N. 15 SENTENZA 23 novembre 2023- 12 febbraio 2024

Giudizio  su  conflitto  di  attribuzione  tra  Enti  e  giudizio  di
legittimita' costituzionale in via incidentale 
 
Edilizia e urbanistica - Edilizia agevolata  -  Norme  della  regione
  autonoma Friuli-Venezia Giulia -Assegnazione di alloggi - Requisiti
  - Impossidenza di altri alloggi in Italia o all'estero - Previsione
  che per i cittadini extra  UE  soggiornanti  di  lungo  periodo  si
  applichino  criteri  di  attestazione  piu'  onerosi  rispetto   ai
  cittadini  italiani  o  UE  -  Irragionevolezza  e  violazione  del
  principio  comunitario  di  divieto  di  discriminazione   tra   il
  soggiornante di lungo periodo e i cittadini  nazionali  per  quanto
  riguarda  le  prestazioni  sociali,  l'assistenza  sociale   e   la
  protezione  sociale  ai  sensi  della  legislazione   nazionale   -
  Illegittimita' costituzionale in parte qua. 
Edilizia e urbanistica - Edilizia agevolata - Assegnazione di alloggi
  - Requisiti - Impossidenza di altri alloggi in Italia o  all'estero
  - Previsione, mediante  regolamento  di  esecuzione  della  Regione
  autonoma Friuli-Venezia  Giulia,  che  per  i  cittadini  extra  UE
  soggiornanti di lungo periodo si applichino criteri di attestazione
  piu' onerosi rispetto ai cittadini italiani o  UE  - Ordinanza  del
  Tribunale di Udine - Ordine alla  Regione  autonoma  Friuli-Venezia
  Giulia di modificare il regolamento indicato - Conseguenti sanzione
  in caso di inadempienza - Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione
  promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia  - Violazione
  del principio di legalita' e della supremazia della legge regionale
  rispetto al regolamento - Non spettanza al Tribunale  di  Udine  di
  adottare  l'ordinanza  senza  prima  aver  sollevato  questione  di
  legittimita'  costituzionale  della  normativa  regionale  cui   il
  regolamento indicato dava esecuzione - Annullamento della  medesima
  ordinanza, anche nelle  parti  sanzionatorie  nei  confronti  della
  Regione ricorrente.  
- Legge della Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  19  febbraio
  2016, n. 1, art. 29, commi 1, lettera d), e 1-bis. 
- Costituzione, artt. 3, 97, 101, 113,  117,  primo,  terzo,  quarto,
  quinto e sesto comma, 118, 120, secondo comma,  134  e  136;  legge
  costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3,  art.  10;  statuto  speciale
  della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5  e  6;  Convenzione
  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle   liberta'
  fondamentali, art. 14; direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del  25
  novembre 2003, art. 11. 
(GU n.7 del 14-2-2024 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta da: 
Presidente:Augusto Antonio BARBERA; 
Giudici  :Franco  MODUGNO,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni   AMOROSO,
  Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo  BUSCEMA,
  Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria  SAN  GIORGIO,  Filippo  PATRONI
  GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella  SCIARRONE
  ALIBRANDI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio per conflitto  di  attribuzione  tra  enti  sorto  a
seguito dell'ordinanza del Tribunale ordinario di Udine, in  funzione
di  giudice  del  lavoro,  31  gennaio-1°  febbraio  2023,  resa  nel
procedimento  R.G.  358/2022,   promosso   dalla   Regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia con ricorso  notificato  il  3-6  aprile  2023,
depositato in cancelleria il 6 aprile 2023,  iscritto  al  n.  2  del
registro  conflitti  tra  enti  2023  e  pubblicato  nella   Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 16,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2023; e nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  29,
commi  1,  lettera  d),  e   1-bis,   della   legge   della   Regione
Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica  delle
politiche abitative e riordino delle Ater), nel  testo  risultante  a
seguito delle modifiche  disposte  dall'art.  24  della  legge  della
Regione  Friuli-Venezia  Giulia  6  novembre  2018,  n.  24,  recante
«Modifiche alla legge regionale  19  febbraio  2016,  n.  1  (Riforma
organica delle politiche abitative e riordino delle Ater)»,  promosso
dal Tribunale ordinario di Udine, in funzione di giudice del  lavoro,
nel procedimento vertente tra B.R. A. e altri e la  Regione  autonoma
Friuli-Venezia Giulia con ordinanza dell'8 febbraio 2023, iscritta al
n. 97  del  registro  ordinanze  2023  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 33,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2023. 
    Visti  l'atto  di  intervento  dell'Associazione  per  gli  studi
giuridici sull'immigrazione (ASGI) aps (nel giudizio iscritto al n. 2
reg. confl. tra enti 2023), nonche' gli atti  di  costituzione  della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, di ASGI aps e di  B.R.  A.  e
altri (nel giudizio iscritto al n. 97 reg. ord. 2023); 
    udito nell'udienza pubblica  del  21  novembre  2023  il  Giudice
relatore Filippo Patroni Griffi; 
    uditi gli avvocati Alberto Guariso e Martino Benzoni  per  l'ASGI
aps e per B.R. A. e  altri  e  Giandomenico  Falcon  per  la  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia; 
    deliberato nella camera di consiglio del 23 novembre 2023. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Regione autonoma Friuli-Venezia  Giulia,  con  il  ricorso
iscritto al n. 2 reg. confl. tra  enti  2023,  propone  conflitto  di
attribuzione chiedendo che  sia  dichiarato  che  non  spettava  allo
Stato, e per esso al Tribunale ordinario di  Udine,  in  funzione  di
giudice del lavoro, adottare l'ordinanza 31 gennaio-1° febbraio 2023,
resa nel procedimento R.G. 358/2022, nella parte in cui,  nell'ambito
di  un'azione  civile  contro  la  discriminazione  per   motivi   di
nazionalita',  ha  ordinato  alla  Regione  autonoma  (punto  2   del
dispositivo) di modificare il decreto del  Presidente  della  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia  13  luglio  2016,  n.  0144,  recante
«Regolamento di esecuzione  per  la  disciplina  degli  incentivi  di
edilizia  agevolata  a  favore  dei  privati  cittadini,  a  sostegno
dell'acquisizione o del recupero di alloggi da destinare a prima casa
di abitazione  di  cui  all'articolo  18  della  legge  regionale  19
febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica  delle  politiche  abitative  e
riordino delle Ater)», «"nella parte  che  prevede  per  i  cittadini
extracomunitari soggiornanti di lungo periodo requisiti  o  modalita'
diverse rispetto a quelli previsti per  i  cittadini  comunitari  per
attestare  l'impossidenza  di  alloggi  in  Italia  e  all'estero   e
garantendo invece che i cittadini comunitari e quelli extracomunitari
soggiornanti di lungo periodo possano documentare  allo  stesso  modo
l'impossidenza di cui all'art. 9, comma  2  lett.  C)"  dello  stesso
regolamento». 
    La medesima ordinanza e' oggetto del conflitto anche nelle  parti
in cui adotta un apparato  coercitivo  sanzionatorio  conseguente  al
suddetto ordine di modifica del regolamento regionale (punti 3, 7 e 8
del dispositivo). 
    In subordine, la ricorrente richiede  che  si  dichiari  che  non
spettava al Tribunale di Udine adottare l'impugnata ordinanza,  nelle
parti indicate, «senza aver prima  chiesto  ed  ottenuto  da  codesta
Corte   costituzionale    la    dichiarazione    di    illegittimita'
costituzionale dell'art. 29, comma 1-bis, della legge regionale n.  1
del 2016». 
    Dell'ordinanza e' altresi' richiesto l'annullamento in parte qua. 
    1.2.- La Regione ricorrente ricostruisce dapprima la controversia
che ha originato l'ordinanza oggetto del conflitto. 
    1.2.1.- A tale proposito, riferisce che il Tribunale di Udine  ha
parzialmente accolto l'azione civile contro  la  discriminazione  per
motivi di nazionalita' promossa da  un  cittadino  italiano  e  dalla
coniuge albanese, titolare di permesso di soggiorno per  soggiornanti
di lungo periodo, i quali si sono visti  rifiutare  l'erogazione  del
contributo per l'acquisto dell'alloggio da destinare a prima casa  di
abitazione previsto dall'art. 15, comma 1, lettera c), e dall'art. 18
della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016,  n.
1 (Riforma organica delle politiche abitative e riordino delle Ater). 
    A tale contributo si ha accesso, secondo  quanto  previsto  dalla
medesima legge regionale, sempre che, tra gli altri requisiti, non si
sia «proprietari neppure della  nuda  proprieta'  di  altri  alloggi,
all'interno  del  territorio  nazionale  o  all'estero,  purche'  non
dichiarati inagibili, con esclusione delle quote  di  proprieta'  non
riconducibili all'unita', ricevuti per successione ereditaria,  della
nuda proprieta' di alloggi il cui usufrutto  e'  in  capo  a  parenti
entro il secondo  grado  e  degli  alloggi,  o  quote  degli  stessi,
assegnati in sede di separazione personale o divorzio  al  coniuge  o
convivente» (art. 29, comma 1, lettera d). 
    Il successivo art. 29, comma 1-bis,  stabilisce,  poi,  che,  «ai
fini della verifica del requisito di cui al comma 1,  lettera  d),  i
cittadini  di  Stati  non  appartenenti   all'Unione   europea,   con
esclusione dei rifugiati e dei titolari della protezione  sussidiaria
di  cui  all'articolo  2,  comma  1,  lettera  a-bis),  del   decreto
legislativo 19 novembre 2007,  n.  251  (Attuazione  della  direttiva
2004/83/CE recante norme minime  sull'attribuzione,  a  cittadini  di
Paesi terzi o apolidi, della qualifica del  rifugiato  o  di  persona
altrimenti bisognosa  di  protezione  internazionale,  nonche'  norme
minime  sul  contenuto   della   protezione   riconosciuta),   devono
presentare, ai sensi del combinato disposto dell'articolo 3, comma 4,
del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n.  445
(Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia di documentazione  amministrativa),  e  dell'articolo  2  del
decreto del Presidente  della  Repubblica  31  agosto  1999,  n.  394
(Regolamento recante  norme  di  attuazione  del  testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero, a norma dell'articolo 1,  comma  6,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286),  la  documentazione
attestante che tutti i  componenti  del  nucleo  familiare  non  sono
proprietari di altri alloggi nel paese di  origine  e  nel  paese  di
provenienza».   Tale   ultima   previsione   legislativa   e'   stata
sostanzialmente riprodotta dall'art. 12, comma 3-bis, del regolamento
regionale n. 0144 del 2016. 
    1.2.2.- I ricorrenti dinanzi al Tribunale  di  Udine  lamentavano
che fosse stata loro negata l'erogazione del  contributo  in  ragione
della mancata produzione della documentazione attestante che tutti  i
componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi
nel Paese di origine e nel Paese di provenienza. Di qui la richiesta,
per il solo caso in cui il giudice non ritenesse di poter  accogliere
le domande applicando la normativa dell'Unione  europea  evocata  nel
ricorso,  di  sollevare  questioni  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 29 della richiamata legge  regionale  nella  parte  in  cui
prevede l'assenza di proprieta' in Italia o all'estero  per  accedere
al beneficio  e  le  diverse  modalita',  per  cittadini  italiani  e
stranieri,  per  attestare  detto  requisito.  I   ricorrenti,   poi,
chiedevano anche,  tra  le  altre  cose,  di  ordinare  alla  Regione
autonoma   di   esercitare   nuovamente   la    potesta'    normativa
regolamentare. 
    1.2.3.- Nel giudizio era intervenuta anche  la  Associazione  per
gli studi giuridici sull'immigrazione - ASGI, che  proponeva  domande
analoghe, e si era costituita la stessa Regione autonoma,  resistendo
al ricorso ed eccependo che non rientra «tra i poteri  dell'autorita'
giudiziaria  quello  di  ordinare  una   modifica   del   regolamento
esecutivo, anzi riproduttivo, di una legge regionale». 
    1.2.4.- Con l'ordinanza oggetto del conflitto,  il  Tribunale  di
Udine  ha  parzialmente   accolto   le   domande   proposte,   previa
disapplicazione  dell'art.  29,  comma  1-bis,   della   legge   reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 e dell'art. 12, comma 3-bis,  del
richiamato  regolamento  regionale  di  attuazione.  Il  giudice   ha
ritenuto, infatti, che tali norme regionali - nel prevedere  che  per
attestare l'impossidenza solo  i  cittadini  italiani  e  dell'Unione
europea possono avvalersi di una dichiarazione sostitutiva  ai  sensi
del d.P.R. n. 445 del 2000 - sono  discriminatorie  e  devono  essere
disapplicate per contrasto con il diritto dell'Unione. 
    1.3.- Cio' premesso, la Regione autonoma  con  l'odierno  ricorso
non contesta la  decisione  del  giudice  di  disapplicare  le  norme
regionali ritenute in contrasto con il diritto UE, ma la pretesa  del
Tribunale di Udine «di ordinare alla Regione di esercitare  i  propri
poteri normativi secondo contenuti decisi  da  esso  giudice,  ed  in
particolare - nel caso specifico - di esercitarli in modo contrario a
[quanto] precisamente disposto dalla  legge  regionale».  Osserva  la
ricorrente infatti che, nelle parti impugnate, l'ordinanza non decide
il caso  oggetto  del  giudizio,  ma  dispone  dei  poteri  normativi
regionali e, per di piu', in contrasto  con  quanto  stabilito  dalla
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016: e' solo in ragione di
cio' che viene promosso il conflitto di attribuzione,  in  quanto  si
ritiene che lo Stato, e per esso il Tribunale di Udine, «abbia invaso
la sfera di attribuzione ad essa riservata dalla Costituzione e dallo
statuto speciale approvato con legge costituzionale n.  1  del  1963,
ledendo lo status della legge regionale (primo  motivo),  l'autonomia
della  Regione  nell'uso  delle  proprie  fonti  normative   (secondo
motivo),  esorbitando  dai  limiti  che  la  Costituzione  pone  alla
giurisdizione rispetto ai poteri regolamentari e  di  amministrazione
(terzo motivo)». 
    La Regione autonoma precisa di avere  provveduto  all'abrogazione
dell'art. 12, comma 3-bis, del  regolamento  regionale  n.  0144  del
2016, ma senza acquiescenza e al solo fine di  evitare  il  pagamento
delle astreintes disposte dal giudice ex art. 614-bis del  codice  di
procedura civile, la cui ordinanza e' stata appellata. 
    1.3.1.- Secondo la Regione ricorrente,  l'ordinanza  oggetto  del
conflitto avrebbe violato, innanzitutto, il  regime  giuridico  della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, il cui valore e forza
sarebbero stati disconosciuti dal Tribunale di Udine, con conseguente
lesione dell'autonomia legislativa, riconosciuta dagli artt. 4  e  56
della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n.  1  (Statuto  speciale
della  Regione  Friuli-Venezia   Giulia)   della   Regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia, oltre che dall'art. 117, terzo e quarto comma,
della  Costituzione,  in  combinazione  con  l'art.  10  della  legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche  al  titolo  V  della
parte seconda della Costituzione). 
    Cio' detto, la Regione autonoma ribadisce di non  contestare,  in
quanto estranee al conflitto di attribuzione, ne' la possibilita' per
il Tribunale  di  Udine  di  disapplicare  la  normativa  interna  in
contrasto con il diritto dell'Unione ne' il carattere autoapplicativo
della direttiva 2003/109/CE del  Consiglio,  del  25  novembre  2003,
sullo status dei cittadini di paesi terzi che siano  soggiornanti  di
lungo periodo. Contesta, invece, «la pretesa - una volta disapplicata
nel caso concreto la norma legislativa e quella  regolamentare  -  di
imporre alla Regione l'adozione di norme regolamentari in  diretto  e
voluto contrasto con la disposizione di  legge  disapplicata»:  cosi'
facendo, infatti, si priva «di effetto, con valenza erga  omnes,  una
disposizione  legislativa,   sottraendola   ad   una   corrispondente
valutazione di altri giudicanti (sia di pari grado in  diversi  casi,
sia di grado superiore in  sede  di  impugnazione),  valutazione  che
potrebbe condurre tali  giudicanti  ad  esiti  diversi:  risultandone
dunque contraddetto lo stesso diritto della Regione di  difendere  la
propria normativa». Il Tribunale di Udine, dunque, ritenendo  che  le
norme in  contrasto  con  il  diritto  dell'Unione  dovessero  essere
rimosse con effetto  erga  omnes,  avrebbe  adottato  una  pronuncia,
preclusagli, i cui effetti  sono  corrispondenti  alla  dichiarazione
d'illegittimita' costituzionale. 
    A conferma della  propria  prospettazione,  la  Regione  autonoma
osserva che, in un parallelo giudizio,  il  Tribunale  di  Udine,  in
diversa composizione, ha si' rilevato il  contrasto  della  normativa
legislativa e regolamentare regionale con la citata direttiva ma, per
decidere sulle domande concernenti le modifiche del  regolamento,  ha
ritenuto  di  sollevare  questioni  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia  n.
1 del 2016. 
    Con l'ordinanza impugnata, invece, il Tribunale di Udine  avrebbe
utilizzato una «scorciatoia», facendo venire meno  gli  effetti  erga
omnes della legge  regionale.  In  tal  modo,  ed  esorbitando  dalla
funzione giurisdizionale di cui all'art. 101 Cost., avrebbe invaso la
sfera di attribuzioni della Regione, in violazione: i) della potesta'
legislativa regionale ex artt. 4, 5 e  6  dello  statuto  speciale  e
dell'art. 117, terzo e  quarto  comma,  Cost.,  in  combinazione  con
l'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001; ii) degli artt. 134 e  136
Cost., che riservano a questa Corte il sindacato  sulla  legge  e  il
correlato potere di annullarla  con  effetti  erga  omnes;  iii)  del
principio  di  legalita'  di  cui  all'art.  97  Cost.  e  di  quello
concernente la supremazia della legge regionale sul regolamento (art.
117, sesto comma, Cost.), in quanto sarebbe imposto alla  Regione  di
esercitare la potesta' regolamentare in contrasto  con  la  legge.  A
supporto  delle  proprie  doglianze  la  Regione  richiama  anche  la
sentenza di questa Corte n. 285 del 1990 e la piu'  recente  sentenza
n. 26 del 2022. 
    1.3.2.- La Regione autonoma rileva, poi, che, anche ad  ammettere
che ogni giudice possa imporre al titolare dei poteri  normativi  «di
tradurre il  proprio  convincimento  in  disposizioni  operanti  erga
omnes», non puo' pero' certamente spettare al  giudice  decidere  con
quale atto normativo si deve intervenire, «per  di  piu'  sovvertendo
l'ordine naturale delle fonti». La ricorrente osserva,  infatti,  che
il regolamento che e' stato ordinato di modificare e', in tale parte,
meramente riproduttivo della legge regionale: sicche' il  giudice  ha
indicato una fonte inidonea a disciplinare la materia e, se  cio'  e'
accaduto, e' perche' egli era consapevole di non potere  indicare  la
disposizione di legge quale fonte da modificare, pena  una  invasione
ancora maggiore delle competenze della Regione. 
    Sarebbe evidente, pertanto, «il carattere pretestuoso ed invasivo
dell'ordine di modificare "il regolamento"», dal che  deriverebbe  la
violazione, di nuovo, degli artt. 134 e 136 Cost.,  oltre  che  degli
artt. 97 e 117, sesto comma, Cost.,  per  le  medesime  ragioni  gia'
indicate. 
    1.3.3.- La Regione autonoma, con motivo che espressamente afferma
essere preliminare, asserisce poi che l'ordinanza  del  Tribunale  di
Udine «esorbita dai limiti della giurisdizione». 
    Premessa  una  ricostruzione  circa  le   competenze   statutarie
presupposte alla legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016,  cui
corrispondono funzioni regolamentari e amministrative, la  ricorrente
afferma che nessuna norma consente al giudice ordinario  di  ordinare
l'esercizio, in un determinato modo,  della  potesta'  regolamentare,
sicche' l'ordinanza del Tribunale di Udine «eccede i  limiti  esterni
della giurisdizione nei confronti di una autorita'  amministrativa  e
lede, oltre  che  lo  statuto  costituzionale  della  amministrazione
(ricavabile dagli artt. 101 e 113 Cost.), il principio di separazione
dei poteri, rappresentando  un  esercizio  di  attivita'  formalmente
amministrativa e sostanzialmente normativa  ad  opera  di  un  organo
giurisdizionale». 
    Non varrebbe  opporre,  sostiene  la  Regione  autonoma,  che  il
giudice ha adottato tale provvedimento a seguito di un'azione  civile
contro le discriminazioni, nell'ambito del cui  giudizio  l'art.  28,
comma  5,  del  decreto  legislativo  1°  settembre  2011,   n.   150
(Disposizioni complementari al codice di procedura civile in  materia
di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione,
ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69) consente
al  giudice  di  pronunciare  ordini  nei  confronti  della  pubblica
amministrazione e di  ordinare  altresi',  al  fine  di  impedire  la
ripetizione  della  discriminazione,  l'adozione  di  un   piano   di
rimozione delle discriminazioni accertate. Tale  normativa,  infatti,
si inserisce in un quadro costituzionale «che distingue i  poteri  in
base alle funzioni - normative, esecutive, giurisdizionali - ad  essi
affidate, e che limita, nell'art. 113 Cost.,  i  poteri  del  giudice
ordinario  nei  confronti  della  pubblica   amministrazione»   (sono
richiamate, a sostegno, le sentenze di questa Corte n. 175 del 1991 e
n. 150 del 1981). 
    L'art. 28, comma 5, del d.lgs.  n.  150  del  2011  non  potrebbe
essere inteso, pertanto, «ne' nel  senso  di  attribuire  al  giudice
ordinario poteri di annullamento di atti amministrativi,  poteri  cui
la  disposizione  non  fa  cenno,  ne',   tanto   meno,   poteri   di
amministrazione   attiva   o   addirittura   poteri   di   preventiva
sostituzione  normativa».  D'altra  parte,  la  giurisprudenza  delle
sezioni unite della Corte di cassazione avrebbe ricondotto  i  poteri
de  quibus  del  giudice  ordinario  «al  tradizionale  schema  della
disapplicazione  incidentale  dell'atto  amministrativo  illegittimo»
(sono richiamate le ordinanze  della  Corte  di  cassazione,  sezioni
unite civili, 15 febbraio 2011, n. 3670, e sezione prima  civile,  15
febbraio 2021, n. 3842). 
    Non potrebbe opporsi, a tale proposito, che la  stessa  Corte  di
cassazione avrebbe ricondotto i poteri dell'autorita' giurisdizionale
di cui si  discute  «ai  moduli  di  tutela  dei  diritti  soggettivi
assoluti a fondamento costituzionale o sovranazionale»,  secondo  una
ricostruzione presente anche nella sentenza n. 140 del 2001 di questa
Corte, la quale ha riconosciuto che il legislatore  puo'  «attribuire
al giudice ordinario anche  un  potere  di  annullamento  e  speciali
effetti talora sostitutivi dell'azione amministrativa»: cio' perche',
e' ribadito ancora una volta, la Regione ricorrente non  contesta  il
potere dell'autorita' giurisdizionale «di attribuire  il  bene  della
vita al soggetto che si e' ritenuto discriminato» ma quello,  diverso
e ulteriore, di ordinare l'emanazione di «specifiche  norme  generali
ed astratte». A  tale  riguardo,  la  Regione  autonoma  richiama  la
giurisprudenza amministrativa che esclude, in riferimento  agli  atti
regolamentari e agli atti amministrativi  generali,  l'ammissibilita'
dello speciale rimedio processuale avverso il silenzio  inadempimento
della pubblica amministrazione,  che  e'  circoscritto  all'attivita'
amministrativa di natura provvedimentale (sono richiamate le sentenze
del Consiglio di Stato, sezione quarta, 26 marzo 2014, n. 1460,  e  2
settembre 2019, n. 6048). 
    1.3.4.-  La  Regione  ricorrente,   infine,   osserva   che   con
l'ordinanza impugnata il Tribunale di Udine avrebbe altresi'  violato
lo «statuto del potere sostitutivo» di cui  agli  artt.  117,  quinto
comma, e 120, secondo  comma,  Cost.,  attribuito  al  Governo  e  da
esercitarsi nel rispetto del principio di leale collaborazione. 
    2.- Con atto depositato il 9 maggio 2023,  qualificato  «atto  di
intervento ad opponendum del terzo controinteressato pretermesso», e'
intervenuta in giudizio ASGI. 
    2.1.- L'interveniente rappresenta che nel distretto  della  Corte
d'appello di Trieste si sono susseguite, a partire dal 2019,  diverse
azioni civili contro la discriminazione per motivi  di  nazionalita',
tutte riferite a regolamenti regionali  in  materia  di  sostegno  al
diritto all'abitazione che prevedono oneri documentali sproporzionati
in capo a cittadini stranieri  e  tutte  culminate  con  l'ordine  di
modificare tali norme regolamentari. 
    Contenziosi analoghi, con similari esiti, sarebbero  sorti  anche
in altre regioni italiane. 
    Questa   Corte,   inoltre,   ha    dichiarato    l'illegittimita'
costituzionale di una norma di legge regionale dal contenuto identico
a quello di cui ai regolamenti della Regione autonoma  Friuli-Venezia
Giulia (e' citata la sentenza n. 9 del 2021). 
    2.1.1.-  Nel  marzo  2023,  riferisce  ancora  ASGI,  sono  state
abrogate le diverse norme regolamentari che disponevano la differenza
di  trattamento  documentale.  Ciononostante,  la  Regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia ha coltivato i giudizi, impugnando dinanzi alla
Corte di cassazione o alla Corte d'appello, a seconda  dei  casi,  le
pronunce che hanno deciso le azioni  civili,  tra  cui  anche  quella
oggetto del conflitto. In particolare, con il ricorso in  appello  la
Regione autonoma «ha posto esattamente la stessa questione posta  nel
presente giudizio e cioe' la (asserita) inammissibilita'  dell'ordine
di modifica del Regolamento». 
    ASGI rileva, tuttavia, che, quali che siano gli esiti dei diversi
pronunciamenti, la Regione  autonoma  potra'  solo  varare  un  nuovo
regolamento pro futuro, insuscettibile di far venir  meno  i  diritti
acquisiti dai cittadini stranieri sulla base dei vigenti  regolamenti
e che dovra' comunque tener conto dei principi di cui  alla  indicata
sentenza n. 9  del  2021.  Ne  consegue  che  «risulta  di  difficile
comprensione quale interesse pubblico la Regione intenda  perseguire»
con il conflitto, in considerazione del fatto che non  potra'  «certo
mantenere nel proprio ordinamento disposizioni delle quali i  giudici
abbiano ripetutamente accertato l'illegittimita'». 
    2.2.- Cio' premesso, in punto di legittimazione a intervenire nel
conflitto ASGI ritiene di averne titolo in quanto parte del  giudizio
definito con  l'ordinanza  impugnata:  la  giurisprudenza  di  questa
Corte,  infatti,  avrebbe  gia'  riconosciuto  che   e'   ammissibile
«l'intervento delle parti di un giudizio avanti il giudice comune, il
cui esito puo' essere condizionato dalla pronuncia della  Corte»  (e'
richiamata, in particolare, la sentenza n. 259 del 2019). 
    2.3.-  Quanto  al   ricorso,   ASGI   ne   lamenta   innanzitutto
l'inammissibilita'. 
    La giurisprudenza di questa Corte e' nel senso che una  decisione
giurisdizionale puo' essere oggetto di un conflitto solo nel caso  in
cui se ne contesti la riconducibilita' alla funzione  giurisdizionale
(sono richiamate le sentenze n. 150 del 2007 e n.  359  del  1999)  e
non, invece, quando si facciano valere  errores  in  iudicando  (sono
citate le decisioni n. 290 e n. 222 del 2007, n. 376  e  n.  326  del
2003 e n. 27 del 1999). 
    Affermazioni,  queste,  che  sono  state   ribadite   anche   con
riferimento al conflitto tra enti (sono richiamate le sentenze n.  39
del 2007 e n. 27 del 1999). 
    Alla luce di queste  premesse,  l'interveniente  ritiene  che  il
ricorso  sia  inammissibile,  in  primo  luogo,  perche'  la  Regione
autonoma avrebbe censurato il fatto che il Tribunale di  Udine  abbia
considerato la norma legislativa come priva di effetti, in quanto  in
contrasto  con  il  diritto  UE.  La   correttezza   o   meno   della
disapplicazione,  e  la  percorribilita'  o  meno  di  altre   strade
decisorie da parte del predetto Tribunale, sono aspetti  che  possono
essere valutati in altre sedi e non,  invece,  fatti  valere  con  il
conflitto di attribuzione, in  quanto  altrimenti  «risulterebbe  del
tutto vanificato il primato del diritto dell'Unione». 
    In secondo luogo, il ricorso  sarebbe  inammissibile  perche'  la
Regione autonoma, che non  contesta  che  il  giudice  amministrativo
potrebbe annullare la clausola illegittima di esclusione contenuta in
un regolamento, lamenta che a un simile  esito  sia  pervenuto,  «pur
nelle forme diverse dell'ordine di modifica e  non  dell'annullamento
dell'atto», il giudice ordinario: cio' che  non  sarebbe  materia  da
conflitto tra enti - in quanto conflitto potrebbe  esservi  solo  ove
«allo Stato, mediante il potere giudiziario, sia precluso in assoluto
pervenire alla  modifica  dell'atto  regolamentare,  non  perche'  vi
perviene  l'uno  o  l'altro  giudice»  -   ma   da   regolamento   di
giurisdizione. 
    Il ricorso, in altri termini, sarebbe inammissibile in quanto,  a
seguire  la  prospettiva  della  Regione  autonoma,   o   il   potere
ordinatorio e' stato mal esercitato -  e  si  tratterebbe  allora  di
error in iudicando, o e' stato esercitato in conformita' a una  legge
incostituzionale -  e  allora  la  Regione  autonoma  avrebbe  dovuto
contestare la legittimita' costituzionale di quest'ultima dinanzi  al
Tribunale di Udine. 
    Sul punto, ASGI conclude rilevando che, nel ricorso,  la  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia ha utilizzato  «i  medesimi  argomenti
proposti  nel  corso  del  giudizio  di   merito   [...]   se   pure,
curiosamente,     capovolgendoli»:     il      che      dimostrerebbe
l'inammissibilita' del conflitto, che si  risolve  in  una  impropria
impugnazione dell'ordinanza del Tribunale di Udine. 
    2.4.- Nel merito, ad ogni modo, a parere di ASGI il  ricorso  non
sarebbe fondato. 
    2.4.1.-Secondo la Regione autonoma, l'impugnata ordinanza avrebbe
determinato, innanzitutto, effetti erga omnes  «incompatibili  con  i
limiti legati alla disapplicazione  incidentale»:  ASGI  osserva  che
questa censura non tiene in  conto  il  fatto  che  l'ordinamento  ha
considerato e disciplinato le cosiddette «discriminazioni collettive»
e non si interroga su quali siano i compiti del giudice nel  caso  in
cui accerti una siffatta discriminazione. 
    L'interveniente afferma, infatti, che la violazione della parita'
di  trattamento  puo'  essere  determinata  anche  mediante  un  atto
amministrativo generale, nei confronti del  quale  possono  agire  in
giudizio anche i soggetti collettivi a cio' legittimati (art.  5  del
decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, recante «Attuazione  della
direttiva 2000/43/CE per la parita' di  trattamento  tra  le  persone
indipendentemente dalla razza e dall'origine  etnica»).  Il  giudice,
ove riscontri la discriminazione, e' tenuto a «ordinare la cessazione
del  comportamento,  della  condotta  o   dell'atto   discriminatorio
pregiudizievole» e un ordine siffatto non potrebbe  essere  efficace,
nell'ambito di un'azione collettiva, se  non  determinasse  anche  la
rimozione dell'atto generale che genera la condotta  discriminatoria:
quando tale atto sia riproduttivo di norma  legislativa,  l'eventuale
disapplicazione di quest'ultima per contrasto con il  diritto  UE  fa
si' che l'atto amministrativo  sia  da  considerarsi  privo  di  basi
legali. Secondo ASGI, dunque, in casi del genere l'ordine del giudice
non determina l'usurpazione di potere ma e' il  risultato  «congiunto
della  disapplicazione  e  della  azione  collettiva,  che  non  puo'
pervenire a  risultati  minori  e  diversi  (e  quindi  minori  della
integrale rimozione della discriminazione) da quelli  ottenibili  con
l'azione individuale». 
    2.4.2.- In fattispecie quali quelle del giudizio da  cui  origina
il conflitto, d'altra parte, la posizione del giudice sarebbe analoga
a quella in cui questi si  trova  quando  e'  la  norma  nazionale  a
violare la parita' di trattamento di  cui  al  diritto  UE:  in  tale
situazione,  il  giudice  e'  tenuto  a  riconoscere   alle   persone
discriminate il medesimo trattamento di cui godono le  persone  della
categoria privilegiata (e' richiamata la sentenza n. 67 del  2022  di
questa Corte). Che cio' accada anche a fronte  della  discriminazione
determinata da un atto amministrativo  non  cambia  i  termini  della
questione, essendo peraltro la  pubblica  amministrazione  libera  di
superare la disparita'  con  modi  diversi  da  quelli  disposti  dal
giudice, il quale pero' fintanto che cio' non  accada  non  puo'  far
altro che applicare il principio di «uguaglianza al rialzo». 
    Tutto cio', peraltro, sarebbe altresi' in linea con la nozione di
«discriminazione da scoraggiamento»  elaborata  dalla  giurisprudenza
della Corte di giustizia dell'Unione europea (il riferimento  e',  in
particolare, alle sentenze 10 luglio 2008, in causa C-54/07, Feryn, e
25 aprile 2013, in causa C-81/12,  Asociaţia  Accept).  Se,  infatti,
gia' la mera dichiarazione pubblica volta a precludere l'accesso a un
bene o a un  diritto  e'  discriminatoria,  tanto  piu'  deve  essere
vietato mantenere all'interno di un atto  amministrativo  una  regola
che si e' accertato essere discriminatoria. Sul punto, sarebbe errata
la prospettiva della Regione autonoma, secondo cui la garanzia  della
parita' di trattamento sarebbe assicurata gia' dalla disapplicazione:
cio'  perche'  sarebbe  discriminatorio  che   l'accesso   a   talune
prestazioni sia per alcuni automatico e, per altri, condizionato alla
disapplicazione della normativa per opera del giudice che deve essere
appositamente adito. 
    2.4.3.- ASGI  rileva,  poi,  che  quanto  sostenuto  non  sarebbe
smentito dalla giurisprudenza della Corte  di  cassazione  richiamata
dalla Regione autonoma Friuli-Venezia  Giulia,  che  dovrebbe  essere
letta diversamente. 
    Con l'ordinanza n. 3842 del 2021, il giudice di legittimita',  da
un lato,  avrebbe  confermato  che  la  discriminazione  puo'  essere
effettuata anche per mezzo di atti amministrativi e, dall'altro,  non
avrebbe affrontato ex professo il tema relativo alla possibilita' per
il giudice d'ordinarne la rimozione, in quanto un ordine  del  genere
non era contenuto nella sentenza impugnata. 
    Il  tema  degli  "ordini  di  rimozione"  richiesti  da  soggetti
collettivi non  e'  stato  affrontato  neppure  dall'ordinanza  delle
sezioni unite civili n. 3670 del 2011. In quella occasione, in cui si
e' dichiarata la giurisdizione del giudice  ordinario,  la  Corte  di
cassazione  ha  si'  fatto  riferimento  «ai  consueti  limiti  della
disapplicazione»   ma,   a   parere   dell'interveniente,    dovrebbe
considerarsi  che:  i)  non  veniva   in   considerazione   un'azione
collettiva; ii)  si  e'  escluso  che  il  giudice  abbia  poteri  di
annullamento o revoca di atti amministrativi, poteri che il Tribunale
di Udine non ha esercitato; iii) l'ordinanza oggetto del ricorso  per
cassazione aveva  un  «contenuto  assolutamente  identico»  a  quella
oggetto dell'odierno conflitto. 
    La  giurisprudenza  di  merito,  d'altra   parte,   non   avrebbe
«manifestato incertezze nell'ammettere ordini di rimozione non  certo
dell'atto  amministrativo   in   se   stesso,   ma   delle   clausole
discriminatorie in esso contenute» e avrebbe  ottenuto  avallo  nella
sentenza n. 44 del 2020 di questa Corte, la quale ha affermato che in
base all'art. 28 del d.lgs. n. 150 del  2011  «il  giudice  ordinario
puo' ordinare anche alla pubblica amministrazione la cessazione della
condotta discriminatoria». 
    3.- In prossimita' dell'udienza pubblica, ha  depositato  memoria
la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, con la quale, per il  caso
in cui questa Corte ritenga non doversi dichiarare cessata la materia
del contendere, ha insistito per l'accoglimento del ricorso. 
    3.1.-  La  ricorrente  riferisce,  innanzitutto,  che  la   Corte
d'appello di Trieste, con sentenza dell'8 giugno  2023,  n.  99,  «ha
annullato le statuizioni del Tribunale  di  Udine  impugnate  con  il
presente conflitto». 
    Le  ragioni  d'annullamento  «corrispondono,  nella  sostanza,  a
quelle fatte valere dalla Regione nel proprio  ricorso»,  sicche'  la
ricorrente  ritiene   «che,   alla   stregua   della   giurisprudenza
costituzionale,  possa  dirsi  attualmente  cessata  la  materia  del
contendere», in ragione del venir meno «con efficacia ex  tunc  [...]
delle affermazioni  di  competenza  determinative  del  conflitto  e,
quindi,  dell'interesse  del  ricorrente  a  ottenere  una  decisione
sull'appartenenza  del  potere   contestato»   (e'   richiamata,   in
particolare, la sentenza di questa Corte n. 224 del  2019).  Cio'  e'
quanto si sarebbe verificato nel caso di specie, del tutto analogo  a
quello deciso da questa Corte con l'ordinanza n. 332 del 1985, in cui
si dichiaro' cessata  la  materia  del  contendere  a  seguito  della
cassazione senza rinvio per difetto di giurisdizione della  decisione
allora oggetto di conflitto. 
    Non avrebbe alcun rilievo, in proposito, che e' ancora aperto  il
termine per ricorrere per cassazione avverso la pronuncia della Corte
d'appello di Trieste, in quanto cio' che conterebbe e'  la  «completa
rimozione della passata  rivendicazione»,  mentre  «una  eventuale  e
futura nuova lesione inferta da altra giurisdizione» potrebbe, a  sua
volta, essere oggetto di altro conflitto. 
    E' proprio l'eventualita' di un rinnovo della lesione «in assenza
di un inoppugnabile  chiarimento  delle  competenze  costituzionali»,
tuttavia,  a  indurre  la  Regione  autonoma   «a   rimettersi   alla
valutazione» di questa Corte  circa  la  possibilita'  di  addivenire
comunque  a  una  decisione  di  merito  sul  conflitto,  ove  reputi
sussistente  «la  permanenza   di   un   interesse   all'accertamento
incontrovertibile circa la spettanza  del  potere»,  nelle  peculiari
circostanze che hanno originato l'odierno giudizio. 
    3.2.- La Regione autonoma passa  poi  a  prendere  in  esame  gli
argomenti addotti nel suo atto di intervento da ASGI. 
    3.2.1.- La ricorrente precisa, in primo luogo,  che  la  modifica
regolamentare cui fa riferimento l'interveniente e' stata  effettuata
solo  quale  «mero  adempimento  delle  disposizioni   dell'Autorita'
giudiziaria di Udine, ma non da  intendersi  come  acquiescenza  alle
suddette disposizioni», come indicato nel preambolo del  decreto  del
Presidente della Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  1°  marzo
2023, n. 045, recante «Regolamento recante modifiche  al  Regolamento
di esecuzione per la  disciplina  degli  incentivi  a  sostegno  alle
locazioni a favore dei conduttori meno  abbienti  nel  pagamento  del
canone di locazione dovuto ai proprietari degli immobili destinati  a
prima casa, di cui all'articolo 19 della legge regionale 19  febbraio
2016, n. 1 (Riforma organica delle  politiche  abitative  e  riordino
delle Ater) emanato con D.P.Reg. 15 aprile 2020, n. 066/Pres.». 
    Quanto all'esistenza di altre pronunce analoghe a quella  oggetto
di conflitto, la difesa regionale rileva che si  tratta  di  pronunce
tutte contestate dalla Regione ricorrente e che nessuna  di  esse  e'
passata in giudicato. Senza dire, poi, che in sede di  conflitto  non
opera   l'istituto   dell'acquiescenza   e   che    ogni    decisione
giurisdizionale e' idonea a  produrre  nuovamente  la  lesione  delle
attribuzioni regionali. 
    3.2.2.- L'eccezione di inammissibilita' del  conflitto  sollevata
da ASGI, poi, sarebbe non fondata. 
    La Regione autonoma rileva, in proposito, come i  «punti  focali»
del ricorso, che avrebbero tono costituzionale, sono «se  il  giudice
comune abbia il potere di ordinare ad un'amministrazione regionale di
modificare un proprio regolamento» e se un ordine  del  genere  possa
essere emesso quando determinerebbe l'adozione di un regolamento  «in
frontale contrapposizione con il  disposto  di  una  norma  di  legge
regionale vigente»,  anche  se  disapplicata  per  contrasto  con  il
diritto UE. Secondo  ASGI,  il  ricorso  avrebbe  lamentato,  invece,
errores in iudicando del giudice, del  quale  sarebbe  contestata  la
possibilita' di disapplicare la legge regionale per contrasto con  il
diritto UE. 
    La difesa regionale osserva,  tuttavia,  di  avere  pacificamente
ammesso  il  potere  di  disapplicazione,  del   quale   nell'odierno
conflitto  non  mette  in  discussione  neppure  la  ricorrenza   dei
presupposti per esercitarlo.  Cio'  che  si  contesta  al  giudice  -
ordinario o amministrativo che sia  -  e'  di  potere  ordinare  alla
Regione autonoma l'uso di poteri normativi, determinandone inoltre il
contenuto; contenuto che, per di piu', comporterebbe la  «sostanziale
abrogazione» di norme di legge  regionale  che  dispongano  in  senso
diverso. 
    La circostanza che alcuni dei profili fatti  valere  nel  ricorso
siano stati proposti anche nel ricorso in appello, peraltro  accolto,
non dimostrerebbe affatto che si  intendano  far  valere  errores  in
iudicando: cio' perche', per  un  verso,  l'insussistenza  di  potere
giurisdizionale puo' ben essere fatto valere «anche nell'ambito delle
impugnazioni comuni» e,  per  un  altro,  quelle  costituzionali  sul
riparto di competenza  sono  pur  sempre  norme  giuridiche,  la  cui
violazione puo' essere conosciuta anche dal giudice comune. 
    ASGI, inoltre, sostiene  che  nel  ricorso  si  contesterebbe  il
potere del giudice amministrativo  di  annullare  i  regolamenti.  La
Regione  autonoma  osserva,  al  riguardo,  che  l'interveniente   ha
travisato il ricorso, in quanto a  essere  contestato  non  e'  detto
potere, ma quello di qualsiasi giudice di  ordinare  la  modifica  di
regolamenti. 
    Neppure, ancora, coglierebbe nel segno  l'argomento  secondo  cui
nel ricorso si sarebbe lamentata una  errata  applicazione  dell'art.
28,  comma  5,  del  d.lgs.  n.  150  del  2011,  del  quale  semmai,
nell'ambito  del  giudizio  comune,  si   sarebbe   dovuta   eccepire
l'illegittimita' costituzionale.  A  vietare  al  giudice  di  potere
ordinare la  modifica  di  regolamenti  starebbero  non  tanto  detta
disposizione,  quanto  «direttamente  le  regole  costituzionali  che
delimitano la sfera della giurisdizione in relazione all'esercizio in
generale dei poteri normativi»: se la prospettazione del ricorso  sia
o meno  corretta,  poi,  e'  questione  che  attiene  al  merito  del
conflitto. 
    D'altra parte, continua la ricorrente  sul  punto,  il  conflitto
costituisce  «proprio  lo  strumento  chiamato  a   correggere   quel
particolare tipo di error in iudicando che consiste nell'affermare  e
nel praticare un potere giurisdizionale inesistente,  contrario  alle
garanzie costituzionali dei poteri normativi regionali e  statali,  e
in particolare del potere legislativo». 
    3.2.3.- Nel merito,  anche  rispondendo  alle  argomentazioni  di
ASGI, la Regione autonoma insiste per l'accoglimento del ricorso. 
    Nella prospettiva del  Tribunale  di  Udine,  la  discriminazione
trarrebbe la sua origine dalla legge regionale, sicche'  l'ordine  di
modifica avrebbe dovuto riguardare quest'ultima prima ancora  che  il
regolamento. Se cio' non e' stato fatto e' perche'  «il  giudice  era
consapevole di non averne il potere», ma ordinare la modifica  di  un
regolamento riproduttivo della legge - disapplicata nel caso  singolo
- darebbe luogo, secondo  la  ricorrente,  «ad  un  mero  sotterfugio
giuridico», in quanto intenderebbe comunque privare di effetti l'atto
legislativo. L'azione collettiva contro le discriminazioni  non  puo'
divenire strumento «attraverso  il  quale  la  giurisprudenza  si  fa
legislazione», consentendo al giudice di «disapplicare la  legge  pro
futuro e in via generale ed astratta per tutti i casi possibili»: per
porre nel nulla la legge e' necessario rivolgersi a questa Corte. 
    D'altro canto, conclude la Regione  autonoma,  la  giurisprudenza
della Corte di  cassazione  richiamata  nel  ricorso  -  e  vanamente
interpretata in senso diverso dall'interveniente, tanto e' vero che a
detta giurisprudenza fa  riferimento  anche  la  Corte  d'appello  di
Trieste nel riformare la decisione oggetto del  conflitto  -  sarebbe
eloquente nell'individuazione di «limiti ordinamentali» al potere del
giudice anche nell'ambito dei giudizi antidiscriminatori. 
    4.- In prossimita' dell'udienza pubblica, ha  depositato  memoria
anche  ASGI,  con  la  quale  l'interveniente  ha   insistito   nelle
conclusioni gia' rassegnate. 
    4.1.- Una volta ribadito di avere  legittimazione  a  intervenire
nel conflitto, anche in ragione della circostanza che e' stata  parte
pure nel giudizio d'appello avverso l'ordinanza impugnata, ASGI torna
ad affermare che, nel caso di specie,  la  Regione  autonoma  avrebbe
censurato errores in iudicando, con conseguente inammissibilita'  del
conflitto. 
    In particolare, sarebbe evidente  che  non  si  fa  questione  di
carenza assoluta di giurisdizione: e' la stessa ricorrente,  infatti,
ad affermare che, al limite, il giudice avrebbe  potuto  ordinare  la
modifica   del   regolamento,   ma   solo   una   volta    dichiarata
costituzionalmente illegittima la legge regionale cui il  regolamento
da' esecuzione. 
    4.2.-  Secondo  ASGI,  l'annullamento,  ad  opera   della   Corte
d'appello di Trieste, dei capi dell'ordinanza  impugnata  concernenti
l'ordine di modifica del regolamento hanno «pacificamente effetto  ex
tunc», sicche' - oltre a confermarsi l'inammissibilita' del conflitto
perche' sono censurati errores in  iudicando  -  sarebbe  cessata  la
materia del contendere o, comunque, sarebbe venuto  meno  l'interesse
della Regione autonoma alla decisione. Lo Stato, infatti,  a  seguito
della decisione della Corte d'appello triestina converrebbe  «con  la
Regione sul fatto che "non spetta" ad esso adottare detta ordinanza». 
    4.3.-  Nel  merito,  l'interveniente  ritiene  che  il  conflitto
sarebbe comunque non fondato. 
    In una precedente  occasione,  infatti,  la  Corte  d'appello  di
Trieste aveva confermato una ordinanza che conteneva  analogo  ordine
di modifica di un regolamento regionale, cosi'  come  pronunce  dello
stesso tenore sarebbero state  piu'  volte  adottate  da  giudici  di
merito. Rileva ASGI che tali interventi  dei  giudici  ordinari  «non
hanno  nuociuto  all'equilibrio  costituzionale»,  tant'e'  che  «nel
panorama giurisprudenziale non si riscontra alcuna azione  (e  alcuna
pronuncia) relativa alla esecuzione coattiva di dette pronunce». 
    Cio' premesso, e richiamati gli argomenti gia' spesi nell'atto di
intervento, ASGI afferma  che  «la  tesi  della  inammissibilita'  di
qualsiasi "ordine" del  giudice  ordinario  nei  confronti  della  PA
sembra "provare troppo" soprattutto se si considera il fatto  che  il
Giudice ordinario non ha una giurisdizione  "aggiuntiva"  rispetto  a
quella del Giudice amministrativo, ma e' l'unico a poter esaminare  i
profili di contrasto con il divieto  di  discriminazione».  Escludere
che  il  giudice  ordinario  possa  ordinare  la  rimozione  di  atti
amministrativi  discriminatori  non  sarebbe  «compatibile   con   la
rilevanza attribuita dall'ordinamento al divieto di discriminazione»,
oltre che in contrasto con l'art. 28 del d.lgs. n. 151 del  2011,  il
quale  invece  affida  «amplissima   discrezionalita'»   al   giudice
nell'adozione di un piano di rimozione. 
    In questa ottica, il Tribunale di Udine avrebbe  potuto  ottenere
il medesimo  effetto  «ordinando  all'amministrazione  di  accogliere
tutte le domande di cittadini  stranieri  a  parita'  di  "condizioni
documentali" e di diffondere la comunicazione al fine di  evitare  la
"discriminazione da scoraggiamento"», lasciando alla Regione autonoma
l'onere di adeguare il regolamento alla norma superiore. Simile  modo
di procedere, tuttavia, non sarebbe «lineare dal punto di vista della
coerenza e della trasparenza  dell'azione  amministrativa».  Ad  ogni
modo, secondo l'interveniente - al  di  la'  di  quale  soluzione  si
ritenga preferibile - non puo' lasciarsi il giudice ordinario «inerte
di fronte a una accertata violazione degli  obblighi  di  parita'  di
trattamento». 
    4.3.1.- ASGI, infine, reputa opportuno rimarcare due peculiarita'
dell'odierno conflitto. 
    In primo luogo, non sarebbe in discussione il potere del  giudice
di sostituirsi alla pubblica  amministrazione  nello  svolgimento  di
attivita'  discrezionale,  ma  il  potere  del  medesimo  giudice  di
ripristinare la parita' di  trattamento  quando  cio'  deve  avvenire
«mediante una  attivita'  vincolata».  Nel  caso  di  specie,  se  la
discriminazione  e'  avvenuta  con  atto  generale  riferito  a   una
collettivita',  «l'unico  rimedio  e'  che  l'atto   generale   venga
sostituito  da  un  atto  altrettanto  generale  che   tale   diritto
garantisca». 
    In secondo  luogo,  a  venire  in  considerazione  e'  un  ordine
giudiziale a fronte di un atto amministrativo  in  contrasto  con  il
diritto UE, sicche' e' dubbio che un intervento del  giudice  che  si
limiti ad  accertare  la  disparita'  di  trattamento,  senza  potere
ordinare la rimozione dell'atto  che  l'ha  generata,  sia  efficace,
proporzionato e dissuasivo. Visto sotto questa  prospettiva,  con  il
ricorso la Regione autonoma pretenderebbe vedere affermare che  «"non
spetta" allo Stato e per esso al Tribunale di Udine adottare tutti  i
provvedimenti necessari affinche' la normativa  regionale  secondaria
sia conforme al diritto dell'Unione»,  in  chiaro  contrasto  con  il
primato del diritto UE e del correlato «obbligo di  cooperazione  tra
tutti  gli  organi  dello  Stato   affinche'   tale   primato   venga
salvaguardato». 
    5.- Il Tribunale ordinario di Udine, con ordinanza iscritta al n.
97  reg.  ord.  2023,  ha   sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale, in riferimento agli  artt.  3  e  117,  primo  comma,
Cost., dell'art. 29, comma 1-bis,  della  legge  reg.  Friuli-Venezia
Giulia  n.  1  del  2016,   sostanzialmente   lamentando   che   tale
disposizione  prevede  che  i  cittadini  extra  UE,  ai  fini  della
dimostrazione del requisito dell'impossidenza di altri alloggi di cui
all'art. 29, comma 1, lettera d),  della  medesima  legge  regionale,
devono presentare la documentazione attestante che tutti i componenti
del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel  Paese
di origine e nel Paese di provenienza con modalita' diverse  rispetto
a quelle che possono utilizzare i cittadini italiani e UE. 
    Con la medesima ordinanza, per il solo caso in  cui  le  suddette
questioni siano ritenute non fondate, il giudice a quo  ha  sollevato
questioni di legittimita' costituzionale, ancora in riferimento  agli
artt. 3 e 117, primo comma, Cost., dell'art. 29, comma 1, lettera d),
della medesima legge regionale, «nella parte in cui tra  i  requisiti
minimi per l'accesso al contributo per  il  sostegno  alle  locazioni
previsto dall'art. 19 della medesima legge,  indica  "il  non  essere
proprietari  neppure  della  nuda  proprieta'   di   altri   alloggi,
all'interno  del  territorio  nazionale  o  all'estero,  purche'  non
dichiarati inagibili, con esclusione delle quote  di  proprieta'  non
riconducibili all'unita', ricevuti per successione ereditaria,  della
nuda proprieta' di alloggi il cui usufrutto  e'  in  capo  a  parenti
entro il secondo  grado  e  degli  alloggi,  o  quote  degli  stessi,
assegnati in sede di separazione personale o divorzio  al  coniuge  o
convivente."». 
    5.1.- Il  giudice  rimettente  riferisce  di  essere  chiamato  a
pronunciarsi su un'azione civile contro la discriminazione,  ex  art.
28 del d.lgs. n. 150 del 2011, presentata da diversi cittadini  extra
UE, titolari di permessi di soggiorno di lungo  periodo,  in  ragione
della condotta tenuta dal Comune di Udine e  dalla  Regione  autonoma
Friuli-Venezia Giulia. 
    Tutti i ricorrenti, infatti, avevano presentato  domanda  per  la
concessione del contributo per l'abbattimento del canone di locazione
corrisposto nel 2021,  essendo  in  possesso  di  tutti  i  requisiti
soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa regionale,  primaria
e  regolamentare,  e  dal  bando  comunale.  Veniva  loro  richiesto,
tuttavia, di dimostrare «il  requisito  dell'impossidenza  attraverso
documentazione aggiuntiva  attestante  che  tutti  i  componenti  del
nucleo familiare non  sono  proprietari  di  altri  immobili  ad  uso
abitativo nel paese di origine e nel paese di provenienza  ovvero  di
giustificare  l'impossibilita'  di  poterla  produrre,  a   pena   di
inammissibilita' della domanda», secondo quanto previsto dall'art.  9
del decreto del  Presidente  della  Regione  autonoma  Friuli-Venezia
Giulia  15  aprile  2020,  n.  066/Pres.,  recante  «Regolamento   di
esecuzione  per  la  disciplina  degli  incentivi  a  sostegno   alle
locazioni a favore dei conduttori meno  abbienti  nel  pagamento  del
canone di locazione dovuto ai proprietari degli immobili destinati  a
prima casa, di cui all'articolo 19 della legge regionale 19  febbraio
2016, n. 1 (Riforma organica delle  politiche  abitative  e  riordino
delle Ater)». 
    A parere dei  ricorrenti,  la  normativa  regionale  e  il  bando
comunale introducono oneri documentali per i cittadini extra  UE  non
previsti per i cittadini italiani e dell'UE,  integrando  dunque  una
condotta discriminatoria, come con ordinanza  del  4  marzo  2021  lo
stesso Tribunale di Udine ha gia' accertato,  ordinando  peraltro  la
modifica del regolamento  regionale  n.  066  del  2020.  La  Regione
autonoma ha provveduto alla modifica con il regolamento regionale  18
luglio 2022,  n.  089,  recante  «Regolamento  recante  modifiche  al
Regolamento  di  esecuzione  per  la  disciplina  degli  incentivi  a
sostegno alle locazioni a favore dei  conduttori  meno  abbienti  nel
pagamento  del  canone  di  locazione  dovuto  ai  proprietari  degli
immobili destinati a prima casa, di cui all'articolo 19  della  legge
regionale 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma  organica  delle  politiche
abitative e riordino delle Ater) emanato con D.P.Reg. 15 aprile 2020,
n. 66)»: a parere dei ricorrenti, riferisce tuttavia  il  rimettente,
«anche nella nuova versione, la previsione del Regolamento  Regionale
e'  illegittima  nella  parte  in   cui   mantiene   un   trattamento
differenziato e discriminatorio tra italiani e stranieri, che finisce
per porre a carico di questi ultimi degli oneri inutili e  del  tutto
irragionevoli». 
    5.1.1.- Nel giudizio a quo si e' costituita la  Regione  autonoma
Friuli-Venezia Giulia, rilevando che  il  regolamento  regionale  non
poteva che recepire quanto previsto dall'art. 29, comma 1-bis,  della
legge regionale n. 1 del 2016. 
    5.1.2.- In giudizio si  costituiva  anche  il  Comune  di  Udine,
resistendo alle domande, ed intervenivano un  cittadino  extra  UE  e
ASGI. 
    5.1.3.-  Il  giudice  a  quo   riferisce,   infine,   di   avere,
contestualmente all'ordinanza di  rimessione,  pronunciato  ordinanza
che ha definito il giudizio nei confronti del Comune  di  Udine.  Con
tale  provvedimento,  e  previa   disapplicazione   della   normativa
regionale per contrasto con l'art. 11 della direttiva 2003/109/CE, si
e' ordinato di non richiedere ai ricorrenti documentazione  ulteriore
rispetto a quanto previsto per i cittadini  italiani  e  UE  ai  fini
dell'inclusione nelle graduatorie. 
    5.2.- Per decidere sulle  domande  nei  confronti  della  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia, invece, il giudice rimettente ritiene
che  «non  si  possa  prescindere  da  un  giudizio  di  legittimita'
costituzionale» dell'art. 29, commi 1, lettera  d),  e  1-bis,  della
legge reg. Friuli-Venezia Giulia n.  1  del  2016.  Lo  scrutinio  di
legittimita' costituzionale sarebbe necessario, in  particolare,  per
decidere sulla domanda di ordinare alla Regione, anche quale piano di
rimozione destinato ad evitare il reiterarsi  della  discriminazione,
di abrogare i commi 3 e 3-bis dell'art. 9 del  regolamento  regionale
n. 066 del 2020,  cosi'  da  consentire  ai  cittadini  extra  UE  di
accedere all'incentivo a sostegno  delle  locazioni  producendo,  per
attestare l'impossidenza  di  immobili,  la  medesima  documentazione
richiesta al cittadino italiano. 
    5.2.1.- In punto di rilevanza, il Tribunale di Udine osserva  che
il richiamato art. 29, comma 1, lettera d), prevede, tra i  requisiti
per  potere  accedere  all'incentivo  in  questione,   quello   della
impossidenza, ovvero il  non  essere  proprietari,  neppure  in  nuda
proprieta', di altri alloggi sul territorio nazionale  o  all'estero.
Il successivo  comma  1-bis  precisa  che,  ai  fini  della  verifica
dell'impossidenza, i cittadini extra UE, con esclusione dei rifugiati
e dei titolari della protezione sussidiaria,  devono  presentare,  ai
sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 4,  del  d.P.R.  n.
445 del 2000 e 2 del d.P.R.  n.  394  del  1999,  «la  documentazione
attestante che tutti i  componenti  del  nucleo  familiare  non  sono
proprietari di altri alloggi nel paese di  origine  e  nel  paese  di
provenienza». 
    L'art. 9, comma 3, del regolamento  regionale  n.  066  del  2020
darebbe esecuzione a tale  normativa  primaria  disponendo  in  senso
sostanzialmente identico. 
    Il giudice a quo riferisce che in analogo procedimento era  stato
accertato il carattere discriminatorio della condotta  della  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia che aveva adottato detto  regolamento,
del quale, conseguentemente, era stata ordinata la modifica. 
    Con il regolamento reg. n. 089 del 2022 la  Regione  autonoma  e'
intervenuta sul richiamato art. 9  aggiungendo  un  comma  3-bis,  ai
sensi del quale «i cittadini di cui al comma 3  impossibilitati,  pur
avendo  agito  con   correttezza   e   diligenza,   a   produrre   la
documentazione in osservanza delle disposizioni richiamate dal  comma
medesimo presentano in sostituzione una dichiarazione resa  ai  sensi
dell'articolo 47 del DPR 445/2000». 
    A parere del giudice rimettente, detta modifica non e'  idonea  a
eliminare l'accertata  discriminazione  perche'  -  come  argomentato
nella contestuale ordinanza che ha definito il giudizio nei confronti
del Comune di Udine, di cui vengono riportati ampi stralci - essa, da
un lato, richiede ai cittadini extra UE una dichiarazione ex art.  47
del d.P.R. n. 445 del  2000  relativa  non  a  un  fatto,  ma  a  una
valutazione  (quella  di  essere  impossibilitati   a   produrre   la
documentazione), e, dall'altro,  conferisce  al  singolo  funzionario
«incaricato dell'esame di "correttezza e diligenza" una inammissibile
discrezionalita';  non  vi  sono  infatti   dei   criteri   oggettivi
predeterminati per valutare l'impossibilita' da un lato e  lo  sforzo
pretendibile dal  richiedente  dall'altro».  Inoltre,  la  previsione
sarebbe comunque sia irragionevole, in  quanto  la  dichiarazione  di
impossibilita' a presentare la documentazione  sarebbe  difficilmente
verificabile da parte del singolo funzionario. 
    5.2.2.- Cio' premesso, il Tribunale di Udine afferma di non poter
soddisfare le domande in giudizio  per  mezzo  della  disapplicazione
dell'art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia  n.
1 del 2016 per contrasto con l'art.  11,  paragrafo  1,  lettera  d),
della direttiva 2003/109/CE, il quale  stabilisce  che  ai  cittadini
extra UE soggiornanti di  lungo  periodo  deve  essere  garantita  la
parita' di  trattamento  per  quanto  riguarda,  in  particolare,  le
prestazioni sociali, l'assistenza sociale e la protezione sociale  ai
sensi della legislazione nazionale. 
    Il giudice a quo riferisce che nella  gia'  richiamata  ordinanza
del 2021 con la  quale  aveva  deciso  analogo  giudizio  -  peraltro
confermata dalla sentenza della Corte d'appello di Trieste n. 159 del
2021 - aveva invero riconosciuto efficacia diretta a tale  direttiva.
Richiamando ampi stralci di quella decisione, il Tribunale  di  Udine
osserva, infatti, che essa e' dotata  dei  requisiti  di  sufficiente
precisione e incondizionatezza richiesti  dalla  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea, come peraltro riconosciuto anche dalla Corte  di
cassazione. Non varrebbe richiamare, in senso contrario, il paragrafo
4 del citato art. 11, ai sensi del quale «[g]li Stati membri  possono
limitare la parita' di trattamento in materia di assistenza sociale e
protezione sociale  alle  prestazioni  essenziali»,  in  quanto  tale
deroga  deve  essere  interpretata  restrittivamente  e  puo'  essere
invocata dall'autorita' pubblica solo se gli organi competenti  dello
Stato membro per l'attuazione  della  direttiva  abbiano  chiaramente
espresso  l'intenzione  di  avvalersene  (e'  richiamata   Corte   di
giustizia dell'Unione europea, sentenza  24  aprile  2012,  in  causa
C-571/10, Kamberaj): il che non e' accaduto da parte dell'Italia. 
    Il rimettente riferisce, tuttavia, che  nel  giudizio  a  quo  la
Regione autonoma Friuli-Venezia  Giulia  «ha  sostenuto  l'erroneita'
degli "ordini"  (che  sono  stati  imposti  in  varie  ordinanze)  di
modificare i regolamenti attuativi» che, in materia di sostegno  alle
politiche  abitative,  riproducono  l'art.  29   della   legge   reg.
Friuli-Venezia  Giulia  n.  1  del  2016.  Ciononostante,   essa   ha
provveduto alle modifiche, aggiungendo il comma 3-bis all'art. 9  del
regolamento  regionale  in  questione,  secondo  una  interpretazione
costituzionalmente orientata che tenga  conto  anche  del  richiamato
art. 29. 
    La Regione autonoma ha poi rilevato, in  particolare,  che  anche
laddove «abrogasse o modificasse il regolamento in parola  nel  senso
richiesto dai ricorrenti, tale regolamento sarebbe in  contrasto  con
la disposizione di legge e  dunque  non  potrebbe  essere  applicato,
prevalendo in ogni caso, nel contrasto tra fonti di rango diverso, la
disposizione di legge». 
    5.2.3.- Il giudice a quo  ritiene  allora,  anche  alla  luce  di
quanto dedotto dalla Regione autonoma, che, per un verso,  non  possa
imporsi ai fini della cessazione della condotta discriminatoria  «una
diversa (e peraltro gia' proposta) interpretazione costituzionalmente
orientata» dell'art. 29 della legge regionale e, per un  altro,  «che
una efficace rimozione della  condotta  discriminatoria  e  dei  suoi
effetti non possa che passare per l'adozione di una normativa,  anche
di rango regolamentare, che preveda uguale possibilita' di accesso ai
cittadini comunitari ed extracomunitari e cio' anche sotto il profilo
documentale». 
    Di qui, pertanto, la rilevanza delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  29,  comma   1-bis,   della   legge   reg.
Friuli-Venezia-Giulia n. 1 del 2016: «qualora la normativa  regionale
venga  ritenuta  conforme  a  Costituzione,  la   stessa   giustifica
l'adozione del  regolamento  censurato;  nel  caso  invece  la  legge
regionale non rispetti i parametri di  cui  si  dira'  infra,  potra'
essere emesso un ordine di modifica del Regolamento che  eviti  anche
pro futuro un contenzioso ormai nutrito in questo Distretto». 
    Il Tribunale di Udine rileva, inoltre, che il medesimo  art.  29,
comma 1-bis, presenta un ulteriore elemento di criticita', in  quanto
ai cittadini extra  UE  la  documentazione  aggiuntiva  richiesta  e'
relativa ai soli Paesi di origine e di provenienza, mentre  per  quel
che concerne l'impossidenza relativamente al resto del mondo  (Italia
inclusa) non e' richiesta alcuna attestazione. 
    5.2.4.- Il giudice a quo prospetta poi, per il  caso  in  cui  si
ritengano non fondate le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art.  29,  comma  1-bis,   anche   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 29, comma 1, lettera d),  della  legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del  2016,  ovvero  «del  requisito  della
impossidenza planetaria in se'». 
    L'espunzione  dalla  normativa  regionale  di  detto   requisito,
infatti, impedirebbe la discriminazione dei cittadini extra UE  sotto
il profilo  documentale:  gli  altri  requisiti  per  l'accesso  alla
prestazione possono  essere  autocertificati  anche  da  loro  «e  lo
sarebbe anche una impossidenza  limitata  ad  esempio  al  territorio
nazionale». La discriminazione e' determinata  dalla  «impossibilita'
di autocertificare il non essere proprietari di immobili al di  fuori
del territorio nazionale, mentre la proprieta' di immobili in  Italia
e' un fatto certificabile da parte di soggetti pubblici italiani, con
riguardo alla previsione dell'art. 3 comma 4 DPR n. 445/2000». 
    5.3.- Tutto cio' premesso, in punto di non manifesta infondatezza
delle  questioni  sull'art.  29,  comma  1-bis,  della   legge   reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, il giudice  a  quo  richiama  la
sentenza n. 9 del 2021 di questa Corte, che  si  sarebbe  pronunciata
«su analoga disposizione di legge regionale». 
    In quella occasione,  la  disposizione  censurata  «prevedeva  un
onere  documentale  aggiuntivo  per  i   cittadini   di   Stati   non
appartenenti all'Unione europea, ed in particolare  la  presentazione
di documentazione che attesti  che  tutti  i  componenti  del  nucleo
familiare non possiedono alloggi adeguati nel Paese, di origine o  di
provenienza» ai fini della verifica che essi non fossero titolari  di
diritti di proprieta', usufrutto, uso e abitazione. Questa Corte l'ha
ritenuta  irragionevole  «per  la  palese  irrilevanza   e   per   la
pretestuosita' del requisito che mira a dimostrare» oltre che per  la
sua natura «discriminatoria», essendo l'onere documentale  aggiuntivo
a carico dei soli cittadini extra UE e, dunque,  concretizzandosi  in
un ostacolo di «ordine pratico e burocratico». 
    5.3.1.- Ampiamente richiamato  il  precedente,  il  Tribunale  di
Udine sostiene che la disposizione censurata si ponga  in  contrasto,
innanzitutto, con l'art. 3 Cost., in  ragione  dell'ingiustificata  e
irragionevole disparita' di trattamento tra cittadini italiani o UE e
cittadini extra UE. La  legge  regionale,  infatti,  prevede  si'  il
requisito della «impossidenza planetaria» per tutti i richiedenti, ma
poi il medesimo art. 29, comma 1-bis, ai fini  della  verifica  della
sussistenza di detto requisito, per i cittadini UE reputa sufficiente
una autocertificazione «la cui veridicita' non  e'  verificabile  con
riguardo a tutti i paesi del mondo», mentre per i cittadini extra  UE
«riduce l'ambito territoriale di prova  del  requisito  (limitato  al
paese di origine e al paese di provenienza)» e al contempo «introduce
un gravoso onere di attestazione e documentazione, non richiesto  per
i primi». La disposizione censurata sarebbe altresi' in contrasto con
l'art. 14 della  Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo,  come
questa  Corte   avrebbe   gia'   affermato   con   riferimento   alle
discriminazioni dello straniero in materia di prestazioni sociali (e'
richiamata la sentenza n. 187 del 2010). 
    5.3.2.- Il giudice a quo lamenta anche  la  violazione  dell'art.
117, primo comma, Cost.,  in  quanto  la  disposizione  regionale  si
porrebbe in contrasto con l'art. 11 della direttiva 2003/109/CE, alla
quale deve riconoscersi efficacia diretta. In proposito, non varrebbe
richiamare la possibilita' per il  legislatore  di  circoscrivere  la
platea dei beneficiari delle prestazioni  sociali  in  ragione  della
limitatezza delle risorse (sentenza n. 133 del 2013), in  quanto  gli
obblighi europei richiedono pur sempre la parita' di trattamento  tra
cittadini UE e soggiornanti di lungo periodo  (sentenza  n.  166  del
2018). 
    5.4.- Per  quel  che  concerne  le  questioni  sollevate  in  via
subordinata - quelle concernenti il  requisito  dell'impossidenza  di
cui all'art. 29, comma 1, lettera d), della legge reg. Friuli-Venezia
Giulia n. 1 del 2016 - il Tribunale  di  Udine  osserva  che  sarebbe
violato il principio di ragionevolezza e proporzionalita'. 
    La legge regionale intende tutelare, come espressamente  si  dice
all'art. 1, il diritto  all'abitazione  (in  relazione  al  quale  il
rimettente richiama la sentenza di questa Corte n. 44 del 2020) e, in
tale ambito, questa Corte - osserva il giudice a quo - nella sentenza
n. 176 del 2000 ha ritenuto non irragionevole precludere l'accesso  a
prestazioni quali quelle di cui alla disposizione  censurata,  quando
si sia titolari di un bene della medesima natura pur se al  di  fuori
dell'ambito territoriale di riferimento, in quanto si puo'  da  detto
bene «ricavare utilita' comparabili a quelle di un  alloggio  situato
in luogo adeguato in relazione alle proprie esigenze lavorative». 
    Il  Tribunale  di  Udine  rileva,  tuttavia,   che   secondo   la
disposizione censurata «risulta preclusiva all'accesso  al  beneficio
la titolarita' di diritti di proprieta' su immobili ubicati in  tutto
il mondo, il che pare sproporzionato e contrastante con  le  esigenze
di tutela sociale  della  provvidenza»,  tanto  piu'  che,  sotto  il
profilo reddituale, il  rilievo  di  altre  proprieta'  «e'  comunque
garantito all'interno della certificazione ISEE». 
    6.- Con  atto  del  4  settembre  2023,  si  sono  costituiti  in
giudizio, con il  medesimo  collegio  difensivo,  ASGI  e  trentanove
cittadini extra  UE,  tutte  parti  nel  giudizio  a  quo,  chiedendo
l'accoglimento delle questioni sollevate. 
    6.1.- La difesa  delle  parti  private  offre,  innanzitutto,  un
quadro complessivo della vicenda da cui origina il giudizio a quo, in
diverse occasioni conosciuta  da  giudici  di  merito  della  Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia. 
    Il  contributo  integrativo  per  il  pagamento  dei  canoni   di
locazione di cui all'art. 11 della legge  9  dicembre  1998,  n.  431
(Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti  ad
uso abitativo), rinvia a  un  successivo  decreto  del  Ministro  dei
lavori  pubblici  per  l'indicazione   dei   requisiti   minimi   per
beneficiare del contributo, individuati nei soli requisiti di reddito
massimo (art. 1 del  decreto  ministeriale  7  giugno  1999,  recante
«Requisiti minimi  dei  conduttori  per  beneficiare  dei  contributi
integrativi a valere sulle risorse assegnate al  Fondo  nazionale  di
sostegno per l'accesso alle abitazioni in locazione di  cui  all'art.
11  della  legge  9  dicembre  1998,  n.  431,  e  criteri   per   la
determinazione degli stessi»). Il successivo art. 2 del medesimo d.m.
prevede che le regioni e i comuni possano incrementare le risorse con
propri fondi ma senza potere inserire,  rilevano  le  parti  private,
«requisiti diversi da quelli reddituali». 
    Nessuna regione avrebbe mai aggiunto requisiti  ulteriori,  salvo
la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, la quale all'art. 29 della
legge regionale n. 1  del  2016  ha  introdotto  il  requisito  della
«impossidenza  planetaria»:  la  proprieta'  preclude  l'accesso   al
contributo di per  se',  e  non  per  via  dell'effetto  «doveroso  e
pacifico» che tale proprieta' ha  ai  fini  reddituali  e  dell'ISEE.
Questa  Corte  si  sarebbe  occupata  di   normativa   analoga   «con
riferimento all'accesso alla casa», introducendo il «correttivo della
"utilita' comparabile"», il quale pero' non  sarebbe  applicabile  ai
contratti di locazione in quanto «l'essere o meno proprietario di  un
alloggio altrove e', dal punto  di  vista  della  sua  condizione  di
bisogno (e ferma restando, si ribadisce, l'incidenza sul reddito) del
tutto irrilevante». 
    In termini analoghi alla Regione autonoma  Friuli-Venezia  Giulia
si sarebbe mossa soltanto la Regione  autonoma  Valle  d'Aosta/Vallee
d'Aoste ma, a seguito di condanna da parte del Tribunale  di  Torino,
ha  subito  modificato  la   norma   che   prevedeva   il   requisito
dell'impossidenza. La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, invece,
non solo «pretende di  mantenere  il  requisito»,  ma  ha  introdotto
altresi' un onere documentale aggiuntivo a carico dei cittadini extra
UE «che tutti i giudici  sin  qui  investiti  della  questione  hanno
ritenuto illegittimo». 
    6.1.1.-  Cio'  premesso,   le   parti   private   rilevano   che,
successivamente all'ordinanza di rimessione, le  norme  regolamentari
che prevedevano detto onere documentale sono state  abrogate  con  il
regolamento regionale n. 045 del 2023 e si e' espressamente stabilito
che gli effetti valgano anche nei confronti delle domande  presentate
prima della modifica. Con la conseguenza che  «per  le  domande  2023
(relative ai canoni 2022) la regola vigente e' del tutto coerente con
quanto  il  Giudice  rimettente  ritiene  conforme  a  Costituzione»;
peraltro, i cittadini stranieri che hanno presentato domanda per  gli
anni 2020 e 2021 hanno tutti ottenuto la prestazione, o sulla base di
provvedimenti giurisdizionali o  in  ragione  del  comportamento  dei
comuni,  che  per  evitare  contenziosi  si  sono  adeguati  a   tali
provvedimenti. 
    Alla luce di quanto rappresentato, le  parti  private  osservano,
pertanto, «che tutti coloro che vantavano  un  diritto  in  apparente
contrasto con la norma sospetta  di  incostituzionalita'  hanno  gia'
ottenuto il riconoscimento del diritto vantato; e che  nessuna  altra
lesione e' prospettabile per il futuro, salvo che non intervenga  una
ulteriore modifica del Regolamento (ipotesi che, tra l'altro, nessuno
risulta aver mai prospettato)». 
    Le vicende illustrate potrebbero avere  effetti  sulla  rilevanza
delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale.  Pur  non  avendo
«interesse a formulare conclusioni nel senso della inammissibilita'»,
la difesa delle parti  private  osserva,  infatti,  che  l'ordine  di
rimozione del regolamento - sulla cui necessita' di adozione si fonda
la valutazione sulla rilevanza del giudice rimettente - non  potrebbe
piu' essere emanato, in ragione dell'intervenuta abrogazione. 
    6.2.- Nel merito, le parti  private  ritengono  «pregiudiziale  e
assorbente» il dubbio di legittimita' costituzionale  concernente  il
requisito dell'impossidenza di cui all'art. 29, comma 1, lettera  d),
della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016. 
    Tali  questioni  sarebbero  rilevanti,  anche  se   nel   ricorso
introduttivo del giudizio era richiesto un piano di  rimozione  delle
sole modalita' di documentazione, in quanto se  e'  «incostituzionale
"a monte" la  previsione  dello  stesso  requisito  da  documentare»,
l'illegittimita'  di   quest'ultimo   «condurrebbe   in   ogni   caso
all'accoglimento sostanziale della  domanda»,  volta  a  ottenere  un
trattamento paritario tra cittadini UE ed extra UE. 
    6.2.1.- La sentenza n. 9 del 2021 di questa Corte in  riferimento
all'accesso  alla  casa  ha   gia'   qualificato   come   palesemente
irrilevante e pretestuoso un requisito siffatto, di  modo  che  tanto
piu' cio' dovrebbe valere «con riferimento all'accesso a  un  modesto
contributo economico, rispetto al quale davvero non si puo'  spiegare
perche' mai  la  proprieta'  di  un  altro  alloggio  (ferma  la  sua
eventuale incidenza sul  reddito  e  sull'indicatore  ISEE)  dovrebbe
avere addirittura  un  effetto  preclusivo  se  il  nucleo  familiare
risiede in Italia,  vive  in  locazione  e  si  trova  in  condizioni
economiche disagiate». 
    Anzi, il requisito  in  discorso  potrebbe  avere  anche  effetti
distorsivi, sol si pensi che persone in minor bisogno -  perche'  con
indicatore  ISEE  vicino  ai  massimi  -  potrebbero  accedere   alla
prestazione, a differenza di  chi  versa  in  condizione  di  maggior
bisogno che, «per il solo fatto di essere proprietario di un alloggio
dall'altra parte del mondo, dal quale non ricava alcun reddito e  che
comunque non  ha  alcun  effetto  sulla  sua  condizione  di  persona
bisognosa residente in  Italia»,  non  potrebbe  invece  ottenere  il
contributo. L'irrazionalita'  della  disposizione  censurata  sarebbe
altresi'  confermata  dall'«assoluto  arbitrio  con  il  quale   sono
individuate le cause di esenzione». 
    La violazione del principio d'eguaglianza sarebbe dunque palese e
il richiamo alla direttiva 2003/109/CE, a integrazione del  parametro
di cui  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  dovrebbe  considerarsi
«superfluo» o comunque assorbito nell'art. 3 Cost.,  «anche  per  non
limitare   gli   effetti   della   pronuncia   ai   soli    stranieri
lungosoggiornanti, lasciando gli altri (italiani compresi) soggetti a
una norma cosi' illogica». 
    6.3.- Anche le ulteriori questioni sull'onere  di  documentazione
aggiuntiva,  ove  non  si  ritenessero  assorbite,  troverebbero  uno
specifico precedente nella citata sentenza n. 9 del 2021,  che  aveva
ad   oggetto   «una   norma   assolutamente   identica»,   dichiarata
costituzionalmente   illegittima   in    quanto    irragionevole    e
discriminatoria. 
    La difesa delle parti private  osserva,  ad  ogni  modo,  che  il
legislatore regionale sarebbe  consapevole  di  avere  introdotto  un
requisito  «impossibile  da  provare  documentalmente»,  tant'e'  che
avrebbe  consentito  «ai  cittadini   italiani   di   autocertificare
(mediante la dichiarazione sostitutiva unica che precede il  rilascio
dell'ISEE) l'assenza di proprieta' immobiliari in Italia, mentre  per
quanto attiene l'ulteriore requisito della impossidenza "globale"  ha
ritenuto, per i cittadini italiani, di affidarsi  alla  dichiarazione
dell'interessato», verificabile  solo  mediante  rapporti  con  Paesi
esteri e, evidentemente, facendo leva sul  fatto  che  la  proprieta'
all'estero va denunciata  ai  fini  del  pagamento  dell'imposta  sul
valore aggiunto (art. 19, comma  13,  del  decreto-legge  6  dicembre
2011,  n.  201,  recante  «Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,
l'equita' e il consolidamento dei conti  pubblici»,  convertito,  con
modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011,  n.  214).  Il  medesimo
trattamento  andrebbe  riservato  ai  cittadini  stranieri,  che   si
troverebbero in «condizione assolutamente identica», in quanto su  di
loro graverebbe l'obbligo fiscale di denuncia dell'eventuale immobile
e quello di presentare l'ISEE e, inoltre, la pubblica amministrazione
avrebbe identiche possibilita' di controllo. Tra  l'altro,  il  fatto
che l'onere documentale  attenga  ai  soli  Paesi  di  origine  e  di
provenienza sarebbe parimenti irragionevole in  quanto  non  realizza
neppure  «quell'effetto  di  certezza  in  ordine  al  requisito   di
impossidenza planetaria». 
    7.- Con atto depositato il 5 settembre 2023, si e' costituita  in
giudizio anche la Regione autonoma Friuli-Venezia  Giulia,  chiedendo
che le questioni  sollevate  siano  dichiarate  inammissibili  o  non
fondate. 
    7.1.- Nel ricostruire le vicende del giudizio a quo e  il  quadro
normativo regionale di riferimento, la Regione autonoma  osserva,  in
particolare, che il comma  1-bis  del  censurato  art.  29  e'  stato
aggiunto  a  seguito  dei  rilievi  delle  commissioni  chiamate   ad
effettuare le graduatorie, secondo le quali l'art. 3,  comma  2,  del
d.P.R.  n.  445  del  2000  non  consentirebbe  «agli  stranieri   di
autocertificare il possesso di immobili all'estero». Il  comma  3-bis
aggiunto all'art. 9 del regolamento regionale n. 066 del 2020,  volto
a  consentire  agli  stranieri  di   effettuare   una   dichiarazione
sostitutiva,  sarebbe  stato  introdotto  a  seguito  delle  pronunce
giurisdizionali  che  avevano  giudicato  discriminatorie  le   norme
legislative e regolamentari sull'onere documentale. 
    7.2.- Secondo la Regione autonoma, le questioni  di  legittimita'
costituzionale sollevate sarebbero tutte inammissibili. 
    7.2.1.-   Esse,   innanzitutto,   sarebbero   state   prospettate
contraddittoriamente. 
    Le  questioni  sollevate  in   via   principale   sull'onere   di
documentazione, infatti, potrebbero  «giuridicamente  e  praticamente
porsi soltanto se si  presuppone  l'applicazione  della  disposizione
relativa all'impossidenza». Il giudice rimettente, pertanto,  avrebbe
invertito  la  priorita'  logica  delle  questioni  -  quelle   sulle
modalita' di dimostrazione del  requisito  dell'impossidenza  essendo
rilevanti solo se e' legittimo il requisito stesso -  rendendo  cosi'
«perplesso o ancipite» il carattere della loro prospettazione. 
    7.2.2.- Le questioni sarebbero  inammissibili  anche  perche'  il
Tribunale di Udine non avrebbe motivato in ordine alla  giurisdizione
sulla domanda di modifica del regolamento regionale. 
    Se e'  vero,  infatti,  che  l'esistenza  della  legge  regionale
impedisce  al  giudice  di  ordinare  la  modifica  del   regolamento
regionale che la riproduca - questione, questa, sottesa  al  giudizio
iscritto al n. 2 reg. confl. tra enti 2023 - a  parere  della  difesa
regionale   esisterebbe   anche   un   «divieto    piu'    generale»,
concretizzantesi nella «impossibilita' legale per il  giudice  comune
di ordinare alla Regione di  adottare  o  modificare  atti  normativi
secondari». 
    Nel  giudizio  a  quo,  pertanto,  manca   o   e'   «massimamente
discutibile» la sussistenza della giurisdizione sulla domanda volta a
ottenere «un ordine di modifica di norme secondarie». 
    Il  dubbio  della  Regione  autonoma  sarebbe  comprovato   dalle
pronunce della Corte di cassazione che hanno ricondotto i poteri  del
giudice ordinario nell'ambito dei  giudizi  antidiscriminatori  «allo
schema della disapplicazione incidentale  degli  atti  amministrativi
illegittimi» (sono richiamate, in proposito, le medesime pronunce  di
legittimita' gia' richiamate nella sede del conflitto tra  enti).  In
tal senso, poi, si sarebbe mossa anche la Corte d'appello di Trieste,
che con la sentenza n. 99  del  2023  ha  annullato  l'ordinanza  del
Tribunale di Udine che ha originato il conflitto tra enti iscritto n.
2 dell'omonimo registro 2023, in quanto ha ritenuto che  ordinare  la
modifica di un regolamento esorbiti dai  limiti  della  giurisdizione
ordinaria. 
    Il Tribunale di Udine  non  si  sarebbe  confrontato  con  questo
indirizzo e, dunque, non avrebbe argomentato in punto di  sussistenza
della   propria   giurisdizione,   come   invece   richiesto    dalla
giurisprudenza di questa Corte. 
    7.3.-  La  difesa  della   Regione   autonoma   eccepisce,   poi,
l'inammissibilita' delle questioni sollevate in via  subordinata  sul
requisito della cosiddetta impossidenza planetaria. 
    7.3.1.- Innanzitutto, la norma regionale che la  prevede  sarebbe
stata gia' applicata «ai fini di pervenire alla questione posta  come
principale». 
    7.3.2.-  Le  medesime  questioni  sarebbero  inammissibili  anche
perche' il giudice a quo non ha chiarito come un requisito  richiesto
indifferentemente   dalla    cittadinanza    -    quello,    appunto,
dell'impossidenza - possa  trovare  applicazione  nell'ambito  di  un
giudizio  antidiscriminatorio,  «una  volta  che  sia  stata  esclusa
l'illegittimita' della norma che differenzia  cittadini  e  stranieri
nelle modalita' di dimostrazione del requisito in parola». 
    7.3.3.- Ancora, le questioni sollevate  in  riferimento  all'art.
117, primo comma, Cost. sarebbero inammissibili in quanto  del  tutto
prive di motivazione, essendo detto parametro  richiamato  unicamente
nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione. 
    7.4.- Nel merito, la questione sollevata in riferimento  all'art.
3  Cost.  sull'art.  29,  comma  1,  lettera  d),  della  legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016 sarebbe ad ogni modo non fondata. 
    La gia' indicata sentenza n. 9 del  2021,  infatti,  non  avrebbe
mosso alcun rilievo alla previsione che,  nell'ordinamento  regionale
abruzzese, prevede l'impossidenza  planetaria  quale  condizione  per
partecipare  al  bando  per  gli  alloggi  di  edilizia  residenziale
pubblica. 
    Del resto, il requisito negativo della non titolarita' di diritti
reali su immobili come condizione per accedere all'assegnazione delle
case popolari, previsto dalla normativa nazionale  sin  dall'art.  2,
comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della  Repubblica  30
dicembre 1972, n. 1035 (Norme per l'assegnazione e la revoca  nonche'
per la determinazione e la revisione dei canoni  di  locazione  degli
alloggi di edilizia residenziale pubblica),  e'  stato  ritenuto  non
irragionevole da questa Corte tanto nella sentenza n. 176  del  2000,
quanto nelle successive sentenze n. 135 e n. 299 del 2004. 
    7.5.-  Anche  per  quel  che  concerne  le  questioni   sollevate
sull'onere documentale di cui all'art. 29, comma 1-bis,  della  legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016,  la  difesa  della  Regione
autonoma eccepisce innanzitutto la loro inammissibilita'. 
    7.5.1.- In primo luogo, l'ordinanza di  rimessione  richiamerebbe
l'art. 14 CEDU, che circoscrive il divieto di  discriminazione  sulla
base della nazionalita' al godimento dei  diritti  e  delle  liberta'
garantite dalla Convenzione, senza tuttavia «allegare  quale  sarebbe
la  disposizione  materiale  della  CEDU  violata».  Non   renderebbe
determinata la censura neppure il riferimento alla  sentenza  n.  187
del 2010, che avrebbe riguardato un diverso  caso.  Di  qui,  dunque,
l'inammissibilita'  o,  comunque  sia,  la   non   fondatezza   della
questione. 
    7.5.2.- Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 117,
primo comma, Cost.,  per  violazione  dell'art.  11  della  direttiva
2003/109/CE,  sarebbero  inammissibili  perche',  mentre   la   norma
dell'Unione europea impone la parita' di  trattamento  tra  cittadini
stranieri soggiornanti di lungo periodo e cittadini UE,  «la  censura
riferita al  principio  generale  di  eguaglianza  e'  formulata  dal
giudice a quo deducendo una disparita' di trattamento tra cittadini e
cittadini  extracomunitari»:  di  qui  la  disomogeneita'  delle  due
censure, la  prima  volta  «ad  aggiungere  un'altra  fattispecie  di
esclusione» dagli oneri di  documentazione,  l'altra  diretta  a  una
caducazione dell'intera disposizione regionale «con effetti eccedenti
il perimetro della rilevanza», essendo i ricorrenti  cittadini  extra
UE soggiornanti di lungo periodo. 
    7.6.- Nel merito, le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
sollevate sull'art. 29, comma 1-bis, della legge reg.  Friuli-Venezia
Giulia n. 1 del 2016 sarebbero, comunque sia, non fondate. 
    La diversita' di trattamento,  infatti,  «risponde  perfettamente
alla disciplina statale in  materia  di  dichiarazioni  sostitutive»,
come risultante dall'art. 3 del  d.P.R.  n.  445  del  2000.  Sarebbe
quest'ultima disposizione statale, adottata nella materia di potesta'
esclusiva  «condizione  giuridica  dei   cittadini   di   Stati   non
appartenenti all'Unione europea», a dettare il principio per cui  «lo
straniero non puo' utilizzare dichiarazioni sostitutive  nelle  forme
previste per  il  cittadino  italiano  od  europeo  in  relazione  al
possesso di immobili all'estero». 
    La  difesa  regionale  osserva  che,  rispetto  alla   disciplina
statale, la normativa della Regione autonoma non  solo  tiene  conto,
gia' nella formulazione legislativa, «della peculiare  posizione  dei
titolari di protezione internazionale e sussidiaria»,  ma  a  livello
regolamentare prevede una  clausola  nei  confronti  dello  straniero
«impossibilitato a procurarsi la documentazione». 
    Proprio quest'ultima previsione  distinguerebbe  la  disposizione
censurata da quella oggetto della sentenza n. 9 del  2021  di  questa
Corte, rendendo invece pertinenti  le  affermazioni  della  sentenza,
della medesima Corte, n. 127 (recte:  157)  del  2021,  la  quale  ha
inserito nell'art. 79, comma 2,  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 30  maggio  2002,  n.  115,  recante  «Testo  unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia. (Testo A)» la possibilita' per l'istante di produrre  «una
"dichiarazione sostitutiva di  certificazione"  relativa  ai  redditi
prodotti  all'estero,  una  volta  dimostrata   l'impossibilita'   di
presentare la richiesta certificazione». 
    In via generale, inoltre, secondo la  Regione  autonoma  dovrebbe
considerarsi che i limiti  ai  poteri  di  dichiarazione  sostitutiva
dello straniero tengono conto della diversa posizione tra cittadini e
stranieri «con riferimento all'esercizio di  potesta'  pubbliche»,  i
cui atti sono sostituiti dalle autocertificazioni. 
    Tutte queste considerazioni  dimostrerebbero  la  non  fondatezza
anche  della  questione  sollevata  per  violazione  della  direttiva
2003/109/CE. Il giudice a quo, infatti, avrebbe riconosciuto  che  il
requisito  dell'impossidenza  per  i  cittadini  extra  UE  e'   piu'
favorevole, in  quanto  limitato  ai  soli  Paesi  di  origine  o  di
provenienza, e avrebbe finito per contestare «il  dato  ordinamentale
presupposto, risultante dalla normazione statale, relativo ai  limiti
che questa pone alla facolta', per gli stranieri extracomunitari,  di
ricorrere alle dichiarazioni sostitutive». Si tratta di limiti che, a
parere della Regione autonoma, non  sarebbero  in  contrasto  con  il
diritto UE; ma anche cosi' fosse, del relativo dubbio  -  «appuntato,
prima che sulla norma regionale, sulla disposizione del  testo  unico
statale»  -  dovrebbe  essere  investita  la   Corte   di   giustizia
dell'Unione europea. 
    La difesa regionale osserva, infine, che la ragionevolezza  della
disposizione  censurata  sarebbe   ulteriormente   dimostrata   dalla
circostanza che, senza di essa, la Regione autonoma non avrebbe  modo
di  accertare  la  veridicita'  dell'autocertificazione  compiuta  da
cittadini extra UE, mentre per i cittadini italiani  e  UE  «soccorre
l'obbligo  di  collaborazione  delle   amministrazioni   italiane   e
dell'Unione». A nulla rileverebbe, in  senso  opposto,  che  anche  i
cittadini italiani e UE  potrebbero  possedere  abitazioni  in  Paesi
terzi: si tratterebbe, infatti, «di possibilita' marginali, mentre le
norme  tengono  ragionevolmente  conto  delle  situazioni  normali  e
prevalenti», quale sarebbe la possibilita' che un cittadino extra  UE
sia  proprietario  di  un'abitazione  nel  Paese  di  origine  e   di
provenienza. 
    8.- In prossimita' dell'udienza  pubblica,  la  Regione  autonoma
Friuli-Venezia  Giulia  ha  depositato  una   memoria   illustrativa,
insistendo per l'inammissibilita' o la non fondatezza delle questioni
sollevate. 
    8.1.- La difesa  regionale  osserva,  innanzitutto,  che  lo  ius
superveniens  cui  si  riferiscono  le  parti  private  nell'atto  di
costituzione potrebbe determinare,  semmai,  una  restituzione  degli
atti al giudice a quo, la quale,  tuttavia,  sarebbe  impedita  dalle
eccezioni in punto di ammissibilita' delle questioni sollevate. 
    A tale proposito, la Regione autonoma prende atto  che  anche  le
parti private hanno ritenuto logicamente pregiudiziali  le  questioni
sollevate  sul  requisito  dell'impossidenza,  pur  se  il  piano  di
rimozione richiesto nel giudizio a quo concerne soltanto le modalita'
di documentazione: tuttavia, detto carattere pregiudiziale renderebbe
«perplesso e ancipite  l'intero  impianto  dell'ordinanza».  Ad  ogni
modo,  le  questioni  sollevate   sul   requisito   dell'impossidenza
sarebbero comunque inammissibili, in quanto il giudice a quo  non  ha
motivato in ordine alla loro rilevanza ai fini della decisione che e'
chiamato a prendere. 
    Del  pari  inammissibili  sarebbero   le   questioni   sull'onere
documentale, in quanto sollevate -  secondo  la  Regione  autonoma  -
tanto sulla sussistenza in se' di detti oneri, che  implicherebbe  la
caducazione della disposizione, quanto sulla loro applicabilita' agli
stranieri  lungo  soggiornanti,   che   soli   andrebbero   sottratti
dall'ambito applicativo della norma. 
    8.2.- Quanto al merito, la Regione autonoma ritiene  non  fondati
gli  argomenti  addotti  dalle  parti  private   a   sostegno   della
declaratoria d'illegittimita' costituzionale. 
    Si rileva, in particolare, che il requisito dell'impossidenza  e'
presente tanto nella legislazione statale quanto in quella  regionale
e mai questa Corte lo ha ritenuto costituzionalmente  illegittimo  in
quanto tale. La ratio, del resto, e' chiara: «evitare che chi dispone
di risorse immobiliari  faccia  ricorso  alla  solidarieta'  pubblica
finalizzata a garantire che tutti abbiano una abitazione». 
    La   difesa   regionale   osserva,   poi,   che   il    requisito
dell'impossidenza vale per tutte le misure di  edilizia  residenziale
pubblica previste dalla legge reg. Friuli-Venezia  Giulia  n.  1  del
2016, ma che il contributo per gli affitti di cui al giudizio  a  quo
e' misura diversa dalle altre in quanto, come ha riconosciuto  questa
Corte nella sentenza n. 166  del  2018,  configura  una  «prestazione
polifunzionale [...],  suscettibile  di  essere  finanziata  in  modo
variabile e discontinuo, in ragione di valutazioni politiche circa la
necessita' della sua erogazione, nell'an e nel quantum». 
    Per  quel  che  concerne,   invece,   le   questioni   sull'onere
documentale, la Regione autonoma,  in  replica  alle  parti  private,
rileva, in primo luogo, che non sarebbe  corretta  la  prospettazione
secondo cui cittadini italiani e UE  e  cittadini  extra  UE  abbiano
identica posizione rispetto alla  documentazione  amministrativa,  in
quanto cio' e' escluso gia' dall'art. 3 del d.P.R. n. 445  del  2000.
D'altra parte, la Regione autonoma ribadisce che le  norme  regionali
«sono fatte per i casi tipici e normali» - secondo cui e' improbabile
che il cittadino italiano  abbia  proprieta'  all'estero,  mentre  e'
probabile che le abbia il cittadino straniero - e in base a  cio'  si
e' chiesto allo straniero  di  documentare  l'impossidenza  solo  nel
proprio Paese di origine o in  quello  di  provenienza,  che  sarebbe
appunto la situazione tipica: onere, questo,  che  non  sarebbe  «ne'
sproporzionato ne' troppo difficoltoso», tanto  e'  vero  che  e'  la
stessa normativa regionale a esentare da detto onere i  rifugiati,  i
quali invece «hanno difficolta'  a  reperire  documenti  e  ad  avere
rapporti con lo Stato di origine». 
    9.- Anche le parti private, in prossimita' dell'udienza pubblica,
hanno depositato una memoria con la quale hanno replicato alle difese
della Regione autonoma e hanno confermato le  conclusioni  rassegnate
nell'atto di costituzione. 
    9.1.- Quanto alle eccezioni di inammissibilita', le parti private
le ritengono sorprendenti, in quanto in tutti i giudizi di merito  la
Regione autonoma si e' «strenuamente battuta» perche' fosse sollevata
questione di legittimita' costituzionale. 
    Ad ogni modo, il percorso logico seguito dal Tribunale  di  Udine
nel rimettere le questioni non impedirebbe a questa Corte di decidere
nel  merito:  esse  potrebbero  essere  esaminate  entrambe  «in  via
autonoma»  oppure  ritenendo  che  quella  sull'impossidenza  assorba
quella sulla «discriminazione documentale». Sarebbero state sollevate
«due questioni distinte, se pure collegate, entrambe esposte in  modo
chiaro con riferimento al contenuto di ciascuna norma,  senza  alcuna
incoerenza logica che possa  determinare  la  inammissibilita'  della
questione». 
    Non fondata e inconferente sarebbe l'eccezione circa  la  carente
motivazione in punto di giurisdizione, sia perche' mai nessun rilievo
e' stato sollevato nel giudizio a quo, sia perche'  la  giurisdizione
del giudice ordinario deve ritenersi pacifica. Cio'  che  lamenta  la
Regione autonoma e', dunque, la sussistenza del potere del giudice di
ordinare la modifica del regolamento, che  sarebbe  tuttavia  aspetto
del tutto distinto dal tema della giurisdizione:  e  sulla  rilevanza
delle questioni di legittimita' costituzionale -  volte  a  espungere
dall'ordinamento  la  legge  regionale  di  cui  il  regolamento   e'
esecutivo - il giudice a quo ha invero motivato. 
    Del  pari  non  fondata   sarebbe   l'eccezione   relativa   alla
circostanza che, nell'ambito di un giudizio antidiscriminatorio,  non
potrebbe   venire   in   discussione   un    requisito    -    quello
dell'impossidenza - valevole  per  la  generalita'  dei  richiedenti.
Osservano  le  parti  private  che,  affinche'  una   questione   sia
rilevante, interessa solo che, caducata la norma, quale  che  sia  la
ragione, «il giudice possa pervenire all'accoglimento della domanda e
alla rimozione della disparita' denunciata»: cio' che accadrebbe  nel
caso di  specie  ove  venisse  meno  il  requisito  della  cosiddetta
impossidenza planetaria. 
    9.2.- Per quel che concerne il merito delle  questioni  sollevate
su detto requisito, la difesa  delle  parti  private  osserva  che  i
criteri per l'accesso alle erogazioni pubbliche di sostegno, quale e'
quella di cui si discute nel giudizio a quo, sono fissati dal decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre  2013,  n.  159,
recante «Regolamento concernente  la  revisione  delle  modalita'  di
determinazione  e  i  campi  di  applicazione  dell'Indicatore  della
situazione  economica  equivalente  (ISEE)».  La   Regione   autonoma
pretenderebbe, con la disposizione censurata, introdurre un ulteriore
criterio  «cioe'  l'esistenza  di  una  proprieta'  in  quanto  tale,
indipendentemente dall'utilita' in termini di  reddito  o  altro  che
l'interessato ne puo' ricavare». 
    La lettura data dalla Regione autonoma alle sentenze n. 176 e  n.
135 del 2000 sarebbe, d'altro canto, «del tutto  errata»,  in  quanto
allora la decisione di questa Corte ruoto' attorno a come il  reddito
ricavabile da una proprieta' immobiliare dovesse essere  quantificato
per far si' che potesse determinare il  mancato  inserimento  in  una
graduatoria. Del pari errata sarebbe la lettura della sentenza  n.  9
del  2021,  in  quanto  oggetto  delle  questioni   di   legittimita'
costituzionale era, allora,  la  sola  norma  concernente  gli  oneri
documentali. 
    Sarebbe proprio tale decisione, peraltro,  a  segnare  nel  senso
dell'illegittimita'  costituzionale   le   questioni   sollevate   in
riferimento all'onere documentale richiesto  ai  cittadini  extra  UE
dalla disposizione censurata. In proposito, si ribadisce che  non  e'
ovviamente in discussione la legittimita' costituzionale dell'art.  3
del d.P.R. n. 445 del 2000, quanto  la  possibilita'  prevista  dalla
disposizione censurata di consentire ai cittadini italiani, e non  ai
cittadini extra UE, di dichiarare di non possedere immobili in alcuna
parte del mondo, quando la pubblica amministrazione  italiana  ha  le
medesime facolta' di  controllo  nei  confronti  delle  dichiarazioni
degli uni e degli altri. Peraltro, la necessita' che dichiarazioni di
tal genere siano rese in forme eguali da cittadini  e  non  cittadini
sarebbe stata incidentalmente gia' affermata da questa Corte  proprio
nella sentenza n. 9 del 2021. 
    La difesa delle parti private, infine, osserva  che  non  sarebbe
pertinente il richiamo alla sentenza n. 157 del 2021, perche' diverso
sarebbe  il  bene  protetto,  e  che  prive   di   pregio   sono   le
considerazioni  della  Regione  autonoma  sulla  circostanza  che  le
disposizioni censurate concernono «situazioni normali e prevalenti». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Regione autonoma Friuli-Venezia  Giulia,  con  il  ricorso
iscritto al n. 2 reg. confl. tra  enti  2023,  propone  conflitto  di
attribuzione chiedendo che  sia  dichiarato  che  non  spettava  allo
Stato, e per esso al Tribunale di Udine, in funzione di  giudice  del
lavoro, adottare l'ordinanza con la quale, nell'ambito  di  un'azione
civile contro la discriminazione per motivi di nazionalita' ai  sensi
dell'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, ha ordinato a  essa  Regione
autonoma (punto 2  del  dispositivo)  di  modificare  il  regolamento
regionale n. 0144 del 2016 «"nella parte che prevede per i  cittadini
extracomunitari soggiornanti di lungo periodo requisiti  o  modalita'
diverse rispetto a quelli previsti per  i  cittadini  comunitari  per
attestare  l'impossidenza  di  alloggi  in  Italia  e  all'estero   e
garantendo invece che i cittadini comunitari e quelli extracomunitari
soggiornanti di lungo periodo possano documentare  allo  stesso  modo
l'impossidenza di cui all'art. 9, comma  2  lett.  C)"  dello  stesso
regolamento». A fondamento delle  doglianze,  la  Regione  ricorrente
pone la violazione degli artt. 4, 5 e 6 dello statuto speciale, degli
artt. 97, 101, 113, 117, terzo, quarto, quinto e  sesto  comma,  120,
secondo comma, 134 e 136 Cost.,  nonche'  dell'art.  10  della  legge
cost. n. 3 del 2001. 
    L'ordinanza  oggetto  del  conflitto  e'  stata  adottata  previo
accertamento del comportamento discriminatorio della Regione autonoma
all'origine del giudizio - instaurato  da  un  cittadino  italiano  e
dalla  coniuge  albanese  titolare  di  permesso  di  soggiorno   per
soggiornanti di lungo periodo, nell'ambito del quale ASGI ha spiegato
un intervento in forma adesiva autonoma - e previa non  applicazione,
per contrasto con l'art. 11 della  direttiva  2003/109/CE,  dell'art.
29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016
e dell'art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale  n.  0144  del
2016. 
    La medesima ordinanza e' oggetto del conflitto anche nelle  parti
(punti 3, 7 e 8 del dispositivo) in cui adotta un apparato coercitivo
sanzionatorio  conseguente  al  suddetto  ordine  di   modifica   del
regolamento regionale. 
    In subordine, la ricorrente richiede  che  si  dichiari  che  non
spettava al Tribunale di Udine adottare l'impugnata ordinanza,  della
quale si  richiede  l'annullamento,  «senza  aver  prima  chiesto  ed
ottenuto  da  codesta  Corte  costituzionale  la   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale dell'art. 29, comma 1-bis, della  legge
regionale n. 1 del 2016». 
    2.- In analogo giudizio antidiscriminatorio ex art. 28 del d.lgs.
n. 150 del 2011, altro giudice del medesimo Tribunale di  Udine,  con
ordinanza iscritta al n. 97 reg. ord. 2023, ha sollevato questioni di
legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo
comma, Cost. - quest'ultimo in relazione all'art. 11 della  direttiva
2003/109/CE  -  dell'art.  29,  comma   1-bis,   della   legge   reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016. Il  giudice  rimettente  lamenta
che detta disposizione prevede che i  cittadini  extra  UE,  ai  fini
della dimostrazione del requisito dell'impossidenza di altri  alloggi
di cui all'art.  29,  comma  1,  lettera  d),  della  medesima  legge
regionale, devono presentare la documentazione attestante che tutti i
componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi
nel Paese di origine e nel Paese di provenienza con modalita' diverse
rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE. 
    Con la medesima ordinanza, qualora tali questioni siano  ritenute
non fondate, il giudice a quo ha sollevato questioni di  legittimita'
costituzionale, ancora in riferimento  agli  artt.  3  e  117,  primo
comma, Cost., anche dell'art. 29, comma 1, lettera d), della medesima
legge regionale, «nella parte in  cui  tra  i  requisiti  minimi  per
l'accesso al contributo  per  il  sostegno  alle  locazioni  previsto
dall'art. 19 della medesima legge, indica "il non essere  proprietari
neppure della nuda  proprieta'  di  altri  alloggi,  all'interno  del
territorio nazionale o all'estero, purche' non dichiarati  inagibili,
con  esclusione  delle  quote   di   proprieta'   non   riconducibili
all'unita',  ricevuti  per   successione   ereditaria,   della   nuda
proprieta' di alloggi il cui usufrutto e' in capo a parenti entro  il
secondo grado e degli alloggi, o quote  degli  stessi,  assegnati  in
sede di separazione personale o divorzio al coniuge o convivente."». 
    Anche nell'ambito di questo giudizio - originato da un ricorso di
trentanove cittadini extra UE titolari di permesso di  soggiorno  per
soggiornanti di lungo periodo, nell'ambito  del  quale  intervenivano
altro  cittadino  in  posizione   analoga   e   ASGI,   titolare   di
legittimazione attiva ai sensi dell'art. 5 del d.lgs. n. 215 del 2003
- il Tribunale di Udine, prima di adottare l'ordinanza di  rimessione
e parzialmente accogliendo le domande dei ricorrenti, ha innanzitutto
accertato  il  carattere  discriminatorio  del  comportamento   della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia (e del pari  convenuto  Comune
di Udine) all'origine del ricorso e, poi, ha ritenuto  di  poter  non
applicare,  perche'  in  contrasto  con  l'art.  11  della  direttiva
2003/109/CE, l'art. 29, comma 1-bis, della legge reg.  Friuli-Venezia
Giulia n. 1 del 2016, e le relative disposizioni regolamentari  (art.
9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066  del  2020).  Il
giudice a quo, pero', ha  escluso  di  poter  ordinare  alla  Regione
autonoma  la  modifica   delle   disposizioni   regolamentari   causa
dell'accertato    comportamento    discriminatorio,     in     quanto
sostanzialmente riproduttive della disposizione legislativa. Di  qui,
la decisione  di  sollevare  le  odierne  questioni  di  legittimita'
costituzionale riferite, per l'appunto, alla norma di legge. 
    3.- In via preliminare, deve disporsi la riunione dei giudizi. 
    Sotteso  a  entrambi,  infatti,  e'  il   tema   concernente   la
possibilita' per  il  giudice  ordinario,  nell'ambito  del  giudizio
antidiscriminatorio di cui all'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, di
ordinare la modifica di norme  regolamentari  delle  quali  e'  stato
accertato il carattere discriminatorio. 
    Nel  giudizio  per  conflitto  tra  enti,  la  Regione   autonoma
Friuli-Venezia  Giulia  contesta   in   radice   tale   possibilita',
ammettendo soltanto, ma in subordine, che un ordine del genere  possa
essere adottato,  eventualmente,  dopo  che  sia  stata  sollevata  e
accolta una questione di legittimita' costituzionale sulla  norma  di
legge  sostanzialmente  riprodotta  dalla  norma  regolamentare.  Nel
giudizio in via incidentale, il Tribunale di Udine segue  esattamente
questa seconda  prospettiva,  sollevando  questione  di  legittimita'
costituzionale sulla norma legislativa presupposta e  sostanzialmente
riprodotta dalla norma regolamentare della quale, nel giudizio a quo,
le parti hanno chiesto sia ordinata la modifica. 
    In ragione della connessione che viene cosi' a determinarsi tra i
due giudizi in esame, essi devono essere  congiuntamente  trattati  e
decisi con un'unica pronuncia. 
    4.-  Ancora  in  via  preliminare  -  e  come  gia'  deciso   con
l'ordinanza dibattimentale letta all'udienza pubblica del 21 novembre
2023 - va ribadita l'ammissibilita' dell'intervento di ASGI  spiegato
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti. 
    Di regola, in tale sede non e' ammesso l'intervento  di  soggetti
diversi  da  quelli  legittimati  a  promuovere  il  conflitto  o   a
resistervi (tra le piu' recenti, sentenze n. 184 e n.  90  del  2022;
ordinanza allegata alla sentenza n. 90 del 2022).  La  giurisprudenza
di questa Corte, tuttavia, ha in piu'  occasioni  precisato  che  non
puo' escludersi la possibilita' che l'oggetto del conflitto sia  tale
da coinvolgere, in modo immediato e diretto, situazioni soggettive di
terzi, il cui pregiudizio o la cui salvaguardia dipendono  dall'esito
del conflitto: in casi del genere, l'intervento di  terzi  non  puo',
allora, che essere ammissibile, in modo da consentire a tali soggetti
di far valere le proprie ragioni nel  giudizio  di  fronte  a  questa
Corte (da ultimo, ancora sentenza n. 184 del 2022). 
    Nel caso di specie, per un verso  ASGI  riveste  la  qualita'  di
parte nel giudizio definito con l'ordinanza del  Tribunale  di  Udine
oggetto del conflitto di attribuzione proposto dalla Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia; per un  altro,  detto  conflitto  verte  sulla
spettanza allo Stato e, per esso, al predetto Tribunale di Udine  del
potere di ordinare alla ricorrente la  rimozione  di  una  norma  dal
regolamento regionale n. 0144  del  2016:  potere,  questo,  che  nel
giudizio ex  art.  28  del  d.lgs.  n.  150  del  2011  definito  con
l'ordinanza impugnata e' stato  esercitato  dal  Tribunale  di  Udine
anche su domanda di ASGI. Ne deriva che la risoluzione  del  promosso
conflitto e' suscettibile di incidere in maniera immediata e  diretta
sulla situazione soggettiva dell'associazione interveniente,  la  cui
domanda e' stata accolta con il provvedimento giurisdizionale che  la
Regione autonoma impugna dinanzi a questa Corte. 
    5.- In entrambi i  giudizi,  le  parti  e  l'interveniente  hanno
proposto eccezioni di inammissibilita' o  portato  all'attenzione  di
questa Corte altre questioni preliminari  che  impedirebbero  l'esame
nel merito tanto del conflitto di attribuzione quanto del giudizio di
legittimita' costituzionale. 
    Le   argomentazioni   in   proposito   svolte   dalle   parti   e
dall'interveniente  non  sono,   peraltro,   condivisibili,   sicche'
conviene esaminarle tutte sin d'ora, per poi scrutinare il merito  di
entrambi i giudizi. 
    5.1.-  Quanto  al   conflitto   intersoggettivo,   nell'atto   di
intervento ASGI riferisce che nel marzo 2023 - e  dunque  gia'  prima
della proposizione del ricorso - la Regione  autonoma  Friuli-Venezia
Giulia aveva abrogato le diverse norme regolamentari che  disponevano
la differenza di trattamento documentale tra cittadini UE e cittadini
extra  UE,  tra  cui  quella  d'interesse  nel  giudizio  deciso  con
l'impugnata ordinanza  (si  veda  il  decreto  del  Presidente  della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 1° marzo 2023, n. 044/  Pres.,
concernente il  «Regolamento  recante  modifiche  al  Regolamento  di
esecuzione per la disciplina degli incentivi di edilizia agevolata  a
favore dei privati cittadini,  a  sostegno  dell'acquisizione  o  del
recupero di alloggi da destinare a prima casa di  abitazione  di  cui
all'articolo 18 della legge regionale 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma
organica delle politiche abitative e riordino  delle  Ater),  emanato
con il decreto del Presidente della Regione 13 luglio 2016, n.  0144/
Pres.»). 
    A parere dell'interveniente, cio'  dimostrerebbe  la  carenza  di
interesse al ricorso: quale che sia l'esito del conflitto, cosi' come
degli altri giudizi pendenti dinanzi al giudice ordinario concernenti
l'onere documentale previsto dalla normativa  regionale,  la  Regione
autonoma potrebbe solo varare un nuovo regolamento  con  valenza  pro
futuro, insuscettibile di far venir  meno  i  diritti  acquisiti  dai
cittadini stranieri sulla base dei vigenti regolamenti. 
    5.1.1.-  A  escludere  la  fondatezza  di  tale  rilievo  sta  la
circostanza - secondo  quanto  sottolineato  anche  dalla  ricorrente
nella propria memoria - che nel preambolo di detto  regolamento,  che
per l'appunto  abroga  la  norma  regolamentare  concernente  l'onere
documentale ritenuto  discriminatorio  dall'ordinanza  impugnata,  la
Regione  autonoma  ha  espressamente  affermato  che  detta  modifica
«costituisce  mero  adempimento  delle  disposizioni   dell'Autorita'
giudiziaria di Udine, ma non [e'] da  intendersi  come  acquiescenza»
alle suddette disposizioni, essendo stata disposta «al solo scopo  di
evitare il pagamento delle astreintes ex art. 614-bis c.p.c. e dunque
senza acquiescenza». 
    Non puo' dunque dubitarsi  della  sussistenza  dell'interesse  al
ricorso da parte della Regione autonoma, la  quale  quindi  chiede  a
questa Corte di stabilire se spettasse o non allo Stato, e  per  esso
al Tribunale di Udine,  ordinare  la  modifica  dell'art.  12,  comma
3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016. 
    5.2.- La Regione autonoma, dal canto suo, riferisce che la  Corte
d'appello di Trieste, con sentenza dell'8  giugno  2023,  n.  99  «ha
annullato le statuizioni del Tribunale  di  Udine  impugnate  con  il
presente conflitto». 
    Le   ragioni    d'annullamento,    riferisce    la    ricorrente,
«corrispondono, nella sostanza, a quelle fatte valere  dalla  Regione
nel proprio ricorso». 
    ASGI, nella propria memoria, ritiene sia cessata la  materia  del
contendere, in quanto a seguito della decisione della Corte d'appello
di Trieste lo Stato converrebbe «con la Regione sul  fatto  che  "non
spetta" [al tribunale di Udine] adottare detta ordinanza». 
    5.2.1.- Questa Corte ritiene doversi escludere  che  ricorrano  i
presupposti per dichiarare cessata la materia del contendere. 
    In punto di fatto, va ricordato che la richiamata sentenza  della
Corte d'appello di Trieste ha, per un  verso,  confermato  la  natura
discriminatoria delle norme legislative e regolamentari della Regione
autonoma che prevedono l'onere documentale in capo ai cittadini extra
UE, ma, per un altro, ha annullato l'ordinanza  nelle  parti  oggetto
del conflitto (punti 2, 3, 7 e 8 del relativo dispositivo). La  Corte
d'appello,  infatti,  ha  ritenuto  che  l'ordine  di  modificare  il
regolamento sarebbe  esorbitante  rispetto  ai  limiti  ordinamentali
della giurisdizione ordinaria. 
    Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la  cessazione  della
materia  del  contendere  ricorre  quando  l'atto  impugnato  risulti
annullato con efficacia ex tunc, con  conseguente  venir  meno  delle
affermazioni di competenza determinative  del  conflitto»  (cosi'  la
sentenza n. 224 del 2019). 
    Il mero annullamento dell'atto impugnato, tuttavia, non e' di per
se'  sufficiente  a  determinare  la  cessazione  della  materia  del
contendere, laddove persista «l'interesse del ricorrente  a  ottenere
una  decisione  sull'appartenenza  del  potere  contestato»   (ancora
sentenza n. 224 del 2019; nello stesso senso,  sentenza  n.  183  del
2017) e, dunque,  resti  «inalterato  l'oggetto  del  contendere  che
permea di se' l'intero ricorso [...] vale a dire la verifica circa la
spettanza del potere» (sentenza n. 260 del  2016).  Il  giudizio  per
conflitto di attribuzione tra enti, infatti, «e' diretto  a  definire
l'ambito delle sfere  di  attribuzione  dei  poteri  confliggenti  al
momento della sua insorgenza, restando  di  regola  insensibile  agli
sviluppi successivi delle  vicende  che  al  conflitto  abbiano  dato
origine» (sentenza n. 106 del 2009), al punto che «sussiste  comunque
- anche dopo l'esaurimento degli effetti  dell'atto  impugnato  -  un
interesse all'accertamento, il quale trae  origine  dall'esigenza  di
porre fine - secondo quanto disposto  dall'art.  38  della  legge  11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale) - ad una situazione di incertezza in ordine  al
riparto costituzionale delle attribuzioni» (sentenza n. 9 del 2013). 
    5.2.2.- Alla luce dei richiamati  principi,  deve  ritenersi  che
persista l'interesse  della  Regione  autonoma  all'accertamento  del
riparto costituzionale delle attribuzioni. 
    Depone  in  tal  senso,  innanzitutto,  la  circostanza  che   la
ricorrente, nella propria  memoria  e  in  udienza  pubblica,  si  e'
limitata a  dar  conto  della  pronuncia  della  Corte  d'appello  di
Trieste, chiedendo a questa Corte di  valutare  se,  nonostante  tale
pronuncia, sia possibile una decisione nel merito «circa la spettanza
del potere in una controversia  che  riguarda  la  definizione  della
condizione della legge regionale asseritamente  contrastante  con  il
diritto dell'Unione europea e il potere del giudice  di  determinarne
esso il contenuto, o il potere del giudice di ordinare  alla  Regione
la  modifica  di  atti  regolamentari,  e  in  particolare  di   atti
regolamentari riproduttivi della medesima legge». 
    D'altro canto, che vi sia un  interesse  alla  risoluzione  della
controversia  in  ordine  alla  spettanza  o  al  corretto  esercizio
dell'attribuzione costituzionale e' dato anche dall'esistenza -  piu'
volte sottolineata in atti  dalla  ricorrente  e  dall'interveniente,
oltre  che  dimostrata   per   tabulas   dall'odierno   giudizio   di
legittimita' costituzionale in via incidentale riunito  al  conflitto
di attribuzione - di un nutrito contenzioso presso  la  giurisdizione
ordinaria nella Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  in  ordine
all'accesso  alle  misure  di  sostegno   all'edilizia   residenziale
pubblica,  contenzioso  nell'ambito  del  quale  viene   sovente   in
discussione proprio il potere del giudice  ordinario  di  imporre  la
modifica di regolamenti regionali ritenuti discriminatori. 
    5.3.-   Sin   dall'atto   d'intervento,    ASGI    ha    eccepito
l'inammissibilita' del conflitto di attribuzione in quanto la Regione
autonoma pretenderebbe di far valere  dinanzi  a  questa  Corte  meri
errores in iudicando in cui sarebbe incorso il Tribunale di Udine. 
    La ricorrente, infatti, si dorrebbe del  fatto  che  il  predetto
Tribunale abbia considerato l'art. 29 della legge reg. Friuli-Venezia
Giulia n. 1 del 2016 come privo di effetti, in  quanto  in  contrasto
con il diritto dell'Unione europea. Se sia o meno corretta la  scelta
di  non  applicare  tale   normativa   regionale,   cosi'   come   la
praticabilita' di altre strade decisorie da parte del  giudice,  sono
questioni  che,  a  parere  dell'interveniente,   dovrebbero   essere
valutate in altre sedi e non, invece, nel giudizio per  conflitto  di
attribuzione, pena la messa in discussione  del  primato  stesso  del
diritto dell'UE. 
    La Regione autonoma, del resto, non contesterebbe la possibilita'
del giudice amministrativo di annullare una norma  regolamentare,  ma
il fatto che il medesimo potere  sia  stato  esercitato,  «pur  nelle
forme  diverse  dell'ordine  di  modifica  e  non   dell'annullamento
dell'atto», dal giudice ordinario: cio' che non  sarebbe  materia  da
conflitto intersoggettivo, ma da regolamento di giurisdizione. 
    Secondo ASGI, pertanto, a seguire la prospettiva della ricorrente
o il potere di ordinare la modifica della normativa regolamentare  e'
stato mal esercitato - il che sarebbe pero' un  error  in  iudicando,
non  contestabile  nella  sede  del  conflitto  -  o  esso  e'  stato
esercitato in conformita' a una legge costituzionalmente illegittima,
senza pero' che la Regione autonoma abbia eccepito tale vizio dinanzi
al Tribunale di Udine. 
    5.3.1.- L'eccezione non e' fondata. 
    La Regione autonoma sottolinea ripetutamente nel proprio  ricorso
che non intende  discutere  -  come  in  effetti  non  discute  -  la
decisione  del  giudice  di  non  applicare   le   norme   regionali,
legislative e regolamentari, ritenute in contrasto con il diritto  UE
e, conseguentemente, «di attribuire il bene della  vita  al  soggetto
che e' ritenuto  discriminato».  Contesta,  invece,  la  pretesa  del
Tribunale  di  Udine  di  ordinare  a  essa  Regione  l'adozione   di
«specifiche norme generali ed astratte», e  cioe'  «di  esercitare  i
propri poteri normativi secondo contenuti decisi da esso giudice,  ed
in particolare  -  nel  caso  specifico  -  di  esercitarli  in  modo
contrario a quan[t]o precisamente disposto dalla legge regionale». 
    In questa prospettiva,  la  ricorrente  afferma  che  non  esiste
alcuna norma  che  attribuisca  al  giudice  il  potere  di  ordinare
l'esercizio, in un determinato modo,  della  potesta'  regolamentare,
sicche' il Tribunale  di  Udine  con  l'ordinanza  impugnata  avrebbe
esorbitato dai limiti della giurisdizione. L'art. 28  del  d.lgs.  n.
150 del 2011, sul quale fa leva la pronuncia oggetto  del  conflitto,
andrebbe letto invece alla luce di quanto l'art. 113 Cost. dispone in
merito ai poteri del giudice ordinario nei confronti  della  pubblica
amministrazione e, dunque, nei sensi della mera disapplicazione della
normativa regolamentare illegittima. 
    La  Regione  autonoma  torna  ancora  sul  punto  nella  memoria,
sottolineando come i «punti focali» del ricorso siano «se il  giudice
comune abbia il potere di ordinare ad un'amministrazione regionale di
modificare un proprio regolamento» e se un ordine  del  genere  possa
essere emesso quando determinerebbe l'adozione di un regolamento  «in
frontale contrapposizione con il  disposto  di  una  norma  di  legge
regionale vigente», anche se  non  applicata  per  contrasto  con  il
diritto  UE.  Del  resto,  il  conflitto  costituirebbe  «proprio  lo
strumento chiamato a correggere quel particolare  tipo  di  error  in
iudicando che consiste  nell'affermare  e  nel  praticare  un  potere
giurisdizionale inesistente, contrario alle  garanzie  costituzionali
dei poteri normativi regionali e statali, e in particolare del potere
legislativo». 
    Tutto cio' considerato, deve  allora  rilevarsi  che  la  Regione
autonoma intende negare in radice  -  se  a  torto  o  a  ragione  e'
questione che attiene al merito - «la riconducibilita' dell'atto  che
ha determinato il conflitto alla funzione giurisdizionale»  (sentenza
n. 137 del 2023), in quanto lamenta che  il  Tribunale  di  Udine  ha
ritenuto di avere un potere - quello di ordinare la  modifica  di  un
atto regolamentare - che non gli spetta e il cui  esercizio  ha  leso
diverse attribuzioni costituzionali  di  essa  Regione.  Il  promosso
conflitto, dunque, si palesa non quale mero controllo  dell'attivita'
giurisdizionale - il  che  lo  renderebbe  inammissibile  -  ma  come
«garanzia di sfere di attribuzioni che si vogliono costituzionalmente
protette da interferenze da parte di organi della giurisdizione o che
si vogliono riservare al controllo di altra  istanza  costituzionale»
(sentenza n. 27 del 1999). 
    5.4.- Vanno ora esaminati i profili preliminari del  giudizio  di
legittimita' costituzionale in via incidentale. 
    Va innanzitutto escluso che l'abrogazione dell'art. 9, commi 3  e
3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020 -  disposizioni  che
il Tribunale di Udine  ha  accertato  essere  discriminatorie  e  che
vorrebbe ordinare alla Regione  autonoma  di  rimuovere  -  determini
l'inammissibilita' delle questioni  di  legittimita'  costituzionale,
come sostenuto nella  memoria  dalle  parti  private,  o  imponga  la
restituzione degli atti al giudice a quo, come suggerito dalla difesa
regionale. 
    Quanto  alla  dedotta  inammissibilita',   va   considerato   che
l'abrogazione    delle    norme    regolamentari    e'    intervenuta
successivamente  all'adozione  dell'ordinanza  di  rimessione:  tanto
basterebbe a escludere un vizio di quest'ultima che valga a  impedire
lo scrutinio nel merito. 
    Va del pari esclusa la restituzione degli atti al giudice a  quo,
in quanto l'avvenuta abrogazione del citato art. 9, commi 3 e  3-bis,
non incide sul nucleo delle questioni di legittimita' costituzionale,
in quanto non influisce in  alcun  modo  sull'oggetto  dei  dubbi  di
costituzionalita'  -   costituito   dalla   disposizione   di   rango
legislativo dettata dall'art.  29,  comma  1-bis,  della  legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, ancora vigente  nell'ordinamento
regionale - ne' sulle norme parametro o  sugli  argomenti  utilizzati
dal giudice  a  quo.  Detto  altrimenti,  l'abrogazione  della  norma
regolamentare  lascia  inalterato  il  significato  normativo   delle
disposizioni  legislative  censurate  in  relazione  ai  profili   di
illegittimita' costituzionale e, dunque, non scalfisce  ne'  l'ordito
logico alla base delle  censure  ne'  il  meccanismo  contestato  dal
giudice rimettente (da ultimo, ordinanze n. 31 e n. 23 del 2023). 
    5.5.- La Regione autonoma ha  eccepito  l'inammissibilita'  delle
questioni sollevate per contraddittorieta'. 
    Le  questioni  sollevate  in   via   principale   sull'onere   di
documentazione posto dall'art. 29,  comma  1-bis,  della  legge  reg.
Friuli-Venezia  Giulia   n.   1   del   2016,   infatti,   potrebbero
«giuridicamente  e  praticamente  porsi  soltanto  se  si  presuppone
l'applicazione  della  disposizione  relativa  all'impossidenza».  Il
giudice rimettente, che in via  subordinata  ha  sollevato  questioni
anche sul requisito dell'impossidenza, previsto dall'art.  29,  comma
1, lettera d), della medesima legge regionale, avrebbe  invertito  la
priorita'  logica  delle  questioni:  quelle   sulle   modalita'   di
dimostrazione  dell'impossidenza  potrebbero  considerarsi  rilevanti
solo se il  requisito  stesso  fosse  considerato  costituzionalmente
legittimo.  Da  cio',  la  difesa  regionale  desume   il   carattere
«perplesso o  ancipite»  dei  dubbi  di  legittimita'  costituzionale
prospettati dal Tribunale di Udine. 
    La  difesa  delle  parti  private,   dal   canto   suo,   ritiene
«pregiudiziale   e   assorbente»   il    dubbio    di    legittimita'
costituzionale, prospettato  in  via  subordinata,  in  relazione  al
requisito  dell'impossidenza.  Pur   osservando   che   nel   ricorso
introduttivo del giudizio a  quo  e'  stato  richiesto  un  piano  di
rimozione delle modalita' discriminatorie attraverso cui si  richiede
ai cittadini extra UE di attestare l'impossidenza, le  parti  private
affermano che se e' «incostituzionale "a monte" la  previsione  dello
stesso requisito da documentare» l'illegittimita'  costituzionale  di
quest'ultimo «condurrebbe in ogni caso  all'accoglimento  sostanziale
della  domanda»,  volta  a  ottenere  un  trattamento  paritario  tra
cittadini UE e extra UE. 
    5.5.1.- L'eccezione d'inammissibilita' non e' fondata. Del  pari,
non possono essere condivise le osservazioni della difesa delle parti
private sull'ordine delle questioni. 
    Il Tribunale di Udine ha sollevato le questioni  di  legittimita'
costituzionale sulla disposizione che impone ai cittadini extra UE un
onere documentale diverso rispetto a quello  gravante  sui  cittadini
italiani e UE. Si tratta di  questioni  indubbiamente  rilevanti  nel
giudizio a quo, in quanto i ricorrenti, per un verso,  hanno  chiesto
si accerti la natura discriminatoria  della  condotta  e  degli  atti
delle pubbliche amministrazioni convenute che richiedono ai cittadini
extra UE oneri documentali diversi, e, per un altro, hanno  richiesto
al giudice di ordinare alla Regione autonoma, ai fini della rimozione
dell'accertata discriminazione, di modificare la norma  regolamentare
all'origine  della  condotta  per  cui   si   agisce   in   giudizio,
sostanzialmente riproduttiva  di  quella  legislativa  oggetto  delle
questioni di legittimita' costituzionale. 
    Il  giudice  rimettente  prospetta  i   dubbi   di   legittimita'
costituzionale  sulla   disposizione   che   prevede   il   requisito
dell'impossidenza  per  il   solo   caso   in   cui   «si   ritenesse
costituzionalmente legittima la previsione dell'art. 29  comma  1-bis
della L.R. 1/2016». Il Tribunale di Udine, pertanto, ha espressamente
posto le questioni di legittimita' costituzionale sull'art. 29, comma
1, lettera d), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1  del  2016
in via subordinata, scrutinabili nel merito  solo  ove  questa  Corte
ritenesse non fondate quelle prospettate  in  via  principale:  tanto
basta a escludere il carattere «perplesso o ancipite» che  la  difesa
regionale attribuisce all'ordinanza  di  rimessione  e  a  negare  la
fondatezza delle argomentazioni  delle  parti  private  in  relazione
all'ordine delle questioni. 
    5.6.- A parere della Regione  autonoma,  le  questioni  sarebbero
inammissibili  anche  perche'  il  giudice  rimettente  non   avrebbe
motivato in ordine alla giurisdizione sulla domanda di  modifica  del
regolamento regionale. 
    La difesa regionale, con argomenti sostanzialmente coincidenti  a
quelli adoperati nel conflitto di attribuzione tra enti,  ritiene  ci
sia una «impossibilita' legale per il giudice comune di ordinare alla
Regione di adottare  o  modificare  atti  normativi  secondari».  Nel
giudizio  a  quo,  pertanto,  mancherebbe  o  sarebbe   «massimamente
discutibile» la sussistenza della giurisdizione sulla domanda volta a
ottenere «un ordine di modifica di norme secondarie». 
    5.6.1.- L'eccezione non e' fondata. 
    Nell'ordinanza  di  rimessione,  il  Tribunale   di   Udine   da'
diffusamente  conto,  richiamandone  ampi  stralci,  di  una  propria
precedente ordinanza con la quale, in analogo  giudizio,  aveva  gia'
ordinato   la   modifica   del   regolamento    regionale    ritenuto
discriminatorio;  rileva,  inoltre,  che  la  Regione   autonoma   ha
modificato detto regolamento, ma prevedendo  una  norma  che,  a  suo
dire, lascia inalterato il carattere  discriminatorio;  in  punto  di
motivazione sulla rilevanza, riferisce di volere esercitare il potere
di ordinare la modifica del regolamento regionale, nel  caso  in  cui
questa   Corte   dichiari   l'illegittimita'   costituzionale   della
disposizione legislativa censurata. 
    Il giudice a quo ha ritenuto, con motivazione  non  implausibile,
sussistere la propria giurisdizione e il relativo  potere,  ai  sensi
dell'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011,  di  ordinare  la  rimozione
della norma regolamentare discriminatoria. 
    5.7.-  La  difesa  della   Regione   autonoma,   poi,   eccepisce
l'inammissibilita' della  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia  n.
1 del 2016, sollevata in riferimento all'art. 14 CEDU. 
    La norma convenzionale, infatti, circoscriverebbe il  divieto  di
discriminazione  sulla  base  della  nazionalita'  al  godimento  dei
diritti e delle liberta' garantite dalla Convenzione, ma il Tribunale
di  Udine  non  avrebbe  allegato  «quale  sarebbe  la   disposizione
materiale della CEDU violata». 
    5.7.1.- L'eccezione si basa su un'erronea lettura  dell'ordinanza
di rimessione. 
    Il Tribunale di Udine, infatti, non ha sollevato alcuna  autonoma
questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 14 CEDU. Tale  disposizione
convenzionale e' incidentalmente adoperata dal giudice a quo  a  soli
fini   argomentativi,   a   ulteriore   sostegno   della    lamentata
discriminazione  fondata   sulla   nazionalita',   costituzionalmente
illegittima per violazione dell'art. 3 Cost. 
    5.8.-  La  Regione  autonoma,  infine,  reputa  inammissibili  le
questioni di  legittimita'  costituzionale  sollevate  sull'art.  29,
comma 1-bis, della legge reg. Friuli Venezia Giulia n.  1  del  2016,
concernente l'onere  documentale  in  capo  ai  cittadini  extra  UE,
perche' sarebbero disomogenee le censure in riferimento agli artt.  3
e 117, primo comma, Cost. 
    La difesa regionale, infatti, rileva che l'art. 11, paragrafo  1,
della direttiva 2003/109/CE,  la  cui  violazione  determinerebbe  il
contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., impone  la  parita'  di
trattamento tra cittadini stranieri soggiornanti di lungo  periodo  e
cittadini UE;  nel  dubitare  della  violazione  dell'art.  3  Cost.,
invece, il giudice a quo prospetterebbe, in senso  piu'  ampio,  «una
disparita'  di  trattamento  tra  cittadini  [italiani]  e  cittadini
extracomunitari».  Ne  consegue,  secondo  la  prospettazione   della
Regione autonoma, che la censura in  riferimento  al  diritto  UE  e'
volta «ad aggiungere un'altra fattispecie di esclusione» dagli  oneri
di documentazione, mentre quella in riferimento all'art. 3  Cost.  e'
diretta a una caducazione dell'intera  disposizione  regionale,  «con
effetti eccedenti il perimetro della rilevanza», essendo i ricorrenti
cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo. 
    Come ulteriormente si argomenta in  memoria,  il  giudice  a  quo
avrebbe in tal modo sollevato le questioni tanto sulla sussistenza in
se'  dell'onere  documentale,  che   implicherebbe   la   caducazione
dell'intera  disposizione,  quanto  sulla  sua  applicabilita'   agli
stranieri  soggiornanti  di  lungo  periodo,  che   soli   andrebbero
sottratti dall'ambito applicativo della disposizione censurata. 
    5.8.1.- Anche questa eccezione si basa su un'erronea lettura  del
senso complessivo dell'ordinanza di rimessione,  il  cui  dispositivo
deve essere interpretato alla luce della motivazione. 
    Il  Tribunale  di  Udine  da'  immediatamente  conto,  sin  dalla
ricostruzione  in  fatto  della  controversia  che  e'   chiamato   a
conoscere, di essere adito da cittadini extra UE titolari di permessi
di soggiorno di lungo periodo. 
    Al contempo, il giudice rimettente riferisce di avere  gia'  dato
immediata soddisfazione al diritto dei ricorrenti di essere  inseriti
nelle   graduatorie   per   la   concessione   del   contributo   per
l'abbattimento del canone di locazione «senza che agli  stessi  venga
richiesta documentazione ulteriore rispetto a quanto previsto  per  i
cittadini italiani e UE»: e cio' perche' non ha applicato l'art.  29,
comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del  2016  e
l'art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020,
ritenuti entrambi in contrasto con  l'art.  11,  paragrafo  1,  della
direttiva 2003/109/CE relativa allo status  dei  cittadini  di  Paesi
terzi che siano soggiornanti di lungo  periodo,  che  sancisce,  alla
lettera d), il principio di parita' di trattamento  dei  soggiornanti
di lungo periodo rispetto ai cittadini per quanto  riguarda,  tra  le
altre, «le prestazioni sociali, l'assistenza sociale e la  protezione
sociale ai sensi della legislazione nazionale». 
    Va altresi' considerato che l'art. 29, comma 1, lettera a), della
legge reg. Friuli-Venezia  Giulia  n.  1  del  2016  prevede,  tra  i
requisiti minimi per accedere alle misure di sostegno in  materia  di
politiche abitative, «l'essere cittadini italiani; cittadini di Stati
appartenenti all'Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia e
loro familiari, ai sensi del decreto legislativo 6 febbraio 2007,  n.
30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE  relativa  al  diritto  dei
cittadini  dell'Unione  e  dei  loro  familiari  di  circolare  e  di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri);  titolari
di permesso di soggiorno CE per  soggiornanti  di  lungo  periodo  ai
sensi del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione  della
direttiva 2003/109/CE relativa allo  status  di  cittadini  di  Paesi
terzi soggiornanti di lungo periodo); soggetti di cui all'articolo 41
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla  condizione  dello  straniero)».   La   disciplina   regionale,
pertanto,  consente  di  accedere  alle  misure  di  sostegno  non  a
qualsiasi cittadino extra UE, ma a quelli  titolari  di  permessi  di
soggiorno di lungo periodo o degli altri permessi di soggiorno di cui
all'art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998. 
    Si deve ritenere, allora, che il Tribunale di Udine non  richieda
la caducazione dell'intero art. 29, comma  1-bis,  della  legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016. Le censure sono invece  volte  a
ottenere la dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale  di  tale
disposizione - per la violazione degli artt. 3 e  117,  primo  comma,
Cost., quest'ultimo in riferimento all'art. 11, paragrafo 1,  lettera
d), della richiamata direttiva  2003/109/CE  -  nella  parte  in  cui
prevede che l'ivi prevista  documentazione  attestante  che  tutti  i
componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi
nel Paese di origine e nel  Paese  di  provenienza  -  documentazione
richiesta per dimostrare l'impossidenza di altri  alloggi,  ai  sensi
dell'art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge  regionale  -
debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di  lungo
periodo con modalita' diverse  rispetto  a  quelle  utilizzabili  dai
cittadini italiani e UE. 
    Cosi' delimitato, del resto, il thema decidendum e' coerente  con
la rilevanza  delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale  nel
giudizio a quo, nell'ambito del quale, come detto, agiscono cittadini
extra UE soggiornanti di lungo periodo. 
    6.- Venendo al merito, giova premettere che sotteso a entrambi  i
giudizi e' il tema concernente i  poteri  del  giudice  ordinario  ai
sensi dell'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011. E' necessario, dunque,
delineare   innanzitutto   i   tratti   essenziali    del    giudizio
antidiscriminatorio ivi previsto. 
    6.1.- L'azione civile contro la discriminazione e'  prevista  sin
dal decreto legislativo n. 286 del 1998, il cui art. 44, al comma  1,
recita: «Quando il comportamento  di  un  privato  o  della  pubblica
amministrazione produce  una  discriminazione  per  motivi  razziali,
etnici, nazionali o religiosi, il giudice puo', su istanza di  parte,
ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole  e  adottare
ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a  rimuovere
gli  effetti  della  discriminazione».  Il  vigente  comma  2,   come
sostituito dall'art. 34, comma 32, lettera b), del d.lgs. n. 150  del
2011, stabilisce che alle relative controversie si applica l'art.  28
del medesimo decreto. Per quel che qui rileva, il comma  5  di  detto
art. 28 dispone: «Con  la  sentenza  che  definisce  il  giudizio  il
giudice puo' condannare il convenuto al risarcimento del danno  anche
non patrimoniale e ordinare la cessazione  del  comportamento,  della
condotta  o  dell'atto  discriminatorio  pregiudizievole,  adottando,
anche  nei  confronti  della  pubblica  amministrazione,  ogni  altro
provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la
ripetizione  della  discriminazione,  il  giudice  puo'  ordinare  di
adottare, entro il termine fissato nel  provvedimento,  un  piano  di
rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di  comportamento
discriminatorio di carattere collettivo, il piano e' adottato sentito
l'ente collettivo ricorrente». 
    Il legislatore, in tal modo, ha predisposto  una  normativa  che,
per garantire incisivamente la parita' di  trattamento  e  sanzionare
discriminazioni  ingiustificate  e  intollerabili   alla   luce   del
principio di  eguaglianza  scolpito  nell'art.  3  Cost.,  affida  al
giudice  ordinario  «strumenti  processuali  speciali  per  la   loro
repressione» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 30
marzo 2011, n. 7186). L'azione  civile  puo'  essere  esercitata  per
ottenere dal giudice l'ordine di cessazione non solo di comportamenti
o  condotte,  ma  anche  (la  rimozione)   di   atti   discriminatori
pregiudizievoli; ordine  che  puo'  essere  accompagnato,  anche  nei
confronti della pubblica amministrazione, da ogni altro provvedimento
che il giudice, a sua discrezione,  reputi  idoneo  a  rimuovere  gli
effetti  della  discriminazione;  al  fine   di   impedire   che   la
discriminazione possa nuovamente prodursi, il legislatore ha, infine,
attribuito al giudice l'ulteriore potere di ordinare l'adozione di un
piano volto a rimuoverla. 
    6.2.-  Si  e'  dinanzi,  come  si  vede,  a  un  giudizio   tutto
funzionalizzato alla rimozione delle discriminazioni, che finisce per
configurare,  «a  tutela  del  soggetto  potenziale   vittima   delle
discriminazioni, una specifica posizione  di  diritto  soggettivo,  e
specificamente un diritto qualificabile come  "diritto  assoluto"  in
quanto posto a presidio di una area di liberta' e  potenzialita'  del
soggetto, rispetto a  qualsiasi  tipo  di  violazione  della  stessa»
(ancora Cass., sez. un., ord. n. 7186 del 2011).  Ed  e'  proprio  in
ragione del fondamentale diritto da  tutelare  che  il  «contenuto  e
l'estensione  delle  tutele  conseguibili  in  giudizio  present[a]no
aspetti di atipicita' e di variabilita' in  dipendenza  del  tipo  di
condotta lesiva che e' stata messa in essere» (di nuovo, Cass.,  sez.
un., ord. n. 7186 del 2011). 
    La pienezza della tutela speciale cosi' costruita dal legislatore
si estende sino  a  consentire  al  giudice  ordinario  -  pur  senza
tratteggiare l'attribuzione, ai sensi  dell'art.  113,  terzo  comma,
Cost.,  di  un  eccezionale  potere  di   annullamento   degli   atti
amministrativi - di pronunciare sentenze di  condanna  nei  confronti
della   pubblica   amministrazione   per    avere    adottato    atti
discriminatori, dei quali  puo'  ordinare  la  rimozione.  La  scelta
legislativa   e',   dunque,   quella   di   accordare   una    tutela
particolarmente  incisiva,  che  consenta  un  efficace  e  immediato
controllo sull'esercizio  del  potere  anche  da  parte  del  giudice
ordinario, senza che cio' impedisca al  giudice  amministrativo,  ove
venga a conoscere dei medesimi atti,  di  procedere  all'annullamento
degli stessi, con l'efficacia erga omnes che gli e' propria (si veda,
per esempio, Consiglio di Stato, sezione  quinta,  sentenza  6  marzo
2023, n. 2290). 
    Deve particolarmente sottolinearsi - perche' e'  profilo  che  ha
una sua peculiare  rilevanza  negli  odierni  giudizi  -  che  quello
delineato dall'art. 28 del d.lgs. n. 150 del  2011  e'  uno  speciale
giudizio che si  articola  in  un  concorso  di  rimedi  che  possono
svolgersi anche in piu' momenti successivi. 
    In  un  primo  momento,  il  giudice  ordinario  e'  chiamato  ad
accertare il carattere  discriminatorio  o  meno  del  comportamento,
della condotta o dell'atto  all'origine  della  discriminazione,  cui
puo'  conseguire  la  condanna  al   risarcimento   del   danno   non
patrimoniale,  oltre  che  l'ordine  di  cessazione  della   medesima
discriminazione e l'adozione di provvedimenti tesi a  rimuoverne  gli
effetti. 
    In aggiunta  a  tali  rimedi,  che  riguardano  precipuamente  la
lesione attuale e immediata del  fatto  discriminatorio,  il  giudice
puo'  ordinare  l'adozione   di   un   piano   di   rimozione   delle
discriminazioni accertate, volto a impedire in futuro il ripetersi  e
il rinnovarsi di quelle stesse discriminazioni non solo nei confronti
dei soggetti che hanno agito in giudizio, ma anche di qualsiasi altro
soggetto che potrebbe potenzialmente esserne vittima. Non a caso,  il
legislatore ha  previsto  che  siano  legittimati  ad  agire  per  il
riconoscimento  della  sussistenza  di  una   discriminazione,   come
dimostrano peraltro  le  stesse  vicende  all'origine  degli  odierni
giudizi costituzionali, anche «le associazioni e gli enti inseriti in
un apposito elenco approvato con decreto del Ministro  del  lavoro  e
delle politiche sociali e del Ministro per le  pari  opportunita'  ed
individuati  sulla  base  delle  finalita'  programmatiche  e   della
continuita' dell'azione» (art. 5, comma 1,  del  d.lgs.  n.  215  del
2003). 
    Il giudice ordinario e' chiamato, cosi', ad agire anche in ottica
preventiva, incidendo sul fattore - sia esso un  comportamento  o  un
atto  -  generativo  delle  discriminazioni  che,  ove  non  rimosso,
potrebbe ingenerarne altre eguali, parimenti ingiustificate. 
    7.-  Tutto  cio'  premesso  e  considerato,  conviene   esaminare
dapprima il merito  del  conflitto  di  attribuzione  proposto  dalla
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. 
    7.1.- Nel giudizio da cui trae origine il conflitto, il Tribunale
di  Udine  ha  parzialmente  accolto  l'azione   civile   contro   la
discriminazione per motivi di nazionalita' promossa da  un  cittadino
italiano e dalla coniuge albanese, titolare di permesso di  soggiorno
per soggiornanti di lungo periodo, i quali si  sono  visti  rifiutare
l'erogazione del contributo per l'acquisto dell'alloggio da destinare
a prima casa previsto dalla legislazione regionale, in ragione  della
mancata  produzione  della  documentazione  attestante  che  tutti  i
componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi
nel Paese di origine e nel Paese di provenienza. 
    L'adito giudice civile ha accertato che le  norme  legislative  e
regolamentari  alla  base  dell'opposto  rifiuto  all'erogazione  del
contributo  sono  discriminatorie,  in  quanto  non   consentono   ai
cittadini extra UE di avvalersi, per attestare l'impossidenza, di una
dichiarazione sostitutiva ai sensi del d.P.R. n. 445 del  2000,  come
invece possono fare i cittadini italiani e i cittadini UE. 
    Ritenendo che dette norme siano in contrasto con l'art. 11  della
direttiva 2003/109/CE, il Tribunale di Udine ha ritenuto di non  dare
loro applicazione e, conseguentemente, per un verso ha  disposto  che
la domanda dei ricorrenti sia valutata  «come  se  la  documentazione
attestante l'impossidenza di altri immobili fosse stata  regolarmente
prodotta in  base  agli  stessi  criteri  valevoli  per  i  cittadini
comunitari» e, per un altro, ha ordinato alla  Regione  autonoma,  al
fine di evitare la ripetizione della discriminazione,  di  modificare
il  regolamento  regionale  e  ha  previsto  un  apparato  coercitivo
sanzionatorio conseguente a tale ordine di modifica. 
    7.2.-  Oggetto  del  conflitto  e'  precisamente  questo  secondo
versante dell'ordinanza  impugnata.  La  Regione  autonoma,  infatti,
contesta non gia' la decisione nella parte  in  cui  non  applica  le
norme regionali ritenute in contrasto con il diritto  UE,  bensi'  la
pretesa del Tribunale di Udine di ordinare alla Regione  la  modifica
dell'art. 12, comma 3-bis, del  regolamento  regionale  n.  0144  del
2016; pretesa che, priva di fondamento normativo ed esorbitando dalla
funzione  giurisdizionale,  avrebbe  menomato  plurime   attribuzioni
regionali. 
    7.2.1.- Il conflitto, nei termini anzidetti, non e' fondato. 
    7.2.2.- Si e' gia' detto di come,  nell'ambito  del  giudizio  ex
art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011, il giudice ordinario  possa  disporre
«la  cessazione  del  comportamento,  della  condotta   o   dell'atto
discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della
pubblica  amministrazione,  ogni   altro   provvedimento   idoneo   a
rimuoverne gli effetti» (comma 5): in una cosi' ampia dizione,  volta
a  efficacemente  reprimere  condotte  discriminatorie   lesive   del
principio d'eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., rientra anche,  come
emerge pure dalla giurisprudenza di merito sul punto,  il  potere  di
ordinare la  rimozione  di  norme  regolamentari  quando  esse  siano
discriminatorie e, tanto piu', quando esse siano causa  di  ulteriori
atti o condotte discriminatorie. 
    Non a caso, come si e' gia' visto,  la  disposizione  legislativa
prevede  che  il  giudice,  oltre  a  ordinare  la  cessazione  della
discriminazione e adottare ogni provvedimento idoneo a rimuoverne gli
effetti, possa ordinare l'adozione  di  un  piano  che  impedisca  il
ripetersi della discriminazione. Quando la  condotta  discriminatoria
della pubblica amministrazione  sia  originata  non  da  un  puntuale
provvedimento amministrativo, ma da un atto regolamentare destinato a
essere applicato un numero indefinito  di  volte,  l'unico  modo  per
efficacemente impedire la ripetizione della discriminazione non  puo'
che essere quello di ordinare la rimozione della norma regolamentare.
Ove cosi' non fosse, il giudice ordinario potrebbe di volta in  volta
ordinare alla  pubblica  amministrazione  la  cessazione  di  singole
condotte discriminatorie, senza pero' nulla poter disporre in  ordine
alla norma regolamentare che e' origine e causa delle discriminazioni
accertate e che alimenta  il  contenzioso.  La  logica  sottesa  alla
scelta compiuta dal legislatore con l'art. 28, comma 5, del d.lgs. n.
150 del 2011 e', invece, del tutto  opposta:  consentire  al  giudice
ordinario,  accertato  il  carattere  discriminatorio   della   norma
regolamentare, di ordinarne la rimozione,  poiche'  altrimenti  essa,
per  la  sua   naturale   capacita'   di   condizionare   l'esercizio
dell'attivita'  amministrativa,  potra'  determinare  l'insorgere  di
ulteriori e indefinite discriminazioni identiche o analoghe a  quelle
sanzionate in giudizio. 
    E' erroneo, dunque,  il  presupposto  da  cui  muove  la  Regione
ricorrente, secondo cui il giudice ordinario non  potrebbe  ordinare,
nell'ambito del giudizio antidiscriminatorio di cui all'art.  28  del
d.lgs.  n.  150  del  2011,  la  rimozione  di  norme   regolamentari
discriminatorie: di qui, la non fondatezza  del  ricorso,  nella  sua
prospettazione principale. 
    7.3.- La Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia  osserva  che,
anche  ad  ammettere  che  il  giudice  ordinario  possa  imporre  la
rimozione di una norma regolamentare, tale potere verrebbe a  mancare
quando, come nel caso di specie, la norma regolamentare in  questione
sia  sostanzialmente  riproduttiva  di  una  norma  legislativa.   Il
Tribunale   di   Udine,   secondo   questa    parzialmente    diversa
prospettazione,   avrebbe   allora    esorbitato    dalla    funzione
giurisdizionale in quanto avrebbe ordinato alla Regione  autonoma  di
esercitare i propri  poteri  normativi  regolamentari  in  violazione
della legge, in contrasto, in particolare, con  quanto  previsto  dal
principio di legalita' di cui all'art. 97 Cost. e  dal  principio  di
supremazia della legge regionale sul regolamento regionale (art. 117,
sesto comma, Cost.). 
    Il  ricorrente  chiede  pertanto,  in  via  subordinata,  che  si
dichiari che non spettava al Tribunale di Udine adottare  l'impugnata
ordinanza «senza aver prima chiesto  ed  ottenuto  da  codesta  Corte
costituzionale  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 29, comma 1-bis, della legge regionale n. 1 del 2016». 
    7.3.1.- In questi diversi termini, il conflitto  di  attribuzione
e' fondato. 
    7.3.2.- Con la predisposizione del  giudizio  antidiscriminatorio
di cui all'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, il  legislatore,  come
si e' poc'anzi detto, ha inteso fornire  protezione  al  fondamentale
diritto a non subire discriminazioni  per  tutte  le  volte  che,  in
ragione di condotte, comportamenti o atti posti in essere da  privati
o  dalla  pubblica  amministrazione,  tale  diritto  venga  leso.  Il
presupposto su cui si fonda il giudizio antidiscriminatorio  -  e  il
correlato potere del giudice ordinario di  disporre,  nei  vari  modi
possibili, la cessazione della discriminazione -  e'  dunque  che  la
condotta discriminatoria sia direttamente imputabile al privato o, ed
e' il profilo che qui rileva, alla pubblica amministrazione. 
    Nel caso  in  cui,  invece,  la  discriminazione  compiuta  dalla
pubblica amministrazione trovi origine  nella  legge,  in  quanto  e'
quest'ultima a imporre, senza alternative, quella specifica condotta,
allora  l'attivita'  discriminatoria  e'  ascrivibile  alla  pubblica
amministrazione soltanto in via mediata, in quanto alla radice  delle
scelte amministrative che si e' accertato essere discriminatorie sta,
appunto, la legge: e' quanto accade nel caso di  specie,  ove  l'art.
12, comma 3-bis, del  regolamento  regionale  n.  0144  del  2016  e'
sostanzialmente riproduttivo dell'art. 29, comma 1-bis,  della  legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016. 
    In evenienze del genere, il giudice  ordinario  non  puo'  allora
ordinare la modifica di norme regolamentari che siano riproduttive di
norme   legislative,   in   quanto    ordinerebbe    alla    pubblica
amministrazione di adottare atti regolamentari  confliggenti  con  la
legge non rimossa. L'esercizio di  un  siffatto  potere  e',  dunque,
subordinato all'accoglimento da parte di questa Corte della questione
di legittimita' costituzionale sulla norma legislativa che il giudice
ritenga  essere  causa   della   natura   discriminatoria   dell'atto
regolamentare. 
    7.3.3.- Il peculiare carattere del  giudizio  antidiscriminatorio
fa si' che i termini  non  cambino  significativamente  quando,  come
accaduto nel caso di specie, il  giudice  ordinario  ritenga  che  le
norme legislative e regolamentari  siano  in  contrasto  (anche)  con
norme del diritto dell'Unione europea dotate  di  efficacia  diretta,
cui e' tenuto a dare immediata applicazione. 
    La primazia del diritto UE - costantemente riconosciuta da questa
Corte  quale  «architrave  su  cui  poggia  la  comunita'  di   corti
nazionali» (sentenza n. 67  del  2022)  -  richiede  che  il  giudice
nazionale, quando ritenga  la  normativa  interna  incompatibile  con
normativa  dell'Unione  europea   a   efficacia   diretta,   provveda
immediatamente all'applicazione di quest'ultima,  senza  che  la  sua
sfera di efficacia possa essere intaccata dalla  prima  (sentenza  n.
170 del 1984). Cio', ovviamente, sempre che non ritenga di  sollevare
questione  di  legittimita'  costituzionale,  nel  caso  in  cui   ne
ricorrano i presupposti che questa Corte ha precisato a partire dalla
sentenza n. 269 del 2017 (v. poi, tra le molte, sentenze n.  149,  n.
67 e n. 54 del 2022, n. 182 e n. 49 del 2021, n. 63 e n. 20 del 2019;
ordinanza n. 182 del 2020). 
    In particolare, nell'ambito del giudizio ex art. 28 del d.lgs. n.
150 del  2011,  la  primaute'  e'  garantita  dal  giudice  ordinario
innanzitutto  allorche'  e'   chiamato   ad   accertare   l'esistenza
dell'asserita discriminazione. E' in questo momento del giudizio  che
egli, ove accerti che la condotta per cui e' causa  trova  fondamento
in atti normativi incompatibili con normativa dell'Unione  europea  a
efficacia diretta, da' immediata applicazione a quest'ultima e ordina
la cessazione della discriminazione. 
    Nel giudizio  dinanzi  al  Tribunale  di  Udine,  il  giudice  ha
ritenuto, per l'appunto, che fosse discriminatoria e in contrasto con
l'art.  11  della  direttiva  2003/109/CE  l'impossibilita'   per   i
ricorrenti di avvalersi, per attestare l'impossidenza di immobili, di
una dichiarazione sostitutiva ai sensi del d.P.R. n.  445  del  2000.
Conseguentemente, e correttamente,  non  ha  applicato  la  normativa
legislativa e regolamentare che prevede detta  impossibilita'  e,  in
diretta applicazione della richiamata normativa europea, ha  ordinato
di  valutare  la  domanda  dei  ricorrenti  -  volta  a  ottenere  il
contributo per l'acquisto dell'alloggio da destinare a prima  casa  -
«come  se  la  documentazione  attestante  l'impossidenza  di   altri
immobili fosse  stata  regolarmente  prodotta  in  base  agli  stessi
criteri valevoli per i cittadini comunitari». E'  in  questo  momento
del giudizio che il Tribunale di Udine, adottando il predetto ordine,
ha a pieno garantito i principi del primato  e  dell'effetto  diretto
del diritto dell'Unione europea. 
    L'impartito ordine di  rimuovere  l'art.  12,  comma  3-bis,  del
regolamento regionale n. 0144 del 2016, che sostanzialmente riproduce
l'art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia  n.  1
del  2016,  costituisce,  invece,  il  piano   di   rimozione   delle
discriminazioni accertate che il Tribunale di Udine  ha  ritenuto  di
dover  adottare.  Una  volta  attribuito  il  bene  della   vita   ai
ricorrenti, dando piena e immediata attuazione al diritto dell'Unione
europea,  il  giudice  ha  inteso  poi  impedire  il   ripetersi   di
discriminazioni identiche o  analoghe  che  possano  coinvolgere  non
tanto i ricorrenti, ma qualsiasi altro soggetto che  si  trovi  nelle
medesime condizioni. 
    In quest'ambito del giudizio non viene piu' in rilievo l'esigenza
che il diritto dell'Unione europea dotato di efficacia diretta  trovi
immediata applicazione (Corte di giustizia, sentenza 22 giugno  2010,
in cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli), perche'  tale  esigenza
e' stata, appunto, gia' pienamente soddisfatta. Qui viene  in  gioco,
invece, una logica interna all'ordinamento  nazionale  che,  con  una
forma rimediale peculiare e aggiuntiva,  e'  funzionale  a  garantire
un'efficace rimozione, anche pro futuro,  della  discriminazione:  il
che peraltro, quando sia stata rilevata  un'incompatibilita'  con  il
diritto dell'Unione europea, fa dell'art. 28 del d.lgs.  n.  150  del
2011 uno strumento che garantisce anche  l'uniforme  applicazione  di
tale diritto e che contribuisce alla «costruzione  di  tutele  sempre
piu' integrate» (sentenza n. 67 del 2022). 
    In   quest'ottica,   laddove   la   norma    regolamentare    sia
sostanzialmente  riproduttiva  di  norma  legislativa,  ordinarne  la
rimozione  implica  che  sia  sollevata  questione  di   legittimita'
costituzionale sulla seconda. La non applicazione per  contrasto  con
il diritto dell'Unione europea a efficacia diretta -  necessaria  per
l'attribuzione immediata  del  bene  della  vita  negato  sulla  base
dell'accertata discriminazione  -  non  rimuove,  infatti,  la  legge
dall'ordinamento con immediata efficacia  erga  omnes,  ma  impedisce
soltanto «che tale norma venga in rilievo per  la  definizione  della
controversia innanzi al  giudice  nazionale»  (sentenza  n.  170  del
1984). L'ordine di rimozione della norma regolamentare - che proietta
i suoi effetti, per espressa  scelta  del  legislatore  compiuta  con
l'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, oltre il caso che ha  originato
il  giudizio  antidiscriminatorio  -  richiede,   allora,   che   sia
dichiarata l'illegittimita' costituzionale  della  legge,  la  quale,
ancorche'  non  applicata  nel  caso  concreto,  e'  ancora  vigente,
efficace  e,  sia  pure  in  ipotesi  erroneamente,  suscettibile  di
applicazione da parte della pubblica amministrazione o anche di altri
giudici che ne valutino diversamente la compatibilita' con il diritto
dell'Unione europea. 
    Sono, dunque, tanto l'ordinato funzionamento  del  sistema  delle
fonti  interne  -  e,  nello  specifico,  i  rapporti  tra  legge   e
regolamento regionali, anche  in  relazione  al  diritto  dell'Unione
europea  -  quanto  l'esigenza  che  i  piani  di   rimozione   della
discriminazione siano efficaci a richiedere che il giudice ordinario,
se  correttamente  intenda  ordinare  la  rimozione  di   una   norma
regolamentare al fine di evitare il riprodursi della  discriminazione
de futuro, sollevi questione  di  legittimita'  costituzionale  sulla
norma legislativa sostanzialmente riprodotta dall'atto regolamentare,
anche dopo che si sia accertata  l'incompatibilita'  di  dette  norme
interne con norme di diritto  dell'Unione  europea  aventi  efficacia
diretta. 
    In  relazione  al  conflitto  di  attribuzione  tra   enti   deve
concludersi,  pertanto,  che  non  spettava  al  Tribunale  di  Udine
ordinare la rimozione dell'art.  12,  comma  3-bis,  del  regolamento
regionale n. 0144 del 2016 (punto 2  del  dispositivo  dell'ordinanza
impugnata), senza prima  aver  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale  sull'art.  29,  comma   1-bis,   della   legge   reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016; ne', conseguentemente,  spettava
al medesimo Tribunale adottare  l'apparato  coercitivo  sanzionatorio
conseguente al suddetto ordine di rimozione (punti 3,  7  e  8  della
medesima ordinanza). Il provvedimento del Tribunale di  Udine,  nelle
parti impugnate, va pertanto annullato. 
    7.4.- L'accoglimento del ricorso in  relazione  al  principio  di
legalita' (art. 97 Cost.) e al  criterio  gerarchico  che  informa  i
rapporti tra legge e regolamento regionali (art.  117,  sesto  comma,
Cost.) comporta l'assorbimento dei motivi  proposti  con  riferimento
agli artt. 4, 5 e 6 dello statuto speciale, agli artt. 101, 113, 117,
commi terzo, quarto e quinto, 120, secondo comma, 134  e  136  Cost.,
nonche' all'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. 
    8.- Il giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale
introdotto dall'ordinanza in epigrafe del Tribunale di Udine risponde
precisamente a quanto si e' sinora affermato in merito  al  conflitto
di attribuzione. 
    Vanno ulteriormente illustrate, peraltro, le ragioni per cui  non
possono nutrirsi dubbi sull'ammissibilita' delle sollevate  questioni
di  legittimita'  costituzionale,  nonostante  il   giudice   a   quo
espressamente affermi che la direttiva  2003/109/CE  «sia  dotata  di
tutti i requisiti che la  giurisprudenza  della  Corte  di  Giustizia
ritiene necessari per ammettere la produzione di effetti  diretti  da
parte di tale fonte del diritto comunitario, ovvero  i  requisiti  di
sufficiente precisione ed incondizionatezza». 
    8.1.- A tale direttiva - e, in particolare, al suo art. 11  -  il
giudice  rimettente,  infatti,  ha  gia'  assicurato  attuazione  con
l'accordare ai  ricorrenti  il  bene  della  vita,  a  tal  fine  non
applicando,  perche'  appunto  incompatibili  con  la  direttiva,  il
censurato art. 29,  comma  1-bis,  della  legge  reg.  Friuli-Venezia
Giulia n. 1 del  2016,  nonche'  l'art.  9,  commi  3  e  3-bis,  del
regolamento regionale n.  066  del  2020.  Tutto  cio',  al  fine  di
condannare la resistente  pubblica  amministrazione  alla  cessazione
della condotta discriminatoria contestata in giudizio e  di  adottare
la  connessa  disposizione  che  i  ricorrenti  cittadini  extra   UE
soggiornanti di lungo periodo, al fine  del  loro  inserimento  nelle
graduatorie   relative   alla   concessione   del   contributo    per
l'abbattimento  del  canone  di  locazione  corrisposto   nel   2021,
potessero presentare la stessa documentazione che possono  presentare
cittadini italiani e UE. 
    Il Tribunale di Udine, pertanto, ha gia' dato piena  e  immediata
attuazione  al  diritto  dell'Unione  europea,   apprestando   tutela
immediata ai diritti dei ricorrenti, sul piano del conseguimento  del
bene della vita. 
    8.2.-  La  questione  di  legittimita'  costituzionale  nasce  in
relazione alla domanda con cui le parti  hanno  chiesto  di  ordinare
alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia - al fine di impedire  in
futuro la ripetizione delle discriminazioni accertate - la  rimozione
dell'art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale  n.  066  del
2020. E' in  relazione  a  tale  domanda,  sulla  quale  deve  ancora
pronunciarsi, che il Tribunale di Udine solleva le odierne  questioni
di legittimita'  costituzionale:  volendo  avvalersi  del  potere  di
rimuovere il fattore genetico  della  discriminazione,  nel  caso  di
specie individuato non solo nelle richiamate norme regolamentari,  ma
anche - e prima ancora - nella norma legislativa, il  giudice  a  quo
correttamente censura  l'art.  29,  comma  1-bis,  della  legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, che il citato art. 9, commi 3  e
3-bis, del regolamento regionale  n.  066  del  2020  sostanzialmente
riproduce, in quanto la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale
consentira' che sia emesso «un ordine di modifica del Regolamento che
eviti anche pro futuro un contenzioso ormai  nutrito»  nel  distretto
giudiziario. 
    Al primato del diritto dell'Unione europea, fatto  immediatamente
valere allorche' e' stata accertata la discriminazione, viene  dunque
ad aggiungersi, come gia' si e'  rilevato,  uno  strumento  rimediale
interno volto a impedire il rinnovarsi di detta  discriminazione.  Le
peculiari caratteristiche del giudizio ex art. 28 del d.lgs.  n.  150
del 2011 consentono, cosi', la convivenza tra il meccanismo della non
applicazione della normativa interna  incompatibile  con  il  diritto
dell'Unione europea  e  lo  strumento  del  controllo  accentrato  di
legittimita' costituzionale,  in  relazione  a  parametri  interni  o
sovranazionali, sulla medesima normativa  interna,  che  ne  consente
l'eliminazione dall'ordinamento con effetti erga omnes  (sentenza  n.
63 del 2019), in attuazione «del principio  che  situa  il  sindacato
accentrato   di   costituzionalita'   delle   leggi   a    fondamento
dell'architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» (sentenza  n.  269
del 2017): cio' a dimostrazione,  una  volta  di  piu',  di  come  il
controllo di compatibilita' con il diritto dell'Unione europea  e  lo
scrutinio   di   legittimita'    costituzionale    non    siano    in
contrapposizione tra loro, ma costituiscano «un  concorso  di  rimedi
giurisdizionali, [il quale] arricchisce gli strumenti di  tutela  dei
diritti fondamentali e, per definizione,  esclude  ogni  preclusione»
(sentenza n. 20 del 2019). E cio' in un contesto «che vede  tanto  il
giudice comune quanto questa Corte impegnati  a  dare  attuazione  al
diritto dell'Unione europea nell'ordinamento italiano, ciascuno con i
propri strumenti e ciascuno nell'ambito delle rispettive  competenze»
(sentenza n. 149 del 2022). 
    La dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della  normativa
interna, del resto, offre un  surplus  di  garanzia  al  primato  del
diritto dell'Unione europea, sotto il profilo della certezza e  della
sua uniforme applicazione. Fermo restando, infatti,  che  all'obbligo
di applicare le disposizioni dotate di effetti diretti sono  soggetti
non solo tutti i giudici, ma anche la stessa pubblica amministrazione
- sicche' ove vi sia una normativa interna  incompatibile  con  dette
disposizioni essa non  deve  trovare  applicazione  -  puo'  altresi'
verificarsi che, per mancata contezza della predetta incompatibilita'
o in ragione di approdi ermeneutici che la  ritengano  insussistente,
le norme interne continuino a essere utilizzate e applicate.  Proprio
per evitare tale evenienza, e fermi  restando  ovviamente  gli  altri
rimedi che l'ordinamento  conosce  per  l'uniforme  applicazione  del
diritto  quando   cio'   accada,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale offre la possibilita', ove ne ricorrano i presupposti,
di  addivenire  alla  rimozione  dall'ordinamento,  con   l'efficacia
vincolante propria delle sentenze di accoglimento,  di  quelle  norme
che siano in contrasto con il diritto dell'Unione europea. 
    8.3.- Va  da  se'  che,  prima  di  dare  attuazione  al  diritto
dell'Unione  europea,  il  giudice   ordinario   deve   adeguatamente
interrogarsi  sul  significato  normativo  del  diritto  UE  e  sulla
compatibilita' con il medesimo del diritto interno. 
    Il principio del primato del  diritto  dell'Unione  discende  dal
principio dell'eguaglianza degli Stati  membri  davanti  ai  Trattati
(art. 4 del Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea),  che
esclude la possibilita' di fare prevalere, contro l'ordine  giuridico
dell'Unione, una misura unilaterale di uno  Stato  membro  (Corte  di
giustizia,  sentenza  22  febbraio  2022,  in  causa  C-430/21,  RS).
L'obbligo di dare applicazione  al  diritto  dell'Unione,  quando  ne
ricorrono i presupposti, implica che esso sia  interpretato  in  modo
uniforme in tutti gli Stati membri. 
    La corretta applicazione e l'interpretazione uniforme del diritto
UE sono garantiti dalla Corte di giustizia, cui i  giudici  nazionali
possono rivolgersi attraverso il rinvio  pregiudiziale  ex  art.  267
TFUE, cosi' cooperando direttamente  con  la  funzione  affidata  dai
Trattati alla Corte (Corte di giustizia,  parere  1/09  dell'8  marzo
2011, recante «Accordo relativo alla creazione di un sistema unico di
risoluzione  delle  controversie  in  materia   di   brevetti»).   E'
nell'ambito di questo confronto che la Corte  di  giustizia  instaura
con i giudici nazionali, in quanto incaricati  dell'applicazione  del
diritto dell'Unione, che  essa  fornisce  l'interpretazione  di  tale
diritto, allorche' la sua applicazione sia necessaria per dirimere la
controversia sottoposta al loro esame (Corte di giustizia, sentenza 9
settembre 2015, in causa C-160/14, Ferreira da Silva e Brito e altri;
sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A.S. e M. B.). 
    La necessita' di rivolgersi alla  Corte  di  giustizia  ai  sensi
dell'art. 267 TFUE, che costituisce un obbligo  in  capo  ai  giudici
nazionali  di  ultima  istanza,  viene  tuttavia  meno,  secondo   la
giurisprudenza della stessa Corte, non solo quando la  questione  non
sia rilevante o quando la disposizione di diritto dell'Unione di  cui
trattasi sia stata gia' oggetto di  interpretazione  da  parte  della
Corte, ma anche in tutti i casi in cui  la  corretta  interpretazione
del diritto dell'Unione si impone con tale evidenza da  non  lasciare
adito a ragionevoli dubbi (Corte di  giustizia,  sentenze  6  ottobre
2021, in causa C-561/19, Consorzio  Italian  Management  e  altri;  6
ottobre 1982, in causa C-283/81, Cilfit e altri). 
    9.-  Tutto  cio'   premesso,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata sull'art. 29, comma 1-bis, della legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, in riferimento agli  artt.  3  e
117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  11,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, e' fondata. 
    Il Tribunale di Udine, come si e' in precedenza  rilevato  (punto
5.8.1.),  ritiene  la   disposizione   censurata   costituzionalmente
illegittima  nella  parte  in  cui  stabilisce  che  l'ivi   prevista
documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare
non sono proprietari di altri alloggi nel  Paese  di  origine  e  nel
Paese  di  provenienza  -  documentazione  richiesta  per  dimostrare
l'impossidenza di altri alloggi, ai  sensi  dell'art.  29,  comma  1,
lettera d), della medesima legge regionale - debba essere  presentata
dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo  periodo  con  modalita'
diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE. 
    9.1.- Questa Corte, in relazione a norma analoga a quella oggetto
dell'odierna questione di legittimita' costituzionale, ha gia'  avuto
modo di osservare che  un  siffatto  onere  documentale  «risulta  in
radice irragionevole innanzitutto per la palese irrilevanza e per  la
pretestuosita' del requisito che mira a dimostrare»  (sentenza  n.  9
del 2021). 
    Quando, come  nel  caso  di  specie,  obiettivo  del  legislatore
regionale  e'   riconoscere   «il   valore   primario   del   diritto
all'abitazione quale fattore fondamentale di inclusione, di  coesione
sociale e di qualita' della vita» (art. 1, comma 1, della legge  reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016) e a tal fine sostiene «l'accesso
a un alloggio adeguato, in locazione o in proprieta' come prima  casa
ai cittadini della Regione, in particolare alle  fasce  deboli  della
popolazione» (art. 1, comma 2, della medesima legge  regionale),  «il
possesso da parte di uno dei  componenti  del  nucleo  familiare  del
richiedente di un  alloggio  adeguato  nel  Paese  di  origine  o  di
provenienza non appare sotto alcun profilo rilevante. Non lo e' sotto
il   profilo   dell'indicazione   del   bisogno,   giacche',   intesa
l'espressione "alloggio adeguato" come alloggio idoneo a ospitare  il
richiedente e il suo nucleo familiare, e' evidente che la circostanza
che qualcuno del medesimo nucleo familiare  possegga,  nel  Paese  di
provenienza,  un  alloggio  siffatto   non   dimostra   nulla   circa
l'effettivo bisogno di un alloggio in  Italia»  (sentenza  n.  9  del
2021). Non  e',  inoltre,  neppure  un  indicatore  della  situazione
patrimoniale del richiedente, peraltro  gia'  considerata,  ai  sensi
dell'art. 29, comma 1, lettera b, della  legge  regionale  n.  1  del
2016,  dal  necessario  «possesso  di  determinati  indicatori  della
situazione economica» di cui al d.P.C.m. n. 159 del 2013. 
    Nella medesima occasione, si e' altresi' rilevato che  una  norma
del genere e' anche discriminatoria «solo che si consideri  il  fatto
che le asserite difficolta' di verifica del possesso  di  alloggi  in
Paesi extraeuropei possono riguardare anche cittadini italiani  o  di
altri Paesi dell'Unione europea» (sentenza  n.  9  del  2021).  Essa,
pertanto, pone in essere «un aggravio procedimentale che  si  risolve
in uno di quegli "ostacoli  di  ordine  pratico  e  burocratico"  che
questa Corte ha ripetutamente censurato, ritenendo che in questo modo
il legislatore (statale o regionale) discrimini alcune  categorie  di
individui (sentenze n. 186 del 2020  e  n.  254  del  2019)»  (ancora
sentenza n. 9 del 2021; in termini analoghi, in riferimento ad  altro
onere documentale, sentenza n. 157 del 2021). 
    9.2.- L'onere documentale di cui alla disposizione censurata  e',
d'altra parte, manifestamente  in  contrasto  anche  con  l'art.  11,
paragrafo 1, lettera d),  della  direttiva  2003/109/CE,  nell'ambito
della cui attuazione «gli Stati membri devono rispettare i diritti  e
osservare  i  principi  previsti  dalla  Carta,  segnatamente  quelli
enunciati  dall'articolo  34   di   quest'ultima.   Conformemente   a
quest'ultimo articolo,  l'Unione  riconosce  e  rispetta  il  diritto
all'assistenza  sociale  e  all'assistenza  abitativa   destinate   a
garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di
risorse sufficienti» (Corte di giustizia, sentenza 10 giugno 2021, in
causa C-94/20, Land Oberösterreich). 
    A tale direttiva l'Italia  ha  dato  attuazione  con  il  decreto
legislativo n.  3  del  2007,  senza  avvalersi  della  possibilita',
prevista dall'art. 11, paragrafo  4,  della  direttiva  indicata,  di
limitare la  parita'  di  trattamento  alle  prestazioni  essenziali:
deroga, questa, cui puo' ricorrersi, secondo la Corte  di  giustizia,
unicamente quando lo Stato membro  esprima  chiaramente  la  relativa
intenzione (Corte di giustizia, sentenza 24  aprile  2012,  in  causa
C-571/10, Kamberaj). L'art. 1, comma 1, lettera a), di  tale  decreto
ha sostituito l'art. 9 del d.lgs. n.  286  del  1998,  che  detta  la
disciplina concernente il «Permesso di soggiorno CE per  soggiornanti
di  lungo  periodo».  Il  comma  12  di  detto  art.  9  prevede,  in
particolare, che  il  titolare  del  permesso  di  soggiorno  CE  per
soggiornanti di lungo periodo puo' «c) usufruire delle prestazioni di
assistenza sociale, di previdenza  sociale,  di  quelle  relative  ad
erogazioni in materia sanitaria,  scolastica  e  sociale,  di  quelle
relative all'accesso a beni e servizi a  disposizione  del  pubblico,
compreso l'accesso alla procedura per  l'ottenimento  di  alloggi  di
edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e
sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello  straniero  sul
territorio nazionale». 
    La legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nel prevedere,
tra le altre azioni attuative del programma di  politiche  abitative,
quella di sostegno alle locazioni (art. 19),  offre  una  prestazione
essenziale ai  sensi  dell'art.  11,  paragrafo  4,  della  direttiva
2003/109/CE, in quanto essa e' «destinata a consentire a persone  che
non dispongono di risorse sufficienti  di  far  fronte  alle  proprie
esigenze abitative, in modo da garantire loro un'esistenza dignitosa»
(Corte di giustizia UE, in causa C-94/20). Non v'e'  dubbio,  allora,
che si tratti di prestazione che deve essere assicurata ai  cittadini
di paesi terzi soggiornanti di lungo  periodo  «consentendo  loro  di
alloggiare  adeguatamente,  senza  impegnare  nella  casa  una  parte
eccessiva  dei  loro   redditi,   a   scapito,   eventualmente,   del
soddisfacimento di altre  necessita'  elementari»  (ancora  Corte  di
giustizia UE, in causa C-94/20). La disposizione  censurata,  ponendo
in capo ai cittadini di paesi terzi titolari  di  permesso  di  lungo
soggiorno oneri documentali diversi rispetto a  quelli  previsti  per
cittadini  italiani  e  UE,  impedisce  allora  a  tali  soggetti  di
«ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste  per
i cittadini dello Stato membro»  (sentenza  n.  67  del  2022),  come
imposto invece dall'art. 11 della direttiva 2003/109/CE. 
    9.3.- In ragione di quanto detto, va dichiarata  l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  29,  comma   1-bis,   della   legge   reg.
Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nella parte in cui  prevede  che
l'ivi prevista documentazione attestante che tutti i  componenti  del
nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel  Paese  di
origine e nel Paese di provenienza  -  documentazione  richiesta  per
dimostrare l'impossidenza di altri alloggi, ai  sensi  dell'art.  29,
comma 1, lettera d), della medesima legge regionale  -  debba  essere
presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo  periodo  con
modalita'  diverse  rispetto  a  quelle  utilizzabili  dai  cittadini
italiani e UE. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art.  29,  comma
1-bis, della legge della Regione Friuli-Venezia  Giulia  19  febbraio
2016, n. 1 (Riforma organica delle  politiche  abitative  e  riordino
delle Ater),  nella  parte  in  cui  stabilisce  che  l'ivi  prevista
documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare
non sono proprietari di altri alloggi nel  Paese  di  origine  e  nel
Paese  di  provenienza  -  documentazione  richiesta  per  dimostrare
l'impossidenza di altri alloggi, ai  sensi  dell'art.  29,  comma  1,
lettera d), della medesima legge regionale - debba essere  presentata
dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo  periodo  con  modalita'
diverse rispetto a  quelle  utilizzabili  dai  cittadini  italiani  e
dell'Unione europea; 
    2) dichiara che non spettava al Tribunale ordinario di Udine,  in
funzione di giudice del lavoro, ordinare la rimozione  dell'art.  12,
comma 3-bis, del decreto del Presidente della Regione  Friuli-Venezia
Giulia 13 luglio 2016, n. 0144, recante  «Regolamento  di  esecuzione
per la disciplina degli incentivi di edilizia agevolata a favore  dei
privati cittadini, a sostegno dell'acquisizione  o  del  recupero  di
alloggi da destinare a prima casa di abitazione di  cui  all'articolo
18 della legge regionale 19 febbraio 2016,  n.  1  (Riforma  organica
delle politiche abitative  e  riordino  delle  Ater)»  (punto  2  del
dispositivo dell'ordinanza 31  gennaio-1°  febbraio  2023,  resa  nel
procedimento R.G. 358/2022), senza prima aver sollevato questione  di
legittimita' costituzionale sull'art. 29, comma  1-bis,  della  legge
reg. Friuli-Venezia Giulia n.  1  del  2016;  ne',  conseguentemente,
spettava  al  medesimo  Tribunale  adottare   l'apparato   coercitivo
sanzionatorio conseguente al suddetto ordine di rimozione (punti 3, 7
e 8 del dispositivo della medesima ordinanza); 
    3) annulla per l'effetto l'ordinanza 31 gennaio-1° febbraio  2023
del Tribunale ordinario di Udine, in funzione di giudice del  lavoro,
resa nel procedimento R.G. 358/2022, limitatamente ai punti 2, 3, 7 e
8 del dispositivo. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 novembre 2023. 
 
                                F.to: 
                 Augusto Antonio BARBERA, Presidente 
                  Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore 
                      Valeria EMMA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2024 
 
                           Il Cancelliere 
                         F.to: Valeria EMMA 
 
 
                                                            Allegato: 
                     Ordinanza letta all'udienza del 21 novembre 2023 
 
                              ORDINANZA 
 
    Visti gli atti relativi al giudizio per conflitto di attribuzione
tra  enti  avente  ad  oggetto  l'ordinanza  adottata  dal  Tribunale
ordinario di Udine, sezione lavoro, del 31 gennaio-1° febbraio  2023,
promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia  nei  confronti
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    rilevato l'intervento spiegato in giudizio dell'Associazione  per
gli studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) aps. 
    Considerato che nel giudizio per conflitto  di  attribuzione  tra
enti, di regola, non e' ammesso l'intervento di soggetti  diversi  da
quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi (sentenze
n. 184 e n. 90 del 2022 nonche' relativa ordinanza allegata); 
    che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non puo' tuttavia
escludersi la possibilita' che l'oggetto del conflitto  sia  tale  da
coinvolgere, in modo immediato e diretto,  situazioni  soggettive  di
terzi, il cui pregiudizio o la cui salvaguardia dipendono  dall'esito
del conflitto (da ultimo, sentenza n. 184 del 2022); 
    che, nel caso di specie, ASGI riveste la qualita'  di  parte  del
giudizio definito con l'ordinanza del Tribunale  ordinario  di  Udine
oggetto del presente conflitto di attribuzione; 
    che il giudizio in esame verte sulla spettanza allo Stato e,  per
esso, al predetto Tribunale di Udine del  potere  di  ordinare,  alla
ricorrente Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,  la  rimozione  di
una  norma  del   regolamento   regionale   n.   0144/2016,   recante
«Regolamento di esecuzione  per  la  disciplina  degli  incentivi  di
edilizia  agevolata  a  favore  dei  privati  cittadini,  a  sostegno
dell'acquisizione o del recupero di alloggi da destinare a prima casa
di abitazione  di  cui  all'articolo  18  della  legge  regionale  19
febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica  delle  politiche  abitative  e
riordino delle Ater)»; 
    che tale potere, nel giudizio ex art. 28 del decreto  legislativo
1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari  al  codice  di
procedura civile  in  materia  di  riduzione  e  semplificazione  dei
procedimenti civili di cognizione, ai sensi  dell'articolo  54  della
legge 18 giugno 2009, n. 69), definito con l'ordinanza impugnata,  e'
stato esercitato dal Tribunale di Udine anche su domanda di ASGI; 
    che, pertanto, il presente giudizio e' suscettibile  di  incidere
in maniera immediata e diretta sulla situazione soggettiva  di  ASGI,
la cui domanda e' stata accolta con il provvedimento  giurisdizionale
oggetto del conflitto; 
    che, dunque, deve essere dichiarato ammissibile  l'intervento  di
ASGI, in modo da consentirle di far valere  le  proprie  ragioni  nel
giudizio di fronte a questa Corte. 
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara ammissibile l'intervento dell'Associazione per gli studi
giuridici sull'immigrazione (ASGI) aps nel giudizio per conflitto  di
attribuzione promosso dalla Regione  autonoma  Friuli-Venezia  Giulia
nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
              F.to: Augusto Antonio Barbera, Presidente