N. 171 SENTENZA 7 - 28 luglio 2020

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Sanzioni amministrative -  Infrazioni  gravi  in  materia  di  intese
  lesive della concorrenza o di  abusi  di  posizione  dominante  sul
  mercato -  Trattamento  sanzionatorio  -  Eliminazione  del  minimo
  edittale  -  Applicazione  retroattiva  -   Omessa   previsione   -
  Denunciata  violazione   dei   principi   di   uguaglianza   e   di
  ragionevolezza, nonche' di quello convenzionale  di  retroattivita'
  della norma sostanzialmente penale  di  favore  -  Inammissibilita'
  delle questioni. 
- Legge 5 marzo 2001, n. 57, art. 11, comma 4, modificativo dell'art.
  15, comma 1, della legge 10 ottobre 1990, n. 287. 
- Costituzione, artt. 3  e  117,  primo  comma;  Convenzione  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,
  art. 7. 
(GU n.31 del 29-7-2020 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Marta CARTABIA; 
Giudici :Aldo CAROSI,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,
  Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio   PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 4,
della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di  apertura
e regolazione dei mercati), modificativo dell'art. 15, comma 1, della
legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della  concorrenza
e del mercato), promossi dal Consiglio di Stato, sezione  sesta,  con
due ordinanze del  14  maggio  2019,  iscritte,  rispettivamente,  ai
numeri 146 e 147 del 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visti gli atti di costituzione della societa' Cave  Rocca  srl  e
dell'Autorita'  garante  della  concorrenza  e  del  mercato  (AGCM),
nonche' gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 7 luglio 2020 il Giudice relatore
Giuliano Amato; 
    uditi l'avvocato Michele Arcangelo Massari per Cave Rocca  srl  e
l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per  l'Autorita'  garante  della
concorrenza e del mercato (AGCM) e per il  Presidente  del  Consiglio
dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Consiglio di Stato, sezione sesta, con due  ordinanze  del
14 maggio 2019 (reg. ord. n. 146 e  n.  147  del  2019),  di  analogo
tenore, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma,
della Costituzione -  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  7  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4  agosto  1955,  n.  848  -
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 4, della
legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni  in  materia  di  apertura  e
regolazione dei mercati). 
    1.1.- La disposizione censurata  modifica  l'art.  15,  comma  1,
della legge 10 ottobre 1990,  n.  287  (Norme  per  la  tutela  della
concorrenza e del mercato), che disciplina le diffide e  le  sanzioni
irrogate dall'Autorita'  garante  della  concorrenza  e  del  mercato
(AGCM),  in  materia  di  intese  restrittive   della   liberta'   di
concorrenza e  di  abuso  di  posizione  dominante.  In  particolare,
riguardo   alla   quantificazione   delle   sanzioni   amministrative
pecuniarie, l'originaria previsione di una misura compresa tra  l'uno
e il dieci per cento - calcolata sul fatturato realizzato in ciascuna
impresa o ente, in riferimento  ai  prodotti  oggetto  dell'intesa  o
dell'abuso di posizione  dominante  e  nell'ultimo  esercizio  chiuso
anteriormente alla notificazione della  diffida  -  viene  sostituita
dall'indicazione del solo massimo edittale del dieci  per  cento,  in
rapporto  pero'  al   fatturato   globale   realizzato   dall'impresa
nell'ultimo esercizio. 
    2.-  Premette  in  fatto  il  giudice  a  quo  che  l'AGCM,   con
provvedimento  del  29  luglio  2004,  n.   13457,   ha   riscontrato
l'esistenza di un'intesa vietata ai sensi dell'art. 101 del  Trattato
sul  funzionamento  dell'Unione  Europea  (TFUE),   come   modificato
dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato
dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, operante dal 1999  alla  fine  del
2002, fra imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato e volta
a ripartire le forniture destinate a vari cantieri edili  nella  zona
di Milano. Di  conseguenza,  l'Autorita'  ha  irrogato  una  sanzione
amministrativa  pecuniaria  alle  imprese  partecipanti  -  tra   cui
rientravano anche Cave Rocca srl (per un importo pari a euro 800.000)
e Monteverde Calcestruzzi spa (per euro 35.000) - ordinando di pagare
tale sanzione  entro  novanta  giorni  dalla  notifica  dello  stesso
provvedimento,  termine  oltre  il  quale  sarebbe  stata  dovuta  la
maggiorazione di cui all'art. 27, comma 6, della  legge  24  novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale). 
    Con  sentenza  2  dicembre   2005,   n.   12835,   il   Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima, ha parzialmente
annullato tale provvedimento, nella parte in cui le relative sanzioni
non  risultavano  proporzionate  ai  limitati  effetti   dell'intesa,
trattandosi d'infrazione da non qualificarsi come «molto  grave»,  ma
soltanto «grave». Il  Consiglio  di  Stato,  sezione  sesta,  con  la
sentenza 29 settembre 2009, n. 5864, ha confermato in sede  d'appello
la natura solo «grave» dell'intesa, riducendo altresi' il periodo  di
durata a quello intercorrente tra settembre 1999 e dicembre 2000.  Da
qui la decisione ha altresi' desunto la necessita'  di  applicare  le
sanzioni ai sensi della formulazione originaria dell'art.  15,  comma
1, della legge n. 287 del 1990, poiche' l'intesa non si era protratta
sino all'entrata in vigore della novella legislativa. 
    In ottemperanza a tale decisione l'AGCM, con deliberazione del 10
dicembre 2013, ha rideterminato le sanzioni in  euro  339.858,35  per
Cave Rocca srl (ossia l'1,5 per  cento  del  fatturato  specifico  di
riferimento) e in  euro  35.000  per  Monte  Verde  Calcestruzzi  spa
(confermando la sanzione, onde escludere una reformatio in peius  del
precedente provvedimento,  sebbene  l'uno  per  cento  del  fatturato
specifico ammontasse a € 39.224). Restavano confermate,  inoltre,  le
maggiorazioni per il ritardo, da calcolare sui nuovi importi, per  il
periodo compreso dal giorno successivo alla scadenza del  termine  in
origine fissato per pagare la sanzione  sino  a  quello  di  deposito
della citata sentenza n. 5864 del 2009. 
    Anche tale deliberazione dell'AGCM e' stata impugnata innanzi  al
TAR Lazio, che, con le sentenze 25 febbraio 2015, n. 3341 e n.  3342,
ha parzialmente annullato la stessa e rideterminato le  sanzioni  per
Cave Rocca srl in euro 204.000 e per Monte Verde Calcestruzzi spa  in
euro 10.500,  ritenendo  applicabile  la  disciplina,  asserita  piu'
favorevole, prevista  dalla  novella  del  2001.  Inoltre,  e'  stata
esclusa  l'applicazione   delle   maggiorazioni,   in   assenza   dei
presupposti dell'esigibilita'  della  sanzione  principale.  Siffatte
decisioni sono state quindi appellate dall'AGCM innanzi  al  collegio
rimettente, in particolare per la violazione  del  giudicato  di  cui
alla sentenza del Consiglio di Stato n. 5864  del  2009,  nonche'  in
quanto  non  sarebbe  stata  prevista  ne'  imposta   un'applicazione
retroattiva delle nuove sanzioni. 
    2.1.- Cio' premesso, secondo il  giudice  rimettente  l'art.  15,
comma 1, della legge n. 287 del 1990, come modificato  dall'art.  11,
comma 4, della  legge  n.  57  del  2001,  sarebbe  illegittimo,  per
violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost.,  nella  parte  in
cui  non  prevede  la  retroattivita'  della  norma  piu'  favorevole
introdotta dalla novella legislativa. 
    2.1.1.- Le questioni sarebbero anzitutto  rilevanti,  perche'  le
norme citate dovrebbero  senz'altro  trovare  applicazione  nel  caso
oggetto del giudizio (sul punto sono richiamate le sentenze di questa
Corte n. 174 del 2016 e n. 77 del 1983). 
    L'art. 11, comma 4, della legge n. 57 del  2001,  infatti,  nulla
dice in ordine alla sua retroattivita', che  dovrebbe  quindi  essere
esclusa ai sensi dell'art. 1 della legge n. 689 del 1981  (sul  punto
si richiama la sentenza di questa Corte n. 193 del 2016). Dunque,  in
caso di accoglimento delle questioni,  l'appello  promosso  dall'AGCM
andrebbe   respinto   in   relazione   ai   motivi   inerenti    alla
rideterminazione effettuata dal TAR Lazio. 
    A  differenti  conclusioni   non   potrebbe   giungersi   neppure
considerando il motivo d'appello relativo  all'intervenuto  giudicato
di cui alla citata sentenza del Consiglio di Stato n. 5864 del  2009.
Infatti,  sebbene  il  giudicato  concerna  anche  la  qualificazione
giuridica dei  fatti,  a  cui  dunque  e'  necessario  attenersi  per
l'effetto  conformativo  del  giudicato  stesso  (sul  principio   si
richiama Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 6  agosto  2013,
n. 4119), nel  caso  di  specie  dovrebbe  farsi  applicazione  delle
conclusioni della giurisprudenza  di  legittimita'  per  le  sanzioni
penali (con particolare  riferimento  a  Cassazione  penale,  sezioni
unite, sentenze 7 maggio 2014, n. 18821 e 14 ottobre 2014, n. 42858).
Secondo tale orientamento, il rapporto deve  ritenersi  esaurito  non
semplicemente quando su di esso  si  sia  formato  un  giudicato,  ma
soltanto con l'esecuzione dell'ultimo frammento  di  pena.  Pertanto,
poiche' la norma dichiarata incostituzionale sarebbe invalida fin dal
momento in cui e' venuta a esistere, tale invalidita' potrebbe essere
comunque fatta valere sin quando permane  ancora  l'esecuzione  della
sanzione da essa prevista,  a  prescindere  dalla  formazione  di  un
giudicato. In caso contrario, infatti, si finirebbe per applicare una
pena illegittima, che prescinderebbe dal principio di responsabilita'
personale e verrebbe meno alla sua funzione rieducativa. 
    Tali considerazioni  varrebbero  anche  per  il  caso  in  esame,
trattandosi di una sanzione amministrativa di  sostanziale  carattere
penale. 
    La rilevanza delle questioni sussisterebbe, infine,  anche  sotto
un  altro  profilo,  ovvero   per   l'impossibilita'   di   pervenire
all'affermazione della retroattivita' della norma piu' favorevole per
mezzo di un'interpretazione conforme  a  Costituzione.  Ai  fini  del
giudizio  di  costituzionalita',   infatti,   le   norme   andrebbero
considerate secondo l'interpretazione datane dal diritto vivente  (in
tal senso si richiama la sentenza di questa Corte n. 120  del  1984),
che sarebbe costante nel senso della non retroattivita'  della  norma
sanzionatoria  amministrativa  piu'   favorevole   (sono   richiamate
Cassazione civile, sezione sesta,  ordinanza  28  dicembre  2011,  n.
29411 e sezione prima, sentenza 6 febbraio 1997, n. 1127). 
    2.1.2.- In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a  quo
richiama quanto affermato dalla giurisprudenza  costituzionale  nelle
sentenze n. 63 del 2019 e n. 193 del 2016. 
    Ivi,  questa  Corte  avrebbe   evidenziato   che   un   principio
costituzionale  di  retroattivita'  della  norma  sanzionatoria  piu'
favorevole (lex mitior), pur non  espresso  dall'art.  25  Cost.,  ma
desumibile dall'art. 3 Cost., opera per  le  sanzioni  penali,  cosi'
qualificate in modo espresso dal legislatore, per cui e'  ragionevole
che il medesimo fatto vada sanzionato nello stesso  modo,  senza  che
rilevi se commesso prima o dopo l'entrata in vigore della norma  piu'
favorevole (sono richiamate altresi' le sentenze di questa  Corte  n.
236 del 2011, n. 72 del 2008 e n. 394 del 2006). Lo stesso principio,
inoltre, si ricaverebbe dall'art. 7 CEDU, che,  in  virtu'  dell'art.
117, primo comma, Cost., assume rango costituzionale (si  richiama  a
tal proposito la sentenza di questa Corte n. 236 del 2011). 
    Identico principio, alla luce della  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo (si richiamano le sentenze della grande
camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e 8  giugno  1976,
Engel e  altri  contro  Paesi  Bassi),  dovrebbe  affermarsi  per  la
sanzione che, pur  qualificata  come  amministrativa,  protegga  erga
omnes beni della collettivita' ovvero comporti sanzioni di  natura  e
severita' sostanzialmente pari alla sanzione penale. 
    Nel caso di specie, l'art. 15, comma 1, della legge  n.  287  del
1990,  da  un  lato  proteggerebbe  beni  rilevanti  per   tutta   la
collettivita' dei cittadini, come la  concorrenza  e  la  correttezza
nelle relazioni di mercato,  dall'altro  prevedrebbe  sanzioni  della
stessa natura di quelle pecuniarie penali, oltretutto per importi non
trascurabili, con una notevole forza afflittiva. 
    Non rileverebbe neppure la circostanza per  cui  queste  sanzioni
sono applicate a imprese costituite in forma di  persone  giuridiche,
poiche' un pregiudizio al patrimonio della societa' verrebbe comunque
sopportato dai soci e l'ordinamento nazionale avrebbe da lungo  tempo
abbandonato il concetto tradizionale della non responsabilita' penale
delle  persone  giuridiche,  a  cui  attualmente  sarebbero   infatti
applicabili sanzioni penali pecuniarie. 
    Si tratterebbe, in definitiva, di una norma recante una  sanzione
sostanzialmente penale, che dovrebbe essere disciplinata  come  tale,
in  particolare  nel   senso   della   retroattivita'   della   norma
sanzionatoria piu' favorevole. 
    3.-  Con  due  atti  di   contenuto   sostanzialmente   identico,
depositati in cancelleria il  15  ottobre  2019,  e'  intervenuto  in
entrambi  i  giudizi  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o  comunque
infondate. 
    3.1.-   In   primo   luogo,   la   difesa    statale    asserisce
l'inammissibilita' delle questioni per difetto di  motivazione  sulla
natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative in esame. 
    Come  e'  noto,  argomenta  infatti  l'Avvocatura,  la  Corte  di
Strasburgo, nella sua costante giurisprudenza (a partire  dalle  gia'
citata sentenza Engel e dalla sentenza della sezione seconda, 4 marzo
2014, Grande Stevens contro Italia), ha  statuito  che,  al  fine  di
stabilire la sussistenza di una «accusa in materia  penale»,  occorre
tener presenti tre criteri  (noti  come  "criteri  Engel")  e  cioe':
qualificazione giuridica della misura; natura della misura; natura  e
grado di severita'  della  sanzione.  In  forza  di  questi  criteri,
peraltro definiti come alternativi e non cumulativi, affinche'  possa
parlarsi di «accusa in materia penale»  risulta  sufficiente  che  il
fatto in causa sia di natura «penale»  rispetto  alla  Convenzione  o
abbia esposto l'interessato a una sanzione che, per natura e  livello
di gravita', rientri in linea  generale  nell'ambito  della  «materia
penale». L'alternativita'  dei  criteri  ermeneutici  enucleati,  tra
l'altro,  non  impedisce  di  adottare  un  approccio  unitario,   se
l'analisi separata di ciascuno di essi non permette di arrivare a una
conclusione chiara in merito  alla  sussistenza  di  una  «accusa  in
materia penale» (sul punto si  richiama  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, grande camera, sentenza 23 novembre 2006,  Jussila  contro
Finlandia). 
    Nel caso di  specie,  i  dati  economici  escluderebbero  che  la
sanzione  controversa  si  possa  configurare  come   particolarmente
afflittiva,  contenendosi,  sia  nelle  misure  edittali,  sia  nella
concreta  misura  inflitta,  in   limiti   tipici   di   un   sistema
sanzionatorio sostanzialmente, non solo nominalmente, amministrativo.
Sicche'  resterebbe   del   tutto   immotivata   l'affermazione   del
rimettente,  secondo  cui  le  sanzioni  in   discussione   sarebbero
particolarmente afflittive. 
    Ne' meglio  spiegata  sarebbe  l'ulteriore  affermazione  che  la
sanzione  in  discussione  «protegge  beni  rilevanti  per  tutta  la
collettivita' dei cittadini, come la  concorrenza  e  la  correttezza
nelle relazioni di mercato». Questa circostanza, infatti, oltre a non
trovarsi compresa tra i  "criteri  Engel",  sarebbe  sottesa  a  ogni
disciplina   sanzionatoria,   anche   sostanzialmente   (oltre    che
formalmente) amministrativa. 
    3.2.-  In  secondo  luogo,  le   questioni   sarebbero   comunque
inammissibili per irrilevanza. 
    Il Consiglio di Stato, infatti, riconoscerebbe l'esistenza di  un
giudicato  interno,  in  forza  del  quale  la  norma   sanzionatoria
applicabile nella fase di rideterminazione  della  sanzione  dovrebbe
essere l'art. 15, comma 1, della legge n. 287  del  1990,  nel  testo
anteriore alle modifiche di cui all'art. 11, comma 4, della legge  n.
57  del  2001.  Pertanto,  rispetto  alla   questione   della   norma
applicabile ratione temporis,  il  rapporto  processuale  sarebbe  da
considerare ormai esaurito. Ne' potrebbe applicarsi la giurisprudenza
della Corte di cassazione in tema di applicazione  di  norme  penali,
che   presupporrebbe,   in   primis,   l'attribuzione    di    natura
sostanzialmente  penale  alle  sanzioni  in   questione,   cosa   non
dimostrata dallo stesso giudice a quo. Inoltre,  tale  giurisprudenza
si  riferirebbe  a  una  sanzione  come  quella  detentiva,  la   cui
applicazione non dipende  dalla  volonta'  del  soggetto  sanzionato,
mentre sarebbe  inapplicabile  al  caso  di  sanzioni  amministrative
pecuniarie, che' altrimenti si  potrebbe  impedire  il  completamento
dell'esecuzione della sanzione rendendosi inadempienti  al  pagamento
di una somma, nel contempo  pretendendo  che  il  rapporto  esecutivo
della sanzione si consideri ancora aperto. 
    3.3.- Nel merito le questioni sarebbero da considerarsi  in  ogni
caso manifestamente infondate. 
    Andrebbe infatti confermato il punto di vista espresso da  questa
Corte nella sentenza n. 193 del 2016, secondo cui l'art. 7  CEDU  non
impone a  livello  costituzionale  interno  la  retroattivita'  delle
modifiche migliorative in  materia  di  sanzioni  amministrative,  ma
lascia tale decisione alla discrezionalita' legislativa. 
    Cio' troverebbe conferma anche nella sentenza di questa Corte  n.
223 del 2018, che avrebbe soltanto affermato,  nei  casi  in  cui  in
concreto il trattamento  sanzionatorio  amministrativo  risulti  piu'
gravoso  di  un  previgente  trattamento  penale,  l'applicazione  di
quest'ultimo  in  forza  del  principio  di  irretroattivita'   delle
modifiche in peius. La sentenza non avrebbe in alcun modo affrontato,
invece, la diversa questione se  l'art.  7  CEDU,  come  interpretato
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,  cioe'  comprensivo  anche
del principio di retroattivita'  delle  modifiche  in  melius,  debba
valere anche nell'ipotesi di semplice successione di  sanzioni  tutte
indiscutibilmente qualificate come amministrative. 
    Ne' potrebbe avere rilievo, come sembra ritenere  il  rimettente,
la sentenza di questa Corte n. 63 del 2019, concernente le  modifiche
in materia di confisca amministrativa  per  equivalente,  considerata
misura di «elevatissima carica afflittiva», e non semplici  modifiche
alla misura e alla base applicativa di  una  sanzione  pecuniaria  da
sempre prevista nell'ordinamento. Il giudice  a  quo  avrebbe  allora
dovuto indagare se, come  statuito  proprio  da  siffatta  pronuncia,
nella  fattispecie  «sussistano  ragioni   cogenti   di   tutela   di
controinteressi  di  rango  costituzionale,  tali  da  resistere   al
medesimo "vaglio positivo di ragionevolezza", al  cui  metro  debbono
essere  in  linea  generale  valutate  le  deroghe  al  principio  di
retroattivita' in mitius nella materia penale». 
    Nella specie, rendere la disciplina antitrust aperta a  modifiche
retroattive indebolirebbe indubbiamente il quadro di riferimento  che
essa rappresenta per le imprese e favorirebbe comportamenti orientati
all'aspettativa  di  modifiche.  Inoltre,  e   correlativamente,   la
finalita' specifica delle sanzioni antitrust sarebbe il ripristino di
corrette condizioni di concorrenza  alterate  dall'illecito.  Percio'
sarebbe conforme all'equilibrio del sistema che il ripristino avvenga
facendo riferimento all'epoca  prossima  a  quella  dell'accertamento
dell'illecito  e  alla  normativa  vigente  in  quel   periodo,   che
stabilisce i parametri del ripristino delle  corrette  condizioni  di
concorrenza.  Tenere  conto  della  normativa  dettata   in   periodi
successivi scinderebbe, infatti, il momento  di  riferimento  (l'anno
precedente la notificazione della diffida) e il  criterio  legale  di
ripristino, che  sarebbe  quello  previsto  in  relazione  a  periodi
successivi. 
    Riguardo alla modifica dell'art. 15 della legge n. 287 del  1990,
inoltre,  dovrebbe  considerarsi  che  la  stessa,  se  da  un   lato
conterrebbe elementi di attenuazione del regime  sanzionatorio,  come
l'abolizione del  minimo  edittale  dell'uno  per  cento,  dall'altro
recherebbe un significativo inasprimento, nella parte in cui modifica
la base di calcolo della sanzione, trasferendola dal  solo  fatturato
specifico    all'intero    fatturato    dell'impresa     responsabile
dell'illecito. 
    La necessita' di tenere conto organicamente  di  entrambi  questi
aspetti   nell'applicazione,   necessariamente   unitaria    e    non
parcellizzabile, della nuova disposizione, giustificherebbe,  quindi,
la scelta  legislativa  di  non  stabilirne  la  retroattivita'.  Non
sarebbe  infatti  prevedibile,  in  concreto,  se  nei  singoli  casi
l'impatto   applicativo   della   nuova   disposizione   si   traduca
effettivamente in un trattamento sanzionatorio piu' tenue. 
    4.-  Con  due  memorie  d'identico   contenuto,   depositate   in
cancelleria il 15 ottobre  2019,  si  e'  costituita  in  entrambi  i
giudizi l'AGCM, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello
Stato, parte appellante nei giudizi a quo, chiedendo che le questioni
siano dichiarate inammissibili per difetto di  rilevanza  e  comunque
non fondate. 
    4.1.- Premessa una ricostruzione delle  vicende  all'origine  dei
giudizi, si eccepisce, in primo luogo, il difetto di rilevanza  delle
questioni, alla luce dell'intervenuta sentenza del Consiglio di Stato
n. 5864 del 2009, in  forza  della  quale  i  rapporti  si  sarebbero
esauriti, essendosi formato un giudicato. 
    Le ordinanze di  rinvio,  d'altronde,  costituirebbero  decisioni
isolate rispetto a quanto parallelamente statuito  dal  Consiglio  di
Stato su ricorso delle altre imprese coinvolte  nella  stessa  intesa
restrittiva della concorrenza. Invero, gia' con  sentenza  26  luglio
2018, n. 4577, il Consiglio di Stato, sezione  sesta,  aveva  accolto
gli  appelli  dell'AGCM   nell'ambito   del   medesimo   contenzioso,
affermando l'irrilevanza di un'eventuale  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 4, della legge n. 57 del 2001.  La
medesima conclusione e' poi stata ribadita dal  Consiglio  di  Stato,
sezione sesta, nelle sentenze 18 marzo  2019,  n.  1762  e  n.  1761,
parimenti  rese  nell'ambito  del  contenzioso   in   questione.   La
singolarita'  e  contraddittorieta'  delle  ordinanze  di  rimessione
rispetto alle parallele decisioni adottate  dal  Consiglio  di  Stato
evidenzierebbe, dunque, l'illegittimita' delle stesse nella parte  in
cui reputano rilevanti le questioni. 
    Cio' troverebbe conferma anche nella perplessa motivazione  delle
ordinanze di rinvio, che, pur premettendo  la  possibile  irrilevanza
delle questioni in virtu' dell'intervenuto giudicato,  si  discostano
da tali considerazioni in base all'applicazione al caso di specie  di
un orientamento giurisprudenziale consolidatosi nella diversa materia
penale. Tale operazione sarebbe  quantomeno  forzata  e  discutibile.
Anzitutto, perche' seppure la piu' recente giurisprudenza della Corte
di Strasburgo abbia affermato la natura «para-penale» delle  sanzioni
antitrust,   essa   lo   avrebbe   fatto   al   fine   di   derivarne
l'applicabilita' in tale materia dell'art. 6 CEDU;  dunque,  siffatta
affermazione non  comporterebbe  la  possibilita'  di  mutuare  nella
materia delle sanzioni amministrative tutti i principi  e  le  regole
valevoli in quella penale. Inoltre, l'applicazione che il giudice del
rinvio fa del principio penalistico del non esaurimento del  rapporto
non terrebbe  conto  dell'immediata  esecutivita'  del  provvedimento
sanzionatorio adottato dall'AGCM, con la conseguenza che la  relativa
ammenda dovrebbe essere pagata a  seguito  della  sua  adozione,  non
residuando cosi' spazi per  sostenere  che  l'esecuzione  dell'ultimo
frammento di pena non sia ancora esaurita. 
    Il Consiglio di Stato, invece, sacrificherebbe  il  principio  di
certezza del diritto e di stabilita' dei rapporti giuridici a  valori
che  esso  stesso   definisce   diversi,   salvo   poi   riconoscerne
apoditticamente pari rango costituzionale, poiche' la pena altrimenti
prescinderebbe dal principio di responsabilita' personale e  verrebbe
meno la sua funzione educativa. Considerazioni non condivisibili,  in
quanto le sanzioni sarebbero  state  rideterminate  in  virtu'  delle
circostanze di fatto che avevano connotato  la  specifica  situazione
soggettiva delle due imprese. Inoltre, per Cave Rocca srl la predetta
sanzione  e'  stata  ricalcolata  dall'AGCM  in  misura  notevolmente
inferiore  a  quella   inizialmente   irrogata,   restando   comunque
confermata per Monte Verde Calcestruzzi spa, in modo da assicurare  a
essa una pur minima  funzione  dissuasiva  ed  efficacia  deterrente.
Tratti   che,   secondo   pacifica   giurisprudenza   nazionale    ed
eurounitaria, «devono connotare la sanzione antitrust, specie laddove
sia  stata  accertata  una  violazione  di  elevata  gravita'»  (sono
richiamate le sentenze del Consiglio  di  Stato,  sezione  sesta,  21
dicembre 2017, n. 5998 e n. 5997). 
    4.2.- Nel merito le questioni non  soddisferebbero  il  requisito
della non manifesta infondatezza. 
    4.2.1.- In primo luogo, esse si fonderebbero  su  un  presupposto
non veritiero. Come osservato dal Consiglio  di  Stato  nelle  citate
sentenze n. 1762 e n. 1761 del 2019, nonche' nella sentenza  n.  4577
del 2018, reputare che il nuovo art. 15, comma 1, della legge n.  287
del 1990 sia  piu'  favorevole  del  vecchio  tradirebbe  un  «errore
metodologico». Infatti, raffrontando i due regimi, ci  si  avvedrebbe
della diversa  base  di  computo  delle  sanzioni,  che  nella  nuova
disciplina va rapportata all'intero fatturato dell'impresa e non piu'
solo al fatturato dei prodotti oggetto dell'intesa. Pertanto,  se  da
un lato la modifica del 2001 elimina  il  limite  minimo  percentuale
della sanzione, dall'altro  lato  la  nuova  versione  esige  che  la
sanzione venga determinata su una base di computo  assai  piu'  ampia
del passato. 
    4.2.2.- In secondo luogo, nemmeno potrebbe dirsi che le questioni
oggetto di rinvio possano  essere  circoscritte  alla  retroattivita'
della sola eliminazione del limite minimo edittale. La prospettazione
di una retroattivita' solo «parziale» di una norma sarebbe erronea in
punto di diritto, non potendosi scomporre e ricomporre  le  norme  di
legge. A far cio', infatti, si perverrebbe al  paradossale  risultato
cui  sarebbe  giunto  il  TAR  Lazio  nelle  sentenze  poi  appellate
dall'AGCM, in cui si sarebbe operata una  sorta  di  «interpolazione»
tra i due regimi. Invece, anche in materia di successione  nel  tempo
di   leggi   penali,   una   volta   individuata   la    disposizione
complessivamente  piu'  favorevole,  il  giudice  dovrebbe  applicare
questa   nella   sua   integralita'.   Diversamente,   infatti,    si
legittimerebbe   l'applicazione   di   una   norma    di    carattere
intertemporale non prevista dal legislatore, in violazione cosi'  del
principio di legalita'  (e'  richiamata  Cassazione  penale,  sezione
quarta, sentenza 28 ottobre 2005, n. 47339). 
    4.2.3.-  In  estremo  subordine,  pure  se  si  considerasse   la
disciplina introdotta dall'art. 11, comma 4, della legge  n.  57  del
2001 di maggior favore, le questioni sarebbero comunque infondate  in
riferimento alla mancata  previsione  della  retroattivita'  di  tale
disciplina. 
    Tale retroattivita', infatti, sarebbe  in  contrasto  con  quanto
previsto dall'art. 1 della legge n. 689 del 1981 e la conclusione non
muterebbe anche laddove la questione di  legittimita'  costituzionale
fosse stata piu' correttamente formulata con riferimento  a  siffatta
disposizione, la quale, come osservato  dalla  citata  pronuncia  del
Consiglio di Stato n. 5864 del 2009, esclude, in virtu' del principio
di legalita', l'applicabilita' della legge posteriore, anche  laddove
piu'  favorevole.  Principio  confermato  anche  nella  piu'  recente
giurisprudenza costituzionale (di cui gia' alle ordinanze n. 245  del
2003  e  n.  140  del  2002),  che  ha  precisato  l'inapplicabilita'
generalizzata alle sanzioni amministrative del principio  penalistico
della retroattivita' in bonam partem (art. 2,  comma  2,  del  codice
penale), perche' «se la retroattivita' non puo' essere esclusa "solo"
perche'  la  pena  piu'  mite  non  era  prevista  al  momento  della
commissione del reato, e' legittimo concludere che la soluzione  puo'
essere diversa  quando  le  ragioni  per  escluderla  siano  altre  e
consistenti» (sentenza n. 236 del 2011). 
    Cio' troverebbe conferma altresi' nell'orientamento  del  giudice
comunitario,  secondo  cui   «il   rispetto   del   canone   generale
dell'irretroattivita' esige che le sanzioni  inflitte  ad  un'impresa
per  un'infrazione  in  materia  corrispondano  a  quelle  che  erano
stabilite al momento in cui l'infrazione e'  stata  commessa»  (cosi'
Tribunale di primo grado, quarta sezione,  sentenza  20  marzo  2002,
causa T-23/99, LR af 1998 A/S ed altri).  E  anche  il  principio  di
legalita' di cui all'art. 7 della CEDU  imporrebbe  che  le  sanzioni
irrogate corrispondano a quelle che erano fissate all'epoca in cui la
violazione e' stata  commessa,  escludendo  la  retroattivita'  della
legge piu' sfavorevole, ma  non  conterrebbe  un  espresso  principio
generale di retroattivita' della legge piu' favorevole (in tal senso,
si richiama Corte di giustizia dell'Unione europea,  grande  sezione,
sentenza 28 giugno 2005, cause riunite C-189/02  P,  C-202/02  P,  da
C-205/02 P a C-208/02 P e C-213/02 P, Dansk Rorindustri A/S ed altri;
in senso conforme, sezione quinta, sentenza  18  luglio  2013,  causa
C-501/11 P, Schindler Holding Ltd ed altri). 
    In ogni caso, anche laddove si ritenga che da  tale  disposizione
convenzionale discenda  il  principio  dell'applicazione  retroattiva
della  norma  piu'  favorevole,  esso  sarebbe   derogabile   e,   in
particolare, non potrebbe travolgere il giudicato (si richiama ancora
la sentenza n. 236 del 2011). 
    5.- Nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al r.o.  n.  146
del 2019, con atto depositato il 14 ottobre 2019, si e' costituita la
societa'  Cave  Rocca  srl,  parte  appellata  nel  giudizio  a  quo,
chiedendo l'accoglimento delle questioni sollevata dal  Consiglio  di
Stato. 
    5.1.- Premessa una ricostruzione dei fatti, la difesa della parte
privata ribadisce le  conclusioni  dell'ordinanza  di  rimessione  in
punto  di  rilevanza,  nonche',  nel  merito,  riguardo  alla  natura
punitiva e  afflittiva  della  sanzione  in  esame,  con  conseguente
retroattivita' della lex mitior, come chiarito da ultimo dalla citata
sentenza n. 63 del 2019. 
    Dal che deriverebbe la necessita' di rideterminare la sanzione in
ossequio al principio di proporzionalita',  diretta  espressione  del
generale canone di ragionevolezza ex art. 3 Cost.  (si  richiama  sul
punto la sentenza di questa  Corte  n.  220  del  1995).  Al  diritto
antitrust  interno,  infatti,  andrebbero  applicati  i  principi  di
diritto europeo, tra cui rientrerebbe il fondamentale principio della
proporzionalita' della sanzione, sancito  dall'art.  5  TFUE  (recte:
Trattato sull'Unione europea, firmato a Mastricht il 7 febbario 1992,
entrato in vigore il 1° novembre 1993), che osterebbe alla previsione
di un minimo  edittale,  quando  nel  caso  concreto  cio'  impedisca
l'applicazione proporzionale della pena. 
    In conclusione, posto che il  TAR  avrebbe  ritenuto  abnorme  la
quantificazione da parte dell'AGCM della sanzione a  carico  di  Cave
Rocca srl, rideterminando la stessa, ove si dovesse negare  efficacia
retroattiva  alla  modifica  apportata   dalla   novella   del   2001
all'originario testo dell'art. 15 della legge n.  287  del  1990,  si
finirebbe per avallare il risultato di  una  forzosa  quantificazione
della  sanzione  in  una  misura  eccedente  a  quella  ritenuta,  in
concreto, proporzionata e ragionevole. 
    6.- In prossimita' dell'udienza del 22 aprile  2020  la  societa'
Cave Rocca srl ha presentato  una  memoria,  integrando  quanto  gia'
esposto nelle difese di cui all'atto di costituzione in giudizio. 
    6.1.- In primo luogo, la difesa della parte privata  contesta  le
argomentazioni del Presidente del  Consiglio  dei  ministri  relative
all'asserita impossibilita' di applicare al caso di specie  l'art.  7
della CEDU, cosi' come i principi affermati  da  questa  Corte  nella
sentenza n. 63 del 2019, con specifico riferimento  al  regime  della
lex mitior. 
    La sanzione di cui all'art. 15, comma 1, della legge n.  287  del
1990, infatti, sarebbe sempre stata una sanzione amministrativa della
stessa natura delle sanzioni pecuniarie penali, con un elevato  grado
di  severita'.  In  riferimento  alla  stessa,  pertanto,  troverebbe
appunto applicazione, ai sensi della citata sentenza, l'art. 7 CEDU. 
    La  formulazione  successiva  alla  novella  legislativa  avrebbe
senz'altro  natura  piu'  favorevole,  essendo  tenuto   il   giudice
amministrativo, nella rideterminazione in concreto della sanzione,  a
rispettare soltanto  il  limite  massimo  legislativamente  previsto.
L'eliminazione del minimo edittale, in  tal  modo,  consentirebbe  di
calibrare l'ammontare  della  somma  dovuta  dal  destinatario  della
sanzione in una misura congrua rispetto alla  condotta  dallo  stesso
tenuta. 
    In cio' consisterebbe l'indiscutibile portata migliorativa  della
nuova disciplina, non trattandosi di «scomporre e  ricomporre»  norme
di legge o di «interpolare» il regime previgente  e  quello  vigente,
bensi' di consentire una rideterminazione della sanzione nella misura
che in concreto risulti ragionevole e proporzionata. 
    6.2.-   In   secondo   luogo,   infondata   sarebbe   l'eccezione
d'inammissibilita'  per   irrilevanza   delle   questioni   sollevata
dall'AGCM, in virtu' dell'intervenuto giudicato di cui alla decisione
del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009. 
    Il   giudicato,   infatti,   atterrebbe    alla    qualificazione
dell'infrazione commessa,  ritenuta  "grave"  e  non  "molto  grave",
nonche' alla durata della stessa infrazione. 
    Inoltre, come osservato dall'ordinanza di rimessione, il rapporto
tra Cave Rocca srl e AGCM  non  potrebbe  considerarsi  esaurito.  La
societa', infatti, non ha pagato la  sanzione  rideterminata  con  il
provvedimento del 10 dicembre 2013,  la  cui  esecutivita'  e'  stata
sospesa dal giudice di primo grado, che ha poi rideterminato la somma
dovuta in euro 204.000,00.  Solo  tale  somma,  non  quella  di  euro
339.858,39 pretesa dall'AGCM,  e'  stata  pagata.  Pertanto,  non  vi
sarebbe stata ne' una completa  esecuzione  della  sanzione,  ne'  un
inadempimento. 
    Inoltre,  il  rapporto  processuale  sarebbe   comunque   tuttora
pendente innanzi al giudice rimettente, dunque anche in tal senso non
potrebbe ritenersi esaurito. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Consiglio di Stato, con due ordinanze di  analogo  tenore,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo  comma,  della
Costituzione - in relazione  all'art.  7  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con  la  legge  4  agosto  1955,  n.  848  -  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 11,  comma  4,  della  legge  5
marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e  regolazione
dei mercati). 
    1.1.- La disposizione censurata  modifica  l'art.  15,  comma  1,
della legge 10 ottobre 1990,  n.  287  (Norme  per  la  tutela  della
concorrenza e del mercato), che disciplina le diffide e  le  sanzioni
irrogate dall'Autorita'  garante  della  concorrenza  e  del  mercato
(AGCM),  in  materia  di  intese  restrittive   della   liberta'   di
concorrenza e di abuso di posizione dominante. In particolare, per le
sanzioni amministrative pecuniarie, la forbice compresa fra  l'uno  e
il dieci per cento del fatturato realizzato  in  ciascuna  impresa  o
ente - in riferimento ai prodotti oggetto dell'intesa o dell'abuso di
posizione dominante e nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla
notificazione della diffida  -  viene  sostituita  dal  solo  massimo
edittale  del  dieci  per  cento  del  fatturato  globale  realizzato
dall'impresa nell'ultimo esercizio. 
    2.-  Secondo  il  giudice  a  quo   tale   disposizione   sarebbe
illegittima per violazione degli artt. 3 e 117, primo  comma,  Cost.,
nella  parte  in  cui  non  prevede  la  retroattivita'  della  norma
introdotta dalla novella legislativa, ritenuta  dal  rimettente  piu'
favorevole. 
    2.1.- La sanzione di cui all'art. 15, comma 1, della legge n. 287
del 1990, infatti, da un lato, proteggerebbe beni rilevanti per tutta
la collettivita' dei cittadini, come la concorrenza e la  correttezza
nelle relazioni di mercato, dall'altro,  prevedrebbe  sanzioni  della
stessa natura di quelle pecuniarie penali, oltretutto per importi non
trascurabili, con una notevole forza afflittiva. 
    Si tratterebbe, quindi, di  una  sanzione  che,  sulla  base  dei
criteri  elaborati  dalla  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo (a partire dalla sentenza  della  grande  camera  8
giugno 1976, Engel  e  altri  contro  Paesi  Bassi),  avrebbe  natura
sostanzialmente penale. Pertanto, troverebbe applicazione, alla  luce
della  piu'  recente  giurisprudenza  costituzionale  (di  cui   alla
sentenza n. 63 del 2019), il  principio  della  retroattivita'  della
norma   sanzionatoria   piu'   favorevole,   come   elaborato   dalla
giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo  (in  particolare  dalla
sentenza della grande camera,  17  settembre  2009,  Scoppola  contro
Italia). 
    3.- Le due ordinanze di rimessione pongono questioni identiche in
relazione alla disposizione censurata e ai  parametri  costituzionali
evocati  e,  pertanto,   i   giudizi   vanno   riuniti   per   essere
congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia. 
    4.-  In  via  preliminare  deve  essere   esaminata   l'eccezione
d'inammissibilita' sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato per
difetto di rilevanza delle questioni, in quanto  i  rapporti  oggetto
d'esame nel giudizio a quo sarebbero ormai esauriti,  in  virtu'  del
giudicato di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta,
29 settembre 2009, n. 5864. 
    4.1.- L'eccezione e' fondata. 
    4.1.1.- Va premesso che le sanzioni irrogate in origine dall'AGCM
a Cave Rocca srl e Monteverde Calcestruzzi spa, in  quanto  parti  di
un'intesa restrittiva del mercato, erano state  quantificate  secondo
la vigente formulazione dell'art. 15, comma 1, della legge n. 287 del
1990, introdotta dall'art. 11, comma 4, della legge n. 57  del  2001,
poiche'  l'intesa,  qualificata  come  «molto  grave»,   si   sarebbe
protratta sino al 2002. 
    In seguito al contenzioso maturato sul  provvedimento  dell'AGCM,
il Consiglio di Stato, con la  citata  sentenza,  confermando  quanto
deciso dal giudice di prime cure, ha  accertato  una  violazione  del
mercato  solo  «grave»  e  limitata  al  periodo  1999-2000,  con  la
conseguente inapplicabilita' - da esso stesso affermata - delle nuove
sanzioni introdotte dalla novella del 2001. 
    L'AGCM, pertanto, con deliberazione  del  10  dicembre  2013,  in
ottemperanza alla decisione del Consiglio di Stato, ha  rideterminato
le  sanzioni  originariamente  applicate,  quantificandole  non   sul
fatturato generale ma su  quello  specifico  -  cosi'  come  previsto
dall'originaria formulazione dell'art. 15, comma 1,  della  legge  n.
287 del  1990  -  nonche'  riducendone  l'importo,  in  virtu'  della
qualificazione della violazione del mercato soltanto come «grave». 
    4.1.2.- Cio' precisato, le ordinanze  di  rimessione  riconoscono
l'esistenza di un giudicato interno, in  forza  del  quale  la  norma
sanzionatoria applicabile nella  fase  di  rideterminazione  dovrebbe
essere, appunto, quella precedente alla novella  del  2001.  Dal  che
potrebbe  desumersi  l'irrilevanza   di   un'eventuale   declaratoria
d'illegittimita' costituzionale della disposizione censurata, poiche'
il giudicato precluderebbe in ogni  caso  l'applicazione  retroattiva
della sanzione piu' favorevole. 
    Nondimeno, secondo il  giudice  a  quo,  tale  argomento  sarebbe
superabile alla luce dei principi elaborati dalla Corte di cassazione
in  tema  di  esecuzione  delle  sanzioni  penali  (con   particolare
riferimento a Cassazione penale, sezioni  unite,  sentenze  7  maggio
2014,  n.  18821  e  14  ottobre  2014,  n.  42858).   Secondo   tale
orientamento, infatti,  il  rapporto  deve  ritenersi  esaurito,  non
semplicemente quando su di esso  si  sia  formato  un  giudicato,  ma
soltanto con l'esecuzione dell'ultimo «frammento  di  pena».  Dunque,
sino a quando l'esecuzione della pena e' in  atto,  il  rapporto  non
potrebbe ritenersi  esaurito  e  una  dichiarazione  d'illegittimita'
costituzionale  della  sanzione  in  corso  di  esecuzione   potrebbe
comunque  produrre  i  propri  effetti.  Ne   deriverebbe   che   una
declaratoria d'illegittimita' costituzionale dell'art. 11,  comma  4,
della legge n. 57 del  2001,  nella  parte  in  cui  non  si  applica
retroattivamente, sarebbe rilevante nei giudizi a quo, non  essendosi
ancora  del  tutto  esaurita  la  fase   esecutiva   della   sanzione
amministrativa pecuniaria. 
    4.1.3.- Nella giurisprudenza della Corte di cassazione richiamata
dal giudice a quo, tuttavia, la possibilita' d'incidere sul giudicato
penale  e'  riferita  alle  sanzioni  penali  coercitive  e   recanti
limitazioni  della  liberta'  personale,  venendo  in  gioco   valori
costituzionali che devono  ragionevolmente  prevalere  sul  principio
dell'intangibilita' del giudicato. 
    Siffatti profili non sono  presenti  nel  caso  di  una  sanzione
amministrativa pecuniaria. Essa non mette in  gioco  beni  essenziali
come la liberta' personale e se un «frammento» della  stessa  risulta
ancora non eseguito, cio' dipende dalla volonta' dell'interessato. 
    D'altronde, il sistema penale prevede una  fase  esecutiva  della
sanzione, in cui garante della legalita' della  pena  e'  il  giudice
dell'esecuzione,  cui  compete  di  ricondurre  la  pena  inflitta  a
legittimita'. Per le sanzioni amministrative pecuniarie, invece,  sia
la loro irrogazione, sia la relativa  fase  esecutiva  obbediscono  a
principi ben diversi, poiche' il giudice preposto e' investito  della
sola cognizione del titolo esecutivo (sentenza n. 43 del 2017). 
    Ne deriva che  la  declaratoria  d'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 11, comma 4, della  legge  n.  57  del  2001  non  potrebbe
produrre effetti, atteso l'intervenuto esaurimento  dei  rapporti  di
cui ai giudizi a quibus in virtu' del giudicato di cui alla  sentenza
del Consiglio di Stato n. 5864 del 2009, concernente la gravita' e la
durata  dell'infrazione  determinata   dall'intesa   restrittiva   e,
conseguentemente, la normativa applicabile ratione temporis. 
    Cosi', del resto, hanno deciso  tutte  le  altre  pronunce  della
giurisprudenza amministrativa relative al contenzioso sulla  medesima
intesa (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 18 marzo 2019, n.
1762 e n. 1761 e 26 luglio 2018, n. 4577). 
    4.2.- Di  conseguenza,  le  questioni  devono  essere  dichiarate
inammissibili per difetto di rilevanza, restando assorbiti anche  gli
ulteriori profili d'inammissibilita' eccepiti dalla difesa statale  e
dall'AGCM. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale dell'art. 11, comma 4, della legge 5 marzo 2001, n. 57
(Disposizioni in materia di  apertura  e  regolazione  dei  mercati),
modificativo dell'art. 15, comma 1, della legge 10 ottobre  1990,  n.
287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato),  sollevate
dal Consiglio di Stato, sezione sesta, in riferimento agli artt. 3  e
117, primo comma, della  Costituzione  -  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  7  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848 - con le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2020. 
 
                                F.to: 
                     Marta CARTABIA, Presidente 
                      Giuliano AMATO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2020. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA