N. 773 SENTENZA 22 giugno - 7 luglio 1988
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Impiegato pubblico - Reato del pubblico dipendente - Giudicato penale - Liquidazione del danno in favore della pubblica amministrazione costituitasi parte civile - Azione di responsabilita' amministrativa spettante alla Corte dei conti Preclusione - Non fondatezza. (Cod. proc. pen., art. 26). (Cost., artt. 3 e 25, primo comma, 103, secondo comma)(GU n.28 del 13-7-1988 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 26 del codice di procedura penale promosso con ordinanza emessa il 2 aprile 1982 dalla Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia - nel giudizio di responsabilita' promosso dal Procuratore Generale nei confronti di Ferrazzano Angelo ed altri, iscritta al n. 874 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53 dell'anno 1984; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 1988, il Giudice relatore Ugo Spagnoli. Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza emessa il 2 aprile 1982 nel giudizio di responsabilita' amministrativa promosso dal Procuratore Generale nei confronti di Ferrazzano Angelo ed altri, la Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia - ha sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 103, secondo comma, 25, primo comma, e 3, primo comma, Cost., una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 26 c.p.p. Detto giudizio era stato promosso dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna del Ferrazzano, tenente di vascello, per i reati di truffa aggravata e continuata e falso ideologico, con la quale si era tra l'altro provveduto alla liquidazione dei danni subi'ti dal Ministero della Difesa, costituitosi parte civile. Nell'atto introduttivo, il Procuratore Generale aveva giustificato l'instaurazione del nuovo giudizio per il medesimo fatto ed in relazione al medesimo danno, richiamandosi alla prevalente giurisprudenza della Corte dei Conti, secondo cui l'azione davanti al giudice contabile non sarebbe preclusa in quanto distinta da quella esercitata in sede penale e tendente all'accertamento non della comune responsabilita' civile bensi' della responsabilita' fondata sul rapporto di pubblico impiego o servizio. Dal giudicato penale non derivava inoltre, secondo il Procuratore Generale, una preclusione in ordine all'accertamento dei fatti materiali (ex art. 28 c.p.p.) in quanto, pur nell'identita' dei fatti addebitati, vi era una sia pur lieve differenza tra la somma liquidata in sede penale (L.7.297.810) e quella dedotta come danno erariale nel giudizio contabile (L. 7.397.100). L'esercizio dell'azione nei confronti del soggetto condannato in sede penale si rendeva poi nella specie necessario, ad avviso del Procuratore Generale, sia per far valere il vincolo solidale tra costui e gli altri soggetti rimasti estranei al giudizio penale, sia per far seguire - per gli effetti dell'art. 686 c.p.c. - una sentenza di condanna ai sequestri conservativi autorizzati e convalidati nei confronti del primo in pendenza del giudizio penale. 2. - Il giudice a quo muove dal presupposto secondo cui dalla disposizione di cui all'art. 489, secondo comma, c.p.p. - che prevede che la sentenza penale, in caso di costituzione di parte civile, decida sulla liquidazione dei danni "quando e' possibile, salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice" - discenderebbe che in caso di danni arrecati all'erario da soggetti legati allo Stato o ad altro ente pubblico da rapporto d'impiego o servizio, il giudice penale dovrebbe limitarsi alla condanna generica, essendo la liquidazione riservata alla Corte dei Conti dagli artt. 83 R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, 52 R.D. 12 luglio 1934, n.1214 e 19, d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Ove peraltro, in violazione di tali disposizioni, sul punto si sia formato il giudicato penale, il collegio remittente - discostandosi da altri orientamenti della Corte del Conti, che negano al giudicato efficacia preclusiva dell'azione di responsabilita' (tesi prevalente) o affermano che essa opererebbe solo su eccezione di parte - ritiene che la preclusione operi e si fondi sull'art. 26 c.p.p., a termine del quale "Nel caso di condanna dell'imputato, l'azione civile gia' esercitata nel procedimento penale non puo' essere piu' proposta in sede civile o amministrativa, neanche limitatamente alla liquidazione dei danni". Cio' pero', ad avviso della Sezione, confligge, innanzitutto, con l'art. 103, secondo comma, Cost. Anche ammesso, infatti, che tale disposizione, attributiva della giurisdizione alla Corte dei Conti "nelle materie di contabilita' pubblica", abbia portata generale solo tendenziale e non sia immediatamente precettiva - si' che il legislatore potrebbe apportarvi deroghe e dovrebbe in ogni caso emanare apposite norme affinche' essa operi (sentt. nn. 110 del 1970 e 102 del 1977 di questa Corte) - nel caso in esame la riserva di giurisdizione risulta dalle specifiche disposizioni dianzi richiamate. Dagli artt. 103 Cost. e 489 c.p.p. deriva inoltre, secondo il collegio remittente, che - fatta salva la facolta' della Pubblica Amministrazione di costituirsi parte civile - la Corte dei Conti e' giudice naturale precostituito per legge in materia di liquidazione dei danni ad essa arrecati dai propri dipendenti. L'impugnato art. 26 confliggerebbe percio' con l'art. 25, primo comma, Cost., in quanto legittimerebbe "a posteriori" la violazione da parte del giudice penale del disposto del citato art. 489. Dopo aver ricordato che il giudicato civile sulla misura del danno erariale, stante l'assenza nel codice di procedura civile di disposizioni analoghe a quella impugnata, non preclude in nessun caso il successivo giudizio innanzi la Corte dei Conti - secondo la costante giurisprudenza di tale organo - il giudice a quo pone in rilievo le caratteristiche differenziali del giudizio di responsabilita' amministrativa rispetto a quello di responsabilita' civile instaurato in sede penale a seguito della costituzione di parte civile: estensione dell'azione ai soggetti che, pur se non penalmente responsabili, hanno contribuito a determinare il danno erariale; possibilita' di graduare per ciascuno la misura del risarcimento attraverso l'esercizio del c.d. potere riduttivo dell'addebito; obbligatorieta' e irretrattabilita' dell'azione del Procuratore Generale, con esclusione del potere di rinuncia o transazione spettante alla Pubblica Amministrazione costituitasi parte civile. Di qui la dedotta violazione dell'art. 3 Cost., dato che la posizione debitoria del responsabile puo' risultare diversa a seconda che alla quantificazione del danno si provveda in sede penale o in sede contabile. 3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, contesta innanzitutto l'esattezza del presupposto interpretativo della questione sollevata. Le deroghe alla competenza del giudice civile e della Corte dei Conti - unico giudice amministrativo con competenza giurisdizionale in materia di risarcimento dei danni da illecito - stabilite negli artt. 25, 26 e 27 c.p.p. si fondano invero, osserva l'Avvocatura, sulla regola generale di cui al precedente art. 23, che attribuisce al giudice penale la competenza a giudicare in materia del risarcimento del danno derivante da reato. L'art. 489, secondo comma, c.p.p., in quanto distingue la competenza sull' an da quella sul quantum del risarcimento, sarebbe percio' - come ritenuto da autorevole dottrina - norma speciale, riferibile alle sole disposizioni che espressamente sottraggono al giudice penale la competenza in materia di liquidazione dei danni per attribuirla ad un giudice diverso (es. artt. 1246 cod.nav., 373 c.p.m.p.) e non anche all'art. 52 R.D. n. 1214 del 1934, che prevede la competenza della Corte dei Conti in materia di responsabilita' amministrativa ma non esclude quella del giudice penale per il danno erariale derivante dal reato del pubblico dipendente. Anche ammesso, d'altra parte, che l'art. 489 sia da intendere nel senso presupposto dal giudice a quo, l'impugnato art. 26 dovrebbe ritenersi immune da censure, essendo esso una puntuale e specifica applicazione del principio generale sugli effetti del giudicato (art. 2909 c.c.), che per ovvie esigenze di certezza delle situazioni giuridiche impone che eventuali vizi in procedendo o in iudicando restino assorbiti nella definitivita' delle decisioni (sent. n.136 del 1972). Considerato in diritto 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia - dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 26 c.p.p., in quanto preclude l'azione di responsabilita' amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che abbia provveduto alla liquidazione del danno in favore della Pubblica Amministrazione costituitasi parte civile. In particolare il giudice a quo sostiene che tale disposizione, posta in relazione con l'art. 489, secondo comma, c.p.p. - che a suo avviso vieta al giudice penale di disporre in tal caso (non sull' an ma) sul quantum - contrasti: - con l'art. 103, secondo comma, Cost., che riserverebbe alla Corte dei Conti la giurisdizione in materia di responsabilita' per danno erariale, anche se derivante da reato del pubblico dipendente; - con l'art. 25, primo comma, Cost., in quanto la Corte dei Conti sarebbe giudice naturale precostituito per legge per la liquidazione del danno erariale; - con l'art. 3 Cost., per le conseguenze che da cio' deriverebbero sulla posizione debitoria del dipendente, che potrebbe cosi' fruire di eventuali rinunce o transazioni dello Stato e non giovarsi, invece, degli effetti della concorrente responsabilita' solidale di altri dipendenti estranei al reato e del potere riduttivo attribuito alla Corte dei Conti. 2. - La questione non e' fondata. Il giudice a quo muove dal presupposto secondo cui la norma impugnata sarebbe in contrasto con quella di cui all'art. 489, secondo comma, c.p.p., a termini del quale, in caso di costituzione di parte civile, il giudice penale decide sulla liquidazione dei danni "salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice". Tale riserva, cioe', varrebbe a radicare la competenza della Corte dei Conti in materia di liquidazione del danno erariale e l'art. 26 c.p.p., precludendo l'azione di responsabilita' amministrativa in presenza del giudicato penale, legittimerebbe a posteriori la violazione di tale competenza da parte del giudice penale. L'interpretazione dell'art. 489 c.p.p. assunta dal giudice a quo muove, pero', da una concezione dell'ambito della giurisdizione riservata alla Corte dei Conti dall'art. 103, secondo comma, Cost. "nelle materie della contabilita' pubblica" che va ben al di la' della portata da attribuire a tale disposto costituzionale. Al riguardo, questa Corte ha precisato piu' volte - da ultimo nella sentenza n. 641 del 1987 - che la giurisdizione della Corte dei Conti in dette materie e' "tendenzialmente generale" e che, peraltro, la sua portata espansiva incontra il "limite funzionale" della "interpositio" del legislatore. A chiarire l'apparente antinomia tra queste due proposizioni giova ricordare, innanzitutto, che l'ambito della materia della contabilita' pubblica considerato dal Costituente e' quello "tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e dalla legislazione" (sent. cit.), cioe', in sostanza - per quanto attiene alla responsabilita' patrimoniale per danni cagionati ad enti pubblici da pubblici funzionari, che qui particolarmente interessa - quello risultante dalla disciplina dettata al riguardo dal testo unico n. 1214 del 1934 sulla Corte dei Conti (cfr. sent. n. 129 del 1981). Disciplina che peraltro, all'epoca in cui la Costituzione fu emanata, si inseriva, come si e' ricordato nelle sentenze nn. 102 del 1977, 189 e 241 del 1984, in un contesto normativo nel quale - in coerenza con la generale attribuzione della giurisdizione in materia di diritti soggettivi al giudice ordinario - spettava a quest'ultimo di decidere in ordine alla responsabilita' amministrativa, ad es., degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza. Tale essendo l'ambito della giurisdizione della Corte dei Conti considerato dal Costituente, ben si spiega come questa Corte, con le citate sentenze del 1977 e del 1984, abbia escluso che in forza della disposizione costituzionale in esame la responsabilita' dei predetti amministratori e dipendenti potesse ritenersi attratta nell'orbita della giurisdizione della Corte dei Conti. La necessita', a tal fine, di apposite "valutazioni e deliberazioni" rientranti nella discrezionalita' del legislatore (sent. n. 102 del 1977), discende dal fatto che le questioni sul riparto della giurisdizione involgono scelte in ordine a diversi regimi della responsabilita' e del giudizio, tali da "comportare effetti diversi nei riguardi tanto dei responsabili che dei soggetti danneggiati": sicche' soltanto al potere legislativo "puo' spettare di valutare se e quali siano le soluzioni piu' idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi insiti nella materia de qua" (sent. n. 189 cit.). L'esigenza di apposite previsioni legislative, d'altra parte, discende sia dal fatto che - al di la' degli aspetti formali (natura pubblica dell'ente e dell'oggetto della gestione) - la materia della contabilita' pubblica, di per se' suscettibile di evoluzione, "non e' definibile oggettivamente" (sent. n. 641 cit.: cfr. anche la sent. n. 17 del 1965), sia dall'incidenza che sulle valutazioni del legislatore possono avere altri fattori, quali il nesso esistente tra regime dei controlli sugli enti e regime della responsabilita' dei funzionari ovvero la configurazione positiva degli organi chiamati a valutare quest'ultima (cfr., per la Corte dei Conti, la sent. n. 230 del 1987). Avuto riguardo a tutto cio', ben si comprende che la "tendenziale generalita'" della giurisdizione della Corte dei Conti, al di la' dei casi gia' in essa espressamente o istituzionalmente ricompresi, necessita normalmente di apposite previsioni legislative e non puo' sortire un effetto invalidante di norme che - come nella specie - facciano ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario; e che, inoltre, la sua potenzialita' espansiva puo' ritenersi operante ex se, nelle ipotesi di carenza di disciplina, solo se sussista il requisito dell'"identita' oggettiva di materia" - da intendersi alla stregua di quanto gia' detto - e non siano di ostacolo "i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali" (sent. n. 129 del 1981), la cui compiuta attuazione puo' richiedere o suggerire una disciplina diversa. 3. - Alla stregua delle suesposte puntualizzazioni, risulta evidente che la disposizione di cui all'art. 489, secondo comma, c.p.p. non puo' essere intesa nel senso presupposto dal giudice a quo e che non sussiste percio' l'"insanabile contrasto" con la norma impugnata che questi assume. Come ricorda l'Avvocatura dello Stato, la dottrina ritiene che l'inciso "salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice" si riferisca - come risulta del resto dalla formulazione letterale a casi di attribuzione espressa ad un giudice diverso da quello penale dell'esclusiva potesta' di provvedere in ordine alla liquidazione dei danni (es., artt. 373 c.p.m.p., 1246 cod. nav.); cio' che non puo' certo dirsi per la generica previsione di cui all'art. 52 del T.U. n. 1214 del 1934 delle leggi sulla Corte dei Conti, che non contiene alcuna espressa disposizione in materia di danno derivante da reato ne' alcuna esplicita deroga alla generale competenza spettante in materia al giudice penale in caso di costituzione di parte civile. La riprova di cio' e' data dalla palese irrazionalita' che conseguirebbe all'accoglimento della tesi in questione. Il giudice a quo, infatti, non contesta che spetti all'Amministrazione, cosi' come a qualsiasi altro soggetto, la potesta' - correlata all'esclusiva titolarita' del relativo interesse - di esercitare l'azione civile nel processo penale, mediante la costituzione di parte civile. L'ipotizzare che in tal caso l'Amministrazione debba limitarsi a richiedere, ed il giudice penale a pronunciare, solo una condanna generica ai danni non solo sarebbe in contraddizione con il generale obbligo di tale giudice di provvedere alla liquidazione (e, ove cio' non sia possibile, di concedere se del caso una provvisionale), ma priverebbe l'Amministrazione di fondamentali facolta' processuali spettanti alla parte civile - come il proporre mezzi di prova per accertare l'entita' dei danni (art. 104 c.p.p.) - ed il giudice del potere di acquisire elementi rilevanti ai fini della determinazione della pena (art. 133, primo comma, n. 2 c.p.). Ove si consideri, poi, che il giudizio di responsabilita' amministrativa, vertendo sul medesimo fatto o comportamento oggetto del giudizio penale, deve essere necessariamente sospeso in pendenza di questo (art. 3 c.p.p.) e che il giudicato penale di condanna vincola il giudice amministrativo-contabile ai sensi dell'art. 28 c.p.p., non si scorge la ragione per la quale l'interesse pubblico al ristoro del danno derivato all'erario dal reato, interesse che l'Amministrazione e' chiamata a tutelare, non debba ricevere pronta soddisfazione attraverso l'esecuzione del giudicato reso in sede penale e debba invece attendere la definizione del giudizio di responsabilita' amministrativa: cio' che porrebbe l'Amministrazione medesima in una condizione ingiustificatamente deteriore rispetto a quella di ogni altro soggetto. Una volta, poi, che il giudicato penale sulla liquidazione del danno si sia formato, a tenore della norma impugnata ne consegue, naturalmente, la preclusione all'azione di responsabilita' amministrativa. Al riguardo, la Sezione rimettente ha dato conto di talune interpretazioni proposte da una parte della giurisprudenza della stessa Corte dei Conti che, ove accolte, rimuoverebbero il presupposto della questione sollevata: cosi' l'interpretazione secondo cui, alla stregua della sentenza n. 55 del 1971 di questa Corte, l'azione di responsabilita' non sarebbe preclusa al Procuratore Generale della Corte dei Conti, in quanto il vincolo in ordine all'accertamento dei fatti materiali discendente dall'art. 28 c.p.p. non opererebbe nei suoi confronti in ragione della sua mancata partecipazione al giudizio penale; ovvero l'interpretazione secondo cui la preclusione in esame non opererebbe, perche' la sentenza penale sarebbe, per il capo attinente alla liquidazione del danno erariale, inesistente in quanto resa da giudice carente di giurisdizione in materia. L'ipotesi di una decisione interpretativa di rigetto che si fondasse su simili assunti e' pero' all'evidenza da escludere. Quanto al primo, perche' il limite soggettivo, posto con la citata sentenza, all'efficacia di un giudicato penale formatosi nei confronti della parte - Pubblica Amministrazione - titolare dell'interesse al risarcimento non riguarda certo il Procuratore Generale, che non solo non puo' considerarsi alla stregua di una parte privata, ma che non e' titolare di alcun diverso interesse ne' puo' pretendere di far valere un interesse che col giudicato e' gia' stato soddisfatto. Il secondo assunto, poi, e' palesemente inesatto, dato che l'ordinamento riserva alla Corte di Cassazione la potesta' di decidere sulle questioni di giurisdizione. 4. - La disposizione impugnata va dunque si' intesa, come il giudice a quo presuppone, nel senso che il giudicato penale con cui si sia liquidato il danno erariale precluda la proposizione dell'azione di responsabilita' amministrativa nei confronti del condannato: ma cio' non da' fondamento ad alcuna delle censure prospettate in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 3 Cost.. La prima e', invero, meramente conseguenziale a quella finora esaminata: sicche', una volta escluso che l'art. 103, secondo comma, Cost. possa comportare l'invalidazione della norma impugnata e che l'art. 489, secondo comma, c.p.p. valga a radicare la competenza della Corte dei Conti, manca il supporto normativo per affermare che tale organo sia "giudice naturale" della liquidazione del danno erariale derivante dal reato del dipendente pubblico. Quanto alla seconda censura, deve innanzitutto osservarsi che la preclusione derivante dal giudicato risponde al principio che vieta una molteplicita' di decisioni nei riguardi della stessa persona e per lo stesso oggetto, cioe' che si dia luogo ad un bis in idem (cfr. la gia' citata sentenza n. 55 del 1971). Ne' basterebbe replicare, come talora fa la giurisprudenza contabile, che l'azione di responsabilita' amministrativa e' cosa diversa da quella esercitata ex art. 185 c.p., concernendo il fatto oggetto dell'accertamento compiuto in sede penale, ma riguardato come violazione degli obblighi di servizio. Cio' non toglie, invero, che il fatto, nella sua fenomenica oggettivita', e' il medesimo, e che pertanto esso non puo' ne' essere diversamente accertato nel giudizio amministrativo (art. 28 c.p.p.) ne' dar luogo ad una duplicita' di pretese (e di conseguenze) risarcitorie. Quanto poi alla tesi - svolta nel giudizio a quo dal Procuratore Generale e recepita nell'ordinanza di rimessione - secondo cui l'instaurazione del giudizio di responsabilita' amministrativa nei confronti del condannato sarebbe necessaria al fine di far valere il vincolo solidale tra costui e gli altri soggetti che, pur se non penalmente responsabili, hanno contribuito a determinare il danno erariale per violazioni degli obblighi di servizio connesse al fatto-reato, v'e' innanzitutto da rilevare che il presupposto da cui tale tesi muove non e' affatto pacifico. Recenti decisioni della stessa Corte dei Conti ritengono, infatti, che la disposizione secondo cui essa, "valutate le singole responsabilita', puo' porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto" (art. 52 R.D. n. 1214 del 1934) contempli un'ipotesi di responsabilita' ripartita anziche' solidale - da commisurare cioe' al grado di colpa di ciascuno nella violazione dei doveri propri delle rispettive attribuzioni - ed imponga all'amministrazione di aggredire innanzitutto il patrimonio del condannato, in quanto principale obbligato, e di escludere i corresponsabili amministrativi, limitatamente alla parte avuta da ciascuno nella determinazione dell'evento, solo ove la relativa procedura risulti infruttuosa. Ma anche a ritenere altrimenti, la richiamata esigenza non puo' certo fondare censure di violazione del principio di eguaglianza: anzi, il consentire che, in mancanza di un preesistente vincolo tra i soggetti, il peso del risarcimento possa essere trasferito dal maggior al minor colpevole rischia di non essere consono proprio con tale principio, nonche' con le prescrizioni di cui all'art. 97 Cost. Ancor meno la regola costituzionale dell'eguaglianza puo' dirsi violata in ragione del fatto che, procedendosi alla liquidazione del danno in sede penale, si priva il condannato della possibilita' di fruire del c.d. potere riduttivo dell'addebito, di cui viceversa, ad avviso dell'ordinanza di rimessione, egli potrebbe giovarsi in sede contabile. Proprio se cio' fosse, quella regola risulterebbe violata, in quanto ne sortirebbe che il funzionario responsabile di un reato godrebbe di una posizione ingiustificatamente piu' favorevole rispetto a quella comune alla generalita' degli altri cittadini.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 26 c.p.p., in riferimento agli artt. 3, 25, primo comma e 103, secondo comma, Cost., sollevata dalla Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia con l'ordinanza indicata in epigrafe (r.o. 874/83). Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1988 Il Presidente: SAJA Il redattore: SPAGNOLI Il cancelliere: MINELLI Depositata in cancelleria il 7 luglio 1988. Il direttore della cancelleria: MINELLI 88C1107