N. 111 SENTENZA 6 aprile - 5 giugno 2023
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identita' o su qualita' personali proprie o di altri - Applicabilita' alle false dichiarazioni rese dall'indagato o imputato in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalita' in senso stretto - Denunciata violazione del diritto di difesa e irragionevolezza - Non fondatezza delle questioni. Processo penale - Regole generali per l'interrogatorio - Avvisi preliminari - Necessita' che essi siano formulati nei confronti dell'indagato o dell'imputato anche prima che vengano loro richieste le informazioni relative ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalita' in senso stretto - Omessa previsione - Violazione del diritto di difesa, comprensivo del diritto al silenzio - Illegittimita' costituzionale. Reati e pene - Reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identita' o su qualita' personali proprie o di altri - Esclusione della punibilita' per l'indagato o imputato che abbiano reso false dichiarazioni relative ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalita' in senso stretto - Omessa previsione - Violazione del diritto di difesa, comprensivo del diritto al silenzio - Illegittimita' costituzionale. - Codice penale, art. 495; codice di procedura penale, art. 64, comma 3. - Costituzione, artt. 3 e 24.(GU n.23 del 7-6-2023 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Silvana SCIARRA; Giudici :Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 495 del codice penale e, in via subordinata, dell'art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nonche' dello stesso art. 495 cod. pen., promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di M. G., con ordinanza del 4 luglio 2022, iscritta al n. 98 del registro ordinanze 2022, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2022, la cui trattazione e' stata fissata per l'adunanza in camera di consiglio del 5 aprile 2023. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2023 il Giudice relatore Francesco Vigano'; deliberato nella camera di consiglio del 6 aprile 2023. Ritenuto in fatto 1.- Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell'ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p.». In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell'art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell'ambito del procedimento penale», nonche' dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l'esclusione della punibilita' per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni - in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p. - rese nell'ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facolta' di non rispondere». 1.1.- Il rimettente si trova a giudicare, in sede dibattimentale, della responsabilita' penale di M. G., imputato tra l'altro del delitto di cui all'art. 374-bis cod. pen., per avere dichiarato al personale della Questura di Pisa - in sede di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore nell'ambito di un procedimento penale - di non avere riportato condanne penali in Italia, avendo invece il medesimo M. G. gia' riportato due condanne divenute ormai definitive. Un tale fatto, osserva il Tribunale, integra in realta' - secondo la costante giurisprudenza di legittimita' (sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 26 febbraio-3 maggio 2016, n. 18476; 8 luglio-16 settembre 2015, n. 37571; 9-23 luglio 2014, n. 32741; 6 marzo-15 maggio 2007, n. 18677) - il piu' grave delitto di cui all'art. 495 cod. pen. (Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identita' o su qualita' personali proprie o di altri), per il quale l'imputato dovrebbe dunque essere condannato. Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale di tale disposizione. 1.2.- Osserva anzitutto il giudice a quo che l'art. 495 cod. pen., il quale punisce «chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identita', lo stato o altre qualita' della propria o dell'altrui persona», e' stato considerato applicabile dalla Corte di cassazione non solo all'ipotesi di false dichiarazioni in ordine ai propri precedenti penali (sono citate Corte di cassazione, sentenze n. 18476 del 2016, n. 37571 del 2015, n. 32741 del 2014 e n. 18677 del 2007), ma anche alle false dichiarazioni relative ad altre circostanze indicate nell'art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale (sono citate Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 4-11 settembre 2012, n. 34536, in relazione alla falsa dichiarazione relativa al titolo di studio in sede di interrogatorio davanti al giudice per le indagini preliminari, nonche' Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 14-24 gennaio 2022, n. 2497, in relazione alla generalita' delle dichiarazioni circa le proprie condizioni e qualita' personali). Aggiunge poi il rimettente che l'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nel dettare un'articolata disciplina relativa agli avvisi che devono essere formulati alla persona sottoposta a indagini prima che sia sottoposta ad interrogatorio, comprensivi dell'avviso della facolta' di non rispondere ad alcuna domanda, fa salvo espressamente quanto disposto dall'art. 66, comma 1, cod. proc. pen.; disposizione, quest'ultima, a tenore della quale «[n]el primo atto cui e' presente l'imputato, l'autorita' giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalita' e quant'altro puo' valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalita' o le da' false». L'art. 66 cod. proc. pen. - prosegue il rimettente - e' a sua volta richiamato dall'art. 21 norme att. cod. proc. pen., il quale dispone che, «[q]uando procede a norma dell'articolo 66 del codice, il giudice o il pubblico ministero invita l'imputato o la persona sottoposta alle indagini a dichiarare se ha un soprannome o uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. Lo invita inoltre a dichiarare se e' sottoposto ad altri processi penali, se ha riportato condanne nello Stato o all'estero e, quando ne e' il caso, se esercita o ha esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessita' e se ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche». Rileva il rimettente, da un lato, che secondo la giurisprudenza di legittimita' la persona sottoposta a indagini o indagata avrebbe l'obbligo di rispondere in modo veritiero soltanto alle domande relative alle proprie generalita' e a quelle strettamente finalizzate all'identificazione, con esclusione delle dichiarazioni relative ai precedenti penali e alle altre circostanze elencate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. Rispetto a tali circostanze, il soggetto potrebbe in effetti legittimamente rifiutarsi di rispondere senza incorrere in responsabilita' penale. Laddove pero' decidesse di rispondere e rendesse false dichiarazioni, si renderebbe responsabile del delitto di cui all'art. 495 cod. pen. (sono citate le sentenze della Corte di cassazione n. 37571 del 2015, n. 32741 del 2014 e n. 18677 del 2007, nonche' la sentenza n. 108 del 1976 di questa Corte, con riferimento alla disciplina all'epoca vigente). Dall'altro lato, il rimettente rileva che, secondo la giurisprudenza di legittimita', le garanzie previste in via generale dall'art. 64 cod. proc. pen. nei confronti della persona sottoposta a indagini o dell'imputato, e segnatamente l'obbligo di formulare gli avvertimenti di cui al comma 3 di tale disposizione, non opererebbero in sede di identificazione ed elezione di domicilio (e' citata Corte di cassazione, sentenza n. 18476 del 2016). In particolare, non vi sarebbe secondo la Corte di cassazione alcun obbligo di far precedere le domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. dagli avvisi di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., dal momento che tali domande si riferirebbero all'identita' e allo stato civile e giuridico dell'imputato, e non al fatto di cui egli sia accusato (sono citate Corte di cassazione, sentenze n. 2497 del 2022; sezione seconda penale, 3-10 novembre 2020, n. 31463; sezione sesta penale, 20 settembre-13 ottobre 2016, n. 43337; sezione quinta penale, 6 marzo-26 giugno 2013, n. 28020). Cionondimeno, osserva ancora il rimettente, le risposte fornite dalla persona sottoposta a indagini o dall'imputato a quelle domande potrebbero poi essere utilizzate dal giudice «ai fini cautelari o del merito» a pregiudizio della persona indagata o imputata. 1.3.- Tutto cio' premesso, il rimettente dubita - in via principale - della legittimita' costituzionale dell'art. 495 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui - secondo il diritto vivente sin qui ricostruito - si applica anche alle false dichiarazioni, rese nell'ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta a indagini o dall'imputato, rispetto ai propri precedenti penali e alla generalita' delle circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. Anche rispetto a tali circostanze opererebbe infatti il diritto al silenzio, riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte come corollario del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. (sono citati l'ordinanza n. 117 del 2019 e gli ulteriori precedenti ivi menzionati). A parere del rimettente, il legislatore - «se pur non si trattava (forse) di una scelta costituzionalmente o convenzionalmente obbligata» - avrebbe declinato tale diritto riconoscendo, in via generale, che la persona sottoposta a indagini, e poi l'imputato, non solo non hanno l'obbligo di rispondere al giudice o all'autorita' che procede, ma hanno anche il diritto di mentire ad essi nell'esercizio della propria difesa. Al punto che, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimita', dal mero mendacio dell'imputato il giudice non puo' normalmente trarre conseguenze per lo stesso pregiudizievoli, e in particolare negargli su tale base circostanze attenuanti o benefici (sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 17 gennaio-5 giugno 2020, n. 17232 e 14 settembre-28 dicembre 2017, n. 57703; sezioni unite penali, sentenza 24 maggio-20 settembre 2012, n. 36258). Sarebbe pertanto necessario valutare se l'eccezione rappresentata dalle false dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagini in ordine alle circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. sia ragionevole. In proposito, il rimettente osserva che «molto spesso le informazioni riferite con riguardo alle condizioni familiari ed economiche dell'indagato hanno un'evidente rilevanza ai fini della valutazione delle accuse: si pensi ad esempio alla maggiore o minore verosimiglianza della contestazione di un furto o di altro reato contro il patrimonio a seconda che l'indagato/imputato abbia o meno una regolare fonte di reddito o un consistente patrimonio; o, alla stessa stregua, alla valutazione della detenzione in casa di un quantitativo di stupefacente non irrisorio, come destinata al proprio consumo personale o piuttosto allo spaccio». Con riguardo poi ai precedenti penali, prosegue il rimettente, essi a volte sono addirittura elementi costitutivi del reato (come nel caso della contravvenzione di cui all'art. 707 cod. pen.), e in ogni caso assumono rilevanza ai fini della possibile contestazione della recidiva e del trattamento sanzionatorio ex art. 133 cod. pen., nonche' della concessione di benefici. D'altra parte, «la dichiarazione da parte dell'indagato di avere o meno precedenti penali (cosi' come quella di avere un'occupazione lavorativa o di convivere con una persona dotata di un reddito stabile o di avere altro procedimento pendente, magari con una misura cautelare in corso di esecuzione)» potrebbe «incidere sulla valutazione delle esigenze cautelari, diverso essendo chiaramente il significato che assume il delitto per cui si procede in presenza di un soggetto incensurato o, piuttosto, di un soggetto gravato da plurimi precedenti specifici». Secondo il rimettente, nel rispondere a tutte queste domande il soggetto si starebbe in effetti gia' difendendo, «cercando di fornire una propria versione che, anche con riguardo ai precedenti penali e alle altre qualita' e condizioni di cui all'art. 21 disp. att. c.p.p., renda meno verisimili le accuse o faccia apparire meno gravi i fatti o meno stringenti le esigenze cautelari». Sarebbe, pertanto, «eccessivamente formalistico e quindi irragionevole distinguere tra domande preliminari, che non sarebbero coperte dal diritto di mentire, e domande rientranti nell'interrogatorio/esame vero e proprio, alle quali l'imputato potrebbe rispondere liberamente, senza timore di incorrere in ulteriori responsabilita' penali». All'opposto, sarebbe costituzionalmente necessario declinare in modo unitario il contenuto del diritto al silenzio rispetto tanto all'oggetto della contestazione, quanto alle ulteriori domande che possono rilevare, tra l'altro, in relazione alle circostanze del reato, al trattamento sanzionatorio, ai benefici, alle esigenze cautelari, escludendo dunque la responsabilita' penale per ogni falsa dichiarazione resa in proposito dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato. 1.4.- Nell'ipotesi in cui questa Corte non ritenesse di accogliere le questioni cosi' prospettate in via principale, il rimettente solleva - in via subordinata - questioni di legittimita' costituzionale, questa volta in riferimento al solo art. 24 Cost.: - dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati alla persona sottoposta a indagini e all'imputato prima di qualunque tipo di audizione nell'ambito del procedimento penale - e dunque anche prima delle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. -; nonche' - del medesimo art. 495 cod. pen., nella parte in cui non prevede l'esclusione della punibilita' in caso di false dichiarazioni sui propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., rese nell'ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facolta' di non rispondere. Laddove, dunque, non fosse ritenuto irragionevole negare alla persona sottoposta a indagini o all'imputato la facolta' di mentire, e conseguentemente prevedere la sua punibilita' per il delitto di cui all'art. 495 cod. pen. per il caso di false dichiarazioni alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., ad avviso del rimettente resterebbe tuttavia necessario assicurare adeguata tutela al diritto al silenzio del soggetto interessato, fondato sull'art. 24 Cost. E cio' mediante - anzitutto - il suo previo ed espresso avviso relativo a tale diritto, ai sensi dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., in mancanza del quale egli verrebbe di fatto indotto a rispondere, «magari mentendo per difendersi», alle domande che gli vengano poste dall'autorita' di polizia o giudiziaria. Una tale necessita' sussisterebbe tanto nell'ipotesi in cui la persona sottoposta a indagini o imputata sia gia' assistita da un difensore, quanto - a maggior ragione - allorche' non lo sia, non essendovi in tal caso alcuno che possa altrimenti renderla edotta dei suoi diritti. Al fine poi di garantire effettivita' all'obbligo di formulare gli avvisi di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. prima delle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., occorrerebbe, inoltre, sancire la non punibilita' ai sensi dell'art. 495 cod. pen. di chi abbia reso false dichiarazioni in risposta a tali domande senza ricevere gli avvisi medesimi, analogamente a quanto gia' oggi previsto dall'art. 384, secondo comma, cod. pen. rispetto a chi avrebbe dovuto essere avvertito della facolta' di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione. 1.5.- Il rimettente esclude, infine, che ai risultati auspicati sia possibile pervenire in via ermeneutica, mediante una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, stante l'ostacolo opposto dal diritto vivente; cio' che renderebbe imprescindibile la prospettazione delle odierne questioni. 2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo la non fondatezza di tutte le questioni sollevate dal rimettente. Le dichiarazioni della persona sottoposta a indagini o imputata relative ai propri precedenti penali sarebbero, anzitutto, del tutto ininfluenti sul piano dell'esercizio del diritto di difesa, dal momento che il pubblico ministero fin dalla fase delle indagini preliminari acquisisce sempre le informazioni contenute nel casellario giudiziale; dal che deriverebbe «l'assoluta inanita' del tentativo dell'indagato di fuorviare gli organi inquirenti dichiarando falsamente di non aver precedentemente commesso reati». D'altra parte, le domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. concernerebbero, nel loro complesso, «fatti e circostanze agevolmente conoscibili dall'autorita' procedente, ragion per cui un eventuale rifiuto di rispondere non condurrebbe ad alcun effettivo vantaggio sul piano difensivo», come sarebbe riconosciuto dalla stessa giurisprudenza di legittimita' (e' citata Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022). Conseguentemente, la mancata previsione della non punibilita' per il delitto di cui all'art. 495 cod. pen. nel caso in cui - in mancanza dei necessari avvisi - l'imputato o indagato abbia reso false dichiarazioni in relazione ai propri precedenti penali e alle altre circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. non potrebbe essere ritenuta in contrasto con l'art. 24 Cost. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 495 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell'ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p.». In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell'ambito del procedimento penale», nonche' dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui non prevede l'esclusione della punibilita' per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni - in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p. - rese nell'ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facolta' di non rispondere». 2.- L'Avvocatura generale dello Stato non ha formulato eccezioni di inammissibilita' delle questioni. 2.1.- In effetti, le questioni - sollevate in via principale e subordinata - aventi a oggetto l'art. 495 cod. pen. sono certamente ammissibili, dal momento che di tale disposizione il giudice a quo e' direttamente chiamato a fare applicazione nel giudizio penale. 2.2.- Ammissibile e', peraltro, anche la questione - prospettata in via subordinata - avente a oggetto la disposizione di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., della quale pure il rimettente lamenta, propriamente, la mancata applicazione da parte dell'autorita' di polizia in sede di identificazione della persona sottoposta a indagini ai sensi dell'art. 349 cod. proc. pen. Il rimettente invoca infatti da parte di questa Corte un intervento complessivo - a suo avviso imposto dalla logica di una tutela effettiva del diritto al silenzio, discendente dall'art. 24 Cost. - con il quale si dovrebbe incidere, a un tempo, sul diritto penale sostanziale e processuale. Sul diritto penale sostanziale, attraverso l'esclusione della punibilita' ex art. 495 cod. pen. in caso di false dichiarazioni rese in risposta alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. dalla persona sottoposta a indagini o imputata che non sia stata previamente avvertita della facolta' di non rispondere a tali domande; e sul diritto penale processuale, attraverso l'introduzione dell'obbligo di avvertire la persona medesima di tale facolta', nelle forme gia' previste in via generale dall'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., prima che le siano rivolte le domande di cui allo stesso art. 21. I due corni dell'intervento auspicato sono, nella prospettiva del rimettente, inscindibilmente connessi, non avendo significato una pronuncia di parziale illegittimita' costituzionale della norma incriminatrice di cui all'art. 495 cod. pen., che ne dichiari la non applicabilita' alle ipotesi in cui siano stati omessi gli avvisi di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., senza che al tempo stesso sia sancito, sul terreno del diritto processuale, l'obbligo di formulare tali avvisi anche in relazione alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. pen. Pertanto, l'addizione normativa auspicata non potrebbe che realizzarsi su entrambe le disposizioni: in caso di accoglimento delle questioni prospettate in via subordinata, le disposizioni indicate verrebbero a costituire un'unica coerente disciplina, i cui riflessi sul terreno del diritto penale sostanziale condurrebbero al risultato dell'assoluzione dell'imputato dal reato di cui all'art. 495 cod. pen., il quale non sia stato previamente avvertito, ai sensi dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., della propria facolta' di non rispondere in relazione ai propri precedenti penali. 3.- Nel merito, le questioni ora portate all'esame di questa Corte ruotano attorno all'estensione del diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata nel corso del procedimento penale. Piu' in particolare, il rimettente assume che il diritto al silenzio copra non solo le circostanze attinenti al fatto del quale la persona sia sospettata o accusata, ma anche quelle - cui si riferisce l'art. 21 norme att. cod. proc. pen. - che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalita' in senso stretto (nome, cognome, luogo e data di nascita). 3.1.- Sin da tempi risalenti, questa Corte ha ritenuto che il diritto al silenzio - definito dall'art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) come la garanzia, spettante a ogni individuo accusato di un reato, «a non essere costretto a deporre contro se' stesso o a confessarsi colpevole» - costituisca corollario implicito del diritto inviolabile di difesa, sancito dall'art. 24 Cost. Gia' la sentenza n. 236 del 1984 afferma che nel diritto di difesa del soggetto nei cui confronti siano emersi indizi di reato «rientra certamente il diritto di rifiutarsi di rispondere (tranne ovviamente che alle richieste attinenti all'identificazione del soggetto medesimo)» (punto 12 del Considerato in diritto). Nella sentenza n. 361 del 1998 si legge, in termini ancora piu' espliciti, che «l'intangibilita' del diritto di difesa, sotto forma del rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e conseguentemente del diritto al silenzio, si manifesta nella garanzia dell'esclusione [...] dell'obbligo di rispondere in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilita' proprie» (punto 2.1. del Considerato in diritto). Ancora, l'ordinanza n. 291 del 2002, testualmente ripresa sul punto dalle ordinanze n. 451 e n. 485 del 2002, e poi dall'ordinanza n. 202 del 2004, definisce il principio nemo tenetur se detegere come un «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto di difesa». Piu' recentemente, l'ordinanza n. 117 del 2019 - fondando il diritto in questione, assieme, sull'art. 24 Cost. e sulle fonti di diritto internazionale vincolanti per l'ordinamento italiano, tra le quali il menzionato art. 14 PIDCP e l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo (punto 7.2. del Considerato in diritto) - lo ha definito come il «diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni di natura confessoria (nemo tenetur se ipsum accusare)» (punto 3 del Considerato in diritto). In risposta poi alle questioni pregiudiziali formulate da questa Corte con la stessa ordinanza n. 117 del 2019, relativa al rilievo del diritto al silenzio nell'ambito di procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell'irrogazione di sanzioni di carattere sostanzialmente punitivo, la grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea, con sentenza 2 febbraio 2021, in causa C-481/19, D. B. contro Consob, ha parimenti riconosciuto che il diritto al silenzio e' implicitamente garantito nell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in armonia con la costante giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 6 CEDU, precisando che tale diritto «risulta violato, segnatamente, in una situazione in cui un sospetto, minacciato di sanzioni per il caso di mancata deposizione, o depone o viene punito per essersi rifiutato di deporre» (paragrafo 39), e che esso «comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell'accusa ed avere cosi' un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona» (paragrafo 40). Affermazioni, queste ultime, puntualmente riprese dalla successiva sentenza n. 84 del 2021 di questa Corte, con la quale e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima una disposizione sanzionatoria del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui si applicava anche a chi si fosse rifiutato di rispondere a domande della CONSOB dalle quali potesse emergere una sua responsabilita' per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, o addirittura per un reato. 3.2.- La vigente disciplina del processo penale tutela il diritto al silenzio della persona sottoposta alle indagini essenzialmente per il tramite dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., a tenore del quale l'autorita' che procede deve, prima che abbia inizio l'interrogatorio, formulare una serie di avvertimenti, tra cui in particolare quello previsto dalla lettera b), relativo alla «facolta' di non rispondere ad alcuna domanda». Il successivo comma 3-bis dispone, poi, che l'omissione di tale avvertimento «rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata». Gli avvertimenti di cui al comma 3 debbono essere formulati anche in ogni caso di interrogatorio durante il processo, nonche', di regola, in sede di sommarie informazioni alla polizia giudiziaria (art. 350, comma 1, cod. proc. pen.). Sul versante del diritto penale sostanziale, d'altra parte, ne' il silenzio ne' le false informazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato in sede di interrogatorio danno luogo di per se' a responsabilita' penale, fatte salve le ipotesi - in particolare - in cui essi accusino falsamente altri di avere commesso il reato (art. 368 cod. pen.) ovvero affermino falsamente essere avvenuto un reato in realta' mai realizzato (art. 367 cod. pen.). 3.3.- Il codice di rito, peraltro, allo stato non riconosce alla persona sottoposta alle indagini e all'imputato il diritto al silenzio rispetto alle domande relative alle proprie «generalita'» e a «quant'altro puo' valere a identificar[li]»: domande che, ai sensi dell'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., debbono essere loro rivolte nel primo atto in cui essi sono presenti. Cio' si desume sia dallo stesso art. 66, comma 1, cod. proc. pen., che impone all'autorita' procedente l'obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini delle «conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalita' o le da' false»; sia dall'art. 64, comma 3, lettera b), cod. proc. pen. che, nel prescrivere l'obbligo di avvertire la persona circa la facolta' di non rispondere, fa espressamente «salvo quanto disposto dall'articolo 66, comma 1», cod. proc. pen. Parallelamente, nell'ambito del diritto penale sostanziale l'art. 651 cod. pen. prevede come contravvenzione il rifiuto di fornire le proprie generalita'; e l'art. 495 cod. pen. commina la pena della reclusione da uno a sei anni a carico di chi «dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identita', lo stato o altre qualita' della propria o dell'altrui persona». Secondo la costante giurisprudenza di legittimita', tale ultima disposizione - oggetto delle odierne censure - si applica anche alla persona sottoposta alle indagini e all'imputato che fornisca false generalita' (ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 6 dicembre 2021-7 febbraio 2022, n. 4264 e 20 luglio-5 settembre 2016, n. 36834). 3.4.- Come anticipato, le questioni oggi all'esame di questa Corte non concernono pero' le domande relative alle generalita' della persona sottoposta alle indagini e dell'imputato, bensi' quelle ulteriori che l'autorita' procedente - in forza dell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. - e' tenuta a formulare quando procede ai sensi dell'art. 66, comma 1, cod. proc. pen. Si tratta, in particolare, di ulteriori domande relative al soprannome o allo pseudonimo, alla eventuale disponibilita' di beni patrimoniali, alle condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonche' dell'invito, rivolto all'identificando, di dichiarare se sia sottoposto ad altri processi penali, se sussistano a suo carico condanne nello Stato o all'estero, e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi pubblici, servizi di pubblica necessita' o cariche pubbliche. 3.4.1.- Questa Corte fu investita, nel 1976, di questioni analoghe a quelle oggi all'esame, formulate in riferimento all'art. 24 Cost., e aventi a oggetto tanto la previgente versione dell'art. 495, secondo comma, cod. pen. che parimenti incriminava la falsa dichiarazione dell'imputato sulla propria identita', sul proprio stato e sulle proprie qualita' personali, quanto l'art. 25 del regio decreto 28 maggio 1931, n. 602 (Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale). Tale ultima disposizione, funzionalmente omologa all'attuale art. 21 norme att. cod. proc. pen., statuiva tra l'altro l'obbligo a carico del giudice di chiedere preliminarmente all'imputato se fosse sottoposto ad altri procedimenti penali e avesse riportato condanne in Italia o all'estero. Nel giudicare non fondate quelle questioni, che assumevano il contrasto delle disposizioni censurate con il diritto dell'imputato di «astenersi da qualsivoglia dichiarazione a lui pregiudizievole», questa Corte ritenne non essere dubbio «che, se l'imputato, alla domanda rivoltagli dall'inquirente sui suoi precedenti penali risponde in modo contrario al vero, egli incorre nelle sanzioni previste dall'art. 495 del codice penale. Ma non e' esatto che, a tale domanda, egli sia tenuto a rispondere, essendo certo che puo' rifiutarsi di fornire le notizie, che in proposito gli vengano richieste, senza incorrere in alcuna responsabilita' penale». Dall'analisi del citato art. 25 delle disposizioni di attuazione allora vigenti questa Corte dedusse, in effetti, «che l'imputato, solo alla richiesta delle proprie generalita' e' tenuto a fornire risposta, incorrendo in responsabilita' penale qualora si rifiuti di rispondere, o dia false generalita'», dovendosi intendere per generalita' soltanto «il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita»: con esclusione dunque delle altre circostanze indicate dalla disposizione allora censurata, tra le quali gli eventuali precedenti penali (sentenza n. 108 del 1976, punto 4 del Considerato in diritto). 3.4.2.- Nel vigore del nuovo codice di procedura penale, la giurisprudenza di legittimita' ha, da un lato, confermato che rispetto alle circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. non sussiste per la persona sottoposta alle indagini o imputata un obbligo di rispondere, a differenza di quanto accade rispetto alle proprie generalita'; dall'altro, continua a ritenere che, ove la persona interrogata risponda e affermi il falso, sia ravvisabile nei suoi confronti il delitto di cui all'art. 495, primo comma, cod. pen., nella versione oggi vigente (in relazione alle false affermazioni sui propri precedenti penali, ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 8 giugno-8 luglio 2022, n. 26440 e n. 18476 del 2016; relativamente alla falsa affermazione di essere laureato in giurisprudenza, Corte di cassazione, sentenza n. 34536 del 2012). Peraltro, questa stessa giurisprudenza nega che le domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. abbiano attinenza con il diritto costituzionale di difesa della persona sottoposta alle indagini o imputata, e pertanto non richiede che la persona medesima sia avvertita della facolta' di non rispondere a tali domande ai sensi dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., ben potendo - anzi - tali domande essere formulate subito dopo l'ammonimento, previsto dall'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalita' o le da' false (Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022). Inoltre, la Corte di cassazione non ravvisa alcun ostacolo nell'utilizzare anche contra reum, in sede cautelare o di merito, le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o imputata in risposta alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen.: ad esempio, valorizzando le dichiarazioni sulla situazione reddituale e patrimoniale ai fini della sussistenza dei presupposti di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca in casi particolari di cui all'art. 240-bis cod. pen. (Corte di cassazione, sentenza n. 31463 del 2020), ovvero per escludere la finalita' di uso personale di sostanze stupefacenti (Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022, nonche' sentenza n. 43337 del 2016, ove si afferma non sussistere «alcun limite di utilizzabilita' [...] in ordine alle risposte fornite dall'imputato sulle proprie condizioni di vita e personali, in quanto non attengono al merito del procedimento, ne' possono qualificarsi dichiarazioni contra se solo in ragione della valutazione operata dal giudice»). 3.5.- Questa Corte ritiene che l'assetto appena descritto del diritto vivente non assicuri sufficiente tutela al diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata di cui all'art. 24 Cost., letto anche alla luce degli obblighi internazionali vincolanti per il nostro Paese e del diritto dell'Unione (supra, punto 3.1.). Cio' in quanto, da un lato, il diritto costituzionale al silenzio si estende, a giudizio di questa Corte, anche alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. (infra, punto 3.5.1.); e, dall'altro, perche' una tutela effettiva di questo diritto non puo' prescindere dalla formulazione di un previo avvertimento alla persona sottoposta alle indagini o imputata della facolta' di non rispondere anche a tali domande (infra, punto 3.5.2.). 3.5.1.- Anzitutto, se il diritto al silenzio e' diritto dell'individuo «a non essere costretto» non solo a «confessarsi colpevole», ma anche «a deporre contro se' stesso», come recita l'art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP, tale diritto e' necessariamente in gioco allorche' l'autorita' che procede in relazione alla commissione di un reato ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell'ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere «un impatto sulla condanna o sulla sanzione» che le potrebbe essere inflitta (Corte di giustizia, sentenza D. B. contro Consob, paragrafo 40). Una tale situazione si verifica, per l'appunto, rispetto alle domande indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen., che concernono bensi' condizioni personali del sospetto reo o dell'imputato diverse dalle sue generalita', ma la cui conoscenza da parte dell'autorita' procedente puo' generare conseguenze per lui pregiudizievoli nel corso del procedimento penale, ovvero ai fini della condanna e della commisurazione della pena. E cio' stante l'insussistenza - secondo il diritto vivente di cui si e' appena dato conto - di alcun divieto di utilizzare contra reum le risposte a tali domande. Cominciando con i precedenti penali, essi talvolta - come correttamente osserva il rimettente - integrano elementi costitutivi del reato, come nel caso della contravvenzione di cui all'art. 707 cod. pen.; e sono comunque suscettibili di integrare, ove cristallizzati in sentenze passate in giudicato, la circostanza aggravante della recidiva, che puo' comportare aumenti di pena anche assai significativi. Inoltre, le informazioni sugli altri procedimenti penali cui la persona sia sottoposta o sulle condanne anche non definitive che abbia eventualmente riportato, in Italia o all'estero - queste ultime normalmente non conoscibili tramite il casellario giudiziale -, ben potranno essere utilizzate dal pubblico ministero e poi dal giudice per valutare la pericolosita' sociale, a tutti i fini per i quali e' richiesta tale valutazione: dalla decisione su un'eventuale misura precautelare e cautelare o sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, sino alle determinazioni relative all'eventuale proscioglimento per particolare tenuita' del fatto o alla quantificazione della pena, comprensive della commisurazione della pena in senso stretto (art. 133, secondo comma, numero 2, cod. pen.), dell'applicabilita' di talune attenuanti (e in particolare delle attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis cod. pen.), nonche' della possibile sospensione condizionale della pena (alla luce di quanto previsto dall'art. 164, primo comma, cod. pen.). Poco rileva, allora, che le informazioni sui precedenti penali possano essere agevolmente ricavate - come osserva l'Avvocatura generale dello Stato - dall'esame del casellario giudiziale, con conseguente «inanita' del tentativo dell'indagato di fuorviare gli organi inquirenti dichiarando falsamente di non aver precedentemente commesso reati». Trattandosi infatti di circostanze potenzialmente pregiudizievoli per la persona sottoposta alle indagini o imputata, per di piu' suscettibili in molti casi di integrare una circostanza aggravante che puo' determinare drastici innalzamenti di pena, l'onere di dimostrare la sussistenza di tali circostanze - cosi' come di tutte le altre dalle quali dipende la responsabilita' penale dell'imputato - non puo' che gravare sul pubblico ministero, risultando frontalmente incompatibile con l'art. 24 Cost. ogni assetto normativo che miri a imporre alla persona sospettata o accusata di un reato un dovere di fornire informazioni idonee non solo a contribuire alla propria condanna, ma anche ad aggravare la pena applicabile, ovvero a determinare l'adozione di misure limitative dei suoi diritti nell'ambito del procedimento e poi del processo penale. Analoghe considerazioni possono svolgersi per tutte le altre circostanze oggetto delle domande indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. La conoscenza del soprannome o dello pseudonimo di una persona - che, a differenza del nome e del cognome, vale a identificarla non gia' al cospetto dell'intera comunita' civile, ma esclusivamente nella cerchia delle sue relazioni private - puo' essere di cruciale importanza ai fini investigativi, ad esempio in presenza di intercettazioni in cui la persona sottoposta a indagini o imputata sia stata indicata, come spesso avviene, con il soprannome: la domanda relativa a tale circostanza equivalendo, in simili casi, alla sollecitazione di una vera e propria confessione. Ancora, come la dottrina processualpenalistica non ha mancato di sottolineare, le informazioni sui beni patrimoniali posseduti dalla persona sottoposta a indagini o imputata, sulle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonche' sull'esercizio di uffici o servizi pubblici - lungi dall'essere meramente funzionali all'identificazione del soggetto - possono anch'esse assumere rilievo, durante le indagini e il processo, nella prospettiva della valutazione delle esigenze cautelari (in particolare del pericolo di fuga o di reiterazione del reato) che sorreggono le misure cautelari personali, nonche' dei presupposti delle misure cautelari reali (ad esempio in relazione all'entita' del patrimonio ai fini del sequestro conservativo); cosi' come, in esito al processo, ai fini della commisurazione della pena detentiva (art. 133, secondo comma, numero 4, cod. pen.) e pecuniaria (art. 133-bis cod. pen.), nonche' delle misure interdittive che abbiano ad oggetto l'esercizio di uffici o servizi pubblici. Rispetto alla generalita' di queste circostanze, la dimensione costituzionale del diritto al silenzio osta a che possa ravvisarsi un dovere della persona medesima di fornire le relative informazioni all'autorita' procedente, e in tal modo di collaborare nelle indagini e nel processo a proprio carico. 3.5.2.- Se dunque le circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. debbono ritenersi coperte dal diritto al silenzio di cui all'art. 24 Cost., resta da valutare se il diritto vivente sia congegnato in modo da assicurare adeguata tutela a tale diritto. Al riguardo, conviene preliminarmente rammentare che una violazione del diritto al silenzio si verifica non solo quando la persona sia costretta mediante violenza o intimidazione a rendere simili dichiarazioni, ma anche quando essa sia indotta a farlo sotto minaccia di una pena o comunque di una sanzione di carattere punitivo, come nel caso deciso dalla sentenza n. 84 del 2021. Ora, e' vero che il diritto penale sostanziale vigente - esattamente come all'epoca della richiamata sentenza n. 108 del 1976 - non considera penalmente rilevante il mero silenzio della persona sottoposta alle indagini o imputata serbato sulle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., ritenendo punibili soltanto le false dichiarazioni rese in quel contesto, che secondo la giurisprudenza integrano il delitto di cui all'art. 495 cod. pen. Tuttavia, e' altrettanto vero che il diritto processuale, come interpretato dalla costante giurisprudenza di legittimita' (supra, punto 3.4.2.), non richiede che la persona venga avvertita della facolta' di non rispondere prima che le vengano rivolte le domande indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen., le quali - anzi - sono normalmente formulate subito dopo l'ammonimento, previsto dall'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., circa le conseguenze cui si espone chi rifiuti di dare le proprie generalita'. E nulla vieta poi - come riconosciuto da quella stessa giurisprudenza di legittimita' - che le dichiarazioni rese in risposta a tali domande possano essere utilizzate contro il dichiarante, per i piu' diversi scopi, nel corso del procedimento e poi del processo penale. Cio' che, del resto, deriva pianamente dall'art. 64, comma 3-bis, cod. proc. pen., il divieto di utilizzazione ivi previsto applicandosi soltanto nei casi in cui siano stati illegittimamente omessi gli avvisi previsti dal precedente comma 3: avvisi, per l'appunto, che la giurisprudenza non ritiene debbano precedere le domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. Un tale assetto normativo e giurisprudenziale determina una situazione di insufficiente tutela del diritto al silenzio, alla luce del generale principio di effettivita' della garanzia dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, particolarmente valorizzato da questa Corte proprio in relazione al diritto di difesa, rientrante in quel «novero dei diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 238 del 2014, n. 323 del 1989 e n. 18 del 1982), che caratterizzano l'identita' costituzionale italiana» (ordinanza n. 117 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto; sull'effettivita' del diritto di difesa nei suoi vari corollari, ex multis, di recente, sentenze n. 18 del 2022, punti 4.3. e 4.4.2. del Considerato in diritto; n. 10 del 2022, punto 9.2. del Considerato in diritto; n. 157 del 2021, punto 8.1. del Considerato in diritto). In effetti, come evidenziato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in una delle sue piu' note decisioni del secolo scorso (Corte Suprema degli Stati Uniti, Miranda v. Arizona, 384 U.S. 436 [1966], pagina 467), la garanzia effettiva del diritto a non contribuire alla propria incriminazione esige la previsione di idonei strumenti procedurali per assicurarne il rispetto da parte della polizia e dell'autorita' giudiziaria. Per controbilanciare la pressione psicologica che inevitabilmente e' connessa ad un interrogatorio compiuto in un tribunale o in un ufficio della procura, e che puo' comprensibilmente indurre la persona interrogata a rendere dichiarazioni che non avrebbe reso in diverse circostanze, e' necessario - argomento' in quell'occasione la Corte Suprema - che la persona sia «adeguatamente ed effettivamente informata dei suoi diritti», attraverso i ben noti "warnings" enunciati dalla stessa sentenza, pressoche' letteralmente ripresi dallo stesso legislatore italiano nel codice di procedura penale vigente; ed e', altresi', necessario che l'ordinamento preveda, correlativamente, la sanzione processuale dell'inutilizzabilita' di tutte le dichiarazioni rese dall'interessato, allorche' detto obbligo procedurale sia stato violato (nel senso della necessita', ai fini del rispetto del diritto al silenzio desumibile dall'art. 6 CEDU, di un previo avvertimento relativo alla facolta' di non rispondere, altresi' Corte EDU, sentenze 24 ottobre 2013, Navone e altri contro Monaco, paragrafo 74; 27 ottobre 2011, Stojković contro Francia e Belgio, paragrafo 54; 14 ottobre 2010, Brusco contro Francia, paragrafo 54). Tale obbligo procedurale e tale sanzione processuale non sono attualmente previsti in relazione alle circostanze cui si riferiscono le domande previste dall'art. 21 norme att. cod. proc. pen., nonostante la loro indubbia idoneita' ad essere utilizzate contra reum nel corso del procedimento e poi del processo penale. Ne deriva che la persona interessata non e' oggi posta in grado di esercitare consapevolmente il proprio diritto al silenzio, e non e' in alcun modo tutelata allorche' tale diritto sia stato violato. Il che concreta il lamentato vulnus all'art. 24 Cost. 4.- Cio' posto, il rimedio individuato dal rimettente con il primo gruppo di questioni e', tuttavia, per un verso eccedente lo scopo (infra, punto 4.1.), e per un altro verso insufficiente rispetto a questo stesso scopo (infra, punto 4.2.). 4.1.- Il giudice a quo sottolinea correttamente che il legislatore italiano ha ritenuto, in via generale, di non prevedere alcuna sanzione penale a carico della persona sottoposta alle indagini o imputata che renda false dichiarazioni a propria difesa; e ritiene quindi che la punizione, ai sensi dell'art. 495 cod. pen., delle specifiche false dichiarazioni in risposta alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. violi gli artt. 3 e 24 Cost. Conseguentemente, il rimettente chiede che questa Corte dichiari l'illegittimita' costituzionale dello stesso art. 495 cod. pen., nella parte in cui include anche tali dichiarazioni fra le condotte penalmente rilevanti. Con cio' - si noti - il rimettente non assume che il diritto al silenzio di cui all'art. 24 Cost. includa anche un vero e proprio diritto a mentire, che di per se' renda costituzionalmente illegittima la punizione delle false dichiarazioni della persona sottoposta alle indagini o imputata. Un simile assunto, d'altronde, non solo non corrisponderebbe alla nozione internazionalmente riconosciuta del diritto al silenzio, ma sarebbe a ben guardare sfornito di alcun preciso supporto nella stessa giurisprudenza di questa Corte, dal momento che la cursoria affermazione, talvolta valorizzata dalla dottrina, contenuta nella sentenza n. 179 del 1994 - «l'imputato non solo gode della facolta' di non rispondere, ma non ha nemmeno l'obbligo di dire la verita'» (punto 5.1. del Considerato in diritto) - assolve in quel contesto una mera funzione descrittiva del sistema disegnato dal legislatore, senza intendere con cio' precisare il contenuto del diritto al silenzio costituzionalmente tutelato. Piuttosto, nella prospettiva del rimettente sarebbe in gioco un mero imperativo di coerenza del legislatore, rilevante sotto il profilo dell'art. 3 Cost., nel declinare la tutela del diritto di cui all'art. 24 Cost. nella concretezza dell'ordinamento: una volta che il legislatore, nell'esercizio della propria discrezionalita', abbia ritenuto in via generale che le esigenze di tutela di tale diritto escludano la punibilita' delle dichiarazioni di chi, sospettato o imputato di un reato, abbia detto il falso alle autorita' nel tentativo di difendersi, sarebbe costituzionalmente insostenibile la differenza di trattamento fra situazioni analoghe, quali le dichiarazioni relative al fatto di reato, da un lato, e quelle relative alle circostanze personali del suo possibile autore, dall'altro. Non pare tuttavia a questa Corte che le esigenze di coerenza interna al sistema, pur in via di principio rilevanti al metro dell'art. 3 Cost., possano spingersi sino a precludere al legislatore l'adozione di soluzioni differenziate in relazione a situazioni egualmente riconducibili all'area del diritto al silenzio, ma fra loro non del tutto omogenee. La scelta legislativa di non prevedere, di regola, sanzioni penali a carico della persona sospettata o imputata di un reato che menta nel tentativo di difendersi poggia su ragioni solide, e corrisponde a un'antica tradizione nel nostro Paese; ma il fatto che il legislatore non abbia previsto una sanzione penale per una data condotta non significa necessariamente che tale scelta corrisponda a una valutazione di liceita' della condotta medesima (e tanto meno all'avere considerato quella condotta come espressione di un diritto di rango costituzionale). L'ordinamento vigente gia' conosce, d'altronde, situazioni in cui la persona sottoposta a indagini o imputata - che non si sia avvalsa del diritto al silenzio di cui e' costituzionalmente titolare - puo' essere punita ove renda dichiarazioni menzognere che riguardino la responsabilita' di altri (art. 64, comma 3, lettera c, cod. proc. pen.), ovvero affermi essere stato commesso un reato in realta' inesistente (supra, punto 3.2.). In simili ipotesi, l'ordinamento considera necessaria la pena in funzione di un'efficace tutela degli interessi - pubblici e privati - protetti dagli artt. 367 e 368 cod. pen., valutando come recessive le ragioni che, normalmente, rendono non opportuna, o non necessaria, la pena a carico della persona che tali dichiarazioni abbia reso nell'intento di difendersi dalle accuse che le siano state rivolte. Ne' sussiste, come anticipato, una perfetta sovrapponibilita' tra le false dichiarazioni relative al fatto di reato - ritenute in via generale non penalmente rilevanti dal legislatore - e quelle relative alle circostanze personali del sospetto reo, potenzialmente abbracciate dall'art. 495 cod. pen. Fermo restando che il diritto al silenzio si estende alle une come alle altre, non appare a questa Corte irragionevole che - laddove l'interessato rinunci consapevolmente a esercitare quel diritto - il legislatore possa vietargli di rendere dichiarazioni false sulle circostanze relative alla propria persona e prevedere una sanzione penale nel caso di inosservanza di tale divieto. Che l'autorita' procedente possa confidare, in particolare, sulla veridicita' di queste dichiarazioni, liberamente rese dall'interessato, appare, del resto, funzionale anche all'interesse di questi a non vedere adottate, nei propri confronti, misure cautelari inutili, o comunque eccessive, rispetto alle reali esigenze di contenimento della sua pericolosita', o del periculum attinente ai beni potenzialmente oggetto di misure reali. Da cio' deriva che l'auspicata dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 495 cod. pen., nella parte in cui comprende anche le false dichiarazioni rese da chi sia stato previamente avvertito della facolta' di non rispondere alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., conseguirebbe un risultato eccedente lo scopo di assicurare la conformita' a Costituzione del vigente assetto normativo e giurisprudenziale. 4.2.- Il rimedio indicato sarebbe, per altro verso, inadeguato rispetto a tale scopo, intervenendo soltanto sul versante della punibilita' delle false dichiarazioni, ma non su quello - che ne costituisce un prius dal punto di vista tanto logico quanto cronologico - dell'imposizione alle autorita' procedenti dell'obbligo di avvisare la persona interrogata della propria facolta' di non rispondere anche alle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen.: obbligo senza il quale, come poc'anzi osservato, lo stesso diritto al silenzio rispetto a tali domande resterebbe svuotato di ogni effettivita'. 4.3.- Ne consegue la non fondatezza delle questioni prospettate in via principale. 5.- Sono fondate, invece, le questioni formulate dal rimettente in via subordinata. 5.1.- Merita accoglimento, anzitutto, la questione avente a oggetto l'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. in riferimento all'art. 24 Cost. Secondo la costante giurisprudenza di legittimita' (supra, punto 3.4.2.), gli avvertimenti ivi previsti non devono necessariamente essere formulati alla persona sottoposta alle indagini o imputata prima che le vengano rivolte le domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. Conseguentemente, non opera rispetto alle dichiarazioni rese dalla persona interessata in risposta a tali domande la regola generale della loro inutilizzabilita', posta dal successivo comma 3-bis, per il caso in cui gli avvertimenti siano stati omessi. Per le considerazioni gia' svolte (supra, punto 3.5.2.), tale assetto normativo e giurisprudenziale non e' conforme alle esigenze di tutela del diritto al silenzio, come riconosciuto dall'art. 24 Cost., che esige invece che la persona sottoposta alle indagini o imputata sia debitamente avvertita, segnatamente, del proprio diritto di non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle relative alle proprie generalita', e della possibilita' che le sue eventuali dichiarazioni siano utilizzate nei suoi confronti. L'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. Per effetto di tale dichiarazione di illegittimita' costituzionale, le relative dichiarazioni rese dall'interessato che non abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. resteranno, ai sensi del comma 3-bis, non utilizzabili nei suoi confronti. 5.2.- Fondata e' altresi', nei termini prospettati in via subordinata, la questione avente a oggetto l'art. 495 cod. pen., anch'essa in riferimento all'art. 24 Cost. La punibilita' delle false dichiarazioni relative alle «qualita' della propria o dell'altrui persona» ai sensi dell'art. 495 cod. pen. deve ritenersi non in contrasto con l'art. 24 Cost. soltanto ove la persona sottoposta alle indagini o imputata abbia previamente ricevuto l'avvertimento circa il suo diritto a non rispondere ai sensi dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen.; restando poi libero il legislatore di valutare se estendere la non punibilita' anche all'ipotesi in cui l'interessato, avendo ricevuto l'avvertimento, renda comunque dichiarazioni false allo scopo di evitare conseguenze a se' pregiudizievoli nell'ambito del procedimento e poi del processo penale. Anche l'art. 495, primo comma, cod. pen. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilita' della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale; 2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilita' della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni; 3) dichiara non fondate le ulteriori questioni di legittimita' costituzionale dello stesso art. 495 cod. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2023. F.to: Silvana SCIARRA, Presidente Francesco VIGANO', Redattore Igor DI BERNARDINI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2023. Il Cancelliere F.to: Igor DI BERNARDINI