N. 573 SENTENZA 13 - 22 dicembre 1989

 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Separazione dei coniugi - Appello avverso le sentenze - Speciale rito
 camerale - Esigenza di tutela del diritto di difesa Idoneita' ad
 assicurare tutte le garanzie processuali - Richiamo alla sentenza n.
 543/1989 - Non fondatezza.
 
 (Legge 1Πdicembre 1970, n. 898, art. 4, dodicesimo comma, come
 novellato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74).
 
 (Cost., art. 24).
(GU n.1 del 3-1-1990 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giovanni CONSO;
 Giudici:  prof.  Ettore  GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
 BORZELLINO, dott. Francesco GRECO,  prof.  Renato  DELL'ANDRO,  prof.
 Gabriele   PESCATORE,   avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco  Paolo
 CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,  avv.
 Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4, n. 12, della
 legge 1Πdicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi  di  scioglimento
 del  matrimonio), sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n.
 74  (Nuove  norme  sulla  disciplina  dei  casi  di  scioglimento  di
 matrimonio)  promosso  con  ordinanza emessa il 3 febbraio 1989 dalla
 Corte d'appello di Milano nel procedimento civile vertente tra Vecchi
 Achille  e  Chiarini  Anna  Norma,  iscritta  al  n. 216 del registro
 ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1989;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 4 ottobre 1989 il Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Nel corso di un procedimento civile di separazione personale
 di coniugi, la Corte d'appello di Milano, con  ordinanza  in  data  3
 febbraio  1989,  ha  sollevato  d'ufficio  questione  di legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  all'art.  24  della   Costituzione,
 dell'art.  4,  dodicesimo comma, della legge 1Πdicembre 1970, n. 898
 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come  novellato
 dall'art.  8  della  legge  6  marzo  1987,  n. 74 (Nuove norme sulla
 disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella  parte  in
 cui,  prevedendo che l'appello avverso le sentenze di separazione sia
 deciso in camera di consiglio - ed imponendo cosi' di utilizzare, per
 investire  il  Collegio della decisione del gravame, lo strumento del
 ricorso  con  il  conseguente  decreto  presidenziale  di  fissazione
 dell'udienza  collegiale,  in  luogo della ordinaria vocatio in ius -
 sacrificherebbe il diritto della parte  ad  impugnare  allorche'  "il
 decreto  presidenziale  intervenga  dopo  la scadenza del termine per
 l'appello".
    2. - Nella specie era avvenuto che il ricorso era stato depositato
 nella cancelleria del giudice a  quo  quando  ormai  era  decorso  il
 termine di dieci giorni previsto dall'art. 739, terzo comma, (rectius
 secondo), c.p.c., ma comunque  entro  il  termine  di  trenta  giorni
 previsto per l'appello ordinario dagli artt. 325 e 326 c.p.c., mentre
 il ricorso stesso, unitamente al decreto presidenziale di fissazione,
 era  stato notificato quando era ormai scaduto il suddetto termine di
 trenta  giorni,  per  essere  il  decreto  presidenziale  intervenuto
 tardivamente.
    Da  cio'  il giudice rimettente, disattendendo il richiamo operato
 dalla  parte  appellata  alla  disciplina  dell'art.  739  c.p.c.,  e
 presupponendo  l'applicabilita'  del  rito  camerale  nella sola fase
 decisoria, argomenta per la irrazionalita'  della  norma  denunciata,
 con  conseguente  lesione  del  diritto  di  agire e di difendersi in
 giudizio, perche' la mancata previsione di uno strumento  processuale
 idoneo  ad  investire  direttamente  il  Collegio della decisione del
 gravame impedirebbe alla parte, per l'assenza di una disciplina della
 fase  della  vocatio in ius, di esercitare il diritto di impugnazione
 nei termini previsti dalla legge e non modificati, quando, come nella
 specie,  il  decreto  di  fissazione  intervenga dopo la scadenza del
 termine per l'appello e  renda  impossibile  la  tempestiva  notifica
 dello stesso nel prescritto termine di trenta giorni.
    3. - Non si sono costituite le parti.
    E'  intervenuto  nel  giudizio  il  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri, il quale ha osservato in primo luogo che la norma impugnata
 non impone la forma del gravame secondo lo schema del ricorso-decreto
 e, in via subordinata, che  il  termine  per  l'impugnativa  andrebbe
 comunque  rispettato per il solo deposito del ricorso, da effettuarsi
 nel termine  ordinario  di  trenta  giorni,  secondo  il  consolidato
 indirizzo   giurisprudenziale   inerente  al  sistema  delle  domande
 proposte con ricorso.
                         Considerato in diritto
    1.  -  La  Corte  di  appello  di Milano dubita della legittimita'
 costituzionale dell'art. 4, dodicesimo comma, della legge 1Πdicembre
 1970, n. 898, come novellato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n.
 74, il quale, nel prevedere che  l'appello  avverso  le  sentenze  di
 separazione personale dei coniugi venga deciso in camera di consiglio
 (in virtu' del richiamo contenuto nell'art. 23 della legge da  ultimo
 citata),  contrasterebbe con l'art. 24 della Costituzione, poiche' la
 mancanza di apposita disciplina  della  vocatio  in  ius  "impone  di
 ricorrere  allo  strumento del ricorso e del decreto presidenziale di
 fissazione dell'udienza collegiale", per  cui  tale  regolamentazione
 "non  solo  priva  la  parte  di  una  funzione piu' o meno ampia dei
 termini previsti dalla legge processuale, non modificati dalle  norme
 in  discussione,  ma  puo'... sacrificare totalmente il diritto della
 stessa,  allorche'  il  decreto  presidenziale  intervenga  dopo   la
 scadenza del termine per l'appello".
    2. - La questione non e' fondata.
    Come  questa  Corte  ha  gia'  avuto  modo di affermare di recente
 (sent. n. 543 del 1989), lo speciale rito camerale  previsto  per  il
 giudizio  di appello dalla normativa invocata non e' in contrasto con
 l'art.  24  della  Costituzione,   in   quanto,   ancorche'   dettato
 dall'esigenza  di  accelerare la conclusione del processo, in difetto
 di esplicite previsioni limitatrici e' idoneo ad assicurare tutte  le
 garanzie  processuali,  necessarie a rendere il sistema conforme alle
 esigenze del diritto di difesa.
    In  particolare  in  detta  sentenza  si  e'  rilevato come, anche
 secondo la piu' recente giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione,
 mancando  ogni  previsione  in  ordine ai termini per la proposizione
 dell'appello, non si e' in presenza di alcuna deroga ai principi  del
 rito   ordinario   che   possa   considerarsi   lesiva   del  diritto
 all'impugnazione, con la conseguenza che devono osservarsi i  termini
 propri  delle  impugnazioni delle sentenze. Tale giurisprudenza trova
 decisivo conforto nel rilievo che, nella specie, si e' in presenza di
 una  sentenza  emessa in un giudizio contenzioso ordinario, mentre la
 circostanza che l'appello debba seguire il rito camerale attiene alla
 forma da seguire, senza incidere sui termini da osservare.
    Il  giudice  a quo ritiene pero' che, anche se dopo la novella del
 1987 il mezzo per impugnare la sentenza di primo grado e' pur  sempre
 rimasto l'appello, tuttavia in sede di rito camerale lo strumento per
 proporlo sarebbe quello "del ricorso e del decreto  presidenziale  di
 fissazione   dell'udienza   collegiale"  (rectius:  della  camera  di
 consiglio), si' che, qualora tale decreto intervenga dopo la scadenza
 del  termine  per l'appello, rendendo cosi' impossibile la tempestiva
 proposizione  dello   stesso,   verrebbe   sacrificato   il   diritto
 all'impugnazione.
    Osserva  la  Corte che, sulla base del presupposto da cui muove il
 giudice a  quo  circa  lo  strumento  ritenuto  adatto  per  proporre
 l'appello,  il termine previsto dall'art. 325 del codice di procedura
 civile deve essere osservato per il solo deposito del ricorso, e  non
 anche  per  la  notifica del pedissequo decreto presidenziale, e cio'
 perche' il momento della emanazione di questo  sfugge  alla  volonta'
 dell'appellante.  Solo  in  presenza  di  una norma che espressamente
 prevedesse che entro tale termine debba essere  effettuata  anche  la
 notifica  del  decreto potrebbe ravvisarsi il contrasto con l'art. 24
 della Costituzione, mentre, mancando una previsione del genere,  alla
 ipotesi  in  cui  il  decreto  presidenziale  venga  emanato  dopo la
 scadenza del termine non consegue la paventata elisione  del  diritto
 ad appellare.
    Sembra  poi  opportuno ricordare, per una esigenza di completezza,
 che, dovendosi osservare il termine previsto per l'appello  solo  per
 il  deposito  del  ricorso  e  non  anche  per  la  notifica  di esso
 unitamente al pedissequo  decreto  presidenziale,  l'onere  di  detta
 notifica   non  sarebbe  privo  di  termine  e  quindi  non  verrebbe
 vanificata l'esigenza di  celerita'  che  il  legislatore  ha  inteso
 perseguire  prevedendo  il  rito camerale nel giudizio di appello: e'
 difatti evidente che spetta  al  giudice,  che  appone  in  calce  al
 ricorso  il  decreto,  di  indicare  anche  il  termine  entro cui la
 notifica dev'essere effettuata.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
 di legittimita' costituzionale dell'art. 4, dodicesimo  comma,  della
 legge  1Π dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento
 del matrimonio), come novellato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987,
 n.  74  (Nuove  norme  sulla  disciplina  dei casi di scioglimento di
 matrimonio),   sollevata,   in   riferimento   all'art.   24    della
 Costituzione,   dalla  Corte  d'appello  di  Milano  con  l'ordinanza
 indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 1989.
                          Il Presidente: CONSO
                        Il redattore: CAIANIELLO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 22 dicembre 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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