    che tale conclusione, agevolmente desumibile sul piano letterale,
e' confermata sul piano sistematico  dalla  previsione  dell'art.  8,
comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012,  che  regola  l'efficacia  della
sospensione nell'analoga fattispecie della condanna dei  titolari  di
cariche regionali, stabilendo che «[l]a sospensione cessa di  diritto
di produrre effetti decorsi diciotto mesi», ma «[l]a  cessazione  non
opera»  se  entro  tale   termine   «l'impugnazione   in   punto   di
responsabilita' e' rigettata  anche  con  sentenza  non  definitiva»,
derivando da cio' che  «la  sospensione  cessa  di  produrre  effetti
decorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto»; 
    che, nell'ipotesi di rigetto  dell'appello,  il  condannato  puo'
dunque rimanere sospeso  di  diritto  dalla  carica  per  un  periodo
complessivo di trenta mesi; 
    che, di fatto, tale periodo potra' essere - e probabilmente sara'
di regola - inferiore, in misura variabile  a  seconda  della  durata
reale del giudizio d'appello e del concreto svolgersi  delle  vicende
processuali successive, cio' che tuttavia  non  rileva  ai  fini  del
giudizio di  comparazione,  nel  quale  sono  poste  a  confronto  le
fattispecie normative che prevedono i termini  massimi  di  efficacia
della sospensione; 
    che  la  scelta  legislativa  di  prolungare  gli  effetti  della
sospensione e' diretta a corrispondere, anche dopo la conferma  della
condanna per reati di  particolare  gravita'  o  contro  la  pubblica
amministrazione, alle permanenti esigenze cautelari che  giustificano
l'automatica applicazione della misura «in attesa che  l'accertamento
penale si consolidi  nel  giudicato»  (sentenza  n.  276  del  2016),
determinando la decadenza dalla carica (art. 11, comma 7, del  d.lgs.
n. 235 del 2012); 
    che in questo contesto l'abbreviazione del periodo  di  efficacia
della sospensione stessa, decorrente dalla sentenza  di  primo  grado
(dodici mesi anziche' diciotto),  costituisce  il  non  irragionevole
esito di un ulteriore bilanciamento operato dal legislatore  tra  gli
interessi in gioco, al fine di evitare un'eccessiva compressione  nel
tempo del diritto di elettorato passivo, tenuto conto del periodo  di
allontanamento dalla carica gia' trascorso; 
    che  il  legislatore  ha  cosi'  «tempera[to]  in   maniera   non
irragionevole gli effetti automatici della sentenza di  condanna  non
definitiva in ragione del trascorrere del tempo e  della  progressiva
stabilizzazione della stessa pronuncia» (sentenza n.  36  del  2019),
rispondendo la gradualita' di tali effetti alla generale esigenza  di
proporzionalita' e adeguatezza della misura rispetto  alla  possibile
lesione dell'interesse pubblico causata dalla permanenza  dell'eletto
nell'organo elettivo (sentenza n. 276 del 2016); 
    che, a fronte della descritta situazione, colui che,  assolto  in
primo grado e poi condannato in appello, viene sospeso per un periodo
massimo di diciotto mesi,  non  e'  trattato  «piu'  severamente  del
condannato anche in primo grado», come afferma il giudice a  quo,  ma
riceve invece, per effetto della sentenza d'appello  che  ne  accerta
per  la  prima  volta  la  responsabilita',  lo  stesso   trattamento
riservato a chi riporta la condanna gia' in primo grado; e cio' senza
contare  che  nei  suoi  confronti  non  potrebbe  mai  decorrere  un
«ulteriore» periodo di sospensione  di  dodici  mesi,  mancandone  in
astratto il presupposto  (id  est,  la  conferma  della  condanna  in
appello); 
    che il giudice a quo mostra di cogliere l'effettiva portata della
disciplina, la' dove ammette  che  essa  potrebbe  dirsi  ragionevole
«avendo riguardo alla complessiva posizione di colui che riporta  una
doppia condanna», per  sottrarlo  a  un  periodo  di  sospensione  di
eccessiva durata, ma non ne tiene conto  nel  formulare  il  giudizio
comparativo tra le due situazioni; 
    che, in tale ambito, si limita a confrontare i diversi termini di
sospensione successivi alla sentenza di secondo grado, osservando che
al condannato in appello dopo l'assoluzione in  primo  grado  sarebbe
irrazionalmente consentito di  riprendere  l'esercizio  della  carica
«sei mesi dopo l'amministratore con  la  posizione  processuale  piu'
gravosa», senza considerare che nel  caso  di  rigetto  dell'appello,
cumulandosi il periodo di dodici mesi a  quello  gia'  trascorso,  la
disciplina e' nel complesso piu'  severa  proprio  in  ragione  della
«posizione  processuale  piu'  gravosa»  del   condannato,   con   la
conseguenza  che  lo   iato   temporale   denunciato   non   comporta
un'ingiustificata  disparita'  di  trattamento  per  chi,  riportando
invece la condanna solo in  appello,  non  ha  subito  un  precedente
periodo di sospensione; 
    che la norma censurata e il  tertium  comparationis  disciplinano
pertanto situazioni non omogenee; 
    che, per costante giurisprudenza  costituzionale,  la  violazione
del   principio   di   uguaglianza   sussiste   qualora    situazioni
sostanzialmente    identiche    siano    disciplinate     in     modo
ingiustificatamente  diverso  e  non  quando   alla   diversita'   di
disciplina corrispondano situazioni non  assimilabili  (ex  plurimis,
sentenze n. 155 del 2014, n. 108 del 2006 e n. 340 del 2004); 
    che l'eterogeneita' delle  situazioni  poste  a  confronto  rende
dunque «priva  di  fondamento  la  censura  in  ordine  alla  assunta
violazione del principio di "parita' di  trattamento"»  (sentenza  n.
215 del 2014) e inidonea la norma indicata come tertium comparationis
a svolgere tale funzione (sentenza n. 276 del 2016); 
    che e' cosi' esclusa la sussistenza dell'irragionevole disparita'
di trattamento lamentata dal giudice a quo e, con essa, la violazione
dell'art. 3 Cost.; 
    che le considerazioni svolte inducono  a  ritenere  la  manifesta
infondatezza della questione sollevata. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   la   manifesta   infondatezza   della   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 11, commi 1, lettera  a),  e  4
del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo  unico  delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a  sentenze  definitive  di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma  63,
della legge  6  novembre  2012,  n.  190),  sollevata  dal  Tribunale
ordinario di Vercelli, in riferimento all'art. 3 della  Costituzione,
con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2020. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2020. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA