N. 586 SENTENZA 13 - 29 dicembre 1989

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Lavoro - Sanzioni disciplinari non espulsive - Impugnazione in sede
 giurisdizionale - Termine di decadenza - Mancata previsione -
 Disparita' di trattamento tra sanzione disciplinare e licenziamento -
 Non omogeneita' delle due situazioni a raffronto - Razionalita' della
 norma impugnata - Non fondatezza.
 
 (Legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 7).
 
 (Cost., artt. 3 e 41).
(GU n.1 del 3-1-1990 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 7 della legge
 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e  dignita'
 dei  lavoratori,  della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale
 nei  luoghi  di  lavoro  e  norme  sul  collocamento),  promosso  con
 ordinanza   emessa  il  1Π giugno  1989  dal  Pretore  di  Roma  nel
 procedimento civile vertente tra Decio Paolo e la S.p.A. Aeroporti di
 Roma,  iscritta  al  n.  370 del registro ordinanze 1989 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  35,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1989;
    Visto  l'atto  di  costituzione  della  S.p.A.  Aeroporti  di Roma
 nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  28  novembre  1989  il Giudice
 relatore Francesco Greco;
    Udito  l'avv. Walter Prosperetti per la S.p.A. Aeroporti di Roma e
 l'Avvocato dello Stato Paolo D'Amico per il Presidente del  Consiglio
 dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Nel corso di un procedimento promosso da Decio Paolo, contro
 la S.p.A. Aeroporti di Roma, sua  datrice  di  lavoro,  per  ottenere
 l'annullamento  della  sanzione  disciplinare  (della sospensione per
 dieci giorni dal  servizio  e  dalla  retribuzione)  da  quest'ultima
 inflittagli,   l'adito   Pretore   di   Roma,  rilevando  che  l'atto
 introduttivo del giudizio era stato notificato alla  convenuta  oltre
 due  anni  dopo  la  data  del contestato provvedimento, ha sollevato
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7 della  legge  20
 maggio  1970, n. 300, nella parte in cui non prevede alcun termine di
 decadenza per l'impugnazione in sede giurisdizionale  delle  sanzioni
 disciplinari.
   Ad  avviso  del  giudice a quo tale carenza di previsione viola, in
 primo luogo,  l'art.  3  della  Costituzione,  perche'  assoggetta  a
 diverso   trattamento   il   caso   concernente   siffatte  sanzioni,
 impugnabili  nel  termine  quinquennale  di   prescrizione   (essendo
 applicabile  quello  di  venti  giorni,  stabilito dalla stessa norma
 censurata, alla  sola  esperibilita'  di  azioni  stragiudiziali),  e
 quello  del  licenziamento,  per la cui impugnabilita' e' previsto il
 termine  di  decadenza  di  sessanta  giorni,  anche  in  ipotesi  di
 lamentata  nullita'. Ne risulta, poi, vulnerato anche l'art. 41 della
 Costituzione   perche'   la   libera    esplicazione    del    potere
 imprenditoriale   resta  limitata  dalla  precarieta'  degli  assetti
 disciplinari in pendenza del suddetto termine  prescrizionale,  senza
 poter trovare adeguato rimedio in contingenti valutazioni di avvenuta
 acquiescenza o di violazione di norme di correttezza e di buona fede,
 permanendo  l'interesse  del  lavoratore  ad ottenere la declaratoria
 giurisdizionale  dell'illegittimita'  delle  sanzioni  per  dopo   la
 scadenza del biennio di cui all'ultimo comma della norma censurata.
    Quanto  alla  rilevanza  della  questione,  il giudice a quo ne ha
 affermato la sussistenza osservando che un'eventuale declaratoria  di
 illegittimita'  di  detta norma, nei termini auspicati, priverebbe di
 fondamento la domanda proposta dal lavoratore nel caso di specie.
    2.  -  L'ordinanza  di  rimessione, emessa in data 1Πgiugno 1989,
 ritualmente comunicata e notificata,  e'  stata  altresi'  pubblicata
 sulla  Gazzetta  Ufficiale. Nel susseguente giudizio davanti a questa
 Corte  si  e'  costituita  la  societa'  Aeroporti  di  Roma  ed   e'
 intervenuto  il Presidente del Consiglio dei ministri, per il tramite
 dell'Avvocatura Generale dello Stato.
    2.1   -  La  societa'  ha  depositato  una  memoria  di  contenuto
 sostanzialmente  adesivo  rispetto  alle  argomentazioni  svolte  con
 l'ordinanza   di   remissione  e,  in  particolare,  ha  sottolineato
 l'irrazionalita' della norma censurata derivante dal fatto che  essa,
 da un lato, prevede un breve termine di decadenza (venti giorni), per
 l'esercizio della  facolta'  di  promuovere  la  costituzione  di  un
 collegio  di  conciliazione,  mentre, dall'altro lato, non ne prevede
 alcuno in riferimento all'azione giudiziaria. Ha poi aggiunto che  la
 disparita'  di trattamento denunciata dal Pretore, non giustificabile
 in nome di una presunta diversita' fra licenziamento e sanzioni cosi'
 dette   conservative,   appare   a   fortiori  lesiva  del  principio
 costituzionale di eguaglianza dopo la sentenza di questa Corte n. 208
 del 1982, in tema di licenziamento disciplinare.
    2.2  -  La  difesa dell'Autorita' intervenuta ha, invece, concluso
 preliminarmente, nel  senso  dell'inammissibilita'  della  questione,
 richiedendosi,  sostanzialmente,  alla  Corte un intervento di natura
 additiva esulante dai suoi compiti, in quanto  la  valutazione  della
 opportunita'  di  assoggettare  l'azione giudiziaria avverso sanzioni
 disciplinari non espulsive a  un  termine  di  decadenza  di  congrua
 ampiezza  e'  riservata  alla  discrezionalita'  del  legislatore. La
 stessa difesa ha, in via subordinata, sollecitato la declaratoria  di
 infondatezza   della   questione   osservando  che  il  principio  di
 eguaglianza non puo'  essere,  nella  specie,  utilmente  richiamato,
 stante  la  non  assimilabilita',  ai  fini de quibus, delle sanzioni
 suddette al licenziamento, in relazione al quale soltanto puo' porsi,
 con     riflessi     sull'esercizio    del    potere    organizzativo
 dell'imprenditore, un problema di sollecita rimozione dell'incertezza
 circa  la sorte del provvedimento. Ove, invece, si tratti di sanzioni
 non risolutive, che non incidono, quindi, sulla entita'  della  forza
 lavoro,  il  libero  esercizio  del  menzionato  potere  non  risulta
 significativamente inciso  da  un  prolungato  stato  di  precarieta'
 dell'irrogata  sanzione e certamente, comunque, non in misura tale da
 giustificare l'imposizione di un breve termine di decadenza a  carico
 del   lavoratore,   considerato   anche  che  l'interesse  di  questi
 all'impugnativa giudiziaria puo' sopravvenire in epoca di gran  lunga
 posteriore alla scadenza di un termine, analogo, in ipotesi, a quello
 stabilito  per  l'impugnazione  del   licenziamento,   ma   inferiore
 all'altro,  biennale,  entro il quale puo' venire in rilievo, in casi
 di successive infrazioni, la contestazione della recidiva.
    Nell'imminenza   dell'udienza,  la  S.p.A  Aeroporti  di  Roma  ha
 depositato memoria insistendo per la declaratoria  di  illegittimita'
 costituzionale  della  norma  in  oggetto,  nella parte censurata dal
 giudice remittente. All'uopo, la difesa  di  detta  parte  ha  svolto
 argomentazioni   sostanzialmente   sovrapponibili   a   quelle   gia'
 illustrate  col  precedente  atto  di  costituzione,  particolarmente
 sottolineando che l'avvenuta attrazione del licenziamento nell'orbita
 delle sanzioni disciplinari, per effetto della sentenza  n.  204  del
 1982  di  questa  Corte,  rende del tutto irragionevole il differente
 trattamento, in punto di termine di decadenza dall'impugnazione,  cui
 sono  sottoposti  da  un lato siffatta sanzione espulsiva (termine di
 giorni sessanta) e, dall'altro, tutte le possibili ulteriori sanzioni
 (per  le quali e' escluso qualsiasi termine breve di decadenza e vige
 soltanto l'ordinario termine di prescrizione decennale).
                         Considerato in diritto
    1.  -  Il Pretore di Roma dubita della legittimita' costituzionale
 dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nella  parte  in  cui
 non  prevede  alcun  termine di decadenza per l'impugnazione, in sede
 giurisdizionale, delle sanzioni disciplinari.
    A suo parere risulterebbero violati:
       a) l'art. 3 della Costituzione, per l'irrazionale disparita' di
 trattamento del caso relativo  a  siffatta  impugnazione  rispetto  a
 quello  concernente  l'impugnazione  del  licenziamento,  soggetta al
 termine di decadenza di sessanta giorni;
       b)  l'art.  41  della  Costituzione,  per il pregiudizio che lo
 stato di incertezza sulla sorte delle sanzioni irrogate  (durante  il
 decorso   dell'ordinario   termine   di   prescrizione  quinquennale)
 determina   al   libero   esercizio    del    potere    organizzativo
 dell'imprenditore.
    2. - La questione non e' fondata.
    Si  osserva,  in  via  generale,  che  il  potere  disciplinare e'
 estrinsecazione del potere organizzatorio e direttivo che  spetta  al
 datore  di  lavoro. Ed e' diretto a reprimere, con apposite sanzioni,
 ogni infrazione alle regole predisposte in materia di  organizzazione
 del  lavoro  nell'ambito  aziendale  per  l'esatta  esecuzione  della
 prestazione.   Puo'   affermarsi   che   le   sanzioni   disciplinari
 rappresentano   un  mezzo  di  reazione  ad  eventuali  mancanze  del
 lavoratore,  specie  comportamentali,  (obbligo  di  diligenza  e  di
 fedelta'  -  artt.  2104  e  2105  del  codice  civile)  che ricadono
 sull'organizzazione aziendale.
    L'esercizio  di detto potere non e' discrezionale ma e' soggetto a
 regolamentazione, la quale trova fondamento nella rilevanza giuridica
 dell'interesse  comune  e dell'imprenditore e del lavoratore. Essa e'
 apprestata anzitutto dal codice civile che,  tranne  che  per  alcuni
 rapporti  (per  es. quello nautico), contiene, pero', una sola norma:
 l'art. 2106, che richiama gli artt. 2104 e 2105 del codice  civile  e
 rinvia   alle  norme  corporative;  ora  ai  contratti  collettivi  o
 aziendali.
    Una  piu'  puntuale  disciplina e' stata dettata dall'art. 7 della
 legge  n.  300  del  1970  il  quale  prevede  condizioni  e   limiti
 all'esercizio   del  potere  disciplinare,  in  senso  sostanziale  e
 procedurale. La norma finalizza anche questo  potere  del  datore  di
 lavoro  ad  una  razionale organizzazione del lavoro ed alla concreta
 tutela della liberta' e dignita' del lavoratore.
    La  limitazione  del potere dell'imprenditore deriva dal possibile
 controllo sulle modalita' di esercizio e sul contenuto specifico.
    La  norma  individua  i  comportamenti qualificabili come mancanze
 disciplinari ed indica le sanzioni applicabili e cioe' il  rimprovero
 orale,  l'ammonimento,  la multa, la sospensione dal servizio e dalla
 retribuzione. Si controverte se tra  essi  sia  o  meno  compreso  il
 licenziamento.   Inoltre,   e'   specificato   il   procedimento  per
 l'erogazione delle sanzioni.
    2.1 - Per quanto riguarda il licenziamento, i contratti collettivi
 o aziendali possono annoverarlo tra le sanzioni, mentre si e' formato
 un  indirizzo giurisprudenziale secondo cui alcuni licenziamenti sono
 ontologicamente disciplinari.
    Questa  Corte  (sent.  n.  204  del  1982)  ha ritenuto che alcuni
 licenziamenti possono essere qualificati disciplinari secondo  legge,
 contratti  collettivi  e  regolamenti  aziendali  e che, comunque, la
 qualificazione come disciplinari spetta al giudice di  merito  (sent.
 n, 427 del 1989).
    2.2  -  A  tutte le suddette sanzioni disciplinari si applicano le
 garanzie procedimentali di cui al secondo e terzo comma  dell'art.  7
 citato, cioe' la contestazione e l'audizione del lavoratore. Inoltre,
 il quarto comma dello stesso articolo dispone che  il  lavoratore  al
 quale  sia  stata applicata una sanzione disciplinare, salve analoghe
 procedure fissate dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando
 la  facolta'  di  adire  l'autorita'  giudiziaria,  nei  venti giorni
 successivi alla comminazione della sanzione stessa  puo'  promuovere,
 anche   a   mezzo  dell'associazione  sindacale  cui  e'  iscritto  o
 conferisca mandato, la costituzione,  tramite  l'Ufficio  provinciale
 del   lavoro   e   della  massima  occupazione,  di  un  collegio  di
 conciliazione ed arbitrato composto di  tre  membri  e  cioe'  da  un
 rappresentante  per  ciascuna  delle parti e da un terzo, nominato da
 queste o, in caso  di  disaccordo,  dal  direttore  dell'Ufficio  del
 lavoro.
    Il  datore  di  lavoro  puo'  autonomamente  adire  il  giudice  e
 sottrarsi alla procedura arbitrale ma, in ogni  caso,  l'azione  deve
 essere   promossa   entro   dieci   giorni   dall'invito,  rivoltogli
 dall'Ufficio suddetto, alla nomina del proprio rappresentante in seno
 al  collegio  arbitrale  poiche',  in  difetto,  la  sanzione  non ha
 effetto.
    Durante il giudizio la sanzione disciplinare resta sospesa.
    Anche il lavoratore puo' instaurare il giudizio dinanzi al giudice
 ordinario in ogni caso e direttamente, anche nella ipotesi in cui  il
 contratto  collettivo  in  via  facoltativa  o  obbligatoria  preveda
 determinate procedure arbitrali e conciliative.
    La  disposizione  in  esame  non  prevede  alcun  termine  per  la
 proposizione dell'azione giudiziaria. E' rimasta isolata la pronuncia
 giudiziale  secondo  cui  anche per essa vale il termine di 20 giorni
 previsto per il ricorso alla procedura arbitrale.
    Per il licenziamento, invece, l'art. 6 della legge 15 luglio 1966,
 n. 604, fissa, a pena di decadenza, il termine di sessanta giorni per
 l'impugnazione davanti al giudice.
    3.  -  E'  oggetto  della  questione  in  esame  la  disparita' di
 trattamento (violazione  dell'art.  3  della  Costituzione)  che,  ad
 avviso  del  giudice  remittente,  si  verificherebbe  sul  punto tra
 sanzione disciplinare e licenziamento.
    Non si ritiene che essa sussista.
    Gia',  in via generale, l'indirizzo giurisprudenziale formatosi in
 sede di  legittimita'  ha  ritenuto  la  non  omogeneita'  delle  due
 situazioni  per  presupposti,  effetti,  estensione  e varieta' delle
 rispettive implicazioni.
    Infatti,  il  licenziamento per giusta causa e giustificato motivo
 e' cosa assolutamente diversa dalle sanzioni disciplinari sia per  la
 ragione  che  li  determina  sia per gli effetti che si producono. La
 causa ed il motivo sono eventi di assoluta  gravita'  ed  intensita'.
 Fanno  venir  meno  del  tutto  la  fiducia  del datore di lavoro nel
 lavoratore o, quanto meno, creano una situazione di  incompatibilita'
 tale che lo svolgimento del rapporto non puo' piu' proseguire.
    La  sanzione  disciplinare (di tipo conservativo) non e' un evento
 che incide in modo traumatico sul rapporto di lavoro  che  bene  puo'
 continuare.
    La  distinzione  e'  netta  proprio  sul  piano  degli effetti. La
 sanzione disciplinare  consente  la  prosecuzione  del  rapporto;  il
 licenziamento   ne   produce  l'interruzione:  ad  esso  consegue  la
 espulsione del lavoratore dall'azienda.
    La  diversita'  sul  piano  contenutistico  ed effettuale sussiste
 anche per il licenziamento intimato per motivi disciplinari.
    Al licenziamento qualificato disciplinare secondo legge, contratti
 collettivi  e  regolamenti  aziendali  si  sono  estese  le  garanzie
 procedimentali  previste dalla norma in esame (art. 7, primo, secondo
 e terzo comma -  sentenza  n.  204  del  1982);  secondo  l'indirizzo
 giurisprudenziale,  anche di legittimita', esse si applicano anche ai
 licenziamenti ontologicamente disciplinari.
    Di  recente,  l'estensione  (limitata al secondo e terzo comma) e'
 avvenuta anche per i licenziamenti disciplinari  intimati  presso  le
 piccole aziende (sent. n. 427 del 1989).
    Ma  in  tal  modo  non  si  e' inteso affatto assimilare in toto i
 licenziamenti alle sanzioni disciplinari. La distinzione  rimane  sul
 piano  dei contenuti e degli effetti. Proprio questa differenza rende
 razionale  il  differente  trattamento  e,  quindi,  la  disposizione
 censurata.
    Dalla  forza  estintiva  del  rapporto  di  lavoro  e dall'effetto
 espulsivo  del  licenziamento  nasce  il  problema  della   sollecita
 soluzione  della  ricostituibilita'  del  rapporto  e della eventuale
 cessazione  di  efficacia   del   provvedimento.   Consegue,   cioe',
 l'interesse del lavoratore ad una sollecita declaratoria da parte del
 giudice, della  eventuale  illegittimita',  nullita',  inefficacia  o
 annullamento  del  licenziamento  e,  a  seconda  dei  casi,  ad  una
 immediata reintegrazione nel posto di lavoro  o  quanto  meno  ad  un
 congruo risarcimento dei danni.
    E',  quindi, indispensabile il sollecito ricorso al giudice, entro
 un  breve  termine  di  decadenza,  per   eliminare   la   situazione
 pregiudizievole  e,  anche  nell'interesse  del  datore di lavoro, lo
 stato di incertezza.
    3.1   -  Per  le  sanzioni  disciplinari,  che  in  sostanza  sono
 accadimenti di scarsa rilevanza e che consentono la prosecuzione  del
 rapporto  di  lavoro,  giustamente  il legislatore ha privilegiato il
 ricorso alla procedura arbitrale.
    Egli,   nella  sua  discrezionalita',  ha  ritenuto  che  il  caso
 disciplinare possa  essere  risolto  meglio  e  speditamente  con  il
 ricorso alla detta procedura.
    La  prosecuzione  del rapporto consente anche la eventualita' che,
 durante l'ulteriore corso di questo, il datore di lavoro rimuova  per
 intero  il  torto  fatto  al lavoratore, non tenga, cioe', piu' conto
 della sospensione  o  dell'ammonimento  e  rimborsi  la  retribuzione
 trattenuta o la multa inflitta.
    3.2  -  Si  osserva anche che la non previsione del termine per la
 proposizione dell'azione giudiziaria trova  nella  stessa  norma  dei
 temperamenti.  E  cioe'  anzitutto  il  datore di lavoro e' libero di
 adire il giudice appena il lavoratore contesta la legittimita'  della
 sanzione,  anche  se  puo'  essere  raro  il caso in cui egli adisca,
 direttamente ed indipendentemente dalla contestazione, il giudice per
 fare dichiarare la legittimita' della sanzione inflitta.
    Egli,  comunque,  per  evitare la inefficacia della sanzione, deve
 proporre  l'azione  giudiziaria  nei  dieci  giorni  dalla  ricezione
 dell'invito  da  parte  dell'Ufficio  del  lavoro  a  nominare il suo
 rappresentante in seno al collegio arbitrale adito dal lavoratore.
    Per  fare  accertare la illegittimita' della sanzione inflittagli,
 il  lavoratore  o  puo'  richiedere  la  costituzione  del   collegio
 arbitrale entro venti giorni dall'applicazione della sanzione o adire
 il giudice.  In  quest'ultimo  caso  l'azione  puo'  essere  promossa
 immediatamente o nei due anni per evitare gli effetti pregiudizievoli
 della recidiva oppure, infine, fino al compimento della  prescrizione
 ordinaria, assumendo ovviamente il rischio dell'eventuale recidiva.
    Quindi,   questa   ultima   ipotesi   (fino  al  compimento  della
 prescrizione  ordinaria)  e'  una  soltanto  di  quelle  che  possono
 verificarsi.
    Per quanto riguarda la violazione dell'art. 41 della Costituzione,
 prospettata  nel  rilievo  del   pregiudizio   arrecato   al   potere
 organizzatorio  dell'imprenditore,  per  lo stato di incertezza sulla
 sorte della sanzione, si  osserva  che  a  parte  i  rilevati  limiti
 all'esercizio   di   detto   potere,  derivanti  dalla  finalita'  di
 attuazione di una razionale organizzazione del lavoro e dalla  tutela
 della  liberta'  e  dignita'  del  lavoratore,  detto pregiudizio non
 deriva dalla legge ma piuttosto dallo stesso comportamento del datore
 di  lavoro.  Egli,  infatti,  secondo la previsione legislativa, ha i
 mezzi per evitarlo,  sempre  che  in  effetti  sussista,  promuovendo
 l'azione  davanti  al  giudice con immediatezza per fare accertare la
 legittimita' della sanzione inflitta  al  lavoratore,  come  gia'  e'
 detto innanzi.
    Pertanto, la questione va dichiarata non fondata.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300  (Norme  sulla  tutela
 della  liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e
 dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di   lavoro   e   norme   sul
 collocamento),  in  riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione,
 sollevata dal Pretore di Roma con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 1989.
                          Il Presidente: SAJA
                          Il redattore: GRECO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 29 dicembre 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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