N. 773 SENTENZA 22 giugno - 7 luglio 1988

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 Impiegato pubblico - Reato del pubblico dipendente - Giudicato penale
 - Liquidazione del danno in favore della pubblica amministrazione
 costituitasi parte civile - Azione di responsabilita' amministrativa
 spettante alla Corte dei conti Preclusione - Non fondatezza.  (Cod.
 proc. pen., art. 26).  (Cost., artt. 3 e 25, primo comma, 103,
 secondo comma)
(GU n.28 del 13-7-1988 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 26 del codice
 di procedura penale promosso con ordinanza emessa il  2  aprile  1982
 dalla  Corte  dei  Conti  -  Sezione  giurisdizionale  per la Regione
 Sicilia - nel giudizio di responsabilita'  promosso  dal  Procuratore
 Generale  nei confronti di Ferrazzano Angelo ed altri, iscritta al n.
 874 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 53 dell'anno 1984;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 24 febbraio 1988, il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  emessa  il  2  aprile  1982 nel giudizio di
 responsabilita' amministrativa promosso dal Procuratore Generale  nei
 confronti di Ferrazzano Angelo ed altri, la Corte dei Conti - Sezione
 giurisdizionale per la Regione Sicilia - ha sollevato  d'ufficio,  in
 riferimento  agli  artt.  103,  secondo  comma, 25, primo comma, e 3,
 primo comma, Cost.,  una  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 26 c.p.p.
    Detto  giudizio  era stato promosso dopo il passaggio in giudicato
 della  sentenza  penale  di  condanna  del  Ferrazzano,  tenente   di
 vascello,  per  i  reati  di  truffa  aggravata  e continuata e falso
 ideologico,  con  la  quale  si  era  tra  l'altro  provveduto   alla
 liquidazione   dei   danni   subi'ti   dal  Ministero  della  Difesa,
 costituitosi parte civile.  Nell'atto  introduttivo,  il  Procuratore
 Generale aveva giustificato l'instaurazione del nuovo giudizio per il
 medesimo fatto ed in relazione al medesimo danno, richiamandosi  alla
 prevalente giurisprudenza della Corte dei Conti, secondo cui l'azione
 davanti al giudice contabile non sarebbe preclusa in quanto  distinta
 da  quella  esercitata in sede penale e tendente all'accertamento non
 della comune  responsabilita'  civile  bensi'  della  responsabilita'
 fondata  sul  rapporto  di pubblico impiego o servizio. Dal giudicato
 penale non derivava inoltre, secondo  il  Procuratore  Generale,  una
 preclusione  in  ordine all'accertamento dei fatti materiali (ex art.
 28 c.p.p.) in quanto, pur nell'identita' dei fatti addebitati, vi era
 una  sia  pur  lieve differenza tra la somma liquidata in sede penale
 (L.7.297.810) e quella  dedotta  come  danno  erariale  nel  giudizio
 contabile  (L.  7.397.100). L'esercizio dell'azione nei confronti del
 soggetto condannato in  sede  penale  si  rendeva  poi  nella  specie
 necessario, ad avviso del Procuratore Generale, sia per far valere il
 vincolo solidale tra costui e gli altri soggetti rimasti estranei  al
 giudizio  penale, sia per far seguire - per gli effetti dell'art. 686
 c.p.c.  -  una  sentenza  di  condanna  ai   sequestri   conservativi
 autorizzati  e  convalidati  nei  confronti del primo in pendenza del
 giudizio penale.
    2.  -  Il  giudice  a  quo muove dal presupposto secondo cui dalla
 disposizione di cui all'art. 489, secondo comma, c.p.p. - che prevede
 che  la  sentenza  penale,  in  caso di costituzione di parte civile,
 decida sulla liquidazione dei danni "quando e' possibile,  salvo  che
 sia  stabilita la competenza di un altro giudice" - discenderebbe che
 in caso di danni arrecati all'erario da soggetti legati allo Stato  o
 ad  altro  ente pubblico da rapporto d'impiego o servizio, il giudice
 penale  dovrebbe  limitarsi  alla  condanna  generica,   essendo   la
 liquidazione  riservata  alla  Corte dei Conti dagli artt. 83 R.D. 18
 novembre 1923, n. 2440, 52 R.D. 12 luglio 1934, n.1214 e  19,  d.P.R.
 10   gennaio  1957,  n.  3.  Ove  peraltro,  in  violazione  di  tali
 disposizioni, sul punto  si  sia  formato  il  giudicato  penale,  il
 collegio remittente - discostandosi da altri orientamenti della Corte
 del Conti, che negano al giudicato efficacia  preclusiva  dell'azione
 di  responsabilita' (tesi prevalente) o affermano che essa opererebbe
 solo su eccezione di parte - ritiene che la preclusione  operi  e  si
 fondi  sull'art. 26 c.p.p., a termine del quale "Nel caso di condanna
 dell'imputato,  l'azione  civile  gia'  esercitata  nel  procedimento
 penale non puo' essere piu' proposta in sede civile o amministrativa,
 neanche limitatamente alla liquidazione dei danni".  Cio'  pero',  ad
 avviso  della  Sezione,  confligge,  innanzitutto,  con  l'art.  103,
 secondo comma, Cost.
    Anche  ammesso,  infatti, che tale disposizione, attributiva della
 giurisdizione alla Corte dei Conti  "nelle  materie  di  contabilita'
 pubblica",   abbia  portata  generale  solo  tendenziale  e  non  sia
 immediatamente  precettiva  -  si'  che   il   legislatore   potrebbe
 apportarvi  deroghe  e  dovrebbe  in ogni caso emanare apposite norme
 affinche' essa operi (sentt. nn. 110 del  1970  e  102  del  1977  di
 questa Corte) - nel caso in esame la riserva di giurisdizione risulta
 dalle specifiche disposizioni dianzi richiamate.
    Dagli  artt.  103  Cost.  e  489 c.p.p. deriva inoltre, secondo il
 collegio remittente, che - fatta salva  la  facolta'  della  Pubblica
 Amministrazione  di  costituirsi parte civile - la Corte dei Conti e'
 giudice naturale precostituito per legge in materia  di  liquidazione
 dei danni ad essa arrecati dai propri dipendenti. L'impugnato art. 26
 confliggerebbe percio' con l'art. 25, primo comma, Cost.,  in  quanto
 legittimerebbe  "a  posteriori"  la  violazione  da parte del giudice
 penale del disposto del citato art. 489.
    Dopo aver ricordato che il giudicato civile sulla misura del danno
 erariale,  stante  l'assenza  nel  codice  di  procedura  civile   di
 disposizioni analoghe a quella impugnata, non preclude in nessun caso
 il successivo giudizio innanzi  la  Corte  dei  Conti  -  secondo  la
 costante  giurisprudenza  di  tale  organo - il giudice a quo pone in
 rilievo   le   caratteristiche   differenziali   del   giudizio    di
 responsabilita'  amministrativa  rispetto a quello di responsabilita'
 civile instaurato in sede penale  a  seguito  della  costituzione  di
 parte  civile:  estensione  dell'azione  ai  soggetti che, pur se non
 penalmente responsabili, hanno contribuito  a  determinare  il  danno
 erariale;  possibilita'  di  graduare  per  ciascuno  la  misura  del
 risarcimento  attraverso  l'esercizio  del  c.d.   potere   riduttivo
 dell'addebito;  obbligatorieta'  e  irretrattabilita' dell'azione del
 Procuratore  Generale,  con  esclusione  del  potere  di  rinuncia  o
 transazione  spettante  alla  Pubblica  Amministrazione  costituitasi
 parte civile. Di qui la dedotta violazione dell'art.  3  Cost.,  dato
 che  la posizione debitoria del responsabile puo' risultare diversa a
 seconda che alla quantificazione del danno si provveda in sede penale
 o in sede contabile.
    3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto a mezzo
 dell'Avvocatura dello Stato, contesta  innanzitutto  l'esattezza  del
 presupposto interpretativo della questione sollevata. Le deroghe alla
 competenza del giudice civile e della Corte dei Conti - unico giudice
 amministrativo   con   competenza   giurisdizionale   in  materia  di
 risarcimento dei danni da illecito - stabilite negli artt. 25,  26  e
 27  c.p.p.  si  fondano  invero,  osserva  l'Avvocatura, sulla regola
 generale di cui al precedente art. 23,  che  attribuisce  al  giudice
 penale  la  competenza  a  giudicare  in materia del risarcimento del
 danno derivante da reato.  L'art.  489,  secondo  comma,  c.p.p.,  in
 quanto  distingue  la  competenza  sull' an da quella sul quantum del
 risarcimento, sarebbe percio' - come ritenuto da autorevole  dottrina
 - norma speciale, riferibile alle sole disposizioni che espressamente
 sottraggono  al  giudice  penale  la   competenza   in   materia   di
 liquidazione  dei  danni  per  attribuirla ad un giudice diverso (es.
 artt. 1246 cod.nav., 373 c.p.m.p.) e non anche all'art.  52  R.D.  n.
 1214  del  1934,  che  prevede la competenza della Corte dei Conti in
 materia di responsabilita' amministrativa ma non esclude  quella  del
 giudice penale per il danno erariale derivante dal reato del pubblico
 dipendente.
    Anche  ammesso, d'altra parte, che l'art. 489 sia da intendere nel
 senso presupposto dal giudice a quo,  l'impugnato  art.  26  dovrebbe
 ritenersi  immune  da  censure, essendo esso una puntuale e specifica
 applicazione del principio generale sugli effetti del giudicato (art.
 2909  c.c.),  che  per  ovvie  esigenze  di certezza delle situazioni
 giuridiche impone che eventuali vizi in  procedendo  o  in  iudicando
 restino  assorbiti  nella  definitivita' delle decisioni (sent. n.136
 del 1972).
                         Considerato in diritto
    1.  -  Con  l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte dei Conti -
 Sezione  giurisdizionale  per  la  Regione  Sicilia  -  dubita  della
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 26 c.p.p., in quanto preclude
 l'azione di responsabilita' amministrativa nei confronti del pubblico
 dipendente,  in  presenza  del  giudicato penale che abbia provveduto
 alla liquidazione del danno in favore della Pubblica  Amministrazione
 costituitasi  parte  civile. In particolare il giudice a quo sostiene
 che tale disposizione, posta in relazione  con  l'art.  489,  secondo
 comma,  c.p.p. - che a suo avviso vieta al giudice penale di disporre
 in tal caso (non sull' an ma) sul quantum - contrasti:
      -  con  l'art.  103, secondo comma, Cost., che riserverebbe alla
 Corte dei Conti la giurisdizione in materia  di  responsabilita'  per
 danno erariale, anche se derivante da reato del pubblico dipendente;
      -  con  l'art.  25,  primo  comma, Cost., in quanto la Corte dei
 Conti  sarebbe  giudice  naturale  precostituito  per  legge  per  la
 liquidazione del danno erariale;
      -   con   l'art.  3  Cost.,  per  le  conseguenze  che  da  cio'
 deriverebbero sulla posizione debitoria del dipendente, che  potrebbe
 cosi'  fruire  di  eventuali  rinunce o transazioni dello Stato e non
 giovarsi, invece, degli  effetti  della  concorrente  responsabilita'
 solidale di altri dipendenti estranei al reato e del potere riduttivo
 attribuito alla Corte dei Conti.
    2. - La questione non e' fondata.
    Il  giudice  a  quo  muove  dal  presupposto  secondo cui la norma
 impugnata sarebbe in  contrasto  con  quella  di  cui  all'art.  489,
 secondo  comma,  c.p.p., a termini del quale, in caso di costituzione
 di parte civile, il giudice  penale  decide  sulla  liquidazione  dei
 danni "salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice".
    Tale riserva, cioe', varrebbe a radicare la competenza della Corte
 dei Conti in materia di liquidazione del danno erariale e  l'art.  26
 c.p.p.,  precludendo  l'azione  di  responsabilita' amministrativa in
 presenza  del  giudicato  penale,  legittimerebbe  a  posteriori   la
 violazione di tale competenza da parte del giudice penale.
    L'interpretazione  dell'art.  489 c.p.p. assunta dal giudice a quo
 muove, pero',  da  una  concezione  dell'ambito  della  giurisdizione
 riservata  alla  Corte  dei Conti dall'art. 103, secondo comma, Cost.
 "nelle materie della contabilita' pubblica" che  va  ben  al  di  la'
 della portata da attribuire a tale disposto costituzionale.
    Al  riguardo,  questa  Corte  ha  precisato piu' volte - da ultimo
 nella sentenza n. 641 del 1987 - che la giurisdizione della Corte dei
 Conti in dette materie e' "tendenzialmente generale" e che, peraltro,
 la sua  portata  espansiva  incontra  il  "limite  funzionale"  della
 "interpositio" del legislatore.
    A chiarire l'apparente antinomia tra queste due proposizioni giova
 ricordare,   innanzitutto,   che   l'ambito   della   materia   della
 contabilita'   pubblica   considerato   dal   Costituente  e'  quello
 "tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e dalla  legislazione"
 (sent.   cit.),   cioe',  in  sostanza  -  per  quanto  attiene  alla
 responsabilita' patrimoniale per danni cagionati ad enti pubblici  da
 pubblici  funzionari,  che  qui  particolarmente  interessa  - quello
 risultante dalla disciplina dettata al riguardo dal  testo  unico  n.
 1214  del  1934  sulla  Corte dei Conti (cfr. sent. n. 129 del 1981).
 Disciplina che peraltro, all'epoca in cui la Costituzione fu emanata,
 si  inseriva,  come  si e' ricordato nelle sentenze nn. 102 del 1977,
 189 e 241 del 1984, in un contesto normativo nel quale - in  coerenza
 con  la  generale  attribuzione  della  giurisdizione  in  materia di
 diritti soggettivi al giudice ordinario - spettava a quest'ultimo  di
 decidere in ordine alla responsabilita' amministrativa, ad es., degli
 amministratori e dei dipendenti degli enti locali e delle istituzioni
 pubbliche  di  assistenza e beneficienza. Tale essendo l'ambito della
 giurisdizione della Corte dei Conti considerato dal Costituente,  ben
 si  spiega  come  questa Corte, con le citate sentenze del 1977 e del
 1984, abbia escluso che in forza della disposizione costituzionale in
 esame  la  responsabilita'  dei  predetti amministratori e dipendenti
 potesse ritenersi  attratta  nell'orbita  della  giurisdizione  della
 Corte dei Conti.
    La   necessita',   a   tal   fine,   di  apposite  "valutazioni  e
 deliberazioni"  rientranti  nella  discrezionalita'  del  legislatore
 (sent.  n.  102  del  1977),  discende dal fatto che le questioni sul
 riparto della giurisdizione involgono  scelte  in  ordine  a  diversi
 regimi  della  responsabilita'  e  del  giudizio, tali da "comportare
 effetti diversi nei riguardi tanto dei responsabili che dei  soggetti
 danneggiati":  sicche'  soltanto al potere legislativo "puo' spettare
 di  valutare  se  e  quali  siano  le  soluzioni  piu'  idonee   alla
 salvaguardia  dei  pubblici  interessi  insiti  nella materia de qua"
 (sent. n. 189 cit.).
    L'esigenza  di  apposite  previsioni  legislative,  d'altra parte,
 discende sia dal fatto che - al di la' degli aspetti formali  (natura
 pubblica  dell'ente e dell'oggetto della gestione) - la materia della
 contabilita' pubblica, di per se' suscettibile di evoluzione, "non e'
 definibile oggettivamente" (sent. n. 641 cit.: cfr. anche la sent. n.
 17  del  1965),  sia  dall'incidenza  che   sulle   valutazioni   del
 legislatore possono avere altri fattori, quali il nesso esistente tra
 regime dei controlli sugli enti e regime  della  responsabilita'  dei
 funzionari  ovvero la configurazione positiva degli organi chiamati a
 valutare quest'ultima (cfr., per la Corte dei Conti, la sent. n.  230
 del 1987).
    Avuto  riguardo a tutto cio', ben si comprende che la "tendenziale
 generalita'" della giurisdizione della Corte dei Conti, al di la' dei
 casi  gia'  in  essa  espressamente  o  istituzionalmente ricompresi,
 necessita normalmente di apposite previsioni legislative e  non  puo'
 sortire  un  effetto  invalidante  di norme che - come nella specie -
 facciano ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione
 del giudice ordinario; e che, inoltre, la sua potenzialita' espansiva
 puo'  ritenersi  operante  ex  se,  nelle  ipotesi  di   carenza   di
 disciplina,  solo  se sussista il requisito dell'"identita' oggettiva
 di materia" - da intendersi alla stregua di quanto gia' detto - e non
 siano  di  ostacolo  "i  limiti  segnati  da  altre  norme e principi
 costituzionali" (sent. n. 129 del 1981), la cui  compiuta  attuazione
 puo' richiedere o suggerire una disciplina diversa.
    3.  -  Alla  stregua  delle  suesposte  puntualizzazioni,  risulta
 evidente che la disposizione di  cui  all'art.  489,  secondo  comma,
 c.p.p. non puo' essere intesa nel senso presupposto dal giudice a quo
 e che non sussiste percio'  l'"insanabile  contrasto"  con  la  norma
 impugnata che questi assume.
    Come  ricorda  l'Avvocatura  dello  Stato, la dottrina ritiene che
 l'inciso "salvo che sia stabilita la competenza di un altro  giudice"
 si  riferisca - come risulta del resto dalla formulazione letterale a
 casi di attribuzione espressa ad un giudice diverso da quello  penale
 dell'esclusiva potesta' di provvedere in ordine alla liquidazione dei
 danni (es., artt. 373 c.p.m.p., 1246 cod. nav.); cio'  che  non  puo'
 certo dirsi per la generica previsione di cui all'art. 52 del T.U. n.
 1214 del 1934 delle leggi sulla Corte dei  Conti,  che  non  contiene
 alcuna  espressa  disposizione in materia di danno derivante da reato
 ne' alcuna esplicita deroga alla  generale  competenza  spettante  in
 materia al giudice penale in caso di costituzione di parte civile.
    La  riprova  di  cio'  e'  data  dalla  palese  irrazionalita' che
 conseguirebbe all'accoglimento della tesi in questione. Il giudice  a
 quo, infatti, non contesta che spetti all'Amministrazione, cosi' come
 a qualsiasi altro soggetto, la  potesta'  -  correlata  all'esclusiva
 titolarita'  del  relativo  interesse - di esercitare l'azione civile
 nel processo  penale,  mediante  la  costituzione  di  parte  civile.
 L'ipotizzare  che  in  tal  caso  l'Amministrazione debba limitarsi a
 richiedere, ed il giudice penale a  pronunciare,  solo  una  condanna
 generica  ai danni non solo sarebbe in contraddizione con il generale
 obbligo di tale giudice di provvedere alla liquidazione (e, ove  cio'
 non  sia  possibile,  di concedere se del caso una provvisionale), ma
 priverebbe l'Amministrazione  di  fondamentali  facolta'  processuali
 spettanti  alla  parte  civile  - come il proporre mezzi di prova per
 accertare l'entita' dei danni (art. 104 c.p.p.) - ed il  giudice  del
 potere  di  acquisire elementi rilevanti ai fini della determinazione
 della pena (art. 133, primo comma, n. 2 c.p.). Ove si consideri, poi,
 che  il  giudizio  di  responsabilita'  amministrativa,  vertendo sul
 medesimo fatto o comportamento  oggetto  del  giudizio  penale,  deve
 essere  necessariamente sospeso in pendenza di questo (art. 3 c.p.p.)
 e  che  il  giudicato  penale  di   condanna   vincola   il   giudice
 amministrativo-contabile  ai sensi dell'art. 28 c.p.p., non si scorge
 la ragione per la quale l'interesse pubblico  al  ristoro  del  danno
 derivato  all'erario  dal  reato,  interesse che l'Amministrazione e'
 chiamata  a  tutelare,  non  debba  ricevere   pronta   soddisfazione
 attraverso  l'esecuzione  del  giudicato  reso in sede penale e debba
 invece attendere  la  definizione  del  giudizio  di  responsabilita'
 amministrativa:  cio'  che porrebbe l'Amministrazione medesima in una
 condizione ingiustificatamente deteriore rispetto a  quella  di  ogni
 altro soggetto.
    Una  volta,  poi,  che  il giudicato penale sulla liquidazione del
 danno si sia formato, a tenore della  norma  impugnata  ne  consegue,
 naturalmente,    la   preclusione   all'azione   di   responsabilita'
 amministrativa.
    Al  riguardo,  la  Sezione  rimettente  ha  dato  conto  di talune
 interpretazioni proposte da  una  parte  della  giurisprudenza  della
 stessa   Corte   dei   Conti  che,  ove  accolte,  rimuoverebbero  il
 presupposto  della  questione  sollevata:   cosi'   l'interpretazione
 secondo  cui,  alla  stregua  della sentenza n. 55 del 1971 di questa
 Corte,  l'azione  di  responsabilita'   non   sarebbe   preclusa   al
 Procuratore  Generale  della Corte dei Conti, in quanto il vincolo in
 ordine all'accertamento dei fatti materiali discendente dall'art.  28
 c.p.p. non opererebbe nei suoi confronti in ragione della sua mancata
 partecipazione al giudizio penale; ovvero  l'interpretazione  secondo
 cui  la  preclusione  in  esame  non  opererebbe, perche' la sentenza
 penale sarebbe, per il capo attinente  alla  liquidazione  del  danno
 erariale,   inesistente   in   quanto  resa  da  giudice  carente  di
 giurisdizione in materia.
    L'ipotesi  di  una  decisione  interpretativa  di  rigetto  che si
 fondasse su simili assunti e' pero' all'evidenza da escludere.
    Quanto al primo, perche' il limite soggettivo, posto con la citata
 sentenza,  all'efficacia  di  un  giudicato  penale   formatosi   nei
 confronti   della   parte   -  Pubblica  Amministrazione  -  titolare
 dell'interesse al risarcimento  non  riguarda  certo  il  Procuratore
 Generale,  che  non  solo  non  puo' considerarsi alla stregua di una
 parte privata, ma che non e' titolare di alcun diverso interesse  ne'
 puo'  pretendere di far valere un interesse che col giudicato e' gia'
 stato soddisfatto.
    Il  secondo  assunto,  poi,  e'  palesemente  inesatto,  dato  che
 l'ordinamento  riserva  alla  Corte  di  Cassazione  la  potesta'  di
 decidere sulle questioni di giurisdizione.
    4.  -  La  disposizione  impugnata  va  dunque si' intesa, come il
 giudice a quo presuppone, nel senso che il giudicato penale  con  cui
 si   sia   liquidato  il  danno  erariale  precluda  la  proposizione
 dell'azione  di  responsabilita'  amministrativa  nei  confronti  del
 condannato:  ma  cio'  non  da'  fondamento  ad  alcuna delle censure
 prospettate in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 3 Cost..
    La  prima  e',  invero,  meramente  conseguenziale a quella finora
 esaminata: sicche', una volta escluso che l'art. 103, secondo  comma,
 Cost.  possa  comportare  l'invalidazione della norma impugnata e che
 l'art. 489, secondo comma, c.p.p.  valga  a  radicare  la  competenza
 della  Corte dei Conti, manca il supporto normativo per affermare che
 tale organo sia  "giudice  naturale"  della  liquidazione  del  danno
 erariale derivante dal reato del dipendente pubblico.
    Quanto  alla  seconda censura, deve innanzitutto osservarsi che la
 preclusione derivante dal giudicato risponde al principio  che  vieta
 una  molteplicita'  di  decisioni nei riguardi della stessa persona e
 per lo stesso oggetto, cioe' che si dia luogo ad un bis in idem (cfr.
 la  gia'  citata  sentenza n. 55 del 1971). Ne' basterebbe replicare,
 come  talora  fa  la  giurisprudenza  contabile,  che   l'azione   di
 responsabilita'  amministrativa  e' cosa diversa da quella esercitata
 ex art. 185 c.p.,  concernendo  il  fatto  oggetto  dell'accertamento
 compiuto in sede penale, ma riguardato come violazione degli obblighi
 di servizio. Cio'  non  toglie,  invero,  che  il  fatto,  nella  sua
 fenomenica oggettivita', e' il medesimo, e che pertanto esso non puo'
 ne' essere diversamente accertato nel giudizio  amministrativo  (art.
 28  c.p.p.)  ne'  dar  luogo  ad  una  duplicita'  di  pretese  (e di
 conseguenze) risarcitorie.
    Quanto  poi  alla tesi - svolta nel giudizio a quo dal Procuratore
 Generale e  recepita  nell'ordinanza  di  rimessione  -  secondo  cui
 l'instaurazione  del  giudizio  di responsabilita' amministrativa nei
 confronti del condannato sarebbe necessaria al fine di far valere  il
 vincolo  solidale  tra  costui  e  gli altri soggetti che, pur se non
 penalmente responsabili, hanno contribuito  a  determinare  il  danno
 erariale  per  violazioni  degli  obblighi  di  servizio  connesse al
 fatto-reato, v'e' innanzitutto da rilevare che il presupposto da  cui
 tale  tesi  muove  non  e'  affatto pacifico. Recenti decisioni della
 stessa Corte  dei  Conti  ritengono,  infatti,  che  la  disposizione
 secondo  cui essa, "valutate le singole responsabilita', puo' porre a
 carico dei responsabili tutto o  parte  del  danno  accertato  o  del
 valore  perduto" (art. 52 R.D. n. 1214 del 1934) contempli un'ipotesi
 di responsabilita' ripartita anziche' solidale - da commisurare cioe'
 al  grado  di  colpa  di  ciascuno nella violazione dei doveri propri
 delle rispettive attribuzioni -  ed  imponga  all'amministrazione  di
 aggredire  innanzitutto  il  patrimonio  del  condannato,  in  quanto
 principale   obbligato,   e   di    escludere    i    corresponsabili
 amministrativi,  limitatamente  alla  parte  avuta  da ciascuno nella
 determinazione dell'evento, solo ove la  relativa  procedura  risulti
 infruttuosa.
    Ma  anche  a  ritenere altrimenti, la richiamata esigenza non puo'
 certo fondare censure di violazione  del  principio  di  eguaglianza:
 anzi, il consentire che, in mancanza di un preesistente vincolo tra i
 soggetti, il  peso  del  risarcimento  possa  essere  trasferito  dal
 maggior  al minor colpevole rischia di non essere consono proprio con
 tale principio, nonche' con le prescrizioni di cui all'art. 97  Cost.
    Ancor  meno  la  regola costituzionale dell'eguaglianza puo' dirsi
 violata in ragione del fatto che, procedendosi alla liquidazione  del
 danno  in  sede  penale, si priva il condannato della possibilita' di
 fruire del c.d. potere riduttivo dell'addebito, di cui viceversa,  ad
 avviso  dell'ordinanza  di rimessione, egli potrebbe giovarsi in sede
 contabile. Proprio se cio' fosse, quella regola risulterebbe violata,
 in  quanto  ne sortirebbe che il funzionario responsabile di un reato
 godrebbe  di  una  posizione  ingiustificatamente   piu'   favorevole
 rispetto a quella comune alla generalita' degli altri cittadini.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 26 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 25, primo  comma  e
 103,  secondo comma, Cost., sollevata dalla Corte dei Conti - Sezione
 giurisdizionale per la Regione Sicilia con  l'ordinanza  indicata  in
 epigrafe (r.o. 874/83).
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1988
                          Il Presidente: SAJA
                         Il redattore: SPAGNOLI
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 7 luglio 1988.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 88C1107