N. 68 SENTENZA 20 - 30 giugno 1964

                                  N. 68
                         SENTENZA 20 GIUGNO 1964
                Deposito in cancelleria: 30 giugno 1964.
    Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 169 dell'11 luglio 1964.
                     Pres. AMBROSINI - Rel. PAPALDO
     Sicurezza  pubblica  -  Legge  27  dicembre 1956, n. 1423, art. 2 -
 Ordine di rimpatrio al luogo di residenza senza rimanervi -  Non  viola
 la   liberta'   di   circolazione   e  di  soggiorno  -  Esclusione  di
 illegittimita' costituzionale.
     Liberta' di circolazione e di soggiorno -  Costituzione,  art.  16:
 inciso "in via generale" - Interpretazione.
     Sicurezza  pubblica  -  Legge  27  dicembre 1956, n. 1423, art. 2 -
 Ordine di rimpatrio per le persone socialmente pericolose - Valutazione
 della moralita' e rispettabilita' della persona - Insussistenza  -  Non
 viola  l'art.  3  della  Costituzione  -  Esclusione  di illegittimita'
 costituzionale.
     Liberta' di circolazione e di soggiorno - Limitazioni -  Ordine  di
 rimpatrio - Riserva di giurisdizione - Insussistenza.
     (Costituzione, art. 16).
     Atti  amministrativi  -  Imperativita'  - Preventivo intervento del
 giudice - Esclusione - Tutela giurisdizionale a posteriori.
     (Costituzione, art. 113).
     Dignita' della persona umana - Costituzione, art. 3  -  Atti  della
 pubblica  Amministrazione  da  cui possa derivare una menomazione della
 dignita' o della stimabilita' delle persone - Intervento del giudice  -
 Non  e' sempre necessario. (Costituzione, artt. 3, 25, 27, 101 e segg.;
 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 2).
     Liberta' personale - Degradazione giuridica - Nozione - Fattispecie
 - Ammonizione - Necessario intervento del giudice - Legge  27  dicembre
 1956,   n.   1423,  art.  2  -  Rimpatrio  obbligatorio  delle  persone
 socialmente pericolose - Non implica degradazione o  menomazione  della
 dignita'  umana  -  Limita  solo  la  possibilita' di circolazione e di
 soggiorno - Esclusione di illegittimita' costituzionale.
     (Costituzione, art. 13).
     Sicurezza pubblica - Misure di polizia - Contenuto - Non necessario
 l'intervento del giudice per l'applicazione di sanzioni  non  penali  -
 Competenza  dell'organo  amministrativo  -  Legittimita'  -  Misure  di
 sicurezza - Differenze sostanziali e formali.  (Costituzione, art.  13;
 Codice penale, artt. 199 e 205).
(GU n.169 del 11-7-1964 )
 LA CORTE COSTITUZIONALE
     composta  dai  signori: Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente - Prof.
 GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - Prof.    ANTONINO  PAPALDO  -  Prof.  NICOLA
 JAEGER  -  Prof.   GIOVANNI CASSANDRO - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott.
 ANTONIO MANCA - Prof. ALDO SANDULLI - Prof.  GIUSEPPE  BRANCA  -  Prof.
 MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI -
 Dott.    GIUSEPPE  VERZI'  -  Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof.
 FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Giudici,
     ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge
 27  dicembre  1956,  n.  1423,  contenente  norme  di  prevenzione  nei
 confronti  di  persone  pericolose  per  la  sicurezza  e  la  pubblica
 moralita', promosso con ordinanza emessa il 31 gennaio 1963 dal Pretore
 di Cortina d'Ampezzo nel procedimento penale a carico di  Gollino  Ada,
 iscritta  al  n.  57  del  Registro  ordinanze  1963 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 87 del 30 marzo 1963.
     Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
     udita nell'udienza pubblica del 18  marzo  1964  la  relazione  del
 Giudice Antonino Papaldo;
     udito  il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
 per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     Con ordinanza del 31 gennaio 1963, emessa nel procedimento penale a
 carico di Ada Gollino,  notificata  al  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri  ed  alla  parte, rispettivamente, il 9 ed il 6 febbraio 1963,
 comunicata ai Presidenti delle due Camere  in  data  7  febbraio  dello
 stesso anno, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica, n.
 87  del  30 marzo 1963, il Pretore di Cortina d'Ampezzo ha sollevato la
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  2  della  legge  27
 dicembre  1956,  n. 1423, contenente norme di prevenzione nei confronti
 di persone pericolose per la sicurezza  e  la  pubblica  moralita',  in
 riferimento  agli  artt.  16,  3,  25, terzo comma, e 102, primo comma,
 della Costituzione.
     Nell'ordinanza si osserva che ragioni di  sicurezza  e  di  sanita'
 possono,   a   norma  dell'art.  16  della  Costituzione,  giustificare
 l'allontanamento di una persona da un certo luogo, non invece  l'ordine
 di  portarsi  (pur senza l'obbligo di rimanervi) in altro luogo. I fini
 di prevenzione perseguiti dall'art. 16 citato sarebbero soddisfatti  da
 una  norma  che  consentisse  l'allontanamento  di  una  persona  da un
 determinato luogo; la norma, invece, che prevede l'obbligo di  portarsi
 (senza  rimanervi)  in  altro  luogo,  sembrerebbe  superare tali fini,
 dimostrandosi, rispetto ad essi, incongrua per eccesso.
     La  norma  sarebbe  in  contrasto  anche   con   l'art.   3   della
 Costituzione,  perche'  autorizzerebbe  limitazioni  della  liberta' di
 circolazione e di soggiorno non gia' in relazione a motivi di carattere
 generale ed obiettivo, come richiede l'art. 16 della  Costituzione,  ma
 in  base  a  motivi  ed  a  situazioni  che implicano un giudizio sulla
 personalita' e sul comportamento dei singoli soggetti. Di  conseguenza,
 l'ordine  di rimpatrio, comportando la qualifica di persona socialmente
 pericolosa, inciderebbe sulla dignita' del soggetto.
     Vi sarebbe poi  violazione  del  terzo  comma  dell'art.  25  della
 Costituzione,  in  quanto  il principio della assoluta riserva di legge
 investe non soltanto le misure di sicurezza in senso stretto, ma  anche
 la  piu'  ampia  categoria  delle  misure  di prevenzione, fra le quali
 rientra il rimpatrio con foglio di via obbligatorio.
     Infine,  l'art.  2  sarebbe  in  contrasto  con  l'art.  102  della
 Costituzione,  in  quanto la misura di prevenzione in questione sarebbe
 presa dall'autorita' amministrativa e non da quella giudiziaria e senza
 instaurare un contraddittorio nei confronti del cittadino.
     Il Pretore, premesso che la questione di  costituzionalita',  cosi'
 formulata,  non  e'  stata  presa  in  esame  dalla Corte in precedenti
 occasioni,  ha  sollevato  la   questione   stessa,   ritenendola   non
 manifestamente infondata e rilevante per la decisione della causa.
     La  parte  privata  non  si e' costituita nel giudizio davanti alla
 Corte.  E'  intervenuto,  invece,  il  Presidente  del  Consiglio   dei
 Ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, la quale nelle
 proprie  deduzioni,  depositate  in  cancelleria  il  28 febbraio 1963,
 sostiene che la questione sollevata dal Pretore  di  Cortina  d'Ampezzo
 non e' fondata. E cio' per i seguenti motivi.
     Il  concetto  di  limitazione  della  liberta'  di  soggiorno  e di
 circolazione presuppone, ovviamente, il riferimento  ad  un  luogo  nel
 quale  sia  consentito soggiornare e tale luogo non puo' non essere, in
 astratto, che quello della dimora  abituale  e  cioe'  della  residenza
 della persona.
     Che  da  parte del Questore il rinvio avvenga al luogo di residenza
 e' logico, un  luogo  di  soggiorno  dovendo  pur  essere  riconosciuto
 all'individuo.  Ed  e'  altrettanto  logico  che  la  norma di legge si
 richiami a quel luogo, e non ad un altro, per la  funzione  strumentale
 che  l'istituto  ha,  ai  fini  di  un  controllo  sull'adempimento del
 precetto di non soggiornare in un certo luogo,  ove  ostino  motivi  di
 sicurezza  o  di sanita'. Ma la norma costituzionale, accanto ai limiti
 di soggiorno, prevede anche i limiti di circolazione. Ed e' appunto  in
 questi  limiti  di  circolazione che s'inquadra l'ordine di rientro nel
 luogo  di  residenza,  anche  se  l'obbligo  non  trovi  poi   compiuta
 espressione nel divieto di allontanarvisi.
     L'art. 2 della legge del 1956 non appare eccedere tali limiti.
     E'  da  negarsi  poi  che  sussista  violazione  dell'art.  3 della
 Costituzione.
     Secondo la giurisprudenza della Corte, la violazione del  principio
 di  eguaglianza sussiste quando la norma di legge sia dettata "in odio"
 a certe categorie di persone:  nella specie, cio' non sussiste, perche'
 i limiti di soggiorno e di circolazione sono posti nei confronti  delle
 persone  indicate  nella  legge  del  1956 e ritenute pericolose per la
 sicurezza pubblica o per la pubblica moralita', che  si  trovino  fuori
 dei luoghi di residenza.
     Nulla,  quindi, "in odio" a categorie di persone, il cui status non
 giustifichi  le  limitazioni   in   astratto   previste   dalla   norma
 costituzionale.
     Per  quanto attiene, infine, alla dedotta violazione degli artt. 25
 e 102 della Costituzione, l'Avvocatura, mentre ammette che  la  riserva
 di  legge  di  cui  all'ultimo  comma  dell'art. 25 investe non solo le
 misure di sicurezza in senso stretto, ma anche la piu' ampia  categoria
 delle  misure  di prevenzione, fra le quali non v'e' dubbio che rientri
 il cosi' detto rimpatrio con foglio di via obbligatorio, nega che  alle
 misure  di  prevenzione  si  estenda anche la riserva di giurisdizione,
 fondata dal  Pretore  sullo  stesso  art.  25  e  sull'art.  102  della
 Costituzione.  La  riserva di giurisdizione concerne soltanto le misure
 di sicurezza e,  delle  misure  di  prevenzione,  solo  quelle  che  si
 risolvono  in  una  restrizione  della liberta' personale, per la quale
 valgono le disposizioni di  cui  all'art.  13  della  Costituzione.  Il
 rimpatrio  con foglio di via obbligatorio non comporta restrizione alla
 liberta' personale, e pertanto  esso  puo'  essere  opisdsto  anche  da
 autorita'   diversa   da  quella  giudiziaria,  il  cui  intervento  e'
 necessario per le misure di  sicurezza  in  senso  stretto.  Del  resto
 l'ordinamento  giuridico  offre strumenti idonei per il controllo della
 legittimita' degli atti di prevenzione, e, pertanto, anche  sotto  tale
 profilo, la questione prospettata dal Pretore di Cortina d'Ampezzo deve
 ritenersi infondata.
                         Considerato in diritto:
     1.  -  L'ordinanza  osserva che ragioni di sicurezza (o di sanita')
 possono giustificare  l'allontanamento  di  una  persona  da  un  luogo
 determinato,   ma   non   giustificano  l'obbligo  di  portarsi,  senza
 rimanervi, in altro luogo.
     Tale  misura,  non  congrua  rispetto  alle esigenze da soddisfare,
 costituirebbe una limitazione  della  liberta'  di  circolazione  e  di
 soggiorno  piu'  grave,  e comunque ulteriore e diversa, in confronto a
 quella consistente nel mero allontanamento da un certo luogo.
     L'osservazione non  e'  fondata.  Potrebbe  anche  non  contestarsi
 l'esattezza  dell'affermazione  del  Pretore,  che,  cioe'  , quando il
 sacrificio di un diritto puo' essere disposto soltanto per salvaguardia
 di un interesse pubblico determinato da una  norma  costituzionale,  e'
 ammissibile  il  raffronto  tra  il  mezzo  prescelto  dal  legislatore
 ordinario per quella salvaguardia e il fine  impostogli,  come  limite,
 dal  legislatore costituzionale:   di modo che, ove il mezzo risultasse
 incongruo  o  addirittura   eccessivo,   la   norma   potrebbe   essere
 costituzionalmente  illegittima.  Ma,  rispetto  alla  disposizione  in
 esame, non si ravvisa ne' incongruita' ne' eccesso.
     L'obbligo di portarsi, almeno inizialmente, nel Comune di residenza
 risponde ad una  esigenza  logica,  fondata  sulla  realta':  senza  la
 indicazione  di  una destinazione il foglio di via avrebbe l'aspetto di
 un bando, non di un ordine di trasferimento da un Comune ad un altro.
     D'altra  parte,  poiche'  tra  Comuni  e  Comuni  della  Repubblica
 italiana  non ci sono barriere, non sarebbe materialmente possibile ne'
 per l'autorita' di pubblica sicurezza ne' per la stessa persona  munita
 di  foglio  di  via  obbligatorio  accertare  e  fare accertare se tale
 persona si sia effettivamente allontanata dal territorio di un  Comune.
 Ora,  siffatto  accertamento  non  e' soltanto richiesto da esigenze di
 buon funzionamento degli uffici di  polizia  ai  fini  di  un  efficace
 controllo,  che  puo'  essere  unicamente  effettuato presso gli uffici
 esistenti in un determinato  Comune;  ma  l'ordine  di  raggiungere  il
 Comune  di  residenza  offre  anche  una garanzia per la stessa persona
 munita del foglio di via, al cui interesse giova  che  la  destinazione
 sia fissata dalla legge. Difatti, piu' gravi limitazioni della liberta'
 di  soggiorno e di circolazione e maggiori disagi si sarebbero avuti se
 la scelta fosse stata devoluta all'autorita' di pubblica sicurezza. Ne'
 la scelta poteva essere lasciata  allo  stesso  interessato,  dovendosi
 ragionevolmente  presumere che egli nel luogo della sua dimora abituale
 abbia le maggiori possibilita'  di  reinserirsi  in  un  ambiente  piu'
 confacente  ad  un  sistema  di  vita  meno  esposto  ai pericoli ed ai
 turbamenti del luogo di non abituale dimora.
     Se, poi, la persona non trovera' adatto al suo soggiorno il  Comune
 di  residenza,  sara'  libera di spostarsi dove vorra', purche', fino a
 quando perduri l'ordine  di  allontanamento,  non  torni  al  luogo  di
 provenienza.
     Le  esposte considerazioni mostrano come nella norma denunziata non
 sussista incongruita' ne' eccesso rispetto ai fini ed ai limiti segnati
 dal precetto costituzionale.
     2. - La  seconda  censura  prospetta  alcuni  nuovi  argomenti  per
 contrastare  l'interpretazione  data dalla Corte, con sentenza n. 2 del
 1956,  alla  formula  contenuta  nell'art.   16   della   Costituzione:
 limitazioni  stabilite  in via generale dalla legge. In quella sentenza
 fu detto che l'inciso "in via generale" deve intendersi nel  senso  che
 la legge debba essere applicabile alla generalita' dei cittadini, non a
 singole categorie.
     Secondo  il  Pretore,  invece,  quell'inciso,  che non si trova ne'
 nell'art. 13  ne'  nell'art.  25,  ultimo  comma,  della  Costituzione,
 significherebbe   che   le   limitazioni  consentite  dall'art.  16  si
 riferiscono a motivi di carattere generale, obiettivamente accertabili,
 e non a motivi che implichino un  giudizio  sulla  personalita'  e  sui
 comportamenti  dei  soggetti,  tanto  piu'  che questo giudizio darebbe
 luogo a discriminazioni inaccettabili.
     Solo  escludendo  la  possibilita'  di  un  giudizio  rispetto   ai
 comportamenti   individuali,   si   potrebbe   ammettere   che   questi
 provvedimenti siano adottati dall'autorita' amministrativa.
     L'interpretazione  sostenuta  nell'ordinanza  non   risponde   alle
 finalita'  chiaramente  volute  dalla norma costituzionale. I motivi di
 sanita' o  di  sicurezza  possono  nascere  da  situazioni  generali  o
 particolari.  Ci  puo'  essere  la  necessita'  di  vietare l'accesso a
 localita' infette o pericolanti o di ordinarne lo  sgombero;  e  queste
 sono  ragioni  -  non le uniche - di carattere generale, obiettivamente
 accertabili e valevoli per tutti. Ma i motivi di sanita' e di sicurezza
 possono anche derivare, e piu' frequentemente derivano, da esigenze che
 si riferiscono a casi individuali, accertabili  dietro  valutazioni  di
 carattere  personale.  Si  pensi  alla  necessita' di isolare individui
 affetti da  malattie  contagiose  o  alla  necessita'  di  prevenire  i
 pericoli che singoli individui possono produrre rispetto alla sicurezza
 pubblica.
     Il  fatto che l'art. 16 accomuni, mettendole sullo stesso piano, le
 ragioni di sanita' e di sicurezza e' indice che non puo' trattarsi solo
 di ragioni di carattere generale, non essendo pensabile che  motivi  di
 sanita'  attinenti  alla pericolosita' di singoli individui possano non
 essere  validi  ai  fini  delle  limitazioni  consentite  dalla   norma
 costituzionale.  Ed  anche  il  fatto  che lo stesso art. 16 esclude le
 restrizioni  determinate  da  ragioni   politiche   conferma   che   le
 limitazioni   possono   essere   adottate   per   motivi  di  carattere
 individuale, non essendo concepibile  una  misura  ispirata  da  motivi
 politici se non in vista dei personali convincimenti e comportamenti di
 individui e di gruppi.
     D'altra  parte,  se  il  costituente  avesse  avuto  la volonta' di
 circoscrivere le  limitazioni  ai  soli  casi  di  carattere  generale,
 avrebbe certamente preveduto, magari imponendo particolari garanzie, la
 possibilita'  di adottare provvedimenti di carattere individuale almeno
 nei casi urgenti.  E  sarebbe  strano  il  fatto  che,  mentre  per  le
 restrizioni  della  liberta'  personale  l'art. 13 prevede che la legge
 indichi i casi urgenti in cui l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'
 intervenire,  l'art.  16  avrebbe  escluso in via assoluta che la legge
 possa statuire limitazioni alla liberta' di circolazione e di soggiorno
 che non siano di carattere generale.
     Che la volonta' del costituente sia stata quella di venire incontro
 alle pubbliche esigenze di sanita' e di sicurezza anche  rispetto  alle
 situazioni  di  carattere  individuale,  si  evince  in modo chiaro dai
 lavori preparatori, dai  quali  risulta  che  si  volle  lasciare  alle
 autorita' di pubblica sicurezza la possibilita' di "rinviare al proprio
 domicilio,  con foglio di via obbligatorio, le persone che siano per un
 modo o per un altro, indesiderabili, come nei  casi  di  accattonaggio,
 prostituzione,  etc.",  considerando  "come  forma essenziale di tutela
 della liberta' dei cittadini  quella  di  permettere  alla  polizia  di
 restituire  al  loro domicilio e ivi fissare le persone pericolose alla
 sicurezza pubblica". E proprio per prevenire qualsiasi abuso nel  campo
 politico si stabili' che nessuna restrizione puo' essere determinata da
 ragioni politiche.
     Nel  quadro  di  questi  presupposti,  ed espressamente in vista di
 essi, fu inserita nel testo definitivo dell'attuale art. 16 la  formula
 "in  via  generale",  per  chiarire che "le autorita' non possono porre
 limiti contro una determinata persona o contro determinate  categorie":
 non  nel  senso  che  non  si  potessero  adottare provvedimenti contro
 singoli o contro gruppi, ma nel senso che non  si  potessero  stabilire
 illegittime discriminazioni contro singoli o contro gruppi.
     La  conclusione e' che la formula "stabilisce in via generale"altro
 non e' che una particolare e solenne riaffermazione del principio posto
 nell'art. 3 della Costituzione, come lo e' nell'art. 21, ultimo  comma,
 della stessa Costituzione.
     In  vista della particolare delicatezza di questi provvedimenti che
 i costituenti non dubitarono che fossero di competenza della  autorita'
 amministrativa, non fa meraviglia che si sia sentita la opportunita' di
 ribadire  un  canone  che  la  Costituzione  enuncia  come uno dei suoi
 principi fondamentali.
     Con la recente sentenza n. 23 del 1964 la Corte ha  dichiarato,  in
 relazione  all'art.  1  della  legge  del  1956,  che  la  disposizione
 configura una categoria di persone identificabili in base  ad  elementi
 da  essa  stessa  determinati:  che  poi  la sua attuazione implichi un
 margine di discrezionalita' nelle valutazioni dei singoli casi concreti
 non e' motivo perche' possa ravvisarsi nella  norma  un  contrasto  con
 l'art.  3  della  Costituzione, essendo proprie, quelle valutazioni, di
 ogni giudizio diretto all'applicazione di norme giuridiche.
     Si puo' ulteriormente precisare che nell'accertamento da  farsi  ai
 fini  dell'applicazione  della misura prevista dall'art. 2 della stessa
 legge,  non  si  emette   un   giudizio   sulla   moralita'   e   sulla
 rispettabilita'  della  persona,  ma  si  accerta  il  pericolo  per la
 sicurezza o per la sanita', come ebbe a rilevare la Corte con  un'altra
 sua  sentenza  (n.  126  del  1962).    Quando,  nel caso in cui questo
 accertamento sia positivo, si dia luogo all'applicazione della  diffida
 o  del  rimpatrio,  il  provvedimento  non  puo' dirsi discriminatorio,
 giustificato com'e' dalla  necessita'  da  cui  e'  stato  determinato:
 necessita'  che  esclude  ogni carattere di arbitrarieta' e di ingiusta
 discriminazione. E', quindi, da escludere,  sotto  questo  aspetto,  la
 violazione dell'art. 3 della Costituzione.
     Sara' separatamente esaminata l'altra questione circa il denunziato
 contrasto  con  lo  stesso  art.  3  per  il fatto che il provvedimento
 previsto dall'art. 2 della legge del 1956, risolvendosi in  una  misura
 lesiva  della  dignita'  della  persona,  non  e' stato attribuito alla
 competenza del giudice.
     3. - Nelle precedenti pronuncie della Corte la  questione  relativa
 alla  competenza  dell'organo  chiamato ad applicare i provvedimenti in
 questione  era  stata  esaminata  sotto  l'aspetto   della   violazione
 dell'art.  13  della  Costituzione,  e cio' in conformita' e nei limiti
 delle proposizioni contenute nelle ordinanze di rimessione.
     Escluso che la limitazione dei diritti riconosciuti con  l'art.  16
 fosse  da  considerarsi  restrizione  della liberta' personale ai sensi
 dell'art. 13, la Corte ha piu' volte ripetuto  che  non  e'  necessario
 l'intervento del giudice.
     Il   Pretore   di   Cortina   d'Ampezzo   risolleva   la  questione
 prospettandola da un angolo visuale che vorrebbe essere diverso:
     la norma denunziata violerebbe una riserva di  giurisdizione  posta
 dalla  Costituzione.  Tale riserva risulterebbe precipuamente dall'art.
 102 della Costituzione. In questa norma, che  vieta  l'esercizio  della
 funzione  giurisdizionale  ad  organi  diversi  da  quelli investiti di
 giurisdizione, il Pretore trova implicito il  divieto  di  affidare  ad
 altri organi certi atti che per loro natura devono essere attribuiti ad
 un  giudice,  "essendo  compito  della  giurisdizione  di giudicare gli
 individui   e   correlativamente   disporre   delle    loro    liberta'
 fondamentali":  nel che si concreterebbe la "riserva di giurisdizione".
 Il provvedimento di rimpatrio sarebbe uno di codesti atti riservati  al
 giudice.
     Poiche',  ai  fini  di  questa  causa, ci si deve occupare soltanto
 degli atti della pubblica Amministrazione, la  Corte  ritiene  che  sia
 d'uopo  ricordare  che  la vita amministrativa pubblica e' intessuta di
 atti, che l'Amministrazione adotta  senza  un  previo  accertamento  da
 parte  dei  giudici  e che sono senz'altro imperativi. E' questa, anzi,
 una delle  caratteristiche  degli  atti  amministrativi.  Ed  anche  in
 relazione  a  questo  generale  potere  degli  organi amministrativi di
 adottare provvedimenti senz'altro  imperativi,  e'  da  considerare  la
 norma  dell'art.  113  della  Costituzione, secondo cui contro gli atti
 della  pubblica  Amministrazione  e'  ammessa,   senza   esclusioni   o
 limitazioni, la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi.
     Si  puo'  dunque  affermare  che la tutela giurisdizionale rispetto
 agli atti dell'Amministrazione e' sempre assicurata senza  limitazioni;
 ma di regola e' assicurata a posteriori.
     Esistono   indubbiamente   delle   sfere  nell'ambito  delle  quali
 l'Amministrazione non puo' provvedere, essendo la competenza  riservata
 agli  organi  giurisdizionali.  Ma  a  tal  fine occorre attenersi alle
 singole disposizioni.
     E poiche' nel caso attuale si tratta  di  giudicare  in  ordine  al
 provvedimento  di rimpatrio obbligatorio, l'esame consiste nel rilevare
 se la disposizione denunziata, deferendo il provvedimento ad un  organo
 dell'Amministrazione,  violi  le norme od i principi della Costituzione
 invocati nell'ordinanza di rinvio.
     Si sostiene, nell'ordinanza, che la  Costituzione  tutela  la  pari
 dignita' sociale della persona (art. 3) e precisa, negli artt. 25, 27 e
 101  e  seguenti, a quali organi e con quali garanzie spetta di emanare
 giudizi che intacchino quella parita', specialmente quando si risolvano
 in  una  degradazione  giuridica  della  persona:  rilievo  questo  che
 potrebbe  dirsi  confortato dalla sentenza n. 11 del 1956, emessa dalla
 Corte sia pure nei confronti dell'art. 13 della Costituzione.
     La Corte osserva che fra  gli  articoli  seguenti  al  101  bisogna
 considerare  il  102,  sul  quale l'ordinanza aveva posto l'accento per
 fondarvi il  principio  della  riserva  di  giurisdizione.  L'argomento
 addotto  dall'ordinanza, secondo cui dal divieto di attribuire funzioni
 giurisdizionali ad organi non investiti di  giurisdizione  si  dovrebbe
 dedurre la esistenza di detta riserva, operante anche in riferimento al
 caso in esame, non appare esauriente, risolvendosi, quell'argomento, in
 una petizione di principio.
     Ne'  a favore della tesi sostenuta nell'ordinanza si possono trarre
 argomenti dalle altre norme costituzionali ora richiamate.
     Non  si  puo',  infatti,  fondatamente  affermare che alla pubblica
 Amministrazione sia sottratto qualunque provvedimento che  intacchi  la
 dignita' delle persone.
     Nella  vastissima sfera dei suoi compiti pubblici l'Amministrazione
 e' chiamata ad emettere una numerosa serie di atti le cui ripercussioni
 sulla stimabilita' delle persone possono  essere  rilevanti:  si  pensi
 agli   atti   relativi   a  decadenze,  dimissioni,  divieti,  sanzioni
 amministrative, fra le quali, rilevantissime, quelle disciplinari,  che
 possono  giungere  alla  destituzione  di  pubblici  dipendenti ed alla
 radiazione  dagli  albi  professionali.  Ben  potrebbe  il  legislatore
 attribuire  al  giudice  la  competenza  di adottare qualcuno di questi
 atti; ma non ha fondamento la tesi  secondo  cui  tutti  gli  atti  del
 genere debbano essere affidati esclusivamente al giudice. Le leggi ed i
 principi  elaborati dalla giurisprudenza amministrativa stabiliscono le
 garanzie formali e sostanziali che spettano al cittadino nei  confronti
 dell'Amministrazione  quando  trattisi  di  provvedimenti inerenti alle
 persone; ma cio' non  significa  che,  nell'ambito  della  legittimita'
 costituzionale,  sia  necessario  che  tali garanzie siano sempre poste
 nelle mani del  giudice.  Questi  ne  conoscera'  dopo;  ed  uno  degli
 elementi  essenziali  del  suo esame consistera' nel rilevare se quelle
 garanzie siano state o non rispettate dall'organo amministrativo.
     Si puo' concludere che dall'insieme delle norme ora  esaminate  non
 si  puo'  dedurre  l'esistenza  di  un  principio  generale  di  ordine
 costituzionale, che affermi la necessita' dell'intervento  del  giudice
 in tutti i casi in cui nell'interesse della pubblica Amministrazione si
 debba  procedere ad atti da cui derivi o possa derivare una menomazione
 della dignita' della persona. In sostanza, o tali atti sono ammissibili
 in base all'art. 3 della Costituzione,  e  allora  anche  le  autorita'
 amministrative  possono emetterli, salvo che in virtu' di altre norme o
 principi costituzionali la competenza  non  debba  essere  affidata  al
 giudice,  o  non  sono  ammissibili  e  allora neppure una sentenza del
 giudice potrebbe adottarli.
     Una delle norme della Costituzione su cui e' basato  l'obbligatorio
 intervento  dell'organo  giurisdizionale  e' l'art. 13. E sull'art. 13,
 come  esattamente  nota  l'ordinanza  di  rimessione,  fu  fondata   la
 pronuncia     di    illegittimita'    delle    disposizioni    relative
 all'ammonizione.  Con quella pronuncia, contenuta nella sentenza n.  11
 del  19 giugno 1956, la Corte, dopo avere affermato che "in nessun caso
 l'uomo potra' essere privato o limitato nella sua  liberta'  se  questa
 privazione  o  restrizione  non  risulti  astrattamente  prevista dalla
 legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi
 sia provvedimento dell'autorita' giudiziaria che ne  dia  le  ragioni",
 considero'  che  secondo  le  norme  allora  vigenti  l'ammonizione  si
 concretava nella restrizione della liberta' personale, risolvendosi  in
 una sorta di degradazione giuridica.
     Con questa sentenza, che non rappresenta una manifestazione isolata
 del  pensiero  della Corte, ma che e' invece strettamente collegata con
 la coeva decisione n. 2 del 14 di quello  stesso  mese  di  giugno  del
 1956, venne fissato un orientamento sul quale la Corte e' rimasta ferma
 nelle successive decisioni.
     E'  stato escluso che il rimpatrio obbligatorio importi restrizione
 della  liberta'  personale,   ponendo   esso   soltanto   limiti   alla
 possibilita'  di  movimento  e  di soggiorno. Cio' fu dichiarato con la
 sentenza n. 45 del 1960, alla quale hanno fatto seguito non poche altre
 conformi decisioni, rispetto  alle  quali  la  Corte  non  ritiene  che
 sussistano ragioni per cambiare indirizzo.
     L'ordine di rimpatrio non e' suscettibile di coercitiva esecuzione.
 Gli  organi  di polizia possono procedere alla traduzione solo dopo che
 il  giudice  penale,  accertata  la   legittimita'   dell'atto,   abbia
 dichiarato  che  l'intimato  si e' sottratto all'obbligo di obbedienza.
 Espletate le necessarie formalita' per accertare che il soggetto  abbia
 raggiunto  la  nuova  sede,  l'intimato  e'  libero  di  restarvi  o di
 trasferirsi altrove, purche' non torni alla sede dalla quale  e'  stato
 allontanato.  Non  sussistono  altri  adempimenti,  ne' altri vincoli o
 limitazioni alla liberta' del soggetto.
     Se  si  confronta  questa  situazione  con  quella  rilevata  dalla
 sentenza  n.  11  del  1956  rispetto all'ammonizione, si vede come nel
 rimpatrio obbligatorio non sussistano  quegli  elementi  in  vista  dei
 quali  la  Corte riscontro' nell'ammonizione una causa di "degradazione
 giuridica".
     In sostanza, le due decisioni del 1956 e  le  decisioni  successive
 hanno  ritenuto  che  per aversi degradazione giuridica, come uno degli
 aspetti di restrizione della liberta' personale ai sensi  dell'art.  13
 della   Costituzione,   occorre   che  il  provvedimento  provochi  una
 menomazione o mortificazione  della  dignita'  o  del  prestigio  della
 persona,  tale  da  potere  essere  equiparata  a quell'assoggettamento
 all'altrui potere, in cui  si  concreta  la  violazione  del  principio
 dell'habeas corpus.
     Per  le  ragioni  esposte,  l'ordine di rimpatrio non presenta tale
 carattere.
     Nell'ordinanza viene  esposto  un  altro  argomento  per  sostenere
 l'obbligatorio intervento del giudice.
     Il fine preventivo delle misure di polizia non toglierebbe che esse
 possano  avere  il  contenuto  di  una  sanzione, tanto piu' che per il
 rimpatrio  obbligatorio  non  basta  piu'  il  mero  sospetto,   e   la
 pericolosita' del soggetto, che ne costituisce il presupposto, non puo'
 essere  soltanto  desunta  dalla  sua personalita' biopsichica, ma deve
 sempre   esprimersi   attraverso   liberi   comportamenti.    Comunque,
 sussisterebbe  una  riserva  di  giurisdizione per l'applicazione delle
 misure di polizia, al pari delle misure  di  sicurezza,  per  le  quali
 detta   riserva   risulterebbe   dall'art.   25,   terzo  comma,  della
 Costituzione, come si desumerebbe dalla stessa collocazione della norma
 che si apre con l'obbligatoria precostituzione del giudice e che a  sua
 volta  fa parte di una serie di articoli (da 24 a 27) tutti riferentisi
 alle attivita' dei giudici. Uguale sarebbe la situazione rispetto  alle
 misure  di  polizia,  delle  quali  l'ordinanza si sforza di dimostrare
 l'identita' con le misure di sicurezza.
     La Corte rileva che, anche se fosse esatto - e  non  e'  -  che  le
 misure  di  polizia  abbiano  il  contenuto di sanzione, non per questo
 all'organo amministrativo dovrebbe essere inibito  di  provvedere,  non
 esistendo  una  norma  o  un  principio  costituzionale  che,  in linea
 generale, imponga l'intervento del  giudice  per  l'applicazione  delle
 sanzioni  non  penali.  E  lo  stesso  e' da dirsi anche in rapporto al
 carattere personale del  rimpatrio  obbligatorio:  tale  carattere  non
 impedisce  che  il  provvedimento sia adottato dall'Amministrazione. Le
 cose gia' dette in precedenza giustificano  queste  affermazioni  della
 Corte.
     Qualche osservazione e' d'uopo aggiungere circa l'argomento addotto
 in  ordine  all'identificazione  delle misure di sicurezza propriamente
 dette con le misure di polizia di sicurezza.
     Pure   se   si   potesse   aderire   allo   sforzo   interpretativo
 dell'Avvocatura dello Stato nel senso che la riserva di legge posta con
 l'ultimo  comma  dell'art.  25  della  Costituzione investa non solo le
 misure di sicurezza intese in senso stretto, ma  anche  la  piu'  ampia
 categoria  delle  misure  di  prevenzione, fra cui quella del rimpatrio
 obbligatorio,  non   si   potrebbe   ugualmente   ammettere   la   tesi
 dell'ordinanza,  secondo  cui  le  une  e  le altre misure resterebbero
 accomunate sotto una duplice riserva: di legge e di giurisdizione.
     Se, infatti, si puo' comprendere che nessuna limitazione, quale che
 essa sia, dei diritti di liberta' puo' essere disposta fuori  dei  casi
 previsti  dalla  legge, solo quelle limitazioni che si risolvano in una
 restrizione della liberta' personale cadono sotto il disposto dell'art.
 13 della Costituzione. E' vero che il fondamento  comune  e  la  comune
 finalita' delle misure di sicurezza e di quelle di polizia di sicurezza
 si  trovano  nella esigenza di prevenzione di fronte alla pericolosita'
 sociale  del  soggetto,  ma  e'  anche  certo   che,   per   tutte   le
 considerazioni  dianzi  esposte  che  trovano  puntuale riscontro nella
 diversa disciplina prevista dagli artt. 13  e  16  della  Costituzione,
 resta sempre una netta differenziazione fra i due ordini di misure, per
 diversita'  di  struttura,  settore di competenza, campo e modalita' di
 applicazione, specialmente per quanto si riferisce agli organi preposti
 a tale applicazione.
     I costituenti ebbero presente lo stato della legislazione, la quale
 poneva, come pone, tanto una riserva di  legge  (art.  199  del  Codice
 penale)  quanto  una  riserva  di  giurisdizione (art. 205 dello stesso
 Codice) per le pene e per le misure di sicurezza propriamente dette;  e
 vollero   mantenere   ferma   questa   situazione.   Ma,  come  risulta
 espressamente dalle dichiarazioni di uno dei due proponenti  del  testo
 che attualmente costituisce l'ultimo comma dell'art. 25 - dichiarazioni
 rispetto  alle  quali  non  risulta  che  in  quella sede fossero sorti
 dissensi - fu tenuta ben presente, ai fini della tutela che si veniva a
 stabilire, la particolare fisionomia delle misure  di  sicurezza,  "che
 entrano   in  considerazione  nella  legge  penale,  e  quindi  vengono
 applicate nei confronti di persone socialmente pericolose, in occasione
 della perpetrazione di un reato". E giova riportare queste altre parole
 del dichiarante:
     "Non sono misure di  polizia:  questo  devo  chiarire  perche'  non
 sorgano  equivoci.  Si  tratta  di  misure preventive di sicurezza, che
 devono essere applicate, a norme del Codice penale,  nei  confronti  di
 individui  imputati o imputabili in occasione della perpetrazione di un
 reato".
     Ma  anche   indipendentemente   da   questi   precedenti,   bisogna
 concludere,  in base a tutte le considerazioni gia' esposte, che non si
 puo'   trarre   dall'interpretazione    degli    articoli    richiamati
 dall'ordinanza un argomento in base al quale si possa stabilire che una
 riserva  di  giurisdizione  sia  stata  posta dagli articoli stessi nei
 riguardi delle misure di polizia non  contemplate  dall'art.  13  della
 Costituzione.
                            PER QUESTI MOTIVI
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 2 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423,  concernente  misure
 di  prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza
 e per la pubblica moralita', in riferimento agli artt. 3, 16, 25 e  102
 della Costituzione.
     Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 20 giugno 1964.
                                   GASPARE AMBROSINI - GIUSEPPE CASTELLI
                                   AVOLIO - ANTONINO  PAPALDO  -  NICOLA
                                   JAEGER  - GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO
                                   PETROCELLI -  ANTONIO  MANCA  -  ALDO
                                   SANDULLI  - GIUSEPPE BRANCA - MICHELE
                                   FRAGALI  -   COSTANTINO   MORTATI   -
                                   GIUSEPPE  CHIARELLI - GIUSEPPE VERZI'
                                   -  GIOVANNI  BATTISTA   BENEDETTI   -
                                   FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.