N. 96 SENTENZA 9 aprile - 8 giugno 1981

                                  N. 96
                         SENTENZA 9 APRILE 1981
                 Deposito in cancelleria: 8 giugno 1981.
        Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 158 del 10 giugno 1981.
                      Pres. AMADEI - Rel. VOLTERRA
     Reati  e  pene  -  Cod.  pen.,  art. 603 - Plagio - Imprecisione  e
 indeterminatezza della  norma  -  Assoluta  arbitrarieta'    della  sua
 concreta  applicazione  - Contrasto con l'art. 25  della Costituzione -
 Illegittimita' costituzionale.
     Reati e pene - Cod. pen., art. 603 - Plagio -  Assunto    contrasto
 con  l'art.  21  della Costituzione - Illegittimita'  costituzionale in
 riferimento all'art.  25  della  Costituzione    -  Assorbimento  della
 questione.
     Reati  e  pene - Cost., art. 25 - Riserva di legge - Necessita'  di
 una compiuta descrizione della fattispecie penale che  ne consenta  una
 razionale applicazione concreta.
(GU n.158 del 10-6-1981 )
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     composta  dai  signori:  Avv.  LEONETTO  AMADEI, Presidente - Dott.
 GIULIO GIONFRIDA - Prof.  EDOARDO VOLTERRA - Dott. MICHELE ROSSANO    -
 Prof.  ANTONINO  DE  STEFANO  - Prof. LEOPOLDO   ELIA - Prof. GUGLIELMO
 ROEHRSSEN - Avv.  ORONZO REALE - Dott.  BRUNETTO  BUCCIARELLI  DUCCI  -
 Avv.  ALBERTO  MALAGUGINI  -  Prof.    LIVIO  PALADIN  -  Dott. ARNALDO
 MACCARONE -  Prof. ANTONIO LA PERGOLA -  Prof.  VIRGILIO    ANDRIOLI  -
 Prof.  GTUSEPPE FERRARI, Giudici,
     ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  603 del
 codice penale (plagio) promosso con ordinanza emessa  il    2  novembre
 1978  dal  giudice  istruttore del Tribunale di  Roma, nel procedimento
 penale a carico di Grasso   Emilio, iscritta al  n.  638  del  registro
 ordinanze  1978 e  pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n.  52 del 21 febbraio 1979.
     Visti gli atti  di  costituzione  di  Grasso  Emilio,  delle  parti
 civili  Pallante  Maria e Cerocchi Luisa, nonche' l'atto di  intervento
 del Presidente del Consiglio dei ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 4 marzo 1981 il Giudice    relatore
 Edoardo Volterra;
     uditi  l'avv.  Mauro  Mellini  per Grasso Emilio, l'avv.   Giovanni
 Maria Flick per Pallante e Cerocchi e   l'avvocato dello  Stato  Franco
 Chiarotti, per il Presidente  del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1. - Nel corso dell'istruttoria formale a carico di Emilio  Grasso,
 imputato  del  delitto  di  plagio,  il  Giudice   istruttore presso il
 Tribunale di Roma, con  ordinanza    emessa  il  2  novembre  1978,  ha
 sollevato  questione di   legittimita' costituzionale dell'art. 603 del
 codice penale,  in riferimento agli artt. 25 e 21 della Costituzione.
     Secondo il giudice a quo la norma denunziata viola il  principio di
 tipicita' di cui all'art. 25, in  quanto  appare    sfornita  nei  suoi
 elementi  costitutivi di ogni chiarezza. Il legislatore, prevedendo una
 sanzione penale per chiunque  sottoponga una persona al proprio  potere
 in  modo da   ridurla in totale stato di soggezione, avrebbe in realta'
 affidato all'arbitraria determinazione del giudice l'individuazione  in
 concreto  degli  elementi  costitutivi di   un reato a dolo generico, a
 condotta libera e ad evento  non determinato. Il pericolo di  arbitrio,
 sotto il profilo  della eccessiva dilatazione della fattispecie penale,
 sarebbe  tanto  piu'  evidente  considerando  come  il   riferimento al
 "totale stato di soggezione" puo' condurre ad  una  applicazione  della
 norma  a  situazioni  di  subordinazione psicologica del tutto lecite e
 spesso riconosciute e protette  dall'ordinamento  giuridico,  quali  il
 proselitismo    religioso,  politico  o  sindacale.  D'altra  parte non
 conferirebbe maggior chiarezza  alla  determinazione    concreta  della
 fattispecie,  l'osservazione  che  la  soggezione  psichica deve essere
 "totale". Un caso del   genere potrebbe  infatti  ricorrere  nel  campo
 della    patologia mentale, ove peraltro l'art. 603 c.p. non opera,  in
 quanto suppone come soggetto passivo non un   incapace ma  una  persona
 normale.  Negato  che  anche   l'ipnosi indotta possa, allo stato delle
 attuali conoscenze, ridurre in tale stato di soggezione, il  giudice  a
 quo  rileva    che  un  potere  di  suggestione esercitabile da persona
 dotata di particolare fascino potrebbe al limite realizzare  un plagio.
     In tal modo l'art.  603  c.p.  tutelerebbe  la  liberta'  morale  e
 psichica  che  sarebbe  lesa,  oltre  che da mezzi fisici in   grado di
 determinare  conseguenze  organiche,  anche  da    mezzi  psichici  che
 inducano  situazioni  particolari ed  eccezionali, analoghe in un certo
 modo alla neurosi, e    dipendenti  da  meccanismi  meramente  psichici
 provocati      da   un'azione   psichica   esterna;   tali   situazioni
 annullerebbero  il  potere  critico,  renderebbero  eterodiretta     la
 volonta',  proprio per l'azione psichica esterna della  suggestione. Si
 configurerebbe, in tal modo, un  carattere    schiettamente  patologico
 dello  stato  di soggezione,  analogo a quello che puo' verificarsi nel
 demente e nello  schizofrenico, per cui, ai fini della precisazione del
 significato della norma, sarebbe  fondamentale  il  ricorso  a  nozioni
 extra  giuridiche,  per  la determinazione dei   concetti di soggezione
 psichica e suggestione non forniti  dal legislatore.
     Se, per quanto rilevato, appare  indispensabile,  al  fine    della
 precisazione  del  significato della norma  incriminatrice del reato di
 plagio, il rinvio (per altro non  esplicito da parte del legislatore) a
 fonti extra giuridiche,  dette fonti, d'altra  parte,  fornirebbero  un
 parametro  incerto per la definizione univoca del significato del reato
 di plagio.
     Infatti  nella  prevalente  dottrina  si ritiene che la  seduzione,
 sotto qualsiasi forma, non puo' essere causa di  vera malattia mentale,
 cioe' di quella condizione  patologica che sola puo' consentire  a  una
 "persona  normale" di cadere in potere di un'altra persona.
     Le   descrizioni   dei   fenomeni   di   condizionamento   psichico
 consentirebbero, in definitiva, solo di affermare cio'  che    e'  gia'
 noto  e cioe' che il patrimonio psichico di ciascuno deriva  in massima
 parte dal comportamento altrui, cosi' come e'  normale che chi si trovi
 in  uno  "status"  culturale  piu'     modesto,  finisca   col   subire
 un'influenza  piu'  marcata dalla  manifestazione dell'altrui pensiero.
 Per  quanto  attiene     alla  suggestione,  questa   si   risolverebbe
 nell'evidenziare    solo la possibilita' che uno psichismo agisca su un
 altro   psichismo,  nel  senso,  cioe',  che  esistono  dei  meccanismi
 psichici per cui tra due soggetti si instauri un rapporto di prevalenza
 psicologica dell'uno rispetto all'altro.
     Ora  poiche'  non  tutte  le situazioni di prevalenza   psicologica
 costituiscono un illecito, il giudice  dovrebbe    a  proprio  arbitrio
 ritenere colpevole di plagio, non  chiunque agisca per imporre ad altri
 il  proprio modello,   ma chi, secondo i valori e i parametri culturali
 propri del  giudicante, avra' attuato un rapporto autorita'-soggezione,
 ritenuto  illecito  e  tale  da  configurare la sussistenza del "totale
 stato di soggezione" della vittima.  Ma in tal modo il giudice verrebbe
 a sostituirsi al   legislatore, con  violazione  dell'art.    25  della
 Costituzione.
     Per  quanto riguarda l'art. 21 Cost., ritiene il giudice a quo  che
 la  liberta'  di  manifestazione  del  pensiero  incontri  un    limite
 nell'interesse della integrita' psichica della persona,  solo in quanto
 si  concretizzi  in  mezzo  di pressione   violenta o subdola, quali la
 minaccia  o  la  frode;  cio'    stante,  l'evento   della   soggezione
 psicologica  di  un    soggetto ad altro soggetto, in quanto risultante
 dall'adesione ai modelli di comportamento da altri  proposti, non  puo'
 costituire  illecito  senza  intaccare  il   diritto costituzionalmente
 protetto. Sarebbe, allora,   indispensabile che  le  idee  non  vengano
 giudicate    attraverso  il filtro di una logica e di giudizi di valore
 propri  dell'interprete,  essendo  cio'  espressamente  vietato     dal
 richiamato art. 21 della Costituzione, sicche', ove si  voglia accedere
 alla  tesi  che il contenuto della norma  dell'art. 603 c.p. si risolva
 nella tutela della liberta'  morale, l'ambito della protezione dovrebbe
 essere  circoscritto, in sede interpretativa, nelle dimensioni che   ne
 consentano la compatibilita' con l'art. 21 della Costituzione.
     2.  -  L'ordinanza  e' stata regolarmente comunicata,  notificata e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
     Dinanzi alla Corte costituzionale e' intervenuto il  Presidente del
 Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e    difeso  da  l'avvocatura
 generale  dello  Stato,  Emilio  Grasso,   rappresentato e difeso dagli
 avvocati Mauro Mellini e   Rocco Ventre,  le  parti  civili  costituite
 Maria Pallante e  Cerocchi Luisa, rappresentate e difese dagli avvocati
 Rinaldo Taddei e Giovanni Maria Flick.
     3.  -  La  difesa  di  Emilio  Grasso conclude per   l'accoglimento
 dell'eccezione  di  legittimita'  riportandosi    alle   argomentazioni
 contenute nell'ordinanza di  rimessione.
     L'avvocatura  dello  Stato  chiede  invece  che  la questione   sia
 dichiarata infondata sostenendo, per quanto riguarda   l'art. 25  della
 Costituzione, che l'art. 603 e' norma  elastica ma non atipica.
     L'art.  603  contiene  nozioni  che,  correttamente   interpretate,
 assumerebbero  un  significato  specifico.    Presupposti  per  la  sua
 applicabilita'  sarebbero:  un    rapporto  di  prevalenza del soggetto
 attivo su quello  passivo, tale che comporti il totale assorbimento del
 secondo nella sfera d'influenza del primo in conseguenza  di specifiche
 e reiterate attivita' di quest'ultimo; la    separazione  del  soggetto
 passivo dal contesto sociale in  cui ha vissuto o comunque da qualsiasi
 altro  contesto    sociale da lui autonomamente scelto; la previsione e
 volizione dell'evento da parte del soggetto attivo.
     Quanto al contrasto della previsione incriminatrice con  l'art.  21
 della    Costituzione   l'avvocatura   rileva   che   una      corretta
 interpretazione della norma ordinaria comporta   l'esclusione di  detto
 contrasto.
     Il diritto di formare liberamente il proprio pensiero  rivestirebbe
 priorita'   logica   sul   diritto  di  estrinsecarlo;     pertanto  si
 verificherebbe la lesione del primo diritto   mediante l'esercizio  del
 secondo,  quando la   manifestazione (estrinsecazione) del pensiero del
 soggetto attivo abbia l'unico scopo di impedire al  soggetto passivo il
 ricorso a qualsiasi altra fonte di  conoscenza e di scelta.    In  tali
 casi  l'art.  603 viene  correttamente applicato, in quanto l'esercizio
 del  diritto    di manifestazione (estrinsecazione) del pensiero assume
 nel concreto  un  significato  analogo  a  quello  dell'esercizio    di
 qualsiasi altro mezzo di coazione illecita.
     4.   -   La   difesa   delle   parti   civili  nel  concludere  per
 l'infondatezza  della   questione,   osserva   preliminarmente      che
 l'ordinanza  del G.I.  appare sovrapporre e confondere,  nella sua pure
 amplissima motivazione, i diversi profili,  rispettivamente concernenti
 sia l'accertamento di fatto (e  pertanto l'eventuale difficolta'  delle
 prove),   sia   per  contro    la  configurabilita'  in  diritto  della
 fattispecie in oggetto.
     Quanto a tale configurazione, la previsione del dolo    generico  e
 della   condotta  libera,  sebbene  diano  alla    norma  una  indubbia
 latitudine di realizzabilita',  giustificata peraltro  dalla  rilevanza
 del  bene  tutelato  che    si collega con l'art. 2 della Costituzione,
 troverebbe una  precisa, logica ed esauriente delimitazione  del  reato
 nell'individuazione dell'evento "totale stato di  soggezione".
     Il "totale stato di soggezione", comunque attuato,  comunque subito
 o  cercato dal soggetto passivo,  comunque strutturato all'interno (nei
 rapporti tra agente e  soggetto passivo), si risolverebbe pur sempre ed
 univocamente in una preclusione e in un impedimento  alla  prosecuzione
 o  instaurazione  di  rapporti  autonomi   tra il soggetto passivo ed i
 terzi.
     Si tratterebbe di garantire che il rapporto tra soggetto  attivo  e
 passivo  non diventi talmente assorbente ed  esclusivo, da impedire che
 il soggetto passivo possa   verificarlo criticamente  (o  avere  quanto
 meno  la   possibilita' di verificarlo criticamente) alla luce di altri
 rapporti.
     Quanto al contrasto dell'art. 603  c.p.  con  l'art.  21  Cost.  Ia
 difesa  delle parti civili osserva che in una corretta  interpretazione
 dell'art.  603 c.p. doverosamente coerente   ai principi  e  ai  valori
 costituzionali,  non  viene  in    considerazione,  in  alcun modo, una
 problematica di   diritto  alla  manifestazione  del  pensiero,  ne'  a
 livello  individuale, ne' a livello di proselitismo e propaganda.
     Non   interesserebbero   invero,   in   una   corretta   e   logica
 interpretazione della norma, ne' il tipo ne' il contenuto dei  rapporti
 interindividuali  che  si  instaurano  tra  plagiato  e      plagiante.
 Conseguentemente,  non  interesserebbe la   norma penale l'eventualita'
 che tali rapporti  possano    risolversi  anche  in  manifestazioni  di
 pensiero, qualunque  esse siano.
     Interessa   invece   soltanto   la  circostanza  che,  in  uno  con
 l'instaurazione  di  tali  rapporti,  si  impedisca  al   plagiato   la
 possibilita' di avere altri rapporti concomitanti ed  antagonisti con i
 primi.   Proprio   la   possibilita'   di   esercitare      il  diritto
 costituzionalmente garantito dall'art. 21 della  Costituzione,  postula
 a  favore  del  soggetto  passivo  anche    e soprattutto un diritto ad
 informarsi ed a formare il  proprio  pensiero  attingendo    a  diverse
 fonti,  anziche' dover attingere esclusivamente e  coattivamente ad una
 unica fonte.
     La difesa del Grasso ha presentato memoria in  cui  con    ampie  e
 approfondite  argomentazioni  vengono ribadite e  svolte le conclusioni
 gia' rassegnate.
                         Considerato in diritto:
     1.  -  Il  giudice  a  quo  solleva  la  questione  di legittimita'
 costituzionale dell'art. 603 del codice  penale  sotto  due    distinti
 profili:  a)  la  norma  in parola contrasterebbe con  l'art. 25, comma
 secondo,  della  Costituzione  perche'  priva    del  requisito   della
 tipicita', il quale, coerentemente al  principio della riserva assoluta
 di  legge  in  materia    penale,  "richiede  una puntuale relazione di
 corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale";    b)  la
 medesima  norma  lederebbe  inoltre  l'art.  21,  comma    primo, della
 Costituzione nella parte in cui la sua portata  "ecceda la funzione  di
 tutela   dell'integrita'   psichica  della    persona  di  fronte  alle
 aggressioni che possono  verificarsi".
     2. - Con la prima censura il giudice a quo lamenta la    violazione
 del  principio  di  tassativita'  della  fattispecie    contenuto nella
 riserva assoluta di legge in materia  penale.
     In riferimento all'art. 25 della Costituzione questa Corte  ha piu'
 volte ripetuto che a base del principio invocato sta   in  primo  luogo
 l'intento di evitare arbitri  nell'applicazione di misure limitative di
 quel  bene    sommo ed inviolabile costituito dalla liberta' personale.
 Ritiene quindi la Corte che, per effetto  di  tale  principio,    onere
 della  legge penale sia quello di determinare la  fattispecie criminosa
 con connotati  precisi  in  modo  che    l'interprete,  nel  ricondurre
 un'ipotesi  concreta  alla norma  di legge, possa esprimere un giudizio
 di corrispondenza   sorretto da fondamento  controllabile.  Tale  onere
 richiede  una descrizione intellegibile della fattispecie astratta, sia
 pure  attraverso l'impiego di espressioni indicative o di  valore (cfr.
 ad es. sentenze 21/1961 e 191/1970) e risulta  soddisfatto fintantoche'
 nelle norme penali vi sia  riferimento a fenomeni la  cui  possibilita'
 di  realizzarsi  sia   stata accertata in base a criteri che allo stato
 delle attuali  conoscenze appaiano verificabili. Implicito e  ulteriore
 sviluppo  dei    concetti ai quali questa giurisprudenza si e' ispirata
 comporta  che,    se  un  simile  accertamento  difetta,  l'impiego  di
 espressioni    intellegibili non sia piu' idoneo ad adempiere all'onere
 di     determinare  la  fattispecie   in   modo   da   assicurare   una
 corrispondenza  fra  fatto  storico  che  concretizza  un   determinato
 illecito e il relativo modello astratto. Ogni  giudizio di  conformita'
 del  caso  concreto  a  norme di   questo tipo implicherebbe un'opzione
 aprioristica  e  percio'  arbitraria  in  ordine   alla   realizzazione
 dell'evento  o   al nesso di causalita' fra questo e gli atti diretti a
 porlo in  essere, frutto di analoga  opzione  operata  dal  legislatore
 sull'esistenza  e sulla verificabilita' del fenomeno. E  pertanto nella
 dizione dell'art. 25  che  impone    espressamente  al  legislatore  di
 formulare  norme  concettualmente  precise  sotto  il profilo semantico
 della  chiarezza e dell'intellegibilita' dei  termini  impiegati,  deve
 logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare  ipotesi che
 esprimano fattispecie corrispondenti alla  realta'.
     Sarebbe   infatti   assurdo   ritenere   che  possano  considerarsi
 determinate in coerenza al principio della tassativita' della    legge,
 norme che, sebbene concettualmente intellegibili,  esprimano situazioni
 e comportamenti irreali o fantastici  o comunque non avverabili e tanto
 meno  concepire    disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o
 puniscano fatti  che  per  qualunque  nozione  ed  esperienza    devono
 considerarsi   inesistenti   o   non   razionalmente   accertabili.  La
 formulazione di siffatte norme  sovvertirebbe i piu' ovvii principi che
 sovraintendono  razionalmente ad ogni sistema  legislativo  nonche'  le
 piu'  elementari nozioni ed insegnamenti intorno alla  creazione e alla
 formazione delle norme giuridiche.
     Da quanto premesso, risulta pertanto che la compiuta descrizione di
 una  fattispecie  penale non e' sufficiente ai  fini della legittimita'
 costituzionale di una norma che,   data  la  sua  struttura  e  la  sua
 formulazione   astratta,  non    consenta  una  razionale  applicazione
 concreta.
     La  questione  di   legittimita'   costituzionale   dell'art.   603
 sollevata   dal   giudice  a  quo  in  riferimento  all'art.  25  della
 Costituzione, s'incentra cosi' da un lato  sull'intellegibilita'    del
 precetto,  e  dall'altro lato sull'indagine che il  fenomeno ipotizzato
 dal legislatore sia effettivamente  accertabile dall'interprete in base
 a criteri  razionalmente    ammissibili  allo  stato  della  scienza  e
 dell'esperienza attuale.
     3. - Nell'esame della questione cosi' prospettata occorre anzitutto
 procedere  all'individuazione  della fattispecie   criminosa che l'art.
 603 designa con lo specifico termine    di  "plagio",  differenziandola
 dalle  altre  previste  nel  capo    terzo del secondo libro del codice
 penale (delitti contro la  liberta' individuale) e cercare di stabilire
 nel suo preciso    contenuto  giuridico  l'esatto  attuale  significato
 lessicale    della  parola, tenendo conto che nel corso di due millenni
 con essa sono state espresse diverse figure criminose.
     L'indagine storica ha ampiamente accertato che, come gia' avvertono
 antichi scrittori latini, plagium deriva dal  greco e viene  usato  nel
 linguaggio  giuridico  sin  forse  dal    III secolo a.C. per designare
 l'azione di impossessarsi,  trattenere o fare oggetto di  commercio  un
 uomo libero o  uno schiavo altrui.
     Marziale,  nel suo famoso epigramma 52, adopera la  parola in senso
 figurato, paragonando la falsa  attribuzione di opere letterarie altrui
 all'illecito  assoggettamento di schiavi altrui  al  proprio  servizio,
 dando cosi' vita ad un secondo significato, che ancora  oggi sopravvive
 nelle  lingue  moderne  (v.  l'italiano    plagio, il francese plagiat,
 l'inglese plagiarism, il tedesco  Plagiat), indicante l'azione di farsi
 credere autore di  prodotti dell'ingegno altrui e quella di  riprodurli
 fraudolentemente.  Questo  delitto  nel linguaggio comune   e' chiamato
 plagio e piu' specificatamente plagio  letterario. Esso e' espresso non
 pero' sotto il nome di  plagio nelle leggi italiane  sulla  stampa  (v.
 artt.  61  e  62    della  legge  18  marzo  1926,  n.  562) e in varie
 legislazioni  straniere. Presso vari autori e anche  in  antiche  leggi
 viene   usato il termine di "plagio politico" per indicare l'azione  di
 arruolare illegittimamente taluno contro la propria  volonta' in armate
 straniere di terra o di mare.
     L'individuazione nel diritto romano di una  figura    specifica  di
 reato,  separandola  e  distinguendola  da quella   di furto e di altri
 crimini e riunendo sotto la   denominazione  di  plagio  determinate  e
 precisate  fattispecie, e'  opera della lex Fabia di autore incerto, ma
 collocabile fra la  fine  del  III  e  l'inizio  del  II  secolo  a.C.,
 ampiamente  citata  e  commentata dai   giuristi romani (Gaio, Ulpiano,
 Paolo, Callistrato) e oggetto di  accurate indagini anche nella recente
 dottrina  romanistica. Nelle Sententiae di Paolo, nella Collatio  legum
 mosaicarum      et   romanarum,   nel  Codice  Teodosiano,  nel  Codice
 Giustinianeo, nel Digesto, un  titolo  e'  dedicato  alla  legge.  Essa
 prevedeva   l'ipotesi   di  chi  avesse  dolosamente  tenuto  celato  o
 incatenato un uomo libero ingenuo o liberto o ne avesse  fatto  oggetto
 di  vendita, donazione o permuta, nonche'  l'ipotesi che il reato fosse
 compiuto da uno schiavo  o  per  propria  iniziativa  o  anche  con  la
 consapevolezza  del  suo    padrone.   Contemplava anche come plagium i
 medesimi  atti compiuti su uno schiavo altrui contro  la  volonta'  del
 suo  proprietario;  sembra  che  rientrasse in questa figura di   reato
 anche l'azione di chi induceva  lo  schiavo  a  fuggire    dal  proprio
 padrone.
     Nelle  leggi  barbariche  e  nelle fonti giuridiche medioevali   il
 termine plagium e' costantemente usato a designare  l'atto di colui che
 sottopone  illegittimamente  un  essere    umano  a  schiavitu'  o   lo
 trasferisce  contro  la sua volonta' in  altri luoghi facendolo oggetto
 di negozi giuridici, crimine  represso con gravissime pene (v.  ad  es.
 il   cap.  78    dell'Editto  di  Teodorico  del  VI  secolo).  La  lex
 Visigothorum del V e VI secolo sottopone a gravi  sanzioni afflittive e
 patrimoniali gli uomini liberi e i servi  che abbiano  plagiato  uomini
 liberi  o  servi  altrui. La lex  Salica del V e del VI secolo e la Lex
 Frisionum dell'VIII  secolo equiparano il plagio di nobili e di  uomini
 liberi  all'omicidio.
     Il  medesimo  significato  legale  tecnico  dei  termini   plagium,
 plagiator e del verbo  plagiare  si  mantiene    costante  nel  diritto
 intermedio,  come  puo'  constatarsi  dai    vari  lessici  e repertori
 giuridici.
     4. - Nel diritto antico e  sino  all'inizio  dell'eta'  moderna  il
 reato  di  plagio era inerente all'istituto giuridico della  schiavitu'
 inteso come  stato  della  creatura  umana  non    avente  personalita'
 giuridica:  la  sua  repressione  nelle    varie  legislazioni  mira  a
 proteggere da invasioni illecite   da parte  di  terzi  il  diritto  di
 proprieta'  dei padroni degli schiavi nonche' a colpire la riduzione in
 schiavitu' o in  condizione di fatto analoga di un uomo libero.
     A  partire  dalla  fine  del  secolo  XVIII  con   la   progressiva
 accettazione  del  principio  dell'uguaglianza  dello stato   giuridico
 delle  persone  e  con   la   conseguente   progressiva      abolizione
 dell'istituto   della  schiavitu'  (proclamata  per  la    prima  volta
 legislativamente dalla  Francia  rivoluzionaria    nel  1791,  revocata
 subito dopo e definitivamente stabilita  nel 1848, dall'Inghilterra nel
 1833,  dagli  Stati  Uniti nel 1863 e   dietro il loro esempio da molte
 altre Nazioni), con la convenzione  internazionale di Saint-Germain del
 1919 la quale  dichiarava illecita la schiavitu' in tutte le sue forme,
 compreso  il  lavoro  forzato,  la  pseudo-adozione,  il  concubinaggio
 forzato, la schiavitu' per debiti ed altre  situazioni di fatto, con la
 convenzione  internazionale di   Ginevra del 1926 e con quella del 1956
 si e'  necessariamente da tempo trasformata la nozione del    reato  di
 plagio. Esso non puo' piu' essere configurato come un delitto contro la
 proprieta'  di  esseri  umani,  ma  e' esclusivamente concepito come un
 delitto contro la  liberta' individuale.
     Le legislazioni preunitarie italiane, tranne due, non   contenevano
 norme  che vietassero specificatamente la  schiavitu' e il commercio di
 schiavi, ma solo norme che  punivano la riduzione di  uomini  liberi  e
 particolarmente    di  fanciulli  in condizioni di servaggio.  Cosi' il
 Codice  penale francese del 22 febbraio 1810, in vigore per molti  anni
 negli Stati sottoposti al dominio e all'influenza napoleonica, pur  non
 usando  espressamente il termine  plagiat, noto comunque nel linguaggio
 forense e  giudiziario, puniva agli artt. 341, 344 l'arresto illegale e
 il  sequestro di persona e agli artt.   345  -  355  il  rapimento,  la
 sottrazione,   la   sostituzione   di   minori   con  altri,  la  falsa
 attribuzione  di  maternita',  il  trasferimento  illegale  di  minori,
 inoltre  l'esposizione  e  l'illegale  abbandono  in un   ospizio di un
 minore di 7 anni.
     Anche il "Codice per lo Regno delle Due Sicilie"  del  21    maggio
 1819,  in  vigore  dal  1  settembre del medesimo   anno, senza parlare
 espressamente di plagio, contempla  vari delitti contro  l'asservimento
 di  persone.  Cosi'  all'art.    119  la pirateria contro nazionali del
 regno. Agli artt. 403   e 405 punisce l'abbandono  e  l'esposizione  di
 minori  di    sette anni e il loro illegittimo abbandono in un ospizio.
 Anche il regolamento sui delitti e sulle pene per lo Stato   Pontificio
 del  20 settembre 1832, in vigore il 1  novembre, all'art. 126 sanziona
 con gravi pene l'ingaggio  e l'arruolamento di  sudditi  pontifici  per
 porli  al  servizio    militare di principi esteri e agli artt. 305-309
 l'esposizione,  l'occultamento, la sostituzione di un  fanciullo  e  la
 supposizione di parto senza designare questi reati come  plagio.
     L'arruolamento  non  autorizzato  di sudditi per servire in  truppe
 estere e' contemplato anche all'art. 112 del codice    penale  per  gli
 Stati  di Parma, Piacenza e Guastalla del 5  novembre 1820 in vigore al
 1 gennaio 1821 ed anche  all'art. 129 n. 4 del codice criminale per gli
 Stati Estensi  del 14 dicembre 1855 in vigore  il  1  maggio  1856.  Il
 primo   di   questi   codici  sanziona  all'art.  390  l'esposizione  e
 l'abbandono di minori di sette anni.  Entrambi  ed  anche  il    Codice
 penale  degli  Stati  di S.M. il Re di Sardegna del 29 novembre 1859 in
 vigore il 1 maggio 1860 non usano  il termine di plagio.
     Il reato di riduzione in situazione analoga  alla  schiavitu'    e'
 invece  espressamente  contemplato  (senza pero'   adoperare il termine
 tedesco Menschenraub e  il  suo    equivalente  Plagium),  nella  nuova
 edizione del Codice  penale per l'impero d'Austria del 3 settembre 1803
 pubblicata  il  27 maggio 1852, la quale nella parte prima,  capo nono,
 sotto  il  titolo  "della  pubblica   violenza",   prevista   "mediante
 trattamento  di  una  persona  in  modo    proprio della schiavitu'" al
 paragrafo (decimo caso) dichiara un  principio essenziale per lo  stato
 giuridico  della  persona,   affermando che non si tollera "nell'Impero
 d'Austria la   schiavitu',  ne'  l'esercizio  d'una  podesta'  ad  essa
 relativa",  e    che  diviene  "libero  ogni schiavo nel momento in cui
 tocca l'imperiale territorio austriaco od  anche  soltanto    una  nave
 austriaca,  ed  acquistando  parimenti  la sua liberta' anche in Istato
 estero, nel momento in cui per   qualsivoglia titolo  viene  rilasciato
 come  schiavo  ad  un    suddito  dell'Impero  austriaco". Nello stesso
 paragrafo e'  severamente represso con la pena da 10 sino a 20 anni  di
 carcere duro il traffico di schiavi.
     Il  medesimo  codice  al  paragrafo 90 punisce chi "senza saputa ed
 assenso della legittima autorita' riduce coll'astuzia o colla  forza in
 suo potere una persona per consegnarla contro la  di lei voglia ad  una
 forza  estera",  ai  paragrafi    92  e 93 commina   gravi sanzioni per
 l'ingaggio non autorizzato e la    restrizione  non  autorizzata  della
 liberta' personale.
     5.  -  Delle legislazioni italiane preunitarie una sola, il  codice
 penale pel Granducato di Toscana del 20 giugno   1853 in  vigore  il  1
 settembre  dello stesso anno, usa il  termine di "plagio" in un preciso
 significato giuridico  nell'art. 358 posto nella Sezione  II,  capo  I,
 "Dei delitti  contro la liberta' personale e la privata tranquillita' e
 il  buon nome altrui". "paragrafo 1. Chiunque, per qualsivoglia  scopo,
 in  grazia  del quale il fatto non trapassi sotto il titolo di un altro
 delitto, si e' ingiustamente impadronito di una persona  suo  malgrado,
 od    anche  d'una  persona  consenziente, che sia minore di 14   anni,
 soggiace come colpevole di plagio, alla casa di  forza da tre  a  sette
 anni,  o,  nei  casi  piu'  leggieri, alla   carcere da uno a tre anni.
 paragrafo 2. E quando il plagiario abbia  consegnato la persona, di cui
 si e' impadronito, ad un  servigio estero militare o navale, o  l'abbia
 fatta  cadere in   schiavitu', e' punito sempre con la casa di forza da
 cinque  a dodici anni".
     La parola "plagio" ricorre nel medesimo codice  all'articolo 119 P.
 1. "Chiunque fuori del caso di plagio,   arrola, senza  la  permissione
 del  Governo,  uno o piu'  toscani sotto le bandiere di un altro Stato,
 che non sia in  guerra con la Toscana, incorre nella carcere da  uno  a
 cinque anni".
     Nel  seguente  art.  359  la  pena  prevista  nel  paragrafo  2 del
 precedente articolo e' comminata a colui che "ha tolto  arbitrariamente
 all'autorita'  domestica  un minore di 14  anni tutto che consenziente,
 affinche' professi una  religione diversa da quella in  cui  e'  nato",
 fatto  questo    che,  secondo uno dei maggiori commentatori del codice
 toscano, Giuseppe Puccioni, dovrebbe intendersi come  un delitto affine
 a quello del plagio.
     Le fattispecie delittuose contemplate in questo codice col  nome di
 plagio sono ampiamente esaminate nei  commenti dello stesso Puccioni  e
 di  Francesco  Carrara.    Secondo il primo, gli estremi del delitto di
 plagio  sarebbero per la scienza penale: "1) violazione della  liberta'
 personale di un uomo; 2) operata con violenza o fraude  su  quelli  che
 sono  sui  juris; con dissenso del padre  o del tutore in quelli alieni
 iuris subiecti; 3) animo di far  lucro....Il codice... riconosce plagio
 in qualsivoglia fine  purche' il fatto non trapassi sotto il titolo  di
 un  altro  delitto" lo distingue dagli altri delitti contro la liberta'
 personale e in particolare da quello previsto nell'art. 360    (carcere
 privato),  dall'arresto  illegittimo,  dal  ratto  e  dalla    violenza
 carnale. "I Codici Francese ed Italiano" nota il  Puccioni  "confondono
 il plagio con i delitti di arresto, e detenzione arbitrarii, di carcere
 privato,  o  di  riscatto,   onde attinger non possiamo da essi notizia
 alcuna  positiva".
     Il Carrara, commentando l'art. 358 scriveva: "...la    nozione  del
 plagio  secondo  i  dettati delle scuole e delle  migliori legislazioni
 contemporanee puo' circoscriversi in  questi termini -  la  violenta  o
 fraudolenta  abduzione  di  un    uomo  per  farne  lucro o per fine di
 vendetta - . I criteri  essenziali di questo reato  sono  tre:  1)  che
 siasi  sottratto un uomo;  2) che siasi sottratto con frode o violenza;
 3) che siasi sottratto per   fine di farne   lucro,  o  per  esercitare
 sopra  di  lui  una  vendetta".  Questa   nozione del Carrara e' ancora
 citata e richiamata  in    dottrina  ed  accolta  in  alcune  pronunzie
 giudiziarie del nostro  tempo.
     L'esame  delle precedenti legislazioni degli Stati italiani  mostra
 pertanto la difficolta' di trarre da esse una nozione  precisa e sicura
 del reato di plagio e i criteri per  distinguerlo  fra i delitti contro
 la liberta' personale. Da questo esame   risulta pero'  anche  in  modo
 indubbio  che  la  fattispecie    criminosa chiamata plagio, come anche
 tutte quelle  contemplate   nei vari codici, quali  delitti  contro  la
 liberta'   personale,     sono  sempre  state  concepite  come  attuate
 esclusivamente  mediante  un'azione fisica del colpevole e  individuate
 attraverso   elementi  oggettivi.  6. - Il primo codice penale italiano
 unitario pubblicato  il 22 novembre 1888, in vigore il 30 giugno  1889,
 nel    libro  II, titolo II, "dei delitti contro la liberta'", capo III
 sotto il titolo "dei delitti contro la liberta' individuale"  disponeva
 all'art.  145:  "Chiunque  riduce una persona in schiavitu' o  in altra
 condizione analoga e' punito con la  reclusione    da  dodici  a  venti
 anni".  La  fattispecie  prevista "riduzione in   schiavitu' o in altra
 situazione analoga"  era  denominata    nelle  rubriche  ufficiali  del
 progetto  e  figurava in varie edizioni  del codice come "plagio". Essa
 si qualificava nel suo contenuto,   attraverso  il  confronto  con  gli
 altri  delitti  contro  la liberta'   individuale previsti nello stesso
 capo e precisamente distinguendola dalla privazione  illegittima  della
 liberta'    personale  (art.  146) rubricata negli indici ufficiali del
 progetto    come  "sequestro  di  persona  commesso  da  privato",  dal
 "sequestro  di  persona  commesso  da  pubblico  ufficiale" (art. 147),
 dalla sottrazione o dalla illegittima ritenzione per fine di   libidine
 o  di  matrimonio (artt. 340 e 341), dalla sottrazione di  minore di 15
 anni col consenso di essa ai genitori o tutori o a chi    ne  abbia  la
 cura   o  la  custodia  (art.  148  rubricato  come    "sottrazione  di
 minorenne"), dalla "perquisizione personale   arbitraria"  (art.  149),
 dagli  "abusi  di  potere verso persona   carcerata o arrestata" (artt.
 150 - 152), dalla "pena del  pubblico ufficiale che agisce per un  fine
 privato"  (art.  153),  dalla    "violenza  privata"  (art. 154), dalle
 "minacce" (art. 156).
     La fattispecie di cui all'art. 145 del codice del  1889    (plagio)
 presupponeva  pertanto  un'azione umana   esclusivamente fisica, il cui
 risultato era quello di porre  la vittima in una  condizione  materiale
 di   dipendenza   da      altri   senza  avere  l'effetto,  nell'ambito
 dell'ordinamento  italiano, dato il principio  in  esso  vigente  della
 liberta'    giuridica di ogni essere umano, di far perdere alla vittima
 lo stato giuridico di uomo libero o di  mantenerla  nella    condizione
 giuridica  di  individuo  privo  di questo stato o  in stato inferiore.
 Considerazione questa che nella   redazione  del  progetto  del  codice
 aveva  indotto la   Commissione della Camera dei Deputati a proporre la
 soppressione della  disposizione  dell'art.  141  (divenuta  nel  testo
 definitivo l'art. 145).
     7.  -  Il codice penale italiano del 1930 usa il termine  plagio in
 un significato del tutto nuovo,  diverso  da  quello    dei  precedenti
 codici  e  in particolare da quello del 1889 e  diverso anche da quello
 originario antico.
     Mentre il codice del 1889 indicava nel titolo II del libro    II  i
 delitti  contro  la  liberta',  ordinandoli  in 6 capi, di cui il   III
 comprendeva i delitti contro la liberta' individuale  (artt.  145-156),
 il  nuovo  codice raccoglie nel capo III del  libro II i delitti contro
 la liberta' individuale,  distinguendoli in 5 sezioni, le cui tre prime
 sono  intitolate: I - dei delitti contro la  personalita'  individuale;
 II  -  dei  delitti  contro  la  liberta'  personale; III - dei delitti
 contro la liberta' morale.
     La prima sezione comprende 5 articoli (600 - 605). Il   600  ha  un
 contenuto  letterale  identico  a quello dell'art.   145 del precedente
 codice del 1889, articolo, il quale,   come gia' detto,  era  rubricato
 sotto  il  nome  di "plagio" e  corrisponde pedissequamente al testo di
 questo:  "Chiunque riduce una persona in stato di schiavitu' o  in  una
 condizione  analoga alla schiavitu' e' punito con la  reclusione da 5 a
 15 anni". (Rispetto al testo dell'art. 145  del codice del 1889  vi  e'
 solo  l'aggiunta  delle due parole:   "alla schiavitu'" che qualificano
 superfluamente    l'aggettivo  "analoga",  e l'ammontare della pena che
 nell'art. 145 era da 12 a 20 anni). Nell'art. 600 del codice  del  1930
 la  disposizione gia' contenuta nell'art. 145 del precedente codice non
 e' piu' chiamata "plagio", ma  "riduzione in schiavitu'".
     Segue  l'art.  601  "tratta  e  commercio  di  schiavi",   il   602
 "alienazione  e  acquisto  di  schiavi"  e  quindi il 603,   intitolato
 "plagio": "Chiunque sottopone una persona al  proprio potere,  in  modo
 da  ridurla in totale stato di  soggezione, e' punito con la reclusione
 da 5 a 15 anni".
     Chiude  la  sezione  l'art.  604,   intitolato:   "fatto   commesso
 all'estero  in  danno  di  cittadino  italiano",  prescrivendo che   le
 disposizioni di questa sezione "si applicano altresi',  quando il fatto
 e' commesso all'estero in danno di  cittadino italiano".
     8. - Dai lavori preparatori del codice penale del 1930  risulta che
 la formulazione di quello che doveva divenire  l'art. 603 (art. 612 del
 progetto), l'individuazione del  reato in esso  previsto  e  l'aggiunta
 nei  delitti  contro  la    personalita' individuale di una fattispecie
 criminosa non   indicata nel codice  del  1889,  e  diversa  da  quella
 dell'art.    600 del nuovo codice e dell'art. 145 del precedente, erano
 state oggetto di lunghe e complesse discussioni fra i   commissari.  La
 maggioranza  dei membri della  commissione parlamentare aveva affermato
 l'opportunita'  di mantenere l'antica denominazione  di  "plagio"  alla
 riduzione  in  schiavitu'  o in condizione analoga e si era  dichiarata
 contraria alla proposta di aggiungere una   nuova fattispecie  ignorata
 dai  precedenti  codici,  insistendo sull'opportunita' di non apportare
 modifiche  alle configurazioni tradizionali.
     I commissari denunziavano infatti il pericolo che,  usando  termini
 antichissimi,  da essi considerati lessicalmente  sicuri, consacrati da
 oltre duemila anni nel linguaggio  e    nell'esperienza  legislativa  e
 forense  per  indicare  ex  novo   istituti sino allora sconosciuti, si
 confondessero concetti  giuridici basilari e s'incorresse  in  mancanza
 di chiarezza.  La medesima maggioranza insisteva  sull'indeterminatezza
 della norma cosi' proposta.
     Uguali  opinioni  esprimevano le commissioni reali degli avvocati e
 procuratori di Napoli e Roma e la Corte di  appello di Napoli,  negando
 l'esistenza  di  una specifica  figura criminosa chiamata plagio che si
 distinguesse dalla  schiavitu'.
     L'opinione dei membri della commissione parlamentare  si  traduceva
 in  un  preciso  ordine  del  giorno  votato  a    grande  maggioranza,
 esprimente  l'avviso  che  gli  articoli    del  progetto  609  e   612
 (rispettivamente  600  e  603  del  codice)  fossero    fusi in un solo
 articolo.
     Il guardasigilli nella sua relazione al progetto  definitivo    non
 teneva  alcun  conto  del  risultato della votazione e non  riteneva di
 fondere i  due  articoli,  allegando  come    argomento  "il  vantaggio
 indiscutibile  della chiarezza e  per la considerazione che trattasi di
 figure delittuose  distinte". Affermava di eliminare "ogni  dubbio"  in
 ordine   alle discussioni circa  l'art. 145 del codice del 1889 "intese
 a stabilire se per 'schiavitu' o altra analoga condizione  '  fosse  da
 intendere  schiavitu' e condizione di diritto, ovvero anche di fatto".
     Va  rilevato  che  alla  disposizione  dell'art. 612 del   progetto
 "chiunque sottopone una persona al proprio potere in   modo da  ridurla
 in  tale  stato  di  soggezione da sopprimerne   totalmente la liberta'
 individuale, e' punito con la   reclusione da 5 a  10  anni",  venivano
 soppresse  le  parole  "in  tale  stato    di soggezione da sopprimerne
 totalmente la liberta'  individuale", dando cosi' vita all'attuale art.
 603 del codice. E singolare  che di una variazione cosi' importante del
 testo, non vi sia  alcun accenno nella relazione del  guardasigilli  al
 re  e manchi  ogni giustificazione dei motivi concettuali e pratici che
 avrebbero indotto a tale variazione.
     La relazione del guardasigilli, la quale commentava il   testo  del
 progetto  e  non il testo definitivo, senza tener  conto del mutamento,
 contemplava come figura distinta,    ma  parallela  alla  riduzione  in
 schiavitu',  il  plagio,    affermando  che  questo reato "consiste nel
 sottoporre  taluno al proprio potere in modo da ridurlo in  tale  stato
 di    soggezione da sopprimerne totalmente la liberta'  individuale". E
 aggiungeva, "lo stato di soggezione   suddetto  e'  qui  uno  stato  di
 fatto.  Lo status libertatis,  come stato di diritto rimane inalterato,
 ma la  liberta'    individuale  della  vittima  e'  soppressa.  Tra  il
 colpevole  e    la vittima si stabilisce, in sostanza, un rapporto tale
 che il  primo acquista sulla seconda  completa  padronanza  e  dominio,
 annientandone  la liberta' nel suo contenuto  integrale, impadronendosi
 completamente della sua  personalita'". E dopo aver detto che in questo
 delitto "il  consenso della vittima non puo' escludere  il  reato,  non
 essendo  la  liberta'  individuale, nel suo complesso,  riferibile alla
 personalita' umana, un diritto disponibile",  la relazione prosegue con
 un passo il quale di per se stesso mostra l'ambiguita' della norma:  "E
 da  avvertire    come  l'espressione 'sopprimere totalmente la liberta'
 individuale '  non sarebbe con esattezza interpretata se  si  ritenesse
 che    debbano risultare soppresse, nella loro totalita', tutte,  niuna
 esclusa, le manifestazioni nelle quali la liberta'  puo'    esplicarsi;
 essa,  invece,  e'  apparsa  come  la  piu'  congrua   per esprimere il
 concetto di negazione da parte  dell'agente, della  personalita'  della
 vittima,  e  per    differenziare  il plagio da altri delitti contro la
 liberta' individuale, ad es. il sequestro di persona, nei quali non  si
 riscontra il rapporto di soggezione anzidetto, che  investe e  lede  la
 personalita'  umana. Non sarebbe,  pertanto, da escludere il plagio se,
 per avventura, alla  vittima, assoggettata al potere dell'agente, fosse
 residuata  una  qualche  liberta',  ad  es.  di   locomozione,   o   di
 corrispondere per lettera con terzi, ecc.".
     Da  questa relazione, sia pure lacunosa e scarsamente  motivata del
 progetto, risulta che da un lato,  riproducendo letteralmente nell'art.
 600 la formula  dell'art. 145 del codice precedente, ma aggiungendo  ex
 novo  la  disposizione  dell'articolo  603,  il delitto di riduzione in
 schiavitu' o in situazioni analoghe, veniva ad   essere limitato  nella
 sua  estensione,  circoscrivendo,    nell'intenzione  dei  compilatori,
 attivita' criminose dirette   a violare soltanto lo  stato  di  diritto
 della  vittima.    Dall'altro  lato  con  la disposizione dell'art. 603
 s'intendeva punire attivita' criminose dirette a costituire in    altri
 uno stato di fatto di totale soggezione.
     La  nozione  di  schiavitu'  o condizione analoga alla   schiavitu'
 intesa come condizione di diritto contemplata  negli articoli 600 - 602
 del codice e che la relazione del  guardasigilli intendeva  distinguere
 dalla  fattispecie  dell'art. 603 non teneva comunque conto dell'art. 1
 della  Convenzione di Ginevra 25 settembre 1926 divenuta  legge interna
 italiana con il r.d. 26 aprile 1928, n. 1723 richiamata nella  medesima
 relazione  e  rinnovata  nella  convenzione  di Ginevra 7 novembre 1956
 approvata con  legge 20 dicembre 1957, n. 1304. Nell'elenco delle varie
 situazioni  che  la  convenzione  considera  "istituzioni  e   pratiche
 analoghe alla schiavitu'" varie di esse sono  condizioni di fatto e non
 di diritto perche' realizzabili  senza che alcun atto o fatto normativo
 le autorizzi. Ne  consegue che condizione analoga alla schiavitu'  deve
 interpretarsi  come  condizione  in cui sia socialmente   possibile per
 prassi, tradizione e circostanze ambientali,   costringere una  persona
 al  proprio esclusivo servizio,  laddove il plagio deve necessariamente
 ipotizzare anche una conculcazione dell'interno volere. Ed infatti  dai
 lavori  preparatori del codice del 1930 e  dalle varie relazioni emerge
 che la fattispecie di cui  all'art. 603 viene implicitamente ipotizzata
 quale avente   sulla  vittima  un  effetto  psichico  annientandone  la
 liberta'  nel suo contenuto integrale, anche se nessuno dei  commissari
 e  lo  stesso guardasigilli avesse mai  esplicitamente affermato che il
 delitto potesse attuarsi  senza una padronanza sulla persona realizzata
 mediante  una attivita' fisica umana.
     Nel codice del 1930 risulta pertanto individuata,    distinguendola
 da quella dell'art. 600, una fattispecie  penale che per la prima volta
 e'  chiamata  con    l'antichissimo termine di "plagio", concretizzando
 legislativamente nel solo ordinamento italiano la modifica  del  valore
 lessicale  della  parola. Nello stesso   tempo non viene conservata per
 l'art. 600 quella che era  la denominazione della identica  fattispecie
 prevista  nell'art. 145 del codice del 1889 ed indicata nelle  rubriche
 ufficiali  del  progetto  di  questo codice come   "plagio". Essa viene
 invece denominata "riduzione in schiavitu'".
     La nuova norma, la  quale  prevedeva  una  pena    gravissima,  era
 sconosciuta  alle precedenti legislazioni  italiane e a quelle europee.
 Ne'  risulta  che  in  altri    ordinamenti  sia  stata   recepita   la
 disposizione dell'art. 603  del codice italiano vigente o che sia stata
 prevista  e  repressa l'attivita' criminosa indicata in questo articolo
 distinguendola dalla riduzione in schiavitu' o in  situazione analoga.
     9. - Nell'esame della dottrina e della giurisprudenza  in    ordine
 all'art.  603  possono  distinguersi  cronologicamente    due  distinti
 periodi, il primo fra il 1930 e il 1960, il  secondo dal 1961 ai nostri
 giorni.
     Sino  al  1960  la  dottrina   aveva   costantemente   cercato   di
 interpretare   l'art.   603,  configurando  teoricamente  una    totale
 soggezione  di  fatto  del   soggetto   passivo   con      soppressione
 dell'autonomia  della  vittima, tentando di   distinguere la figura del
 plagio dagli altri  delitti  contro  la    liberta'  individuale  e  di
 renderla autonoma rispetto ad essi  e soprattutto rispetto al sequestro
 di persona, di cui  all'art. 605.
     Dagli  scritti  dei  vari  autori  risulta  l'incertezza e talvolta
 affiorano anche i contrasti  per  la  determinazione  degli    elementi
 costitutivi  del  reato non chiaramente indicati  dalla norma dell'art.
 603 e in particolare per l'identificazione del   risultato  dell'azione
 criminosa  indicato quale "totale stato  di soggezione" e per stabilire
 il significato e la portata di   questi  termini  sia  pure  attraverso
 esempi  di fattispecie.  Questi esempi costantemente si riducono a casi
 di  parziale, ma non mai di totale soggezione.
     Dai commenti all'art. 603 anteriori al 1960 non e' dato    ricavare
 nemmeno  approssimativamente  le  attivita' con le   quali questo stato
 puo' concretamente realizzarsi,  attraverso quali modalita', e  nemmeno
 stabilire se sia  possibile accertare il compimento di questo reato.
     Quasi tutti gli autori nei primi anni di vita del codice  indicano,
 sulle  orme  del  Carrara,  quale  elemento    distintivo,  soprattutto
 rispetto al sequestro di persona, lo   scopo di  porre  la  vittima  al
 servizio  del  plagiante e di  ricavare dall'attivita' di tale servizio
 un lucro o comunque   un profitto. I  concetti  espressi  dal  Carrara,
 secondo    alcuni, potrebbero essere di guida per l'interpretazione del
 codice vigente.  Piu'  tardi,  altri  autori,  nella  varieta'    delle
 molteplici  interpretazioni  proposte, hanno invece   negato che questo
 elemento sia imprescindibile per  determinare il fondamento del  reato.
 Altri  ancora    affermano  che  il  motivo  o il fine dell'azione sono
 indifferenti  per  la  nozione  del  reato   e   si   richiamano   alle
 dichiarazioni  della  relazione  del  guardasigilli  la  quale   sembra
 caratterizzare il reato soprattuto in base al    risultato  dell'azione
 plagiante:  "Cio'  che il giudice deve  avere di mira, per accertare se
 esista il plagio, e',  in  altre    parole,  il  rapporto  di  completa
 soggezione tra colpevole e  vittima, di guisa che quest'ultima, privata
 della  facolta'  di   liberamente volere e di liberamente determinarsi,
 costituisca quasi una res in  potere  del  primo.  Quando  cio'    egli
 accerti,  il  delitto  di  plagio assorbisce ogni altro  attentato alla
 liberta' personale, compreso lo stesso  sequestro di persona".
     Pertanto emerge chiaramente come nei primi trenta anni  di vita del
 codice non fosse stato risolto in modo   soddisfacente il  problema  di
 condurre in ipotesi concreta  ed univoca la formula normativa dell'art.
 603.
     La   dizione   letterale  di  questa  non  consentiva  ipotesi  che
 corrispondessero a  quella  che  per  secoli  era  stata    l'accezione
 tradizionale  del  plagio,  quali ad esempio il   sottoporre persone al
 lavoro obbligatorio, il rapire  fanciulli per appropriarsi  della  loro
 attivita' di mendicanti,  il fornire donne ad harem di sovrani assoluti
 ed   altri.  Il  testo,    invece,  nella  presumibile  intenzione  del
 legislatore, sembra avere   riguardo  al  totale  stato  di  soggezione
 supponendo  che sia   possibile verificare la condizione di "schiavo di
 fatto"  distintamente da quella di "schiavo di diritto", condizione  la
 prima in cui il fattore psichico ha maggiore  rilievo di quello esterno
 ossia il tenore di vita del  plagiato.
     In  tal  modo la posizione interpretativa di chi tendeva a  fornire
 una  connotazione  tipica  all'azione  plagiante,  al    rapporto   fra
 plagiatore  e  plagiato  e  allo  status  di questo   ultimo, risultava
 inappagante. Il fatto stesso di punire in sostanza con  l'art.  603  un
 fenomeno  di  privazione  della personalita', di riduzione da persona a
 cosa eterodiretta, fenomeno della cui verificabilita' in  concreto  ben
 si  poteva dubitare, induce inizialmente la dottrina ad interpretazioni
 che   contraddittoriamente   oscillano   tra   l'esteriorizzazione    e
 l'interiorizzazione   del   plagio.   Pertanto  taluni  autori,  mentre
 cercavano di definire   l'elemento materiale del  reato,  parlavano  di
 padronanza    corporea  e  di padronanza psichica, senza porsi pero' il
 problema della dipendenza di un fenomeno dall'altro,  negavano  che  il
 reato  potesse  essere caratterizzato da un dolo specifico, affermavano
 che il consenso della vittima non esclude il delitto, aprendo cosi'  la
 via  alla  distinzione,    peraltro  inafferrabile,  tra  persuasione e
 suggestione, tra  negazione della personalita' e libero convincimento.
     10.  -  La  giurisprudenza  sull'art. 603 fornisce un sicuro   dato
 oggettivo che avvalora in  modo  decisivo  il  dubbio    affacciato  in
 dottrina della possibilita' di dare alla norma,  quale e' lessicalmente
 formulata,  un'applicazione    univoca. Nei primi quaranta anni di vita
 del codice si   sono  avuti  rarissimi  processi  di  plagio  tutti  di
 assoluzione   con la formula "perche' il fatto non sussiste" o "perche'
 il  fatto non costituisce reato" o perche' il fatto non  costituiva  il
 reato di plagio, ma doveva essere  diversamente rubricato.
     Nelle  motivazioni  di  queste sentenze, esponendo le   ragioni per
 escludere nelle specie la sussistenza del reato  di plagio,  si  cerca,
 seguendo le vaghe e indeterminate  indicazioni espresse nella relazione
 del  guardasigilli, di   individuare gli elementi costitutivi di questo
 reato. Si  ripete che tale delitto mira a trarre profitto dalla persona
 della vittima considerata come cosa atta a rendere servigi, ad   essere
 prestata,  ceduta,  alienata,  perdendo  la sua personalita' e i   suoi
 diritti per divenire una  cosa, oggetto di  diritti  patrimoniali;  che
 l'elemento    materiale  consiste  "nella  costituzione tra il soggetto
 attivo e quello  passivo di un rapporto di fatto, per il  quale  questo
 ultimo      venga  sottoposto  al  potere  dell'altro  con  conseguente
 privazione della  facolta' di liberamente volere ed annientamento della
 volonta'  nel suo integrale contenuto".  In queste prime sentenze,  pur
 affermando  "che  il  legislatore  abbia  voluto equiparare lo stato di
 soggezione,  quale stato  di fatto derivante dal plagio, allo stato  di
 diritto    derivante    dalla  riduzione in schiavitu'" ed abbia inteso
 prevedere  come  assoggettamento completo "un insieme di restrizioni  e
 di limitazioni tali da investire la personalita' nel suo complesso,  la
 volonta'  nel suo integrale contenuto", non si dice mai  esplicitamente
 ma nemmeno esplicitamente si esclude che le  attivita' con le quali  il
 colpevole  raggiungerebbe  il  risultato    espresso  nell'art. 603, di
 totale  assoggettamento  della  vittima  e  di    annientamento   della
 personalita' e della volonta' di  questa, siano di natura psichica.
     In  talune sentenze del 1956 e del 1957 per conferire  operativita'
 alla norma si comincia a rendersi conto che  l'attivita' del  plagiante
 non  puo'  avere  interamente  l'effetto    delineato  dal  legislatore
 nell'art. 603. Si afferma pertanto che la privazione della facolta'  di
 liberamente  volere e di liberamente autodeterminarsi riduce la vittima
 "quasi una res" in  potere  del  colpevole.  E  in  altra  sentenza  il
 medesimo   concetto  di    interpretare  le  parole  "totale  stato  di
 soggezione" in  senso    riduttivo  e'  espresso  dicendo  che  perche'
 sussista  il plagio "fra i  due soggetti deve esistere un rapporto tale
 di padronanza, di dominio, di potere che l'uno, essendo la sua volonta'
 e la   sua  personalita'  '  quasi  completamente  annullate  ',  possa
 considerarsi ' quasi come una res ' in potere dell'altro".
     Per  la  prima  volta  nel  1961  la  Corte  di  cassazione  in una
 sentenza,  con  la  quale  accoglieva  un  ricorso  per    mancanza  di
 motivazione  sull'affermazione  della  responsabilita'   dell'imputato,
 dichiarava esplicitamente la natura psichica di   questo  reato  e  dei
 suoi  elementi  costitutivi. Il plagio, affermava  il Supremo Collegio,
 "consiste appunto nella instaurazione    di  un  rapporto  psichico  di
 assoluta  soggezione  del soggetto  passivo al soggetto attivo, in modo
 che il primo viene  sottoposto al potere del  secondo  con  completa  o
 quasi integrale  soppressione della liberta' del proprio determinismo".
 E,    lamentando  che  i  giudici  di  merito  avessero  trascurato "di
 compiere un'indagine a fondo  sulla  relazione  psichica    tra  i  due
 soggetti,   onde   rilevarne   in   concreto   la  sussistenza  o  meno
 dell'elemento  materiale  del reato"   aggiungeva che, al contrario del
 reato di sequestro di  persona, "le condizioni materiali  di  vita  del
 soggetto    passivo  non  hanno  altro  valore  che  quello  di un mero
 riscontro  indiziario:  cio'  che  piu'  conta,  invece,  sono  le  sue
 condizioni psichiche".
     Anche   questa   sentenza  intende  accogliere    l'interpretazione
 dell'art. 603 c.p. per cui il "totale stato di   soggezione"  provocato
 dall'azione   plagiante   non     comporta  necessariamente  la  totale
 soppressione della  liberta' di determinazione del plagiato.
     I concetti espressi nella sentenza del 1961 sono stati    applicati
 nell'unica pronunzia di condanna per il reato di  plagio della Corte di
 Assise  di  Roma  14 luglio 1968,   confermata dalla Corte di Assise in
 appello con sentenza  28 novembre 1969 e dalla Corte di cassazione  con
 sentenza  30  settembre  1971.  E' espressamente affermato   che per la
 consumazione del plagio "non e' richiesta una padronanza  fisica  sulla
 persona,   ma  un  dominio  psichico,    al  quale  puo'  eventualmente
 accompagnarsi, ma non  necessariamente, una signoria in senso materiale
 e  corporale; per effetto di questo dominio psichico    dell'agente  lo
 status  libertatis della vittima, inteso come  stato di diritto, rimane
 inalterato, ma e' la sua liberta' individuale quale entita' concreta di
 fatto che viene   soppressa". Si ribadisce  ancora  questa  concezione,
 aggiungendo  che  per  effettuare  questo  reato,  non occorre   che il
 colpevole  si  impadronisca  materialmente  del    soggetto  passivo  e
 ripetendo  quanto affermato nella  precedente sentenza del 1961, che, a
 differenza del   sequestro di persona, le  condizioni  materiali  della
 vittima     non  hanno  altro  valore  che  quello  di  mero  riscontro
 indiziario, contando  invece  le  condizioni  psichiche.  Si    precisa
 inoltre  che "sul piano giuridico, il delitto di  plagio si concretizza
 nella cosciente  e  volontaria    instaurazione,  con  qualunque  mezzo
 attuata, di un  assoluto dominio psichico e eventualmente fisico, su di
 una  persona, nella negazione della sua personalita' per  effetto della
 soppressione della liberta'  nelle  essenziali    sue  manifestazioni".
 Nella sentenza si descrive l'azione  psichica del plagiante, affermando
 che:  "L'art.  603 c.p. tutela la  liberta' nella sua stessa originaria
 essenza, nei fattori  dinamici, nel potere di influsso, nella  facolta'
 di  critica e   di scelta, di ricerca e di decisione, di coscienza e di
 volonta'.  Tali  facolta',  che  ineriscono   all'attivita'   psichica,
 possono  venire  lese  non  solo mediante mezzi fisici che  determinino
 conseguenze organiche, ma anche mediante mezzi  psichici  che  inducano
 situazioni  particolari  ed    eccezionali, analoghe in certo modo alle
 neurosi e  dipendenti da meccanismi meramente psichici, provocati    da
 un'azione  psichica  esterna".  E nella sentenza di  appello si precisa
 ancora che "il delitto di plagio si   realizza  anche  quando  l'agente
 aggredisce  la sfera  psichica di altra persona in modo da annullare la
 di lei  personalita', sostituendovi la  propria,  sottraendole  ideali,
 propositi,  e  imponendole  i propri, disgregando ogni   consapevolezza
 della propria individualita', facendone un  cieco seguace  del  proprio
 volere,  delle  proprie  idee,  un    automa  privo di ogni facolta' di
 critica, soggiogato dalla  piu' forte volonta' di chi lo  guida  in  un
 mondo non suo, in  cui le idee sono accettate come l'unica possibilita'
 di  espandere la propria personalita'".
     Con  questa  sentenza,  che  aveva provocato numerose e vivacissime
 polemiche nel campo giuridico e nel campo  medico, dando luogo anche  a
 due  distinte  iniziative    legislative  al  Senato  e alla Camera dei
 Deputati,   entrambe concludenti per l'abrogazione  dell'art.  603  del
 codice  penale, veniva cosi' definita la nozione giuridica  del plagio,
 respingendo le interpretazioni sino allora seguite dalla dottrina e dai
 commentatori del codice, le  quali configuravano l'azione del plagiante
 come    sostanzialmente  e  principalmente  fisica   non   effettuabile
 indipendentemente   da   eventuali   attivita'  corporali  e    fisiche
 esercitate sul plagiato.
     Veniva esclusa recisamente la tesi che era  stata  affermata    dai
 maggiori  scrittori,  secondo la quale lo scopo di porre  la vittima al
 servizio del  plagiante,  ricavandone  un    profitto,  costituisce  un
 elemento  per  distinguere  il  plagio    dagli altri delitti contro la
 liberta' individuale e  veniva    ripetuto  che  la  totale  soggezione
 indicata   nell'art.   603     deve  consistere  nell'instaurazione  di
 un'assoluta soggezione del plagiato sottoponendo questo al potere   del
 plagiante   con   quasi   integrale   soppressione   della  liberta'  e
 dell'autonomia della persona.
     11. - A partire dal 1969 nella dottrina penalistica e nell'opinione
 pubblica si e' venuta a mutare in maniera   discorde e  polemica  e  ad
 ampliare  sotto  vari  aspetti  e in   diverse direzioni la nozione del
 plagio.
     L'abbondante letteratura prodotta in vari  campi  con    divergenti
 conclusioni  mostra  i  nuovi molteplici indirizzi   dottrinari e nello
 stesso tempo conferma, attraverso  controversie di  differente  natura,
 le  gravissime  difficolta'    che  sorgono  per  fornire  una risposta
 convincente ed  appagante ai problemi giuridici e scientifici,  pratici
 e  teorici che l'interpretazione dell'art. 603 comporta.
     Per   la   configurazione  del  reato  e  per  l'analisi  oggettiva
 dell'attivita'  illecita  e  degli  effetti  di   questa   la   recente
 letteratura  ha anche fatto ricorso e si e' avvalsa di dati  forniti da
 moderni trattati di neurologia e psichiatria, cercando di individuare a
 fini giuridici, i concetti medici, peraltro  non  ancora  pacifici,  di
 suggestione,  di  convincimento,  di  persuasione,  di  soggezione,  di
 determinismo, di annientamento della volonta' e di  trasferimento della
 personalita' umana da parte di un  soggetto ad altro soggetto. Cio'  al
 fine  di  determinare    oggettivamente  quale sia in realta' il totale
 stato di soggezione indicato  nella  norma,  di  indicare  i  possibili
 mezzi  per accertarlo concretamente e di fissare i confini  della sfera
 giuridica entro cui puo' manifestarsi.
     La varieta' delle numerose opinioni avanzate  in  proposito    e  i
 mutamenti   della   dottrina  costituiscono  anch'essi  una    conferma
 dell'indeterminatezza della norma e   dell'impossibilita'  di  dare  ad
 essa un'univoca applicazione  concreta.
     12.  -  L'analisi  del  testo  dell'art.  603 e i vari tentativi di
 distinguere  il  reato  dagli  altri   delitti   contro   la   liberta'
 individuale, quale figura autonoma, non hanno permesso  di precisare in
 modo razionalmente sicuro le sue  caratteristiche specifiche.
     Formalmente  appare  come  un  reato a condotta libera che dovrebbe
 essere diverso dalla riduzione in schiavitu' o in  condizione  analoga.
 Secondo  quanto  in precedenza  esposto, questo potrebbe essere attuato
 con  mezzi    psichici,  cioe'  attraverso  un'attivita'  psichica  del
 plagiante       esercitata   direttamente   sul   plagiato.   L'effetto
 dell'attivita'  psichica del plagiante dovrebbe essere non gia'  quello
 di    ridurre  un  individuo  in  stato  d'incapacita' d'intendere o di
 volere (previsto espressamente nell'art.  613  del  cod.  pen.)  bensi'
 quello  di  ridurre  la vittima   da persona capace a persona in totale
 stato di soggezione.    Questo  totale  stato  di  soggezione  indicato
 dall'art. 603,  annienterebbe il determinismo della vittima sostituendo
 il  determinismo  del  plagiante  a  quello  del plagiato in   guisa da
 ridurre questo ultimo nello stato di cosa che pensa e agisce come pensa
 e agisce il plagiante. In altre  parole sarebbe il plagiante a  formare
 la  volonta'  sua e del   plagiato, questi essendo solo un mezzo fisico
 per  compiere le attivita' volute dal plagiante.
     Non si conoscono ne' sono accertabili i modi con i quali   si  puo'
 effettuare  l'azione  psichica del plagio ne' come e'  raggiungibile il
 totale stato di soggezione che qualifica   questo  reato,  ne'  se  per
 l'esistenza  di questo stato sia  necessaria la continuita' dell'azione
 plagiante nel senso  che, se la volonta' del plagiante  non  si  dirige
 piu' verso il  plagiato, cessi lo stato di totale soggezione di questo.
 Non  e' dato pertanto conoscere se l'effetto dell'azione  plagiante sia
 permanente e duraturo o se puo' venir meno   in qualunque  momento  per
 volonta'  del  plagiante  o anche   perche' non persiste l'attivita' di
 questo o per altre cause.   Nemmeno si conosce se  il  risorgere  della
 facolta'  di   determinismo del plagiato possa essere la conseguenza di
 un mutamento del determinismo del plagiante o di una  diversa direzione
 data al determinismo  di  questo.  Quanto    all'elemento  psichico  si
 tratterebbe di un delitto a dolo  generico.
     L'interpretazione  giurisprudenziale identifica il totale  stato di
 soggezione cui il plagiante  indurrebbe  il  plagiato    anche  in  una
 situazione  in cui questo ultimo e' sottoposto  al potere del primo con
 "quasi integrale soppressione   della liberta' e  dell'autonomia  della
 persona".
     L'interpretazione    data,    da    un    lato,    rende   evidente
 l'impossibilita' di  riscontrare  nella  realta'  un  totale  stato  di
 soggezione,  tale  cioe'  da  sopprimere  integralmente (e   non "quasi
 integralmente") ogni liberta'  ed  autonomia  di    determinazione  del
 soggetto  che  si assume plagiato e  dall'altro modifica la fattispecie
 prevista e punita con la reclusione da 5 a 15 anni dall'art. 603 codice
 penale.
     13. - La scienza medica ha accuratamente  indagato    intorno  alla
 formazione  e  al  meccanismo  della   persuasione, della suggestione e
 della soggezione  psichica.
     Fra individui psichicamente normali, l'esternazione da  parte di un
 essere umano di idee e di convinzioni  su  altri    esseri  umani  puo'
 provocare   l'accettazione  delle  idee  e    delle  convinzioni  cosi'
 esternate e dar luogo ad uno stato   di soggezione psichica  nel  senso
 che  questa  accettazione    costituisce  un trasferimento su altri del
 prodotto  di    un'attivita'  psichica  dell'agente  e   pertanto   una
 limitazione    del  determinismo del soggetto. Questa limitazione, come
 e' stato scientificamente individuato ed accertato, puo'   dar luogo  a
 tipiche   situazioni   di   dipendenza  psichica  che    possono  anche
 raggiungere, per periodi piu' o meno  lunghi, gradi elevati,  come  nel
 caso  del  rapporto    amoroso,  del  rapporto  fra  il  sacerdote e il
 credente, fra il  Maestro e l'allievo, fra il medico e il  paziente  ed
 anche   dar luogo a rapporti di influenza reciproca. Ma e' estremamente
 difficile  se  non  impossibile  individuare  sul    piano  pratico   e
 distinguere a fini di conseguenze  giuridiche - con riguardo ad ipotesi
 come  quella  in esame  - l'attivita' psichica di persuasione da quella
 anche essa  psichica di suggestione. Non vi  sono  criteri  sicuri  per
 separare  e  qualificare  l'una  e  l'altra  attivita'  e per accertare
 l'esatto  confine  fra  esse.  L'affermare  che  nella  persuasione  il
 soggetto  passivo  conserva  la  facolta'  di    scegliere in base alle
 argomentazioni rivoltegli ed e'   pertanto  in  grado  di  rifiutare  e
 criticare,  mentre nella  suggestione la convinzione avviene in maniera
 diretta e   irresistibile, profittando  dell'altrui  impossibilita'  di
 critica    e  scelta, implica necessariamente una valutazione non  solo
 dell'intensita' dell'attivita' psichica del soggetto  attivo, ma  anche
 della  qualita'  e  dei risultati di essa.   Quanto all'intensita', dai
 testi  psichiatrici,  psicologici  e  psicoanalitici  e   dalle   ampie
 descrizioni  mediche  di  condizionamento  psichico  risulta  che  ogni
 individuo e'   piu' o meno suggestionabile, ma  che  non  e'  possibile
 graduare  ed  accertare in modo concreto sino a qual punto  l'attivita'
 psichica del soggetto esternante idee e concetti    possa  impedire  ad
 altri il libero esercizio della propria  volonta'. Quanto alla qualita'
 non e' acquisito sino a qual  punto l'attivita' del soggetto attivo non
 riguardi  direttive  e  suggerimenti  che  il soggetto passivo sia gia'
 disposto ad  accettare.  Quanto alla valutazione dei risultati essa non
 potra'  che  essere  sintomatica  e   concludere   positivamente      o
 negativamente  a  seconda  che  l'attivita'  esercitata  sul   soggetto
 passivo porti a comportamenti conformi  o  a    comportamenti  devianti
 rispetto a modelli di etica sociale  e giuridica.
     L'accertamento  se  l'attivita'  psichica possa essere  qualificata
 come persuasione o suggestione con gli  eventuali effetti  giuridici  a
 questa  connessi,  nel caso del  plagio non potra' che essere del tutto
 incerto e affidato  all'arbitrio del giudice. Infatti  in  applicazione
 dell'art.   603    qualunque  normale  rapporto  sia  amoroso,  sia  di
 professione religiosa, sia di partecipazione  a  movimenti  ideologici,
 sia di altra natura, se sorretto da un'aderenza  "cieca e totale" di un
 soggetto  ad un altro soggetto e sia  considerato socialmente deviante,
 potrebbe essere  perseguito penalmente come plagio.
     Anche sotto questi profili  risulta  pertanto    l'indeterminatezza
 della norma e della sua  interpretazione.
     14.  -  La  formulazione  letterale dell'art. 603 prevede  pertanto
 un'ipotesi  non  verificabile  nella  sua    effettuazione  e  nel  suo
 risultato  non  essendo ne'  individuabili ne' accertabili le attivita'
 che potrebbero   concretamente esplicarsi per ridurre  una  persona  in
 totale      stato   di  soggezione,  ne'  come  sarebbe  oggettivamente
 qualificabile  questo  stato,  la   cui   totalita',   legislativamente
 dichiarata, non e' mai stata giudizialmente accertata.
     Presupponendo  la  natura psichica dell'azione plagiante e'  chiaro
 che questa, per raggiungere l'effetto di porre la  vittima in stato  di
 totale  soggezione, dovrebbe essere  esercitata da persona che possiede
 una vigoria psichica   capace di compiere un  siffatto  risultato.  Non
 esistono    pero'  elementi  o  modalita'  per  potere accertare queste
 particolari ed eccezionali qualita' ne'  e'  possibile  ricorrere    ad
 accertamenti di cui all'art. 314 c.p.p., non essendo ammesse nel nostro
 ordinamento  perizie  sulle  qualita'   psichiche indipendenti da cause
 patologiche.
     Ne' e' dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze,
 che possano esistere esseri capaci di ottenere  con soli mezzi psichici
 l'asservimento totale di una  persona.
     15. - Dinanzi alle perplessita' cui ha dato luogo l'unica  sentenza
 di   condanna  per  il  delitto  di  plagio  pronunziata    nel  nostro
 ordinamento in oltre 50 anni dall'emanazione  del codice penale,  parte
 della  dottrina  ha tentato di   rinvenire connotazioni tipiche di tale
 figura criminosa,  richiamandosi anche ad elementi  tratti  da  ipotesi
 psichiatriche. Alcuni, infatti, interpretando  limitativamente la norma
 nel  senso  che  il suo scopo  sarebbe quello di proteggere da fenomeni
 ossessivi o da   psicosi indotta,  vorrebbero  ravvisare  tale  delitto
 nella      concorrenza  di  due  elementi.  Uno  esteriore  consistente
 nell'allontanamento dai terzi del plagiato ad opera del plagiante anche
 attraverso un sequestro di persona o fatti    simili.    Uno  interiore
 consistente  nel senso di  deprivazione psichica in cui deve versare il
 plagiato una  volta interrotto il rapporto col plagiante,  deprivazione
 che,  secondo  l'ipotesi  prospettata,  mostrerebbe  come il   soggetto
 passivo era stato ridotto ad uno stato di  soggezione totale.
     Simile tesi viene oggi riproposta alla Corte dalla  difesa    delle
 parti civili.
     Ora,  a  parte che nessun canone ermeneutico autorizza ad  una tale
 configurazione restrittiva del reato, non sembra   che  tali  elementi,
 sia  singolarmente  che  unitariamente   considerati, valgano a rendere
 determinata la fattispecie  criminosa di cui all'art. 603 c.p. Essi, al
 contrario,  paiono    offrire  un'ulteriore  dimostrazione  che  questo
 articolo   -   di     per  se'  inapplicabile  -  si  attualizza  nella
 giurisprudenza  e    nella  dottrina  in  forza  di  un'interpretazione
 analogica,    tesa ad assimilare gli stati realizzabili di quasi totale
 soggezione allo stato irrealizzabile di totale soggezione.
     Va infatti osservato che il concetto di  "deprivazione    psichica"
 che  s'identifica  con  il  senso  di  avere  bisogno di   qualcuno, e'
 essenzialmente  quantitativo,  instaurandosi    in  qualsiasi  rapporto
 affettivo una sorta di quello che gli  psicologi chiamano "transfert" o
 anche   di  rapporto     psicologico  reciproco.  Ma  per  valutare  se
 l'interruzione  del rapporto con altri faccia arguire  la  preesistenza
 di   uno    stato  di  "totale  soggezione",  e'  necessario  conoscere
 l'intensita' dolorosa dell'interruzione. Quesito questo  a  cui    puo'
 darsi  solo  una  risposta soggettiva e quindi di per se'  convalidante
 l'arbitrarieta' di una simile soluzione  concettuale.
     D'altra parte l'elemento esteriore consistente  nell'allontanamento
 dai  terzi, se non sorretto dall'elemento interiore o se sorretto da un
 elemento interiore non determinato, quale la deprivazione di cui si  e'
 detto,   perde   ogni  connotazione  significativa  ai  fini  di    una
 tipizzazione del delitto.
     16.   -   L'esame   dettagliato   delle   varie   e    contrastanti
 interpretazioni  date  all'art. 603 del codice penale nella  dottrina e
 nella   giurisprudenza   mostra   chiaramente       l'imprecisione    e
 l'indeterminatezza della norma, l'impossibilita' di  attribuire ad essa
 un  contenuto  oggettivo,  coerente e razionale e   pertanto l'assoluta
 arbitrarieta' della sua concreta   applicazione.  Giustamente  essa  e'
 stata  paragonata ad   una mina vagante nel nostro ordinamento, potendo
 essere  applicata a qualsiasi fatto che implichi dipendenza psichica di
 un essere umano da un altro essere umano e   mancando qualsiasi  sicuro
 parametro per accertarne  l'intensita'.
     L'art.  603  del  c.p.,  in  quanto  contrasta  con il principio di
 tassativita' della fattispecie contenuto nella  riserva    assoluta  di
 legge  in  materia penale, consacrato nell'art. 25  della Costituzione,
 deve pertanto ritenersi  costituzionalmente illegittimo.
     17.  -  La  constatazione del contrasto fra l'art. 603 del c.p. con
 l'art. 25  della  Costituzione  e'  assorbente  dell'altra    questione
 sollevata  dal  giudice  a quo dell'illegittimita'   costituzionale del
 medesimo articolo in riferimento  all'art. 21.
     Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale    dell'art.
 603 in riferimento all'art. 25 della Costituzione.
                            PER QUESTI MOTIVI
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     dichiara  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 603 del  codice
 penale.
     Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte    costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 9 aprile 1981.
                                   F.to:   LEONETTO   AMADEI   -  GIULIO
                                   GIONFRIDA  -   EDOARDO   VOLTERRA   -
                                   MICHELE   ROSSANO  -     ANTONINO  DE
                                   STEFANO - LEOPOLDO ELIA -    GUGLIEMO
                                   ROEHRSSEN  -  ORONZO REALE - BRUNETTO
                                   BUCCIARELLI    DUCCI    -     ALBERTO
                                   MALAGUGINI -  LIVIO PALADIN - ARNALDO
                                   MACCARONE  -    ANTONIO  LA PERGOLA -
                                   VIRGILIO   ANDRIOLI   -      GIUSEPPE
                                   FERRARI.
                                   GIOVANNI VITALE - Cancelliere