N. 372 SENTENZA 23 - 31 marzo 1988

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Azione di
 responsabilita' civile - Interessati rimasti estranei al giudizio
 penale - I.N.A.I.L. - Azione di surroga e di regresso  Termini -
 Decorrenza - Non fondatezza.  (Cod. civ., art. 2947, terzo comma;
 d.P.R. 30 giugno 1965, n.  1124, artt. 10, quinto comma, 11 e 112,
 quinto comma).  (Cost., artt. 3 e 24)
(GU n.15 del 13-4-1988 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof. Ettore GALLO, prof. Giuseppe
 BORZELLINO, dott. Francesco GRECO,  prof.  Renato  DELL'ANDRO,  prof.
 Gabriele   PESCATORE,   avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco  Paolo
 CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,  avv.
 Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 2947, terzo
 comma, seconda parte, del codice civile e degli  artt.  9,  11  (come
 modificato dalla legge 24 novembre 1981, n. 689) e 112, quinto comma,
 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo  unico  delle  disposizioni
 per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
 malattie professionali), promossi con le seguenti ordinanze:
    1)  ordinanza  emessa  il 15 ottobre 1981 dal Tribunale di Pescara
 nel procedimento civile vertente tra  l'I.N.A.I.L.  e  l'E.N.E.L.  ed
 altro,  iscritta  al  n. 784 del registro ordinanze 1981 e pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 75 dell'anno 1982;
   2)  ordinanza  emessa il 14 dicembre 1982 dal Pretore di Verona nel
 procedimento civile vertente tra l'I.N.A.I.L. e Rotta Romeo, iscritta
 al  n.  161  del  registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 219 dell'anno 1983;
    3)  ordinanza  emessa  il  19 maggio 1983 dal Pretore di Siena nel
 procedimento civile vertente tra  l'I.N.A.I.L.  e  la  ditta  Saletti
 Oreste  ed  altri,  iscritta  al n. 565 del registro ordinanze 1983 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  4  dell'anno
 1984;
    4)  ordinanza  emessa  il  26  aprile 1983 dal Pretore di Roma nel
 procedimento  civile  vertente  tra  l'I.N.A.I.L.  e  Rossi  Antonio,
 iscritta  al  n.  886  del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 67 dell'anno 1984;
    5)  ordinanza  emessa  il 6 aprile 1984 dal Pretore di Trapani nel
 procedimento civile vertente tra l'I.N.A.I.L. e Pantalena Giuseppe ed
 altro,  iscritta  al n. 1027 del registro ordinanze 1984 e pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 bis dell'anno 1985;
    6)  ordinanza  emessa  il 30 ottobre 1984 dal Pretore di Siena nel
 procedimento civile vertente tra l'I.N.A.I.L.  e  la  S.p.A.  Emerson
 Electronics,  iscritta  al  n.  1339  del  registro  ordinanze 1984 e
 pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  125  bis
 dell'anno 1985;
    7) ordinanza emessa il 12 dicembre 1984 dal Tribunale di Nuoro nel
 procedimento  civile  vertente  tra  l'I.N.A.I.L.  e  Mulas  Mariano,
 iscritta  al  n.  298  del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 226 bis dell'anno 1985;
    Visti gli atti di costituzione dell'I.N.A.I.L. e di Giorgi Antonio
 nonche' gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  12  gennaio  1988  il  Giudice
 relatore Francesco Greco;
    Uditi  gli avv.ti Mario Lamanna per l'I.N.A.I.L. e Stefano Varvesi
 per Giorgi Antonio e gli Avvocati dello Stato Oscar Fiumara  e  Luigi
 Siconalfi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ricorso  al Pretore di Pescara l'I.N.A.I.L. evocava in
 giudizio l'E.N.E.L. ex art. 1916 cod. civ. e Giorgi Antonio ex  artt.
 10  e 11 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, per ottenere dai medesimi
 il rimborso delle somme  erogate  ex  art.  85  dello  stesso  d.P.R.
 1124/65,  ai  superstiti di Mardinocchi Pietro, deceduto nel 1964 per
 folgorazione mentre, alle  dipendenze  del  Giorgi,  eseguiva  lavori
 commissionati dall'E.N.E.L.
    Di  entrambe  le  azioni,  proposte  nel  1979,  il  giudice adito
 dichiarava l'estinzione per prescrizione,  rispettivamente  ai  sensi
 degli  artt. 2947, terzo comma, ultima parte cod. civ., e 112, quinto
 comma, ultima parte d.P.R. n. 1124/65, in quanto la  sentenza  penale
 di  accertamento  della responsabilita' nella produzione del suddetto
 evento mortale era,  alla  data  di  tale  proposizione,  passata  in
 giudicato  da  oltre  un  quinquennio, cosi' da risultare eccedenti i
 termini (di cinque e tre anni) stabiliti da tali norme.
    Il  Tribunale  di Pescara, adito dall'I.N.A.I.L. in via di gravame
 avverso tale decisione, sollevava, con ordinanza in data  15  ottobre
 1981  (R.O.  n.  784/81)  la questione di legittimita' costituzionale
 delle teste' citate norme, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in
 quanto  determinano  e  fanno  decorrere  il  termine di prescrizione
 dell'azione, sia di surroga ex art. 1916 cod. civ. che di regresso ex
 artt.  10  e  11  del d.P.R. n. 1124/65, in relazione al passaggio in
 giudicato della sentenza penale di accertamento della responsabilita'
 anche nei confronti di soggetti rimasti estranei al relativo giudizio
 (come,  nella  specie,  l'I.N.A.I.L.)  perche'  non   legittimati   a
 costituirsi  in  esso  o,  comunque,  di fatto, non posti in grado di
 parteciparvi: cio' che, ad avviso del giudice  a  quo,  da  un  lato,
 discrimina  tali  soggetti  rispetto  a  quelli che, viceversa, hanno
 avuto  la  possibilita'  di  partecipazione  a  detto  giudizio;   e,
 dall'altro  lato, ne comprime il diritto di difesa costituzionalmente
 garantito. Compressione particolarmente apprezzabile  alla  luce  dei
 principi  posti in materia da questa Corte, sia in termini generali e
 cioe' con riguardo alla  ritenuta  impossibilita'  che  il  giudicato
 penale  produca  gli effetti di cui agli artt. 25, 27 e 28 cod. proc.
 pen.  nei  confronti  di  terzi  che  non  hanno  avuto  facolta'  di
 concorrere   alla   sua   formazione   prendendo  parte  al  relativo
 procedimento (sentt. nn. 165/7/5; 99/73; 55/71);  sia  con  specifico
 riguardo alla ritenuta illegittimita' costituzionale degli artt. 10 e
 11 del d.P.R. n. 1124/65 nella parte in  cui  precludono  l'esercizio
 del  diritto  di regresso dell'I.N.A.I.L. contro il datore di lavoro,
 qualora il processo penale promosso a carico di quest'ultimo o di suo
 dipendente   siasi  concluso  con  la  sentenza  di  proscioglimento,
 malgrado che l'Istituto non sia stato posto in grado  di  partecipare
 al processo stesso.
    La   rilevanza  della  questione  viene  ritenuta  osservando  che
 l'eventuale   caducazione   delle   norme   censurate   comporterebbe
 l'applicabilita' alla fattispecie del piu' lungo e non ancora decorso
 termine di prescrizione decennale, ai sensi dello  stesso  art.  2947
 cod.  civ.  (parte  prima  del  terzo  comma, che fa riferimento alla
 prescrizione stabilita per il reato).
    1.1  -  Identica questione, ma relativa al solo art. 112 d.P.R. n.
 1124/65 (trattandosi, nella specie, della  sola  azione  di  regresso
 promossa  dall'I.N.A.I.L. contro il datore di lavoro oltre il termine
 triennale decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza penale
 di  accertamento della responsabilita'), e' stata sollevata anche dal
 Pretore di Trapani, con ordinanza in data  6  aprile  1984  (R.O.  n.
 1027/84).
    1.2  - Entrambe le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate,
 sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale.
    Nei  susseguenti  giudizi  davanti a questa Corte si e' costituito
 l'I.N.A.I.L. ed  e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;  in  quello  introdotto  con  l'ordinanza  del Tribunale di
 Pescara (R.O. n. 784/81) si e' costituita altresi' la parte  privata.
    La  difesa  dell'I.N.A.I.L. ha concluso nel senso della fondatezza
 dell'eccezione osservando, in  particolare,  che,  come  la  sentenza
 penale  non  e'  opponibile  ai  terzi  rimasti estranei al giudizio,
 ugualmente essa non dovrebbe poter essere invocata nei  confronti  di
 costoro,  ai  fini  della  decorrenza  della  prescrizione, in quanto
 costoro, proprio per la loro qualita', non sono  posti  in  grado  di
 conoscere  l'esito  del  procedimento  e,  quindi,  il dies a quo del
 termine prescrizionale: donde la disparita' di trattamento, in  parte
 qua,  fra detti terzi e quanti sono stati parti in quel giudizio e la
 compromissione del diritto di difesa, atteso che tale termine  spesso
 piuttosto breve - puo' essere gia' decorso nel momento in cui i terzi
 stessi  vengano  a  conoscenza  del  passaggio  in  giudicato   della
 sentenza.
    La  medesima difesa osserva, peraltro, che l'eventuale caducazione
 delle norme  censurate  comporterebbe  soltanto  l'impossibilita'  di
 decorso  del  termine prescrizionale in questione, non anche, come si
 pretende dal giudice a quo, la sua sostituzione con uno diverso.
    Di segno opposto sono le conclusioni dell'autorita' intervenuta la
 quale ha osservato che la ratio  delle  pronunzie  di  questa  Corte,
 ricordate   dai   giudici  a  quibus  a  fondamento  della  sollevata
 questione, va ricercata nella esigenza di garantire  al  titolare  di
 una  posizione  giuridica  la  possibilita'  di farla comunque valere
 autonomamente in giudizio,  senza  subire  preclusioni  derivanti  da
 accertamenti  giudiziari  cui  detto  titolare  e'  rimasto estraneo:
 viceversa, le  norme  censurate  non  escludono  in  modo  alcuno  la
 possibilita'  di  tale  autonomo  accertamento  giurisdizionale  e ne
 disciplinano soltanto i limiti temporali  in  base  alla  ragionevole
 esigenza di assicurare, in tempi non lunghissimi, la stabilita' delle
 varie situazioni giuridiche derivanti dallo infortunio sul lavoro.
    Considerazioni  non  dissimili  svolge,  infine,  la parte privata
 costituitasi, per sostenere l'infondatezza della descritta questione.
    2.  -  Con  ordinanza  in  data 26 aprile 1983 (R.O. n. 886/83) il
 Pretore  di  Roma  ha  sollevato   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  10, quinto comma, d.P.R. 30 giugno 1965 n.
 1124, nella parte in cui, in violazione degli artt.  3  e  24  Cost.,
 prevede il termine di decadenza di tre anni dalla sentenza penale per
 la proposizione in sede civile, ad iniziativa degli interessati - ed,
 in particolare, dell'I.N.A.I.L. che intende agire in regresso ex art.
 11 dello stesso d.P.R. n. 1124/65 - dell'azione di  accertamento  che
 il fatto avrebbe costituito reato.
    Nella  specie,  la Corte di Appello di Roma, con sentenza divenuta
 esecutiva il 13 gennaio 1979, riformando la sentenza del  giudice  di
 primo  grado  (di  condanna  del  datore  di lavoro per il delitto di
 omicidio   colposo    aggravato    dalla    violazione    di    norme
 antinfortunistiche,  in relazione alla morte di un dipendente), aveva
 dichiarato non doversi procedere per estinzione del reato sulla  base
 della ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate
 aggravanti. L'I.N.A.I.L., con ricorso depositato soltanto il 16 marzo
 1982,  aveva  esercitato l'azione di regresso ex artt. 10 e 11 d.P.R.
 n. 1124/65, vedendosi eccepire dal  datore  di  lavoro  convenuto  il
 decorso  del  suddetto  termine di decadenza: di qui l'asserzione, da
 parte del giudice a quo, della rilevanza della questione.
    Nel  merito,  lo  stesso giudice ha preliminarmente osservato come
 non possa l'azione di  regresso  dell'I.N.A.I.L.  ritenersi  estranea
 all'operativita'  di  tale  termine  di decadenza, nel caso in cui il
 giudizio penale non si sia concluso con una pronunzia di colpevolezza
 e   manchi   un   corrispondente  giudizio  in  tal  senso  reso  nel
 procedimento civile promosso ad istanza di altro interessato.
    Ha,  quindi,  rilevato  che,  una  volta configurato il diritto di
 regresso   dell'Istituto   quale   posizione   giuridica   scaturente
 direttamente   dall'illiceita'   penale   del   fatto   e  tutelabile
 autonomamente, con pieno rispetto del diritto di difesa a prescindere
 dalla  sorte  contingente  del  procedimento  penale (cio' in base ai
 principi posti da questa Corte con le sentt. nn. 102/81 e 22/67, alla
 cui   stregua   l'accertamento   in   sede  civile  della  dipendenza
 dell'infortunio da un comportamento colpevole del  datore  di  lavoro
 dismette  l'originario carattere eccezionale e meramente surrogatorio
 dell'accertamento  penale),  diviene  irrazionale,  con   conseguente
 violazione  dell'art. 3 Cost. la conservazione della norma istitutiva
 della decadenza in questione, giustificabile esclusivamente  in  base
 all'originaria  configurazione  del  giudizio  civile con i caratteri
 teste' menzionati, che ne imponevano anche una rigorosa  limitazione.
    La stessa norma e' poi ritenuta dal giudice a quo illegittimamente
 compressiva del diritto di difesa dell'I.N.A.I.L., essendo il dies  a
 quo  del  termine  di decadenza posto in riferimento ad un evento non
 facilmente conoscibile dall'interessato, che non e'  stato  posto  in
 grado  di partecipare al giudizio penale, ne' puo' evitare il rischio
 della decadenza mediante atti interruttivi (a differenza del caso  di
 prescrizione),  ne',  infine,  puo'  iniziare  l'azione  appena avuta
 notizia dell'infortunio, dovendo, invece, attendere la conclusione di
 tale giudizio (o almeno della relativa istruttoria).
    2.1  -  Identica  questione  e'  stata,  poi,  sollevata anche dal
 Tribunale di Nuoro con ordinanza in data 12 dicembre  1984  (R.O.  n.
 298/85).
    2.2  -  Entrambe  le  ordinanze sono state ritualmente notificate,
 comunicate e pubblicate nelle Gazzette Ufficiali.
    Nei  susseguenti  giudizi  davanti a questa Corte si e' costituito
 l'I.N.A.I.L. ed  e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri.
    La difesa dell'I.N.A.I.L. ha rilevato l'erroneita' del presupposto
 ermeneutico da cui muove l'esaminata censura, osservando che, secondo
 il consolidato orientamento giurisprudenziale espresso dalla Corte di
 cassazione, il termine di decadenza in questione opera  con  riguardo
 all'azione  penale  esperibile  dal lavoratore infortunato o dai suoi
 eredi nei confronti del datore di  lavoro  per  il  risarcimento  del
 danno eccedente l'ammontare delle indennita' erogate dall'I.N.A.I.L.;
 mentre  l'azione  di  regresso  spettante  all'Istituto  e'  soggetta
 soltanto alla prescrizione di cui all'art. 112 del d.P.R. n. 1124/65.
 Solo nella denegata ipotesi in cui tale orientamento dovesse  restare
 disatteso,  ad  avviso dell'Istituto, andrebbero condivise le censure
 svolte dal giudice a quo.
    La   difesa  dell'autorita'  intervenuta  ha  concluso  nel  senso
 dell'infondatezza della questione osservando che la  norma  impugnata
 costituisce    una    scelta    di    opportunita'   riservata   alla
 discrezionalita' del legislatore ed e',  da  un  lato,  coerente  coi
 principi  dell'art.  2947  cod. civ. (che prevede deroghe, per talune
 ipotesi particolari di fatti illeciti, alla disposizione generale  in
 materia  di  termine  prescrizionale  per  l'esercizio del diritto al
 risarcimento del danno)  e,  dall'altro,  idonea  per  l'entita'  del
 termine   in  essa  fissato  e  decorrente  dalla  pubblicazione  del
 provvedimento  giurisdizionale,  ad  assicurare  sufficientemente  la
 tutela del diritto considerato.
    3.  -  Con  ordinanza  in data 19 maggio 1983, R.O. n. 565/83), il
 Pretore di Siena ha sollevato, in  relazione  all'art.  3  Cost.,  la
 questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 11 del d.P.R. 30
 giugno 1965 n. 1124, nel contenuto assunto dopo l'entrata  in  vigore
 della legge 24 novembre 1981 n. 689 e nella parte in cui, richiamando
 l'art. 10 dello stesso d.P.R. n. 1124,  estende  il  richiamo  stesso
 anche al quarto comma di tale norma.
    Nel  giudizio  a  quo  l'I.N.A.I.L.  aveva  convenuto un datore di
 lavoro   chiedendone   la   condanna   al   pagamento   delle   somme
 corrispondenti  alle  prestazioni  erogate in favore di un dipendente
 del medesimo, che aveva riportato lesioni con  postumi  permanenti  a
 cagione  di  un  incidente  stradale nel quale era stato coinvolto un
 automezzo condotto da altro dipendente. Il giudice adito ha  ritenuto
 (donde  la  rilevanza  della  questione)  che  l'accoglimento di tale
 domanda e' impedito dal contenuto dell'art. 11 del d.P.R. n.  1124/65
 in relazione al precedente quarto comma dell'art. 10, per il quale il
 diritto  di  regresso  dell'I.N.A.I.L.  e'  escluso  quando  per   la
 punibilita'   del  fatto  dal  quale  l'infortunio  e'  derivato  sia
 necessaria la querela della persona offesa: in seguito alle modifiche
 apportate all'ultimo comma dell'art. 590 cod. pen. dall'art. 92 legge
 24 novembre 1981 n. 689, il reato di lesioni colpose, anche  gravi  o
 gravissime,  e'  punibile  d'ufficio  solo  quando si tratti di fatti
 connessi  con  violazione  delle  norme  per  la  prevenzione   degli
 infortuni  sul  lavoro  o  relative all'igiene del lavoro, condizione
 questa che non si era, nella fattispecie, realizzata.
    Nel merito della questione, il giudice a quo ha poi osservato che,
 prima delle suddette modifiche  apportate  all'art.  590  cod.  pen.,
 quando  cioe'  la  punibilita'  a  querela  delle lesioni colpose era
 limitata alla ipotesi di lesioni non gravi, l'esonero del  datore  di
 lavoro   dalla  responsabilita'  civile  e,  quindi,  dall'azione  di
 regresso dell'Istituto assicuratore (esonero conseguente al combinato
 disposto  degli  artt.  11 e 10, quarto comma, del d.P.R. n. 1124 del
 1965) trovava la sua ragione giustificatrice  nella  minore  gravita'
 delle  conseguenze  dannose patrimoniali del reato; ma dopo l'entrata
 in  vigore  della  citata  legge  n.  689/81   questo   criterio   di
 discriminazione  e' venuto meno: puo', infatti, verificarsi l'ipotesi
 di lesioni gravissime nelle quali l'I.N.A.I.L. non abbia quell'azione
 di  regresso che, al contrario, puo' essergli riconosciuta in ipotesi
 di piu' scarsa importanza patrimoniale rispetto alle quali, tuttavia,
 sussista  il  requisito  della  perseguibilita'  di ufficio del reato
 causativo  del  danno.  Simile  disciplina  e'  sembrata  al  giudice
 remittente irragionevole e percio' in contrasto con l'art. 3 Cost.
    3.1 - Lo stesso Pretore di Siena, con successiva ordinanza in data
 30 ottobre 1984 (R.O. n. 1339/84), ha riproposto identica  questione.
    3.2  -  Il  Pretore  di  Verona  (R.O.  n.  161/83), rilevando che
 l'azione di regresso dell'I.N.A.I.L. rimane esclusa  nell'ipotesi  in
 cui  il  giudice  penale  ha  prosciolto in dibattimento il datore di
 lavoro o un suo dipendente per difetto di  querela,  con  conseguente
 limitazione  del  potere  del  giudice civile di qualificare il fatto
 come reato perseguibile a querela o di ufficio,  non  trattandosi  di
 estinzione del reato per morte, amnistia o prescrizione, dubita della
 legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt.  10  e
 11 del d.P.R. n. 1224 del 1965 per violazione degli artt. 24, primo e
 secondo comma, e 3 Cost., in quanto l'Istituto non ha partecipato  al
 processo penale e si e' creata una disparita' di trattamento rispetto
 al prestatore  di  lavoro  che  puo'  costituirsi  parte  civile  nel
 processo penale.
    3.3  -  Nei  susseguenti  giudizi  davanti  a  questa  Corte si e'
 costituito l'I.N.A.I.L. ed e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei  ministri; il primo limitandosi semplicemente a tale adempimento,
 senza spiegare difese specifiche; il secondo sollecitando, invece, la
 declaratoria di infondatezza della questione.
    L'Avvocatura dello Stato ha all'uopo anzitutto osservato che ancor
 oggi, nel caso di lesioni lievi, previsto dal primo  comma  dell'art.
 590  cod.  pen., la responsabilita' civile del datore di lavoro ed il
 diritto di regresso dell'I.N.A.I.L. sono  senz'altro  esclusi  e  che
 l'esclusione    e'    gia'    stata    ritenuta   da   questa   Corte
 costituzionalmente  legittima  con  la  sentenza  n.  22/67.   Quanto
 all'ulteriore esclusione nascente dalle ricordate modifiche apportate
 all'art. 590 cod. pen. e concernente  il  caso  di  lesioni  gravi  o
 gravissime  cagionate  indipendentemente  dall'inosservanza  di norme
 antinfortunistiche,   la   sua   legittimita'    costituzionale    va
 riconosciuta   alla   stregua   dei   principi   che   governano   la
 responsabilita'  civile  del  datore  di  lavoro  assicurato   presso
 l'I.N.A.I.L., in caso di infortunio.
    Il  primo e' quello della limitazione della responsabilita' stessa
 per effetto dell'assicurazione; l'altro fonda il diritto di  regresso
 dell'Istituto  assicuratore  verso  il  datore  di  lavoro.  Entrambi
 operano in senso derogatorio  rispetto  alla  disciplina  del  comune
 rapporto  assicurativo,  giustificandosi la deroga, come riconosciuto
 anche da questa Corte con le  sentenze  n.  22/67  e  n.  134/71,  in
 relazione alle peculiarita' che caratterizzano il regime assicurativo
 in materia di infortuni sul lavoro. Va, in particolare,  riconosciuto
 che il fondamento del diritto di regresso sta nell'intento di evitare
 che  un  sistema  assicurativo,  il  quale  sollevi  in   ogni   caso
 l'imprenditore dalle conseguenze economiche degli infortuni, deprima,
 per cio' stesso, se non elimini del  tutto,  l'incentivo  ad  attuare
 misure di prevenzione antinfortunistica. Orbene, proprio in relazione
 a  siffatta  ratio  giustificatrice  dell'istituto  del  regresso  si
 apprezza la profonda diversita' della posizione dell'imprenditore nei
 casi in cui l'infortunio sia dovuto a violazione delle suddette norme
 di prevenzione, rispetto a quella dell'imprenditore stesso in caso di
 lesioni colpose dovute a violazione  di  norme  diverse:  solo  nella
 prima  situazione  la realizzazione del descritto scopo dell'istituto
 consente e giustifica quella deroga al regime assicurativo comune  ex
 art.  1917  cod.  civ., altrimenti non consentita. Pertanto, con piu'
 specifico riguardo  al  caso  di  specie,  e'  da  rilevare,  secondo
 l'Avvocatura,  che  anche  le  lesioni  gravi  o  gravissime  possono
 assurgere a  presupposto  dell'azione  di  regresso  solo  quando  si
 ricolleghino  ad un comportamento del datore di lavoro immediatamente
 riconducibile  alla  sfera   delle   scelte   organizzative   attuate
 nell'azienda, quali sono quelle concernenti l'attuazione delle misure
 di prevenzione imposte dalla legge con  previsioni  specifiche  oltre
 che  in  termini  generali  ex  art.  2087  cod.  civ.: la disciplina
 censurata dal giudice a quo risponde  pertanto  ad  un  criterio  del
 tutto  razionale  e  coerente con le suddette peculiarita' del regime
 assicurativo o antinfortunistico.
    Nell'imminenza   dell'udienza  di  discussione  lo  I.N.A.I.L.  ha
 depositato memorie difensive nei giudizi introdotti con le  ordinanze
 n.  784/81  e  n.  1027/84.  Ha  in  particolare osservato che appare
 illogico considerare la sentenza penale assolutoria, pronunciata  nei
 confronti  del datore di lavoro o di un suo dipendente, inefficace in
 ordine all'esercizio del diritto di regresso dell'I.N.A.I.L. e  nello
 stesso  tempo efficace ai fini della decorrenza della prescrizione di
 quel medesimo diritto. Inoltre, appare  discriminatorio  alla  difesa
 dell'Istituto  il  trattamento  riservato  all'I.N.A.I.L.  rispetto a
 quello fatto all'infortunato o ai suoi superstiti  che  hanno  potuto
 partecipare  al  giudizio  penale  e  sono  stati percio' in grado di
 conoscerne l'esito e di esercitare tempestivamente il loro diritto di
 difesa.
    La   mancata   partecipazione  dell'I.N.A.I.L.  a  detto  giudizio
 comporta,  invece,  per  quest'ultimo,  un  difetto   di   conoscenza
 giuridica  della  sentenza  penale, che non viene ad esso comunicata,
 con conseguente impossibilita' di far valere il diritto  di  regresso
 subito dopo il passaggio in giudicato della sentenza medesima.
    Ad  avviso  della  stessa  difesa  va, inoltre, considerato che la
 sentenza penale si configura come una  condizione  di  procedibilita'
 rispetto  all'esercizio  del  diritto  di  regresso  e  non  come una
 condizione di esistenza del medesimo, sicche'  sembra  ingiustificato
 far decorrere i termini di prescrizione dal passaggio in giudicato di
 tale sentenza.
                         Considerato in diritto
    1.  -  I  sette giudizi, instaurati con le ordinanze di rimessione
 (Tribunale Pescara: R.O. n. 784/81; Pretura Verona: R.O.  n.  161/83;
 Pretura  Siena:  R.O.  nn.  565/83  e  1339/84; Pretura Roma: R.O. n.
 886/83; Pretura Trapani: R.O.
 n.  1027/84; Tribunale Nuoro: R.O. n. 298/85), possono essere riuniti
 e decisi con un'unica sentenza in  quanto  prospettano  questioni  in
 parte identiche ed in parte connesse.
    1.1 - Il Pretore di Roma (R.O. n. 886/83) ed il Tribunale di Nuoro
 (R.O.  n.  298/85)  hanno   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 10, quinto comma, del d.P.R. 30 giugno 1965
 n.  1124,  il  quale  prevede  il  termine  triennale  di  decadenza,
 decorrente  dalla  sentenza di non doversi procedere o dalla data del
 decreto di archiviazione, emessi dal giudice penale nei confronti del
 datore di lavoro, in assenza dell'I.N.A.I.L., per la proposizione, in
 sede civile, a iniziativa degli "interessati",  tra  cui,  secondo  i
 giudici  remittenti,  anche l'I.N.A.I.L., dell'azione di accertamento
 che il fatto addebitato al detto datore di lavoro costituisce reato e
 che e' il fondamento della prevista azione di responsabilita' civile.
    A  parere  dei remittenti, risulterebbero violati gli artt. 3 e 24
 Cost. per la irrazionalita' della normativa, posta in un contesto che
 configura   il   diritto   di   regresso  come  situazione  giuridica
 autonomamente tutelabile in sede civile, e per  la  compressione  del
 diritto  di  difesa  dei  titolari di tali situazioni che non abbiano
 potuto  partecipare  al  giudizio  penale  conclusosi  con  i   detti
 provvedimenti giudiziali.
    1.2 - La questione non e' fondata.
    Secondo l'indirizzo giurisprudenziale, ormai costante, anche della
 Corte di cassazione, l'I.N.A.I.L.  non  e'  da  annoverarsi  tra  gli
 "interessati"  che,  secondo  la  norma impugnata, nei casi in cui il
 giudice penale non abbia proceduto a carico del datore  di  lavoro  o
 dei suoi preposti o altri, per morte dell'imputato, per amnistia, per
 prescrizione, per mancanza di indizi, ecc..., entro  tre  anni  dalla
 data  dei relativi provvedimenti giudiziali, possono proporre domanda
 al giudice civile per fare accertare incidenter tantum che  il  fatto
 causativo  dell'infortunio  costituisce reato e che, quindi, sussiste
 la responsabilita' civile dei suddetti.
    Invero,  la  nozione  di  "interessati" e' inserita in un contesto
 normativo che disciplina la  responsabilita'  civile  del  datore  di
 lavoro  nei  confronti  dei  lavoratori danneggiati o dei suoi eredi,
 mentre l'azione di regresso che l'I.N.A.I.L. promuove, ai sensi degli
 artt.  11  e 112 u.p. dello stesso d.P.R. n. 1124 del 1965 ha una sua
 peculiarita' ed  autonomia.  Essa  e'  in  funzione  delle  finalita'
 istituzionali  dell'ente  e  tutela  l'interesse  dell'I.N.A.I.L.  al
 recupero delle somme pagate  all'infortunato  o  ai  suoi  eredi  per
 indennita'  o  per  rendita,  interesse  che  e'  di natura del tutto
 diversa dall'interesse delle parti private.
    L'autonomia  della  detta  azione  che, peraltro, ha un termine di
 prescrizione proprio,  trova  fondamento,  oltre  che  nell'interesse
 pubblico  gestito  dall'ente  assicuratore,  anche  nella  natura del
 credito fatto valere. L'Istituto puo' promuoverla direttamente, senza
 attendere  l'inizio,  da  parte  dell'infortunato  o  dei suoi eredi,
 dell'azione di responsabilita' per la quale soltanto opera il termine
 di decadenza.
    Vero  e'  che  anche l'I.N.A.I.L. puo' giovarsi dell'accertamento,
 incidenter tantum, effettuato dal giudice civile  del  fatto-reato  e
 che  e'  condizione  dell'azione  di  responsabilita',  dato  che  la
 decisione, intervenuta in quella  sede,  a  norma  dell'art.  11  del
 d.P.R.  n. 1224/65, e' sufficiente a costituire l'Istituto in credito
 verso la persona civilmente obbligata anche per  le  somme  pagate  a
 titolo  di  indennita'  o  di rendita; ma cio' non pregiudica affatto
 l'autonomia dell'azione di regresso e, comunque, la eventuale inerzia
 delle  parti  private non puo' assolutamente compromettere il diritto
 dell'Istituto assicuratore.
    2.  -  Il  Pretore  di  Pescara  (R.O.  n. 784/81), in un giudizio
 promosso dall'I.N.A.I.L. per regresso  contro  un  datore  di  lavoro
 ritenuto  penalmente  responsabile, con sentenza divenuta definitiva,
 del fatto-reato che aveva causato l'infortunio e per  surroga  contro
 l'E.N.E.L.,  committente  dei  relativi  lavori,  il  cui dipendente,
 pero', era stato assolto  nella  stessa  sede  penale,  ha  sollevato
 questione  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt. 2947, terzo
 comma, cod. civ. e dell'art. 112, quinto comma, u.p., del  d.P.R.  n.
 1124/65, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
    Il  Pretore  di Trapani (R.O. n. 1027/84), in un giudizio promosso
 dall'I.N.A.I.L. per regresso  contro  un  datore  di  lavoro  il  cui
 preposto  ai  lavori  era  stato  condannato  in  sede  penale, quale
 responsabile del fatto reato causativo dell'infortunio, ha  sollevato
 del  pari  questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 112,
 quinto  comma,  u.p.,  del  d.P.R.  n.  1124  del  1965,  sempre   in
 riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.
    I  giudici  remittenti  sostengono che le norme censurate, facendo
 decorrere il termine di prescrizione delle due azioni dalla data  del
 passaggio  in  giudicato  della sentenza penale di accertamento della
 responsabilita' anche nei confronti di soggetti rimasti  estranei  al
 relativo  giudizio, violerebbero i richiamati precetti costituzionali
 in quanto riservano identico trattamento a situazioni  diverse  quali
 sono  quelle  in  cui versano, rispettivamente, i suddetti soggetti e
 quelli che hanno partecipato al processo penale in cui si e'  formato
 il  giudicato, con conseguente compressione del diritto di difesa dei
 primi.
    2.1 - Le questioni non sono fondate.
    L'azione  di  surroga  e' esperibile dall'I.N.A.I.L. nei confronti
 del terzo responsabile del fatto-infortunio per ripetere  quanto  sia
 liquidato  all'assicurato  o  ai  suoi  eredi. Essa, pur disciplinata
 dall'art. 1916 cod. civ., configura piuttosto una peculiare forma  di
 successione  particolare  nel  diritto di credito, subentrando l'Ente
 nella stessa posizione, sostanziale e processuale, in cui si  sarebbe
 trovato  l'assicurato se avesse agito direttamente o succedendo a lui
 nel processo. La surroga si realizza quando  l'assicuratore  comunica
 al   terzo,  responsabile,  l'avvenuto  pagamento  dell'indennizzo  e
 manifesta la sua volonta' di avvalersi dell'azione concessagli  dalla
 legge.
    Non  deriva,  quindi,  dal contratto di assicurazione, al quale il
 terzo e' del tutto estraneo, per cui, in ispecie, per la prescrizione
 non  si  applicano  le norme sul contratto di assicurazione ma quelle
 del codice civile (art. 2947 cod. civ.).
    Il  termine  di  prescrizione  e',  di  solito,  quinquennale  con
 possibilita' di applicazione dell'art. 2953 cod.  civ.  (prescrizione
 decennale dell'actio iudicati).
    2.2  - L'azione di regresso, invece, e' esperibile dall'I.N.A.I.L.
 contro il datore di lavoro responsabile del fatto da cui e'  derivato
 l'infortunio,  sia  direttamente che indirettamente, per la colpa dei
 suoi preposti o del dipendente.
    E'  ritenuta  come  attuativa  di  un  autonomo  diritto dell'Ente
 derivante dal rapporto assicurativo e ha per oggetto  la  ripetizione
 della indennita' o della rendita pagata.
    E' soggetta al termine prescrizionale dell'art. 112, quinto comma,
 u.p., d.P.R. n. 1124 del 1965 (tre anni).
    2.3  -  Entrambe  le  azioni hanno come presupposto l'accertamento
 della responsabilita' degli obbligati (terzo e datore di lavoro).
    L'accertamento puo' avvenire in sede penale.
    Il   processo   puo'   terminare  con  sentenza  di  condanna  del
 responsabile penalmente.
    Ora,  secondo  quanto  questa  Corte  ha gia' ritenuto (sentt. nn.
 102/81, 118/86) il giudicato fa stato a favore dell'I.N.A.I.L. ma non
 fa  stato  contro  il  datore  di  lavoro  che  non ha partecipato al
 processo penale per cause varie (impedimento giuridico ecc...).
    In  tal caso il giudice civile, incidenter tantum, puo' effettuare
 il detto accertamento anche in maniera diversa dal giudice penale.
    Egualmente  per  l'Istituto assicuratore non fa stato il giudicato
 penale di assoluzione del datore di lavoro o del terzo o il giudicato
 contenente  limitazioni  pregiudizievoli del diritto di regresso o di
 surroga se non ha partecipato al  processo  penale.  L'Istituto  puo'
 agire  in  regresso  o  in  surroga  e  chiedere incidenter tantum al
 giudice civile il relativo accertamento.
    Peraltro,   le   azioni   in   sede  civile,  secondo  l'indirizzo
 giurisprudenziale anche della Corte  di  cassazione,  possono  essere
 esperite  automaticamente,  salvo il riscontro della pregiudizialita'
 penale con tutte le conseguenze sul corso del processo civile.
    Egualmente  l'accertamento  puo' essere chiesto dall'I.N.A.I.L. in
 sede civile e anche nei casi in cui,  in  sua  assenza  dal  processo
 (penale),  il  giudice abbia emesso sentenza di non doversi procedere
 per cause varie  (morte,  prescrizione  ecc...),  abbia  concesso  il
 perdono giudiziale o abbia emesso decreto di archiviazione.
    Il  termine  di prescrizione delle due azioni, surroga e regresso,
 secondo le norme censurate,  decorre  dalla  data  dei  provvedimenti
 giudiziali penali.
    3.  - I principi affermati da questa Corte, siccome attengono alla
 esistenza del diritto fatto valere, non  trovano  applicazione  nella
 fattispecie,  che  riguarda solo l'esercizio del diritto e il termine
 per effettuarlo.
    Ne'   sussiste  la  dedotta  violazione  degli  invocati  precetti
 costituzionali.
    Invero,  e'  prevista uguale decorrenza del termine prescrizionale
 sia per coloro che hanno partecipato al processo, sia per coloro  che
 non   vi   hanno   partecipato,  i  quali,  pero',  possono  iniziare
 direttamente i relativi giudizi civili  senza  attendere  l'esito  di
 quello penale, salvo, come si e' detto, i possibili provvedimenti che
 il giudice civile puo' emettere e che regolano il corso del  giudizio
 civile.
    Inoltre,  la previsione dei termini di prescrizione e di decadenza
 e' rimessa alla discrezione del legislatore e la determinazione della
 loro  durata,  al fine di non lasciare indeterminatamente pendenti e,
 quindi, incerte le situazioni giuridiche, specie  quelle  che  hanno,
 come  nella materia degli infortuni sul lavoro, profili pubblicistici
 per cui e' maggiore l'esigenza di stabilita'.
    Sussiste anche la necessita' di fissare un non lungo intervallo di
 tempo tra la pronuncia in sede penale e l'inizio delle azioni  civili
 collegate   ai  possibili  accertamenti  effettuati  in  quella  sede
 affinche' sia anche possibile l'apprestamento delle difese  in  epoca
 non  lontana dalla commissione dell'illecito. E affinche' non risulti
 violato il precetto dell'art. 24 Cost., occorre altresi' che i limiti
 temporali, e cioe' il termine, non siano tali da rendere, per la loro
 lunghezza, impossibile o  vana  la  tutela  dinanzi  al  giudice  del
 diritto preteso e ne sia, invece, garantita l'effettivita'. Il che e'
 nella specie, essendo i termini rispettivamente di  cinque  anni  per
 proporre  l'azione di surroga e di tre anni per l'azione di regresso,
 abbastanza lunghi e certamente congrui.
    Le  scelte discrezionali del legislatore restano insindacabili nel
 giudizio di legittimita' costituzionale  perche'  non  concretano  un
 mero arbitrio e non sono irragionevoli.
    4. - Il Pretore di Siena (R.O. nn. 565/83 e 1339/8z4) dubita della
 legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt.  10  e
 11  del  d.P.R.  n. 1224 del 1965 che, dopo l'entrata in vigore della
 legge 24 novembre 1984, n. 689, modificativa dell'art. 590 cod. pen.,
 esclude,  in  danno  dell'I.N.A.I.L.,  l'azione di regresso anche nel
 caso in cui l'infortunato abbia riportato lesioni gravi o  gravissime
 cagionate  per  colpa  non  riconducibile ad inosservanza di norme di
 prevenzione  antinfortunistica,  per  essere   anche   tali   lesioni
 perseguibili   solo  a  querela  della  persona  offesa.  Secondo  il
 remittente  risulterebbe  leso  l'art.  3  Cost.  per   l'irrazionale
 conseguenza  di  consentire  l'esclusione  del diritto di regresso in
 casi nei quali la gravita'  delle  lesioni  ha  prodotto  conseguenze
 dannose di rilevante entita' sul piano patrimoniale e di conservarlo,
 invece,  in  casi  nei   quali   siffatte   conseguenze   sono   meno
 significative  solo  perche' ricollegabili ad un comportamento lesivo
 perseguibile di ufficio in quanto commesse in violazione delle  norme
 di prevenzione antinfortunistica.
    Il  Pretore  di Verona (R.O. n. 161/83), rilevando che l'azione di
 regresso  dell'I.N.A.I.L.  rimane  esclusa  nell'ipotesi  in  cui  il
 giudice penale ha prosciolto in dibattimento il datore di lavoro o un
 suo dipendente per difetto di querela,  con  conseguente  limitazione
 del  potere  del  giudice  civile  di qualificare il fatto come reato
 perseguibile a querela o di ufficio, non  trattandosi  di  estinzione
 del   reato   per   morte,  amnistia  o  prescrizione,  dubita  della
 legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt.  10  e
 11 del d.P.R. n. 1224 del 1965 per violazione degli artt. 24, primo e
 secondo comma, e 3 Cost., in quanto l'Istituto non ha partecipato  al
 processo penale e si e' creata una disparita' di trattamento rispetto
 al prestatore  di  lavoro  che  puo'  costituirsi  parte  civile  nel
 processo penale.
    4.1 - Le questioni non sono fondate.
    Anche  la  fattispecie  sottoposta all'esame del Pretore di Verona
 trova la sua regolamentazione nella nuova legge n. 689 del  1981  che
 ha   esteso   l'ambito   della   necessita'   della  querela  per  la
 perseguibilita' delle lesioni cagionate all'infortunato tranne che il
 fatto  concreti  una  violazione  delle norme antinfortunistiche o di
 tutela dell'igiene sul lavoro.
    Il legislatore ha modificato indirettamente il precedente criterio
 di  differenziazione  utilizzato  per  determinare  l'effetto   delle
 lesioni  sulla  responsabilita'  civile del datore di lavoro anche ai
 fini dell'azione di regresso spettante all'I.N.A.I.L.
    Al  criterio  della  gravita'  delle  lesioni  e  del danno fisico
 cagionato al lavoratore ha sostituito quello della  violazione  delle
 norme di tutela antinfortunistica e dell'igiene sul lavoro.
    Appare,  pero',  indebolita la funzione espletata dalla precedente
 normativa di incentivare il  datore  di  lavoro,  quale  responsabile
 dell'organizzazione  aziendale,  all'adozione  di generiche misure di
 prevenzione, sebbene risulti,  invece,  accentuata,  nella  sostanza,
 l'osservanza  delle  norme  di tutela antinfortunistica e dell'igiene
 sul lavoro perche' sia la responsabilita' civile del datore di lavoro
 che  il  regresso  dell'Istituto  assicuratore sono legati alla detta
 tutela  e  conseguono  anche  a  fatti  di  lieve  entita'  allorche'
 importino  violazione  di  dette  norme. Allo stato, pero', risultano
 certamente ridotti l'ambito del recupero dell'I.N.A.I.L. delle  somme
 corrisposte  all'infortunato  per indennita' nei confronti del datore
 di lavoro e la possibilita' del lavoratore di ottenere dal datore  di
 lavoro  la  differenza dei danni conseguenti alla sua responsabilita'
 civile essendosi aumentato l'ambito di applicazione del quarto  comma
 dell'art. 10 del d.P.R. n. 1224 del 1965.
    In  tale  situazione  si rende necessario il contemperamento degli
 interessi, che e' compito precipuo del legislatore  il  quale  ha  il
 dovere  di  effettuarlo  tutte le volte che possano risultare violati
 precetti  costituzionali  ed,  in  particolare,  diversi  da   quelli
 invocati nella fattispecie.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondate  le questioni di legittimita' costituzionale
 degli artt. 2947, terzo comma, cod. civ.; 10, quinto comma, 11 e 112,
 quinto  comma,  del  d.P.R.  30  giugno  1965,  n.  1124  (T.U. delle
 disposizioni per l'assicurazione obbligatoria  contro  gli  infortuni
 sul  lavoro  e  le malattie professionali), sollevate, in riferimento
 agli artt. 3 e 24 Cost., dai Tribunali di Pescara e di  Nuoro  e  dai
 Pretori di Siena, di Roma, di Trapani e di Verona con le ordinanze in
 epigrafe.
    Cosi'  deciso in Roma, nella camera di consiglio, nella sede della
 Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 1988.
                          Il Presidente: SAJA
                          Il redattore: GRECO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 31 marzo 1988.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 88C0498