N. 65 SENTENZA 23 aprile - 4 maggio 1970

                                  N. 65
                         SENTENZA 23 APRILE 1970
                 Deposito in cancelleria: 4 maggio 1970.
         Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 113 del 6 maggio 1970.
                       Pres. BRANCA  - Rel. ROSSI
     Liberta'  di  manifestazione del pensiero - Delitti contro l'ordine
 pubblico - Cod. pen., art. 414, ultimo comma - Apologia  di  delitto  -
 Interpretazione  della  disposizione impugnata - Punibilita' della sola
 apologia idonea a provocare la violazione delle leggi penali - Liceita'
 della mera critica e di altre manifestazioni  del  pensiero  -  Pretesa
 violazione   dell'art.   21,   primo   comma,   della   Costituzione  -
 Insussistenza - Esclusione di illegittimita' costituzionale.
     Liberta' di manifestazione del pensiero -  Costituzione,  art.  21,
 primo  comma  -  Interpretazione  - Limiti derivanti dalla tutela della
 sicurezza pubblica.
(GU n.113 del 6-5-1970 )
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     composta dai signori: Prof. GIUSEPPE  BRANCA,  Presidente  -  Prof.
 MICHELE  FRAGALI - Prof.  COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
 - Dott. GIUSEPPE VERZI' - Dott.   GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI  -  Prof.
 FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO
 -  Avv.    ERCOLE  ROCCHETTI  -  Prof.  ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO
 MICHELE TRIMARCHI - Prof.   VEZIO CRISAFULLI -  Dott.  NICOLA  REALE  -
 Prof.  PAOLO ROSSI, Giudici,
     ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 414, ultimo
 comma, del codice Penale, promosso con ordinanza emessa il 23  novembre
 1968  dal  giudice  istruttore del tribunale di Rovigo nel procedimento
 penale a carico di Traniello Leobaldo Giovanni e Milan Paolo,  iscritta
 al  n.  261  del  registro  ordinanze  1968 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n.  25 del 29 gennaio 1969.
     Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del   Consiglio   dei
 Ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 28 gennaio 1970 il Giudice relatore
 Paolo Rossi;
     udito   il   sostituto   avvocato   generale   dello  Stato  Franco
 Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     Il giudice istruttore presso il tribunale di Rovigo, richiesto  dal
 p  .m.  di  emettere decreto di archiviazione nei confronti di Leobaldo
 Giovanni Traniello e di Paolo Milan, imputati di  apologia  di  delitto
 per aver giustificato il reato di disobbedienza per cui tale Bellettato
 era  stato  denunziato  alla  procura  militare  di  Torino  (art.  173
 c.p.m.p.),  respingeva  l'istanza,  disponendo  l'ulteriore  corso  del
 procedimento.
     Il  giudice  procedente osservava che nell'articolo "L'obiettore di
 coscienza"  a  firma  del   Traniello,   erano   contenute   frasi   di
 apprezzamento  della condotta degli obiettori di coscienza, (quale "...
 forse, oggi e' prematuro abolire l'obblico del  servizio  militare;  ma
 per  questo  e'  anche  preziosa  la presenza di coloro che, a costo di
 pagare di persona, portano avanti l'idea che un giorno bisognera' farne
 a meno se ci si vorra' considerare ancora popoli civili ") che, secondo
 una certa interpretazione potevano essere sufficienti ad integrare  gli
 estremi  del  reato previsto nell'ultimo comma dell'art. 414 del codice
 penale.
     Sollevata  dal  difensore  questione di legittimita' costituzionale
 della norma incriminatrice, per contrasto con l'art. 21,  primo  comma,
 della  Costituzione  che garantisce il diritto di libera manifestazione
 del pensiero, il giudice a quo, ritenendo la questione rilevante e  non
 manifestamente  infondata,  rimetteva  gli atti del giudizio alla Corte
 costituzionale.
     Con atto depositato il 18 febbraio 1969 interveniva in giudizio  la
 Presidenza  del  Consiglio  dei Ministri, rappresentata dall'Avvocatura
 generale  dello  Stato,  chiedendo  dichiararsi  l'infondatezza   della
 questione proposta.
     Osserva  l'Avvocatura  che l'art. 21 della Costituzione non pone in
 essere un diritto illimitato, tanto vero che la Corte costituzionale ha
 riconosciuto che operano in senso limitativo, oltre la tutela del  buon
 costume,  espressamente  richiamata,  l'esigenza di impedire turbamenti
 dell'ordine pubblico, il cui  mantenimento  costituisce  una  finalita'
 immanente nel sistema (sentenze n. 87 del 1966 e 19 del 1962).
     In  secondo luogo, osserva l'Avvocatura, anche ad aderire alla piu'
 rigorosa  interpretazione  dell'art.  414,  ultimo  comma,  del  codice
 penale,  l'apologia  di  delitto  si  riferisce  sempre  ad un concreto
 determinato avvenimento del passato, onde non puo' concernere la libera
 critica al sistema  o  alle  sue  singole  norme.  Mentre,  dunque,  la
 manifestazione  del  puro  pensiero,  scientifico, religioso, politico,
 ecc., tutelata dal principio costituzionale invocato, rimane del  tutto
 estranea  alla norma incriminatrice denunciata, questa punisce soltanto
 l'elogio  del  singolo  fatto  storico  vietato  penalmente,   per   la
 possibilita'  dell'evento  turbativo dell'ordine pubblico che ne deriva
 immancabilmente.
                         Considerato in diritto:
     La questione sottoposta all'esame della Corte e'  la  seguente:  se
 l'art.  414,  ultimo  comma,  del  codice  penale, colpendo la pubblica
 apologia di ogni delitto, non  possa,  in  talune  ipotesi,  costituire
 ingiusto  impedimento alla liberta' di manifestare il proprio pensiero;
 liberta' fondamentale garantita a tutti, senza distinzione di modi e di
 materia, dall'art. 21, primo comma, della Costituzione.
     Il denunciato contrasto non sussiste,  ove  dell'art.  414,  ultimo
 comma, del codice penale si dia corretta interpretazione.
     Ogni  ordinamento  statuale  prevede e indica i mezzi per mutare le
 leggi penali quando  esse  appaiono  non  piu'  rispondenti  al  comune
 sentimento  della  giustizia. Non solo, quindi, i regimi autoritari, ma
 altresi' quelli liberali, democratici, popolari hanno sempre  preveduto
 e prevedono il reato d'apologia del delitto, gia' contemplato nell'art.
 247 del codice penale italiano del 1889.
     L'art.  414,  ultimo  comma,  del codice penale non limita in alcun
 modo  la  critica  della  legislazione  o  della  giurisprudenza,   ne'
 l'attivita'  propagandistica  di  singoli,  partiti, movimenti, gruppi,
 diretta a promuovere la  deletio  di  qualsiasi  norma  incriminatrice,
 anche  nel  momento  in  cui  essa  viene  applicata  in  concreto. Ne'
 costituisce reato d'apologia  l'affermare  che  fatti  preveduti  dalla
 legislazione   vigente   come   delitti   hanno,   o   possono   avere,
 soggettivamente od oggettivamente positivo contenuto morale o  sociale:
 che  l'autore  di  un  reato possa aver agito per motivi di particolare
 valore morale o sociale e' riconosciuto del resto dall'art. 62 n. 1 del
 codice penale.
     Diversa  dalla  critica  alla  legge,  dalla  propaganda per il suo
 aggiornamento, dal giudizio favorevole  sui  moventi  dell'autore,  che
 sono  tutte  lecite manifestazioni di pensiero, e' la pubblica apologia
 diretta, e idonea, a provocare la violazione delle leggi penali.
     Plaudire a fatti che l'ordinamento giuridico punisce come delitto e
 glorificarne  gli  autori  e'  da  molti  considerata  una  ipotesi  di
 istigazione  indiretta:  certo e' attacco contro le basi stesse di ogni
 immaginabile ordinamento apologizzare il delitto  come  mezzo  lodevole
 per  ottenere  l'abrogazione  della legge che lo prevede come tale. Non
 sono concepibili, infatti, liberta' e democrazia se non sotto forma  di
 obbedienza  alle  leggi  che un popolo libero si da' liberamente e puo'
 liberamente mutare.
     L'apologia punibile ai  sensi  dell'art.  414,  ultimo  comma,  del
 codice  penale  non  e',  dunque,  la manifestazione di pensiero pura e
 semplice, ma quella che per  le  sue  modalita'  integri  comportamento
 concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti.
     Si   vuole   ricordare,   a   chiarimento,   che   la  liberta'  di
 manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21, primo comma, della
 Costituzione, trova i suoi limiti non soltanto nella  tutela  del  buon
 costume,  ma anche nella necessita' di proteggere altri beni di rilievo
 costituzionale e nell'esigenza di prevenire e  far  cessare  turbamenti
 della  sicurezza  pubblica,  la  cui  tutela  costituisce una finalita'
 immanente del sistema (sentenze n. 19 dell'8 marzo 1962, n.  87  del  6
 luglio 1966, n. 84 del 2 aprile 1969).
                            PER QUESTI MOTIVI
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
 di  legittimita' costituzionale dell'art. 414, ultimo comma, del codice
 penale, sollevata, in  riferimento  all'art.  21,  primo  comma,  della
 Costituzione, dal giudice istruttore presso il tribunale di Rovigo, con
 ordinanza 23 novembre 1968.
     Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1970.
                                   GIUSEPPE BRANCA - MICHELE  FRAGALI  -
                                   COSTANTINO    MORTATI    -   GIUSEPPE
                                   CHIARELLI   -   GIUSEPPE   VERZI'   -
                                   GIOVANNI    BATTISTA    BENEDETTI   -
                                   FRANCESCO  PAOLO  BONIFACIO  -  LUIGI
                                   OGGIONI  -  ANGELO  DE MARCO - ERCOLE
                                   ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO
                                   -   MICHELE   TRIMARCHI    -    VEZIO
                                   CRISAFULLI  -  NICOLA  REALE  - PAOLO
                                   ROSSI.