N. 111 SENTENZA 6 aprile - 5 giugno 2023

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Reato di  falsa  attestazione  o  dichiarazione  a  un
  pubblico ufficiale sulla identita' o su qualita' personali  proprie
  o  di  altri  -  Applicabilita'  alle  false   dichiarazioni   rese
  dall'indagato o imputato in relazione ai propri precedenti penali e
  in generale in relazione alle circostanze  che  riguardano  la  sua
  persona,  al  di  fuori  delle  generalita'  in  senso  stretto   -
  Denunciata violazione del diritto di difesa  e  irragionevolezza  -
  Non fondatezza delle questioni. 
Processo penale -  Regole  generali  per  l'interrogatorio  -  Avvisi
  preliminari - Necessita' che essi  siano  formulati  nei  confronti
  dell'indagato  o  dell'imputato  anche  prima  che   vengano   loro
  richieste le informazioni relative ai propri precedenti penali e in
  generale in  relazione  alle  circostanze  che  riguardano  la  sua
  persona, al di fuori delle generalita' in senso  stretto  -  Omessa
  previsione - Violazione del  diritto  di  difesa,  comprensivo  del
  diritto al silenzio - Illegittimita' costituzionale. 
Reati e pene - Reato di  falsa  attestazione  o  dichiarazione  a  un
  pubblico ufficiale sulla identita' o su qualita' personali  proprie
  o di altri - Esclusione della punibilita' per l'indagato o imputato
  che abbiano reso false dichiarazioni relative ai propri  precedenti
  penali e in generale in relazione alle circostanze  che  riguardano
  la sua persona, al di fuori delle generalita' in  senso  stretto  -
  Omessa previsione - Violazione del diritto di  difesa,  comprensivo
  del diritto al silenzio - Illegittimita' costituzionale. 
- Codice penale, art. 495; codice di procedura penale, art. 64, comma
  3. 
- Costituzione, artt. 3 e 24. 
(GU n.23 del 7-6-2023 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Silvana SCIARRA; 
Giudici :Daria de PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco
  VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo  BUSCEMA,  Emanuela
  NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo  PATRONI  GRIFFI,
  Marco D'ALBERTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  495  del
codice penale e, in via  subordinata,  dell'art.  64,  comma  3,  del
codice di procedura penale, nonche' dello stesso art. 495 cod.  pen.,
promosso dal Tribunale ordinario di Firenze,  sezione  prima  penale,
nel procedimento penale a carico di M. G., con ordinanza del 4 luglio
2022, iscritta al n. 98 del registro ordinanze 2022, pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  38,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2022, la cui trattazione e' stata fissata per l'adunanza in
camera di consiglio del 5 aprile 2023. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  6  aprile  2023  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 6 aprile 2023. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima  penale,  ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 495  del
codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24  della  Costituzione,
«nella  parte  in  cui  si  applica  alle  false  dichiarazioni  rese
nell'ambito di un procedimento penale  dalla  persona  sottoposta  ad
indagini o imputata in relazione ai propri  precedenti  penali  e  in
generale in relazione alle circostanze indicate  nell'art.  21  disp.
att. c.p.p.». 
    In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost.,
dell'art. 64, comma 3, del codice di procedura penale,  «nella  parte
in cui non  prevede  che  gli  avvisi  ivi  previsti  debbano  essere
formulati   nei   confronti    della    persona    sottoposta    alle
indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione  della  stessa
nell'ambito del procedimento penale», nonche' dello stesso  art.  495
cod. pen.,  «nella  parte  in  cui  non  prevede  l'esclusione  della
punibilita' per il reato ivi previsto in caso di false  dichiarazioni
- in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione
alle circostanze indicate nell'art.  21  disp.  att.  c.p.p.  -  rese
nell'ambito di un procedimento penale da chi  avrebbe  dovuto  essere
avvertito della facolta' di non rispondere». 
    1.1.- Il rimettente si trova a giudicare, in sede dibattimentale,
della responsabilita' penale di  M.  G.,  imputato  tra  l'altro  del
delitto di cui all'art. 374-bis cod. pen., per  avere  dichiarato  al
personale della Questura  di  Pisa  -  in  sede  di  identificazione,
elezione di domicilio  e  nomina  del  difensore  nell'ambito  di  un
procedimento penale - di  non  avere  riportato  condanne  penali  in
Italia, avendo invece il medesimo M. G. gia' riportato  due  condanne
divenute ormai definitive. 
    Un tale fatto, osserva il Tribunale, integra in realta' - secondo
la costante giurisprudenza di  legittimita'  (sono  citate  Corte  di
cassazione, sezione quinta  penale,  sentenze  26  febbraio-3  maggio
2016, n. 18476; 8 luglio-16 settembre 2015,  n.  37571;  9-23  luglio
2014, n. 32741; 6 marzo-15 maggio 2007, n. 18677)  -  il  piu'  grave
delitto  di  cui  all'art.  495  cod.  pen.  (Falsa  attestazione   o
dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identita' o  su  qualita'
personali proprie o di  altri),  per  il  quale  l'imputato  dovrebbe
dunque essere condannato. 
    Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
di tale disposizione. 
    1.2.- Osserva anzitutto il giudice a  quo  che  l'art.  495  cod.
pen., il quale punisce «chiunque dichiara  o  attesta  falsamente  al
pubblico ufficiale l'identita',  lo  stato  o  altre  qualita'  della
propria o dell'altrui  persona»,  e'  stato  considerato  applicabile
dalla Corte di cassazione non solo all'ipotesi di false dichiarazioni
in  ordine  ai  propri  precedenti  penali  (sono  citate  Corte   di
cassazione, sentenze n. 18476 del 2016, n. 37571 del 2015,  n.  32741
del 2014 e n. 18677 del 2007),  ma  anche  alle  false  dichiarazioni
relative ad altre circostanze indicate nell'art. 21  delle  Norme  di
attuazione del codice di  procedura  penale  (sono  citate  Corte  di
cassazione, sezione feriale, sentenza 4-11 settembre 2012, n.  34536,
in relazione alla falsa dichiarazione relativa al titolo di studio in
sede  di  interrogatorio  davanti  al   giudice   per   le   indagini
preliminari, nonche' Corte  di  cassazione,  sezione  quarta  penale,
sentenza 14-24 gennaio 2022, n. 2497, in relazione  alla  generalita'
delle  dichiarazioni  circa  le   proprie   condizioni   e   qualita'
personali). 
    Aggiunge poi il rimettente che l'art. 64,  comma  3,  cod.  proc.
pen., nel dettare un'articolata disciplina relativa agli  avvisi  che
devono essere formulati alla persona sottoposta a indagini prima  che
sia  sottoposta  ad  interrogatorio,  comprensivi  dell'avviso  della
facolta' di non rispondere ad alcuna domanda, fa salvo  espressamente
quanto disposto dall'art. 66, comma 1, cod. proc. pen.; disposizione,
quest'ultima, a tenore della quale «[n]el primo atto cui e'  presente
l'imputato, l'autorita' giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie
generalita' e quant'altro puo' valere  a  identificarlo,  ammonendolo
circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le  proprie
generalita' o le da' false». 
    L'art. 66 cod. proc. pen. - prosegue il rimettente  -  e'  a  sua
volta richiamato dall'art. 21 norme att. cod. proc.  pen.,  il  quale
dispone che, «[q]uando procede a norma dell'articolo 66  del  codice,
il giudice o il pubblico ministero invita  l'imputato  o  la  persona
sottoposta alle indagini a dichiarare  se  ha  un  soprannome  o  uno
pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di
vita individuale, familiare e sociale. Lo invita inoltre a dichiarare
se e' sottoposto ad altri processi penali, se ha  riportato  condanne
nello Stato o all'estero e, quando ne e' il caso, se  esercita  o  ha
esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessita'
e se ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche». 
    Rileva il rimettente, da un lato, che secondo  la  giurisprudenza
di legittimita' la persona sottoposta a indagini o  indagata  avrebbe
l'obbligo di rispondere  in  modo  veritiero  soltanto  alle  domande
relative alle proprie generalita' e a quelle strettamente finalizzate
all'identificazione, con esclusione delle dichiarazioni  relative  ai
precedenti penali e alle  altre  circostanze  elencate  nell'art.  21
norme att. cod. proc. pen. Rispetto a tali circostanze,  il  soggetto
potrebbe in effetti legittimamente  rifiutarsi  di  rispondere  senza
incorrere in  responsabilita'  penale.  Laddove  pero'  decidesse  di
rispondere e rendesse false dichiarazioni, si renderebbe responsabile
del delitto di cui all'art. 495 cod. pen. (sono  citate  le  sentenze
della Corte di cassazione n. 37571 del 2015, n. 32741 del 2014  e  n.
18677 del 2007, nonche' la sentenza n. 108 del 1976 di questa  Corte,
con riferimento alla disciplina all'epoca vigente). 
    Dall'altro  lato,  il   rimettente   rileva   che,   secondo   la
giurisprudenza di legittimita', le garanzie previste in via  generale
dall'art. 64 cod. proc. pen. nei confronti della persona sottoposta a
indagini o dell'imputato, e segnatamente l'obbligo di  formulare  gli
avvertimenti di cui al comma 3 di tale disposizione, non opererebbero
in sede di identificazione ed elezione di domicilio (e' citata  Corte
di cassazione, sentenza n. 18476 del 2016). In  particolare,  non  vi
sarebbe secondo la Corte di cassazione alcun obbligo di far precedere
le domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. dagli avvisi
di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., dal  momento  che  tali
domande  si  riferirebbero  all'identita'  e  allo  stato  civile   e
giuridico dell'imputato, e non al fatto  di  cui  egli  sia  accusato
(sono citate Corte di cassazione, sentenze n. 2497 del 2022;  sezione
seconda penale, 3-10 novembre 2020, n. 31463; sezione  sesta  penale,
20 settembre-13 ottobre 2016, n.  43337;  sezione  quinta  penale,  6
marzo-26 giugno 2013, n.  28020).  Cionondimeno,  osserva  ancora  il
rimettente, le risposte fornite dalla persona sottoposta a indagini o
dall'imputato a quelle domande potrebbero poi essere  utilizzate  dal
giudice «ai fini cautelari o del merito» a pregiudizio della  persona
indagata o imputata. 
    1.3.-  Tutto  cio'  premesso,  il  rimettente  dubita  -  in  via
principale - della legittimita'  costituzionale  dell'art.  495  cod.
pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte  in  cui  -
secondo il diritto vivente sin qui ricostruito  -  si  applica  anche
alle false dichiarazioni, rese nell'ambito di un procedimento  penale
dalla persona sottoposta a  indagini  o  dall'imputato,  rispetto  ai
propri precedenti penali e alla generalita' delle circostanze di  cui
all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. 
    Anche rispetto a tali circostanze opererebbe infatti  il  diritto
al silenzio, riconosciuto dalla giurisprudenza di questa  Corte  come
corollario del diritto di difesa  di  cui  all'art.  24  Cost.  (sono
citati l'ordinanza n. 117 del 2019 e  gli  ulteriori  precedenti  ivi
menzionati). 
    A parere del rimettente, il legislatore - «se pur non si trattava
(forse)  di  una  scelta   costituzionalmente   o   convenzionalmente
obbligata» - avrebbe declinato  tale  diritto  riconoscendo,  in  via
generale, che la persona sottoposta a indagini, e poi l'imputato, non
solo non hanno l'obbligo di rispondere al giudice o all'autorita' che
procede, ma hanno anche il diritto di mentire ad essi  nell'esercizio
della  propria  difesa.  Al  punto  che,  come   riconosciuto   dalla
giurisprudenza di legittimita', dal mero  mendacio  dell'imputato  il
giudice  non  puo'  normalmente  trarre  conseguenze  per  lo  stesso
pregiudizievoli, e in particolare negargli su tale  base  circostanze
attenuanti o benefici  (sono  citate  Corte  di  cassazione,  sezione
quinta penale, sentenze 17 gennaio-5  giugno  2020,  n.  17232  e  14
settembre-28 dicembre 2017, n. 57703; sezioni unite penali,  sentenza
24 maggio-20 settembre 2012, n. 36258). 
    Sarebbe pertanto necessario valutare se l'eccezione rappresentata
dalle false dichiarazioni rese dalla persona sottoposta  ad  indagini
in ordine alle circostanze di cui all'art. 21 norme att.  cod.  proc.
pen. sia ragionevole. 
    In  proposito,  il  rimettente  osserva  che  «molto  spesso   le
informazioni riferite  con  riguardo  alle  condizioni  familiari  ed
economiche dell'indagato hanno un'evidente rilevanza  ai  fini  della
valutazione delle accuse: si pensi ad esempio alla maggiore o  minore
verosimiglianza della contestazione di un  furto  o  di  altro  reato
contro il patrimonio a seconda che l'indagato/imputato abbia  o  meno
una regolare fonte di reddito o un consistente  patrimonio;  o,  alla
stessa stregua, alla valutazione  della  detenzione  in  casa  di  un
quantitativo di stupefacente non irrisorio, come destinata al proprio
consumo personale o piuttosto allo spaccio». 
    Con riguardo poi ai precedenti penali,  prosegue  il  rimettente,
essi a volte sono addirittura elementi costitutivi  del  reato  (come
nel caso della contravvenzione di cui all'art. 707 cod. pen.),  e  in
ogni caso assumono rilevanza ai fini  della  possibile  contestazione
della recidiva e del trattamento sanzionatorio ex art. 133 cod. pen.,
nonche' della concessione di benefici. 
    D'altra parte, «la dichiarazione da parte dell'indagato di  avere
o meno precedenti penali (cosi' come quella di  avere  un'occupazione
lavorativa o di convivere  con  una  persona  dotata  di  un  reddito
stabile o di avere altro procedimento pendente, magari con una misura
cautelare  in  corso  di  esecuzione)»   potrebbe   «incidere   sulla
valutazione delle esigenze cautelari, diverso essendo chiaramente  il
significato che assume il delitto per cui si procede in  presenza  di
un soggetto incensurato o,  piuttosto,  di  un  soggetto  gravato  da
plurimi precedenti specifici». 
    Secondo il rimettente, nel rispondere a tutte queste  domande  il
soggetto si starebbe in effetti gia' difendendo, «cercando di fornire
una propria versione che, anche con riguardo ai precedenti  penali  e
alle altre qualita' e  condizioni  di  cui  all'art.  21  disp.  att.
c.p.p., renda meno verisimili le accuse o faccia apparire meno  gravi
i fatti o meno stringenti le esigenze cautelari». 
    Sarebbe,  pertanto,   «eccessivamente   formalistico   e   quindi
irragionevole distinguere tra domande preliminari, che non  sarebbero
coperte   dal   diritto   di   mentire,    e    domande    rientranti
nell'interrogatorio/esame  vero  e  proprio,  alle  quali  l'imputato
potrebbe  rispondere  liberamente,  senza  timore  di  incorrere   in
ulteriori    responsabilita'    penali».     All'opposto,     sarebbe
costituzionalmente necessario declinare in modo unitario il contenuto
del  diritto   al   silenzio   rispetto   tanto   all'oggetto   della
contestazione, quanto alle ulteriori domande  che  possono  rilevare,
tra l'altro, in relazione alle circostanze del reato, al  trattamento
sanzionatorio,  ai  benefici,  alle  esigenze  cautelari,  escludendo
dunque la responsabilita' penale per ogni falsa dichiarazione resa in
proposito dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato. 
    1.4.-  Nell'ipotesi  in  cui  questa  Corte  non   ritenesse   di
accogliere le questioni  cosi'  prospettate  in  via  principale,  il
rimettente solleva - in via subordinata - questioni  di  legittimita'
costituzionale, questa volta in riferimento al solo art. 24 Cost.: 
    - dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui  non
prevede che gli avvisi ivi previsti  debbano  essere  formulati  alla
persona sottoposta a indagini e all'imputato prima di qualunque  tipo
di audizione nell'ambito del procedimento penale  -  e  dunque  anche
prima delle domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen.  -;
nonche' 
    - del medesimo art. 495 cod. pen., nella parte in cui non prevede
l'esclusione della punibilita' in caso  di  false  dichiarazioni  sui
propri precedenti penali e in generale in relazione alle  circostanze
di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., rese nell'ambito di un
procedimento penale da chi  avrebbe  dovuto  essere  avvertito  della
facolta' di non rispondere. 
    Laddove, dunque, non fosse  ritenuto  irragionevole  negare  alla
persona sottoposta a indagini o all'imputato la facolta' di  mentire,
e conseguentemente prevedere la sua punibilita' per il delitto di cui
all'art. 495 cod. pen.  per  il  caso  di  false  dichiarazioni  alle
domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., ad avviso  del
rimettente resterebbe tuttavia necessario assicurare adeguata  tutela
al diritto al silenzio del soggetto interessato, fondato sull'art. 24
Cost. 
    E cio' mediante - anzitutto - il suo previo  ed  espresso  avviso
relativo a tale diritto, ai sensi dell'art. 64, comma 3,  cod.  proc.
pen., in  mancanza  del  quale  egli  verrebbe  di  fatto  indotto  a
rispondere, «magari mentendo per difendersi», alle  domande  che  gli
vengano poste dall'autorita' di polizia o giudiziaria. 
    Una tale necessita' sussisterebbe tanto nell'ipotesi  in  cui  la
persona sottoposta a indagini o imputata sia  gia'  assistita  da  un
difensore, quanto - a maggior ragione - allorche'  non  lo  sia,  non
essendovi in tal caso alcuno che possa altrimenti renderla edotta dei
suoi diritti. 
    Al fine poi di garantire effettivita'  all'obbligo  di  formulare
gli avvisi di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen.  prima  delle
domande di cui all'art. 21 norme att. cod. proc. pen.,  occorrerebbe,
inoltre, sancire la non punibilita' ai sensi dell'art. 495 cod.  pen.
di chi abbia reso false dichiarazioni  in  risposta  a  tali  domande
senza ricevere gli avvisi medesimi, analogamente a quanto  gia'  oggi
previsto dall'art. 384, secondo  comma,  cod.  pen.  rispetto  a  chi
avrebbe dovuto essere  avvertito  della  facolta'  di  astenersi  dal
rendere   informazioni,   testimonianza,   perizia,   consulenza    o
interpretazione. 
    1.5.- Il rimettente esclude, infine, che ai  risultati  auspicati
sia  possibile   pervenire   in   via   ermeneutica,   mediante   una
interpretazione  costituzionalmente  orientata   delle   disposizioni
censurate, stante l'ostacolo opposto dal diritto  vivente;  cio'  che
renderebbe imprescindibile la prospettazione delle odierne questioni. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, sostenendo la non fondatezza di tutte le  questioni  sollevate
dal rimettente. 
    Le dichiarazioni della persona sottoposta a indagini  o  imputata
relative ai propri precedenti penali sarebbero, anzitutto, del  tutto
ininfluenti sul piano  dell'esercizio  del  diritto  di  difesa,  dal
momento che il pubblico  ministero  fin  dalla  fase  delle  indagini
preliminari  acquisisce  sempre   le   informazioni   contenute   nel
casellario giudiziale; dal che deriverebbe «l'assoluta  inanita'  del
tentativo  dell'indagato   di   fuorviare   gli   organi   inquirenti
dichiarando falsamente di non aver precedentemente commesso reati». 
    D'altra parte, le domande di cui  all'art.  21  norme  att.  cod.
proc. pen. concernerebbero, nel loro complesso, «fatti e  circostanze
agevolmente conoscibili dall'autorita' procedente, ragion per cui  un
eventuale rifiuto di rispondere non condurrebbe  ad  alcun  effettivo
vantaggio sul  piano  difensivo»,  come  sarebbe  riconosciuto  dalla
stessa giurisprudenza di legittimita' (e' citata Corte di cassazione,
sentenza n. 2497 del 2022). 
    Conseguentemente, la mancata previsione della non punibilita' per
il delitto di cui all'art. 495  cod.  pen.  nel  caso  in  cui  -  in
mancanza dei necessari avvisi -  l'imputato  o  indagato  abbia  reso
false dichiarazioni in relazione ai propri precedenti penali  e  alle
altre circostanze di cui all'art. 21 norme att. cod. proc.  pen.  non
potrebbe essere ritenuta in contrasto con l'art. 24 Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima  penale,  ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 495 cod.
pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., «nella parte in cui  si
applica alle false dichiarazioni rese nell'ambito di un  procedimento
penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata  in  relazione
ai  propri  precedenti  penali  e  in  generale  in  relazione   alle
circostanze indicate nell'art. 21 disp. att. c.p.p.». 
    In via subordinata, il medesimo Tribunale ha sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost.,
dell'art. 64, comma 3, cod. proc.  pen.,  «nella  parte  in  cui  non
prevede che gli avvisi ivi  previsti  debbano  essere  formulati  nei
confronti della persona sottoposta alle  indagini/imputata  prima  di
qualunque tipo di audizione della stessa nell'ambito del procedimento
penale», nonche' dello stesso art. 495 cod. pen., «nella parte in cui
non prevede l'esclusione della punibilita' per il reato ivi  previsto
in caso di false dichiarazioni - in relazione  ai  propri  precedenti
penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell'art.
21 disp. att. c.p.p. - rese nell'ambito di un procedimento penale  da
chi  avrebbe  dovuto  essere  avvertito   della   facolta'   di   non
rispondere». 
    2.- L'Avvocatura generale dello Stato non ha formulato  eccezioni
di inammissibilita' delle questioni. 
    2.1.- In effetti, le questioni - sollevate in  via  principale  e
subordinata - aventi a oggetto l'art. 495 cod. pen.  sono  certamente
ammissibili, dal momento che di tale disposizione il giudice a quo e'
direttamente chiamato a fare applicazione nel giudizio penale. 
    2.2.- Ammissibile e', peraltro, anche la questione -  prospettata
in via subordinata - avente a oggetto la disposizione di cui all'art.
64, comma 3, cod. proc. pen., della quale pure il rimettente lamenta,
propriamente, la mancata  applicazione  da  parte  dell'autorita'  di
polizia  in  sede  di  identificazione  della  persona  sottoposta  a
indagini ai sensi dell'art. 349 cod. proc. pen. 
    Il  rimettente  invoca  infatti  da  parte  di  questa  Corte  un
intervento complessivo - a suo avviso imposto  dalla  logica  di  una
tutela effettiva del diritto al silenzio,  discendente  dall'art.  24
Cost. - con il quale si dovrebbe incidere, a un  tempo,  sul  diritto
penale sostanziale e processuale.  Sul  diritto  penale  sostanziale,
attraverso l'esclusione della punibilita' ex art. 495  cod.  pen.  in
caso di false dichiarazioni rese in  risposta  alle  domande  di  cui
all'art. 21 norme att. cod. proc. pen.  dalla  persona  sottoposta  a
indagini o imputata che non sia  stata  previamente  avvertita  della
facolta' di non rispondere a  tali  domande;  e  sul  diritto  penale
processuale, attraverso l'introduzione dell'obbligo di  avvertire  la
persona medesima di tale facolta', nelle forme gia' previste  in  via
generale dall'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., prima che  le  siano
rivolte le domande di cui allo stesso art. 21. 
    I due corni dell'intervento auspicato sono, nella prospettiva del
rimettente, inscindibilmente connessi,  non  avendo  significato  una
pronuncia  di  parziale  illegittimita'  costituzionale  della  norma
incriminatrice di cui all'art. 495 cod. pen., che ne dichiari la  non
applicabilita' alle ipotesi in cui siano stati omessi gli  avvisi  di
cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., senza che al tempo  stesso
sia sancito,  sul  terreno  del  diritto  processuale,  l'obbligo  di
formulare tali avvisi anche in relazione alle domande di cui all'art.
21 norme att. cod. pen. Pertanto, l'addizione normativa auspicata non
potrebbe che realizzarsi su entrambe  le  disposizioni:  in  caso  di
accoglimento delle  questioni  prospettate  in  via  subordinata,  le
disposizioni  indicate  verrebbero  a  costituire  un'unica  coerente
disciplina, i cui riflessi sul terreno del diritto penale sostanziale
condurrebbero al risultato dell'assoluzione dell'imputato  dal  reato
di cui all'art. 495 cod. pen., il quale  non  sia  stato  previamente
avvertito, ai sensi dell'art. 64, comma 3,  cod.  proc.  pen.,  della
propria facolta' di non rispondere in relazione ai propri  precedenti
penali. 
    3.- Nel merito, le questioni  ora  portate  all'esame  di  questa
Corte ruotano attorno all'estensione del diritto  al  silenzio  della
persona sottoposta a indagini o imputata nel corso  del  procedimento
penale. Piu' in particolare, il rimettente assume che il  diritto  al
silenzio copra non solo le circostanze attinenti al fatto  del  quale
la persona sia sospettata o  accusata,  ma  anche  quelle  -  cui  si
riferisce l'art. 21 norme att. cod. proc. pen. -  che  riguardano  la
sua persona, al di fuori delle generalita' in  senso  stretto  (nome,
cognome, luogo e data di nascita). 
    3.1.- Sin da tempi risalenti, questa Corte  ha  ritenuto  che  il
diritto al silenzio - definito dall'art. 14, paragrafo 3, lettera g),
del Patto internazionale sui diritti civili e politici  (PIDCP)  come
la garanzia, spettante a ogni individuo accusato di un reato, «a  non
essere  costretto  a  deporre  contro  se'  stesso  o  a  confessarsi
colpevole» - costituisca corollario implicito del diritto inviolabile
di difesa, sancito dall'art. 24 Cost. 
    Gia' la sentenza n. 236 del  1984  afferma  che  nel  diritto  di
difesa del soggetto nei cui confronti siano emersi  indizi  di  reato
«rientra certamente il diritto di rifiutarsi  di  rispondere  (tranne
ovviamente  che  alle  richieste  attinenti  all'identificazione  del
soggetto medesimo)» (punto 12  del  Considerato  in  diritto).  Nella
sentenza n. 361 del 1998 si legge, in termini ancora piu'  espliciti,
che «l'intangibilita' del diritto di difesa, sotto forma del rispetto
del principio  nemo  tenetur  se  detegere,  e  conseguentemente  del
diritto al silenzio,  si  manifesta  nella  garanzia  dell'esclusione
[...] dell'obbligo  di  rispondere  in  dibattimento  a  domande  che
potrebbero  coinvolgere  responsabilita'  proprie»  (punto  2.1.  del
Considerato  in  diritto).  Ancora,  l'ordinanza  n.  291  del  2002,
testualmente ripresa sul punto dalle ordinanze n. 451 e  n.  485  del
2002, e poi dall'ordinanza n. 202 del 2004,  definisce  il  principio
nemo   tenetur   se   detegere   come   un   «corollario   essenziale
dell'inviolabilita' del diritto di difesa». 
    Piu' recentemente, l'ordinanza n. 117  del  2019  -  fondando  il
diritto in questione, assieme, sull'art. 24 Cost. e  sulle  fonti  di
diritto internazionale vincolanti per l'ordinamento italiano, tra  le
quali il menzionato art.  14  PIDCP  e  l'art.  6  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, nell'interpretazione  fornitane  dalla
Corte di Strasburgo (punto 7.2. del Considerato in diritto) -  lo  ha
definito come il  «diritto  della  persona  a  non  contribuire  alla
propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni
di natura confessoria (nemo tenetur se ipsum accusare)» (punto 3  del
Considerato in diritto). 
    In risposta poi alle questioni pregiudiziali formulate da  questa
Corte con la stessa ordinanza n. 117 del 2019,  relativa  al  rilievo
del diritto al silenzio nell'ambito  di  procedimenti  amministrativi
suscettibili di sfociare nell'irrogazione di  sanzioni  di  carattere
sostanzialmente punitivo, la grande sezione della Corte di  giustizia
dell'Unione europea, con sentenza 2 febbraio 2021, in causa C-481/19,
D. B. contro Consob, ha parimenti  riconosciuto  che  il  diritto  al
silenzio e' implicitamente garantito nell'art.  47  della  Carta  dei
diritti fondamentali dell'Unione europea, in armonia con la  costante
giurisprudenza della Corte EDU in materia di art. 6 CEDU,  precisando
che tale diritto «risulta violato, segnatamente, in una situazione in
cui un sospetto, minacciato  di  sanzioni  per  il  caso  di  mancata
deposizione, o  depone  o  viene  punito  per  essersi  rifiutato  di
deporre» (paragrafo 39), e che esso «comprende anche le  informazioni
su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a
sostegno dell'accusa ed avere cosi' un impatto sulla condanna o sulla
sanzione inflitta  a  tale  persona»  (paragrafo  40).  Affermazioni,
queste ultime, puntualmente riprese dalla successiva sentenza  n.  84
del  2021  di  questa  Corte,  con  la  quale  e'  stata   dichiarata
costituzionalmente illegittima  una  disposizione  sanzionatoria  del
decreto legislativo 24  febbraio  1998,  n.  58  (Testo  unico  delle
disposizioni in materia  di  intermediazione  finanziaria,  ai  sensi
degli articoli 8 e 21 della legge 6  febbraio  1996,  n.  52),  nella
parte in  cui  si  applicava  anche  a  chi  si  fosse  rifiutato  di
rispondere a domande della CONSOB dalle quali  potesse  emergere  una
sua  responsabilita'  per   un   illecito   passibile   di   sanzioni
amministrative di carattere punitivo, o addirittura per un reato. 
    3.2.- La vigente disciplina del processo penale tutela il diritto
al silenzio della persona sottoposta alle indagini essenzialmente per
il tramite dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., a tenore del quale
l'autorita'   che   procede   deve,   prima    che    abbia    inizio
l'interrogatorio, formulare una serie di  avvertimenti,  tra  cui  in
particolare quello previsto dalla lettera b), relativo alla «facolta'
di non rispondere ad  alcuna  domanda».  Il  successivo  comma  3-bis
dispone,  poi,  che   l'omissione   di   tale   avvertimento   «rende
inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata».  Gli
avvertimenti di cui al comma 3 debbono essere formulati anche in ogni
caso di interrogatorio durante il processo, nonche',  di  regola,  in
sede di sommarie informazioni alla  polizia  giudiziaria  (art.  350,
comma 1, cod. proc. pen.). 
    Sul versante del diritto penale sostanziale, d'altra  parte,  ne'
il silenzio ne' le false informazioni rese dalla  persona  sottoposta
alle indagini o dall'imputato in sede di interrogatorio  danno  luogo
di per se' a responsabilita' penale, fatte  salve  le  ipotesi  -  in
particolare - in cui essi accusino falsamente altri di avere commesso
il reato (art. 368 cod.  pen.)  ovvero  affermino  falsamente  essere
avvenuto un reato in realta' mai realizzato (art. 367 cod. pen.). 
    3.3.- Il codice di rito, peraltro, allo stato non riconosce  alla
persona  sottoposta  alle  indagini  e  all'imputato  il  diritto  al
silenzio rispetto alle domande relative alle proprie «generalita'»  e
a «quant'altro puo' valere a identificar[li]»: domande che, ai  sensi
dell'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., debbono essere  loro  rivolte
nel primo atto in cui essi sono presenti. Cio' si  desume  sia  dallo
stesso art. 66, comma 1, cod. proc. pen.,  che  impone  all'autorita'
procedente l'obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini
delle «conseguenze cui si espone chi si rifiuta di  dare  le  proprie
generalita' o le da' false»; sia dall'art. 64, comma 3,  lettera  b),
cod. proc. pen.  che,  nel  prescrivere  l'obbligo  di  avvertire  la
persona circa la facolta' di non rispondere, fa espressamente  «salvo
quanto disposto dall'articolo 66, comma 1», cod. proc. pen. 
    Parallelamente, nell'ambito del diritto penale sostanziale l'art.
651 cod. pen. prevede come contravvenzione il rifiuto di  fornire  le
proprie generalita'; e l'art. 495 cod. pen.  commina  la  pena  della
reclusione da uno a sei anni a carico  di  chi  «dichiara  o  attesta
falsamente al  pubblico  ufficiale  l'identita',  lo  stato  o  altre
qualita' della propria o dell'altrui persona».  Secondo  la  costante
giurisprudenza di legittimita', tale ultima  disposizione  -  oggetto
delle odierne censure - si applica anche alla persona sottoposta alle
indagini e all'imputato che fornisca false  generalita'  (ex  multis,
Corte di cassazione,  sezione  quinta  penale,  sentenze  6  dicembre
2021-7 febbraio 2022, n.  4264  e  20  luglio-5  settembre  2016,  n.
36834). 
    3.4.- Come anticipato, le  questioni  oggi  all'esame  di  questa
Corte non concernono pero' le domande relative alle generalita' della
persona sottoposta  alle  indagini  e  dell'imputato,  bensi'  quelle
ulteriori che l'autorita' procedente - in forza  dell'art.  21  norme
att. cod. proc. pen. - e' tenuta a formulare quando procede ai  sensi
dell'art. 66, comma 1, cod. proc. pen. Si tratta, in particolare,  di
ulteriori domande relative al  soprannome  o  allo  pseudonimo,  alla
eventuale disponibilita' di beni  patrimoniali,  alle  condizioni  di
vita individuale, familiare e sociale, nonche'  dell'invito,  rivolto
all'identificando, di dichiarare se sia sottoposto ad altri  processi
penali, se sussistano a suo carico condanne nello Stato o all'estero,
e se eserciti o abbia esercitato uffici o servizi  pubblici,  servizi
di pubblica necessita' o cariche pubbliche. 
    3.4.1.-  Questa  Corte  fu  investita,  nel  1976,  di  questioni
analoghe a quelle oggi all'esame, formulate in  riferimento  all'art.
24 Cost., e aventi a oggetto tanto la previgente  versione  dell'art.
495, secondo comma, cod. pen.  che  parimenti  incriminava  la  falsa
dichiarazione dell'imputato  sulla  propria  identita',  sul  proprio
stato e sulle proprie qualita' personali, quanto l'art. 25 del  regio
decreto 28 maggio 1931, n. 602 (Disposizioni di attuazione del codice
di  procedura  penale).  Tale  ultima  disposizione,   funzionalmente
omologa all'attuale art. 21 norme att. cod. proc. pen., statuiva  tra
l'altro l'obbligo a carico del giudice  di  chiedere  preliminarmente
all'imputato se fosse  sottoposto  ad  altri  procedimenti  penali  e
avesse riportato condanne in Italia o all'estero. 
    Nel giudicare non fondate quelle  questioni,  che  assumevano  il
contrasto delle disposizioni censurate con il  diritto  dell'imputato
di «astenersi da qualsivoglia dichiarazione a  lui  pregiudizievole»,
questa Corte ritenne non essere  dubbio  «che,  se  l'imputato,  alla
domanda  rivoltagli  dall'inquirente  sui  suoi   precedenti   penali
risponde in modo contrario  al  vero,  egli  incorre  nelle  sanzioni
previste dall'art. 495 del codice penale. Ma non  e'  esatto  che,  a
tale domanda, egli sia tenuto a rispondere, essendo  certo  che  puo'
rifiutarsi di fornire  le  notizie,  che  in  proposito  gli  vengano
richieste,  senza  incorrere  in  alcuna   responsabilita'   penale».
Dall'analisi del citato art.  25  delle  disposizioni  di  attuazione
allora vigenti questa Corte dedusse,  in  effetti,  «che  l'imputato,
solo alla richiesta delle proprie generalita'  e'  tenuto  a  fornire
risposta, incorrendo in responsabilita' penale qualora si rifiuti  di
rispondere,  o  dia  false  generalita'»,  dovendosi  intendere   per
generalita' soltanto «il nome, il cognome, la  data  e  il  luogo  di
nascita»: con esclusione  dunque  delle  altre  circostanze  indicate
dalla disposizione allora  censurata,  tra  le  quali  gli  eventuali
precedenti penali (sentenza n. 108 del 1976, punto 4 del  Considerato
in diritto). 
    3.4.2.- Nel vigore del  nuovo  codice  di  procedura  penale,  la
giurisprudenza  di  legittimita'  ha,  da  un  lato,  confermato  che
rispetto alle circostanze di cui all'art. 21 norme  att.  cod.  proc.
pen. non sussiste per la persona sottoposta alle indagini o  imputata
un obbligo di rispondere, a differenza di quanto accade rispetto alle
proprie generalita'; dall'altro, continua  a  ritenere  che,  ove  la
persona interrogata risponda e affermi il falso, sia ravvisabile  nei
suoi confronti il delitto di cui  all'art.  495,  primo  comma,  cod.
pen.,  nella  versione  oggi  vigente  (in   relazione   alle   false
affermazioni sui  propri  precedenti  penali,  ex  multis,  Corte  di
cassazione, sezione quinta penale, sentenze 8 giugno-8  luglio  2022,
n. 26440 e n. 18476 del 2016; relativamente alla  falsa  affermazione
di essere laureato in giurisprudenza, Corte di  cassazione,  sentenza
n. 34536 del 2012). 
    Peraltro, questa stessa giurisprudenza nega che le domande di cui
all'art. 21 norme att. cod.  proc.  pen.  abbiano  attinenza  con  il
diritto  costituzionale  di  difesa  della  persona  sottoposta  alle
indagini o imputata, e pertanto non richiede che la persona  medesima
sia avvertita della facolta' di non  rispondere  a  tali  domande  ai
sensi dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen., ben potendo  -  anzi  -
tali domande essere formulate  subito  dopo  l'ammonimento,  previsto
dall'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., circa le conseguenze  cui  si
espone chi si rifiuta di dare le proprie generalita' o le  da'  false
(Corte di cassazione, sentenza n. 2497 del 2022). 
    Inoltre, la  Corte  di  cassazione  non  ravvisa  alcun  ostacolo
nell'utilizzare anche contra reum, in sede cautelare o di merito,  le
dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o  imputata
in risposta alle domande di cui all'art. 21  norme  att.  cod.  proc.
pen.: ad esempio,  valorizzando  le  dichiarazioni  sulla  situazione
reddituale e patrimoniale ai fini della sussistenza  dei  presupposti
di  un  sequestro  preventivo  finalizzato  alla  confisca  in   casi
particolari di cui all'art. 240-bis cod. pen. (Corte  di  cassazione,
sentenza n. 31463 del 2020), ovvero per escludere la finalita' di uso
personale di sostanze stupefacenti (Corte di cassazione, sentenza  n.
2497 del 2022, nonche' sentenza n. 43337 del 2016, ove si afferma non
sussistere «alcun limite di  utilizzabilita'  [...]  in  ordine  alle
risposte fornite dall'imputato sulle proprie  condizioni  di  vita  e
personali, in quanto non attengono al merito  del  procedimento,  ne'
possono qualificarsi dichiarazioni contra se solo  in  ragione  della
valutazione operata dal giudice»). 
    3.5.- Questa Corte ritiene che  l'assetto  appena  descritto  del
diritto  vivente  non  assicuri  sufficiente  tutela  al  diritto  al
silenzio della persona  sottoposta  a  indagini  o  imputata  di  cui
all'art.  24  Cost.,   letto   anche   alla   luce   degli   obblighi
internazionali  vincolanti  per  il  nostro  Paese  e   del   diritto
dell'Unione (supra, punto 3.1.). 
    Cio' in quanto, da un lato, il diritto costituzionale al silenzio
si estende, a giudizio di questa Corte, anche  alle  domande  di  cui
all'art. 21 norme att. cod. proc.  pen.  (infra,  punto  3.5.1.);  e,
dall'altro, perche' una tutela effettiva di questo diritto  non  puo'
prescindere dalla formulazione di un previo avvertimento alla persona
sottoposta alle indagini o imputata della facolta' di non  rispondere
anche a tali domande (infra, punto 3.5.2.). 
    3.5.1.-  Anzitutto,  se  il  diritto  al  silenzio   e'   diritto
dell'individuo «a non  essere  costretto»  non  solo  a  «confessarsi
colpevole», ma anche «a  deporre  contro  se'  stesso»,  come  recita
l'art.  14,  paragrafo  3,  lettera  g),  PIDCP,  tale   diritto   e'
necessariamente  in  gioco  allorche'  l'autorita'  che  procede   in
relazione alla commissione di un reato ponga alla persona  sospettata
o imputata di averlo commesso domande su  circostanze  che,  pur  non
attenendo  direttamente   al   fatto   di   reato,   possano   essere
successivamente utilizzate contro di lei nell'ambito del procedimento
o del processo penale, e siano comunque  suscettibili  di  avere  «un
impatto sulla condanna o  sulla  sanzione»  che  le  potrebbe  essere
inflitta (Corte di giustizia, sentenza D. B. contro Consob, paragrafo
40). 
    Una tale situazione si verifica,  per  l'appunto,  rispetto  alle
domande indicate  nell'art.  21  norme  att.  cod.  proc.  pen.,  che
concernono  bensi'  condizioni   personali   del   sospetto   reo   o
dell'imputato diverse dalle sue generalita', ma la cui conoscenza  da
parte dell'autorita' procedente puo'  generare  conseguenze  per  lui
pregiudizievoli nel corso del procedimento  penale,  ovvero  ai  fini
della condanna e della  commisurazione  della  pena.  E  cio'  stante
l'insussistenza - secondo il diritto vivente di cui si e' appena dato
conto - di alcun divieto di utilizzare contra reum le risposte a tali
domande. 
    Cominciando  con  i  precedenti  penali,  essi  talvolta  -  come
correttamente osserva il rimettente - integrano elementi  costitutivi
del reato, come nel caso della contravvenzione di  cui  all'art.  707
cod.  pen.;  e  sono  comunque   suscettibili   di   integrare,   ove
cristallizzati in  sentenze  passate  in  giudicato,  la  circostanza
aggravante della recidiva, che puo' comportare aumenti di pena  anche
assai   significativi.   Inoltre,   le   informazioni   sugli   altri
procedimenti penali cui la persona sia sottoposta  o  sulle  condanne
anche non definitive che abbia eventualmente riportato, in  Italia  o
all'estero - queste ultime normalmente  non  conoscibili  tramite  il
casellario giudiziale -, ben potranno essere utilizzate dal  pubblico
ministero e poi dal giudice per valutare la pericolosita' sociale,  a
tutti i fini  per  i  quali  e'  richiesta  tale  valutazione:  dalla
decisione su un'eventuale misura precautelare  e  cautelare  o  sulla
richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova,  sino
alle  determinazioni  relative  all'eventuale   proscioglimento   per
particolare tenuita' del fatto o  alla  quantificazione  della  pena,
comprensive della commisurazione della pena in  senso  stretto  (art.
133, secondo comma, numero  2,  cod.  pen.),  dell'applicabilita'  di
talune attenuanti (e in particolare delle attenuanti generiche di cui
all'art. 62-bis  cod.  pen.),  nonche'  della  possibile  sospensione
condizionale della pena (alla luce di quanto previsto dall'art.  164,
primo comma, cod. pen.). 
    Poco rileva, allora, che le informazioni  sui  precedenti  penali
possano essere  agevolmente  ricavate  -  come  osserva  l'Avvocatura
generale dello Stato -  dall'esame  del  casellario  giudiziale,  con
conseguente «inanita' del tentativo dell'indagato  di  fuorviare  gli
organi inquirenti dichiarando falsamente di non aver  precedentemente
commesso reati». Trattandosi infatti  di  circostanze  potenzialmente
pregiudizievoli per la persona sottoposta alle indagini  o  imputata,
per di piu' suscettibili in molti casi di integrare  una  circostanza
aggravante  che  puo'  determinare  drastici  innalzamenti  di  pena,
l'onere di dimostrare la sussistenza di tali circostanze - cosi' come
di tutte le altre  dalle  quali  dipende  la  responsabilita'  penale
dell'imputato  -  non  puo'  che  gravare  sul  pubblico   ministero,
risultando  frontalmente  incompatibile  con  l'art.  24  Cost.  ogni
assetto normativo che  miri  a  imporre  alla  persona  sospettata  o
accusata di un reato un dovere di  fornire  informazioni  idonee  non
solo a contribuire alla propria condanna, ma anche  ad  aggravare  la
pena  applicabile,  ovvero  a  determinare   l'adozione   di   misure
limitative dei suoi diritti nell'ambito del procedimento  e  poi  del
processo penale. 
    Analoghe considerazioni possono  svolgersi  per  tutte  le  altre
circostanze oggetto delle domande indicate nell'art.  21  norme  att.
cod. proc. pen. La conoscenza del soprannome o  dello  pseudonimo  di
una persona - che, a differenza  del  nome  e  del  cognome,  vale  a
identificarla non gia' al cospetto dell'intera comunita'  civile,  ma
esclusivamente nella cerchia  delle  sue  relazioni  private  -  puo'
essere di cruciale importanza ai fini investigativi,  ad  esempio  in
presenza di intercettazioni in cui la persona sottoposta a indagini o
imputata sia stata indicata, come spesso avviene, con il  soprannome:
la domanda relativa a tale circostanza equivalendo, in  simili  casi,
alla sollecitazione di una vera e propria confessione. 
    Ancora, come la dottrina processualpenalistica non ha mancato  di
sottolineare, le informazioni sui beni patrimoniali  posseduti  dalla
persona sottoposta a indagini o imputata,  sulle  sue  condizioni  di
vita individuale, familiare  e  sociale,  nonche'  sull'esercizio  di
uffici o servizi pubblici - lungi  dall'essere  meramente  funzionali
all'identificazione  del  soggetto  -  possono   anch'esse   assumere
rilievo, durante le indagini e il processo, nella  prospettiva  della
valutazione delle esigenze cautelari (in particolare del pericolo  di
fuga o di reiterazione del reato) che sorreggono le misure  cautelari
personali, nonche' dei presupposti delle misure cautelari  reali  (ad
esempio in relazione all'entita' del patrimonio ai fini del sequestro
conservativo); cosi' come,  in  esito  al  processo,  ai  fini  della
commisurazione della pena detentiva (art. 133, secondo comma,  numero
4, cod. pen.) e pecuniaria (art. 133-bis cod.  pen.),  nonche'  delle
misure interdittive che abbiano ad oggetto l'esercizio  di  uffici  o
servizi pubblici. 
    Rispetto alla generalita' di queste  circostanze,  la  dimensione
costituzionale del diritto al silenzio osta a che possa ravvisarsi un
dovere della persona medesima di  fornire  le  relative  informazioni
all'autorita' procedente, e in tal modo di collaborare nelle indagini
e nel processo a proprio carico. 
    3.5.2.- Se dunque le circostanze di cui all'art.  21  norme  att.
cod. proc. pen. debbono ritenersi coperte dal diritto al silenzio  di
cui all'art. 24 Cost., resta da valutare se il  diritto  vivente  sia
congegnato in modo da assicurare adeguata tutela a tale diritto. 
    Al  riguardo,  conviene  preliminarmente   rammentare   che   una
violazione del diritto al silenzio si verifica  non  solo  quando  la
persona sia costretta mediante violenza  o  intimidazione  a  rendere
simili dichiarazioni, ma anche quando essa sia indotta a farlo  sotto
minaccia di  una  pena  o  comunque  di  una  sanzione  di  carattere
punitivo, come nel caso deciso dalla sentenza n. 84 del 2021. 
    Ora,  e'  vero  che  il  diritto  penale  sostanziale  vigente  -
esattamente come all'epoca della richiamata sentenza n. 108 del  1976
- non considera penalmente rilevante il mero silenzio  della  persona
sottoposta alle indagini o imputata  serbato  sulle  domande  di  cui
all'art. 21 norme att. cod. proc. pen., ritenendo  punibili  soltanto
le  false  dichiarazioni  rese  in  quel  contesto,  che  secondo  la
giurisprudenza integrano il delitto di cui all'art. 495 cod. pen. 
    Tuttavia, e' altrettanto vero che il  diritto  processuale,  come
interpretato dalla costante giurisprudenza  di  legittimita'  (supra,
punto 3.4.2.), non richiede che  la  persona  venga  avvertita  della
facolta' di non rispondere prima che le vengano  rivolte  le  domande
indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen., le quali -  anzi  -
sono  normalmente  formulate  subito  dopo  l'ammonimento,   previsto
dall'art. 66, comma 1, cod. proc. pen., circa le conseguenze  cui  si
espone chi rifiuti di dare le proprie generalita'. 
    E  nulla  vieta  poi  -  come  riconosciuto  da   quella   stessa
giurisprudenza  di  legittimita'  -  che  le  dichiarazioni  rese  in
risposta  a  tali  domande  possano  essere  utilizzate   contro   il
dichiarante, per i piu' diversi scopi, nel corso del  procedimento  e
poi del processo penale.  Cio'  che,  del  resto,  deriva  pianamente
dall'art.  64,  comma  3-bis,  cod.  proc.  pen.,   il   divieto   di
utilizzazione ivi previsto applicandosi  soltanto  nei  casi  in  cui
siano  stati  illegittimamente  omessi  gli   avvisi   previsti   dal
precedente comma 3: avvisi, per l'appunto, che la giurisprudenza  non
ritiene debbano precedere le domande di cui all'art.  21  norme  att.
cod. proc. pen. 
    Un tale  assetto  normativo  e  giurisprudenziale  determina  una
situazione di insufficiente tutela del diritto al silenzio, alla luce
del generale principio di effettivita'  della  garanzia  dei  diritti
fondamentali   riconosciuti   dalla   Costituzione,   particolarmente
valorizzato da questa  Corte  proprio  in  relazione  al  diritto  di
difesa, rientrante in quel «novero  dei  diritti  inalienabili  della
persona umana (sentenze n. 238 del 2014, n. 323 del 1989 e n. 18  del
1982),  che  caratterizzano  l'identita'   costituzionale   italiana»
(ordinanza n. 117 del 2019, punto 7.1. del  Considerato  in  diritto;
sull'effettivita' del diritto di difesa nei suoi vari  corollari,  ex
multis, di recente, sentenze n. 18 del 2022, punti 4.3. e 4.4.2.  del
Considerato in diritto; n. 10 del 2022, punto 9.2. del Considerato in
diritto; n. 157 del 2021, punto 8.1. del Considerato in diritto). 
    In effetti, come evidenziato  dalla  Corte  Suprema  degli  Stati
Uniti in una delle sue piu' note decisioni del secolo  scorso  (Corte
Suprema degli Stati Uniti, Miranda v. Arizona, 384 U.S.  436  [1966],
pagina 467), la garanzia effettiva del diritto a non contribuire alla
propria  incriminazione  esige  la  previsione  di  idonei  strumenti
procedurali per assicurarne il rispetto  da  parte  della  polizia  e
dell'autorita'  giudiziaria.  Per   controbilanciare   la   pressione
psicologica che inevitabilmente  e'  connessa  ad  un  interrogatorio
compiuto in un tribunale o in un ufficio della procura,  e  che  puo'
comprensibilmente  indurre   la   persona   interrogata   a   rendere
dichiarazioni  che  non  avrebbe  reso  in  diverse  circostanze,  e'
necessario - argomento' in quell'occasione la Corte Suprema - che  la
persona sia  «adeguatamente  ed  effettivamente  informata  dei  suoi
diritti», attraverso i ben noti  "warnings"  enunciati  dalla  stessa
sentenza, pressoche' letteralmente ripresi dallo  stesso  legislatore
italiano nel codice di procedura penale  vigente;  ed  e',  altresi',
necessario che l'ordinamento preveda, correlativamente,  la  sanzione
processuale dell'inutilizzabilita' di  tutte  le  dichiarazioni  rese
dall'interessato,  allorche'  detto  obbligo  procedurale  sia  stato
violato (nel senso della necessita', ai fini del rispetto del diritto
al silenzio desumibile dall'art. 6 CEDU, di  un  previo  avvertimento
relativo  alla  facolta'  di  non  rispondere,  altresi'  Corte  EDU,
sentenze 24 ottobre 2013, Navone e altri contro Monaco, paragrafo 74;
27 ottobre 2011, Stojković contro Francia e Belgio, paragrafo 54;  14
ottobre 2010, Brusco contro Francia, paragrafo 54). 
    Tale obbligo procedurale e tale  sanzione  processuale  non  sono
attualmente previsti in relazione alle circostanze cui si riferiscono
le  domande  previste  dall'art.  21  norme  att.  cod.  proc.  pen.,
nonostante la loro indubbia idoneita'  ad  essere  utilizzate  contra
reum nel corso del procedimento e poi del processo penale. Ne  deriva
che la persona interessata non e' oggi posta in grado  di  esercitare
consapevolmente il proprio diritto al silenzio, e  non  e'  in  alcun
modo tutelata allorche' tale diritto sia stato violato. 
    Il che concreta il lamentato vulnus all'art. 24 Cost. 
    4.- Cio' posto, il rimedio  individuato  dal  rimettente  con  il
primo gruppo di questioni e', tuttavia, per  un  verso  eccedente  lo
scopo (infra,  punto  4.1.),  e  per  un  altro  verso  insufficiente
rispetto a questo stesso scopo (infra, punto 4.2.). 
    4.1.-  Il  giudice  a  quo  sottolinea   correttamente   che   il
legislatore italiano ha ritenuto, in via generale, di  non  prevedere
alcuna  sanzione  penale  a  carico  della  persona  sottoposta  alle
indagini o imputata che renda false dichiarazioni a propria difesa; e
ritiene quindi che la punizione, ai sensi dell'art.  495  cod.  pen.,
delle specifiche false dichiarazioni in risposta alle domande di  cui
all'art. 21 norme att. cod. proc. pen. violi gli artt. 3 e  24  Cost.
Conseguentemente, il rimettente  chiede  che  questa  Corte  dichiari
l'illegittimita' costituzionale dello  stesso  art.  495  cod.  pen.,
nella parte in cui include anche tali dichiarazioni fra  le  condotte
penalmente rilevanti. 
    Con cio' - si noti - il rimettente non assume che il  diritto  al
silenzio di cui all'art. 24 Cost. includa anche  un  vero  e  proprio
diritto  a  mentire,  che  di  per   se'   renda   costituzionalmente
illegittima la punizione  delle  false  dichiarazioni  della  persona
sottoposta alle indagini o imputata. Un simile  assunto,  d'altronde,
non  solo  non  corrisponderebbe  alla   nozione   internazionalmente
riconosciuta del diritto al  silenzio,  ma  sarebbe  a  ben  guardare
sfornito di alcun preciso supporto  nella  stessa  giurisprudenza  di
questa Corte, dal momento  che  la  cursoria  affermazione,  talvolta
valorizzata dalla dottrina, contenuta nella sentenza n. 179 del  1994
- «l'imputato non solo gode della facolta' di non rispondere, ma  non
ha nemmeno l'obbligo di dire la verita'» (punto 5.1. del  Considerato
in diritto) - assolve in quel contesto una mera funzione  descrittiva
del sistema disegnato  dal  legislatore,  senza  intendere  con  cio'
precisare il contenuto del  diritto  al  silenzio  costituzionalmente
tutelato. 
    Piuttosto, nella prospettiva del rimettente sarebbe in  gioco  un
mero imperativo di  coerenza  del  legislatore,  rilevante  sotto  il
profilo dell'art. 3 Cost., nel declinare la tutela del diritto di cui
all'art. 24 Cost. nella concretezza dell'ordinamento: una  volta  che
il legislatore, nell'esercizio della propria discrezionalita',  abbia
ritenuto in via generale che le esigenze di tutela  di  tale  diritto
escludano la punibilita' delle dichiarazioni  di  chi,  sospettato  o
imputato di un  reato,  abbia  detto  il  falso  alle  autorita'  nel
tentativo di difendersi, sarebbe costituzionalmente insostenibile  la
differenza  di  trattamento  fra  situazioni   analoghe,   quali   le
dichiarazioni relative al fatto  di  reato,  da  un  lato,  e  quelle
relative  alle  circostanze  personali  del  suo  possibile   autore,
dall'altro. 
    Non pare tuttavia a questa Corte  che  le  esigenze  di  coerenza
interna al sistema, pur  in  via  di  principio  rilevanti  al  metro
dell'art. 3 Cost., possano spingersi sino a precludere al legislatore
l'adozione di  soluzioni  differenziate  in  relazione  a  situazioni
egualmente riconducibili all'area del diritto  al  silenzio,  ma  fra
loro non del tutto omogenee. 
    La scelta legislativa  di  non  prevedere,  di  regola,  sanzioni
penali a carico della persona sospettata o imputata di un  reato  che
menta nel  tentativo  di  difendersi  poggia  su  ragioni  solide,  e
corrisponde a un'antica tradizione nel nostro Paese; ma il fatto  che
il legislatore non abbia previsto una sanzione penale  per  una  data
condotta non significa necessariamente che tale scelta corrisponda  a
una valutazione di liceita' della condotta  medesima  (e  tanto  meno
all'avere considerato quella condotta come espressione di un  diritto
di rango costituzionale). 
    L'ordinamento vigente gia' conosce, d'altronde, situazioni in cui
la persona sottoposta a indagini o imputata - che non si sia  avvalsa
del diritto al silenzio di cui e' costituzionalmente titolare -  puo'
essere punita ove renda dichiarazioni menzognere  che  riguardino  la
responsabilita' di altri (art. 64, comma 3,  lettera  c,  cod.  proc.
pen.), ovvero affermi essere  stato  commesso  un  reato  in  realta'
inesistente (supra, punto 3.2.).  In  simili  ipotesi,  l'ordinamento
considera necessaria la pena in funzione di un'efficace tutela  degli
interessi - pubblici e privati - protetti dagli artt. 367 e 368  cod.
pen., valutando come recessive le ragioni che,  normalmente,  rendono
non opportuna, o non necessaria, la pena a carico della  persona  che
tali dichiarazioni abbia reso nell'intento di difendersi dalle accuse
che le siano state rivolte. 
    Ne' sussiste, come anticipato, una perfetta sovrapponibilita' tra
le false dichiarazioni relative al fatto di reato - ritenute  in  via
generale non penalmente rilevanti dal legislatore - e quelle relative
alle  circostanze  personali   del   sospetto   reo,   potenzialmente
abbracciate dall'art. 495 cod. pen. Fermo restando che il diritto  al
silenzio si estende alle une come alle altre,  non  appare  a  questa
Corte   irragionevole   che   -   laddove    l'interessato    rinunci
consapevolmente a esercitare quel  diritto  -  il  legislatore  possa
vietargli di rendere dichiarazioni false sulle  circostanze  relative
alla propria persona e prevedere una  sanzione  penale  nel  caso  di
inosservanza  di  tale  divieto.  Che  l'autorita'  procedente  possa
confidare, in particolare, sulla veridicita' di queste dichiarazioni,
liberamente rese  dall'interessato,  appare,  del  resto,  funzionale
anche all'interesse di questi  a  non  vedere  adottate,  nei  propri
confronti, misure cautelari inutili, o comunque  eccessive,  rispetto
alle reali esigenze di contenimento della sua  pericolosita',  o  del
periculum attinente ai beni potenzialmente oggetto di misure reali. 
    Da cio' deriva che l'auspicata  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 495 cod. pen., nella parte in cui  comprende
anche le false  dichiarazioni  rese  da  chi  sia  stato  previamente
avvertito della facolta'  di  non  rispondere  alle  domande  di  cui
all'art. 21 norme att. cod. proc. pen.,  conseguirebbe  un  risultato
eccedente lo scopo di assicurare la conformita'  a  Costituzione  del
vigente assetto normativo e giurisprudenziale. 
    4.2.- Il rimedio indicato sarebbe, per  altro  verso,  inadeguato
rispetto a tale  scopo,  intervenendo  soltanto  sul  versante  della
punibilita' delle false dichiarazioni, ma non  su  quello  -  che  ne
costituisce  un  prius  dal  punto  di  vista  tanto  logico   quanto
cronologico - dell'imposizione alle autorita' procedenti dell'obbligo
di avvisare la persona interrogata  della  propria  facolta'  di  non
rispondere anche alle domande di cui  all'art.  21  norme  att.  cod.
proc. pen.: obbligo senza  il  quale,  come  poc'anzi  osservato,  lo
stesso  diritto  al  silenzio  rispetto  a  tali  domande  resterebbe
svuotato di ogni effettivita'. 
    4.3.- Ne consegue la non fondatezza delle  questioni  prospettate
in via principale. 
    5.- Sono fondate, invece, le questioni formulate  dal  rimettente
in via subordinata. 
    5.1.- Merita  accoglimento,  anzitutto,  la  questione  avente  a
oggetto l'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. in  riferimento  all'art.
24 Cost. 
    Secondo la costante giurisprudenza di legittimita' (supra,  punto
3.4.2.), gli avvertimenti ivi  previsti  non  devono  necessariamente
essere formulati alla persona sottoposta  alle  indagini  o  imputata
prima che le vengano rivolte le domande di cui all'art. 21 norme att.
cod.  proc.  pen.   Conseguentemente,   non   opera   rispetto   alle
dichiarazioni rese dalla  persona  interessata  in  risposta  a  tali
domande la regola generale della loro  inutilizzabilita',  posta  dal
successivo comma 3-bis, per il caso in  cui  gli  avvertimenti  siano
stati omessi. 
    Per le considerazioni gia' svolte  (supra,  punto  3.5.2.),  tale
assetto normativo e giurisprudenziale non e' conforme  alle  esigenze
di tutela del diritto al silenzio,  come  riconosciuto  dall'art.  24
Cost., che esige invece che la persona  sottoposta  alle  indagini  o
imputata sia debitamente avvertita, segnatamente, del proprio diritto
di non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni
personali diverse da quelle  relative  alle  proprie  generalita',  e
della  possibilita'  che  le  sue   eventuali   dichiarazioni   siano
utilizzate nei suoi confronti. 
    L'art. 64, comma  3,  cod.  proc.  pen.  deve,  pertanto,  essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo  nella  parte  in  cui  non
prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla  persona
sottoposta alle  indagini  o  all'imputato  prima  che  vengano  loro
richieste le informazioni di cui all'art. 21 norme  att.  cod.  proc.
pen. 
    Per   effetto   di   tale   dichiarazione    di    illegittimita'
costituzionale, le relative dichiarazioni rese  dall'interessato  che
non abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, cod.
proc. pen. resteranno, ai sensi del comma 3-bis, non utilizzabili nei
suoi confronti. 
    5.2.-  Fondata  e'  altresi',  nei  termini  prospettati  in  via
subordinata, la questione avente a  oggetto  l'art.  495  cod.  pen.,
anch'essa in riferimento all'art. 24 Cost. 
    La punibilita' delle false dichiarazioni relative alle  «qualita'
della propria o dell'altrui persona» ai sensi dell'art. 495 cod. pen.
deve ritenersi non in contrasto con l'art. 24 Cost. soltanto  ove  la
persona  sottoposta  alle  indagini  o  imputata  abbia   previamente
ricevuto l'avvertimento circa il suo  diritto  a  non  rispondere  ai
sensi dell'art. 64, comma 3, cod. proc. pen.; restando poi libero  il
legislatore  di  valutare  se  estendere  la  non  punibilita'  anche
all'ipotesi in cui  l'interessato,  avendo  ricevuto  l'avvertimento,
renda comunque dichiarazioni false allo scopo di evitare  conseguenze
a se' pregiudizievoli nell'ambito del procedimento e poi del processo
penale. 
    Anche l'art. 495, primo comma, cod. pen. deve,  pertanto,  essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo  nella  parte  in  cui  non
esclude la punibilita'  della  persona  sottoposta  alle  indagini  o
dell'imputato che, richiesti  di  fornire  le  informazioni  indicate
nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che  siano  stati  loro
previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64,  comma  3,
cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art.  64,  comma
3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che
gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla  persona  sottoposta
alle indagini o all'imputato prima  che  vengano  loro  richieste  le
informazioni di cui all'art. 21 delle Norme di attuazione del  codice
di procedura penale; 
    2) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 495,  primo
comma,  del  codice  penale,  nella  parte  in  cui  non  esclude  la
punibilita' della persona sottoposta alle  indagini  o  dell'imputato
che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme
att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati
gli avvertimenti di cui  all'art.  64,  comma  3,  cod.  proc.  pen.,
abbiano reso false dichiarazioni; 
    3) dichiara non fondate le ulteriori  questioni  di  legittimita'
costituzionale  dello  stesso  art.  495  cod.  pen.,  sollevate,  in
riferimento agli artt. 3  e  24  della  Costituzione,  dal  Tribunale
ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l'ordinanza  indicata
in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2023. 
 
                                F.to: 
                     Silvana SCIARRA, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
                   Igor DI BERNARDINI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2023. 
 
                           Il Cancelliere 
                      F.to: Igor DI BERNARDINI