N. 210 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 novembre 1987- 6 aprile 1989

                                 N. 210
 Ordinanza   emessa   il   16  novembre  1987  (pervenuta  alla  Corte
 costituzionale il  6  aprile  1989)  dal  tribunale  di  Firenze  nel
 provvedimento  civile vertente tra Fioravanti Umberto, nella qualita'
 di esercente la patria potesta' sulla figlia minore Fioravanti Silvia
 e Meli Adriano.
 Impiego  pubblico - Stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo
 Stato ai propri dipendenti - Mancata previsione della  pignorabilita'
 fino  alla  concorrenza  di  un quinto - Ingiustificata disparita' di
 trattamento rispetto ai lavoratori privati Richiamo ai principi della
 sentenza della Corte costituzionale n.  89/1987.
 (D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 1).
 (Cost., art. 3).
(GU n.17 del 26-4-1989 )
                              IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta a ruolo
 il 26 marzo 1980 e segnata ai numeri  2004  ruolo  generale,  n.  650
 ruolo  della  seconda  sezione  promossa da Fioravanti Umberto, nella
 qualita'  di  esercente  la  patria  potesta'  sulla  figlia   minore
 Fioravanti  Silvia  elettivamente  domiciliato  a  Firenze, in via S.
 Reparata, n. 40, presso e nello studio dell'avv. Paolo  Filippi,  che
 lo  rappresenta  e  difende  come  da  procura a margine dell'atto di
 citazione, attore contro Meli  Adriano  elettivamente  domiciliato  a
 Firenze,  in  via  Tornabuoni  n.  4, presso e nello studio dell'avv.
 Alfredo Guidotti, che lo rappresenta e difende,  unitamente  all'avv.
 Vincenzo  Brigidi,  come  da  procura  in calce alla copia notificata
 dell'atto di citazione, convenuto, Umberto Fioravanti, nella qualita'
 di  genitore  esercente  la  patria  potesta'  sulla figlia minorenne
 Silvia Fioravanti, autorizzato dal giudice istruttore a  procedere  a
 sequestro  conservativo  sui  beni mobili e immobili di Adriano Meli,
 anche presso  terzi,  ha  eseguito  il  sequestro  del  quinto  dello
 stipendio   del   convenuto   presso  il  Ministero  del  tesoro.  In
 conseguenza dell'eccezione di nullita'  proposta  dall'esecutato  per
 violazione   del  combinato  disposto  dell'art.  545  del  c.p.c.  e
 dell'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180,  l'attore  ha  dedotto
 l'illegittimita'   cosituzionale  del  citato  art.  1  in  relazione
 all'art. 3 della Costituzione, nella parte  in  cui  non  prevede  la
 pignorabilita'  e  la  sequestrabilita',  fino alla concorrenza di un
 quinto, degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo Stato
 per ogni credito vantato nei confronti dei propri dipendenti.
    La  questione  e'  indubbiamente rilevante ai fini della decisione
 sulla domanda di convalida  del  sequestro  in  quanto,  ritenuta  la
 sussistenza  dei presupposti di legge per la concessione della misura
 cautelare, e' evidente che lo stesso potra' essere convalidato.
    La Corte costituzionale, che in precedenza si era gia' espressa in
 relazione alla legittimita' costituzionale dell'art. 1  (sentenza  n.
 88/1963) e dell'art. 2 del d.P.R. n. 180/1950 (sentenze n. 209 del 15
 luglio 1975 e n. 49  del  16  marzo  1976),  ritenendo  infondate  le
 questioni  che le erano state sottoposte, recentemente ha in sostanza
 mutato il proprio orientamento e, con la sentenza del 31 marzo  1987,
 n.  89,  ha  dichiarato  l'illegittimita'  del  primo  comma,  n.  3,
 dell'art. 2 per contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
    Questa  decisione,  sia  pur  limitata  alla  pignorabilita'  e la
 sequestrabilita' degli stipendi,  dei  salari  e  delle  retribuzioni
 corrisposte  da altri enti diversi dallo Stato, dalle aziende e dalle
 imprese di cui all'art. 1 del  d.P.R.  n.  180/1950,  ha  determinato
 un'inversione  di  tendenza  della  consulta della quale i giudici di
 merito non possono non tener conto  nell'esaminare  la  questione  di
 illegittimita'  costituzionale anche dell'art. 1 del citato d.P.R. in
 riferimento agli impiegati dello Stato.
    Ed invero, non puo' non riconoscersi che la concezione sociologica
 e giuridica del pubblico impiego che ha sorretto le  motivazioni  con
 le  quali  la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni
 che in precedenza le erano state  sottoposte  e'  oggi  completamente
 superata nella coscienza sociale e, in gran parte, anche nell'attuale
 sistema normativo.
    A  seguito del progressivo costante dilatarsi del settore pubblico
 ormai non residua  alcuna  distinzione  ontologica  tra  il  pubblico
 impiego e il rapporto lavorativo privato.
    Nei  tempi attuali il pubblico impiego e' universalmente concepito
 come facente parte di un unico, piu' ampio concetto  di  rapporto  di
 lavoro.
    Ed  infatti,  l'evoluzione  sociale  ha  portato, per un verso, al
 sempre piu' evidente e generalizzato  inquadramento  sindacale  anche
 dei  pubblici  dipendenti  e,  per l'altro verso, all'affermazione in
 favore di quasi tutti i comparti del pubblico impiego del diritto  di
 sciopero.
    Con  la  conseguenza  che  il pubblico impiegato viene ormai visto
 come  compreso  nel  generale,  vasto  ambito  dei  "lavoratori",  in
 perfetta   armonia   con   le  precise  indicazioni  contenute  nella
 Costituzione, ed i pubblici dipendenti, come  quelli  privati,  hanno
 ricorso  e  ricorrono  oggi allo sciopero per conseguire non soltanto
 miglioramenti economici ma anche "normativi".
    L'esercizio  del diritto di sciopero, ed il connesso inquadramento
 in  associazioni  sindacali,  sono   gli   indici   piu'   sicuri   e
 significativi  del  mutamento  contrattuale  di fondo del rapporto di
 pubblico impiego, nel senso di rilevarne ed accentuarne  l'intrinseca
 natura di rapporto di lavoro.
    Da   cio'   la  progressiva  perdita  d'importanza  dei  caratteri
 differenziatori fra impiego pubblico e lavoro  privato,  posti  dalla
 Corte  costituzionale  a  corredo delle precedenti decisioni negative
 sulla legittimita' costituzionale della legge in discussione.
    Del   resto,  e'  indiscutibile  che  nella  determinazione  della
 retribuzione  dei  pubblici  impiegati  abbia  perso  di  rilievo  la
 correlazione  con  i  loro  bisogni  essenziali e che l'art. 36 della
 Costituzione riconosce anche a loro il diritto  ad  una  retribuzione
 proporzionata  alla  qualita'  e  quantita' del lavoro prestato ed in
 ogni caso sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e  dignitosa.
    Piu'  in generale, gli artt. 1 e 4 della Costituzione intendono il
 "lavoro" ed il "diritto al  lavoro"  in  un'eccezione  che  non  puo'
 ricomprendere   anche   il   pubblico   impiego  e  l'art.  35  della
 Costituzione il quale, nel tutelare il lavoro in tutte le  sue  forme
 ed  applicazioni,  si  riferisce  evidentemente  anche  ai dipendenti
 pubblici.
    La concezione unitaria del rapporto di lavoro, pubblico e privato,
 e' poi incontestabilmente dimostrata dalla  previsione  dell'art.  37
 della  legge  20  maggio  1970, n. 300, secondo il quale la normativa
 dettata dallo statuto dei diritti dei  lavoratori  non  si  applicano
 anche  ai  lavoratori del pubblico impiego soltanto se la materia sia
 diversamente regolata da norme speciali.
    Ritiene    quindi   il   tribunale   che   le   diversita'   nella
 regolamentazione dei rispettivi status, determinati  dalle  oggettive
 differenze  tra  le rispettive condizioni di lavoro - e non si tratta
 certamente di differenze di  particolare  rilevanza  -  non  sembrano
 rendere   legittima,   sotto  il  profilo  costituzionale,  qualunque
 differenza di trattamento legislativo, bensi' solo quelle  che  siano
 necessariamente  connesse  alle  altrettanto necessarie diversita' di
 trattamento.
    Ogni  diversita'  di trattamento non giustificata dalle necessarie
 differenze oggettive nel modo di svolgimento del loro lavoro e  dalle
 diverse  finalita' per cui il lavoro stesso viene prestato fa si' che
 la categoria "favorita"  lo  sia  per  una  "condizione  personale  e
 sociale"  dei  suoi componenti che e' puramente esteriore, quindi - a
 quanto  pare  -  inidonea,  per  l'art.  3  della   Costituzione,   a
 giustificare quella diversita' di trattamento.
    Poiche'  i  lavoratori  dipendenti,  pubblici  e  privati,  uguali
 socialmente e giuridicamente nei diritti fondamentali  relativi  alla
 loro  condizione di "lavoratori", non possono non essere uguali anche
 nei doveri e nelle responsabilita' anche  patrimoniali,  in  assoluta
 aderenza  al  principio  sancito  dall'art.  2 della Costituzione che
 richiede  a  tutti  "l'adempimento   dei   doveri   inderogabili   di
 solidarieta' politica, economica e sociale".
    Da  questi  doveri  non  e'  certamente escluso quello di pagare i
 debiti rispondendo delle  obbligazioni  assunte  con  tutti  i  beni,
 presenti  e  futuri  (art. 2740 del c.c.) esclusi soltanto quelli che
 "per  tutti"  sono  dal  legislatore  ritenuti  indispensabili   alla
 salvaguardia  dell'esistenza  del  debitore  e  della  sua  famiglia,
 nonche' della dignita' della sua persona.
    Cosi'  che  il  pignoramento  o il sequestro di una frazione della
 retribuzione del pubblico impiegato limitata al quinto, come previsto
 per  i  dipendenti  privati,  non  sono  certamente  idonei a rendere
 impossibile  lo  svolgimento  dell'attivita'   con   regolarita'   e,
 soprattutto, ad impedire un'esistenza libera e dignitosa.
    La  norma  in  discussione, pertanto, non sembra rispondere ne' ad
 un'esigenza di buon funzionamento della pubblica amministrazione ne',
 tanto  meno,  ad un'esigenza di giustizia ed il tribunale ritiene che
 l'eccezione di illegittimita' costituzionale non  sia  manifestamente
 infondata.
    Ne consegue che la decisione sulla domanda relativa alla convalida
 del sequestro conservativo deve essere sospesa rimettendosi gli  atti
 alla  Corte  costituzionale come previsto dall'art. 23 della legge 11
 marzo 1953, n. 87.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta    non   manifestamente   infondata   la   questione   di
 illeggittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950,
 n.  180,  in  relazione  all'art.  3  della  Costituzione, dispone la
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per  l'esame  della
 questione stessa;
    Manda  alla  cancelleria  di notificare la presente ordinanza alle
 parti in causa ed al Presidente del  Consiglio  dei  Ministri,  e  di
 comunicarla   al   Presidente  del  Senato  della  Repubblica  ed  al
 Presidente della Camera dei deputati.
    Cosi'  deciso  il  16  novembre  1987  in Firenze, nella camera di
 consiglio della seconda sezione civile.
                   Il Presidente: (firma illeggibile)

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