N. 47 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 novembre 1989
N. 47 Ordinanza emessa il 28 novembre 1989 dalla corte d'appello di Trento nel procedimento civile vertente tra Matte' Gianfranco e Feichter Margit Coniugi - Separazione giudiziale - Giudizio di appello - Prevista procedura in camera di consiglio - Compressione del diritto di difesa in assenza di particolari ragioni che la giustifichino Violazione del principio della pubblicita' dell'udienza collegiale - Lamentata genericita' delle norme procedurali - Conseguenti possibili disparita' applicative. (Legge 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, dodicesimo comma, come sostituito dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, art. 8). (Cost., artt. 3, 24 e 101).(GU n.7 del 14-2-1990 )
LA CORTE D'APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta a ruolo in data 26 luglio 1989 al n. 454/1989 e promossa con ricorso in appello depositato il 26 luglio 1989, e notificato in data 25 settembre 1989 da Matte' Gianfranco, rappresentato e difeso dagli avvocati Nicola Modica di Bolzano e Giuseppe Martorana di Trento, quest'ultimo domiciliatario, per delega a margine del ricorso in appello, appellante, contro Feichter Margit, rappresentata e difesa dagli avvocati Saverio e Giancarlo Massari di Bolzano, e Paolo Stefenelli di Trento, quest'ultimo domiciliatario, per delega a margine della comparsa di costituzione e risposta in appello, appellata. Con l'intervento del p.g. presso questa corte d'appello. Oggetto: cessazione effetti civili del matrimonio, e relative statuizioni patrimoniali. Appello avverso la sentenza del tribunale di Bolzano n. 483/1989 del 31 marzo 1989. Causa ritenuta in decisione all'udienza collegiale del 28 novembre 1989. F A T T O Il tribunale di Bolzano, con sentenza n. 483/1989 del 31 marzo 1989, notificata il 28 giugno 1989, ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da Matte' Gianfranco e da Feichter Margit, affidando il figlio minore alla madre, e imponendo al padre assegno di contribuzione al mantenimento del figlio, nell'ammontare di L. 400.000 mensili rivalutabili. Con ricorso in appello depositato il 26 luglio 1989, e notificato il 25 settembre 1989 (e cioe' entro il termine del 10 ottobre 1989 assegnato con decreto presidenziale) il Matte' impugnava la sentenza di cui sopra, nel capo in cui lo si gravava dell'assegno di mantenimento per il figlio, lamentandone l'eccessivita' in rapporto alle proprie possibilita' economiche. Alla prima udienza tenutasi in camera di consiglio, si costituiva la Feichter, resistendo nel merito, e preliminarmente sollevando questione di incostituzionalita' in ordine all'art. 4, dodicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, con riferimento agli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione. A tale denuncia di incostituzionalita' si opponeva l'appellante, e si associava invece il p.g., ritualmente intervenuto. MOTIVAZIONE Sebbene parte appellata non abbia specificamente enunciato i motivi della sollevata denuncia di incostituzionalita', ben possono detti motivi ricostruirsi attraverso il richiamo che la stessa parte fa agli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione. L'art. 3 sancisce il diritto di eguaglianza innanzi alla legge di tutti i cittadini. L'art. 24 tutela il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento. L'art. 101, nello stabilire che la giustizia e' amministrata nel nome del popolo, implicitamente comporta la regola generale della pubblicita' dei procedimenti giudiziari, attesoche' solo attraverso tale pubblicita' il cittadino puo' controllare che il processo si svolga regolarmente, e che il suo diritto di difesa sia garantito e tutelato. Ora l'art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sotituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 ("l'appello e' deciso in camera di consiglio") viene impugnato non certo per il suo significato letterale (il che non avrebbe senso, perche' tutte le decisioni dei giudici collegiali sono assunte in camera di consiglio) quanto per il suo contenuto, inteso come adeguamento al rito camerale, anziche' a quello contenzioso, di tutta la procedura d'impugnazione. Nel caso di specie, parte appellante, ha proposto impugnazione mediante ricorso (cosi' come stabilito dal rito camerale) depositandolo nel termine, e notificandolo, unitamente al pedissequo decreto presidenziale di fissazione di udienza, entro il termine stabilito nel suddetto decreto, ma oltre il trentesimo giorno dalla notifica della sentenza, (cfr. le date di cui alla parte espositiva). E questo, anche ammettendo che la notifica del ricorso possa "conservarsi" come notifica di atto di citazione in appello, comporterebbe l'inammissibilita' dell'impugnazione del Matte', siccome tardiva, ove si ritenesse non valida la citata normativa che impone il rito camerale per tutta la procedura di impugnazione. Premesso quindi che la sollevata questione di costituzionalita' e' rilevante ai fini del decidere, deve ora esaminarsi se essa sia anche, o no "manifestamente infondata". Per quanto concerne anzitutto la pubblicita' dell'udienza collegiale (rif. art. 101 della Costituzione), si osserva che essa solo eccezionalmente puo' essere rinunciata dal legislatore, e cioe' per obiettiva e razionale giustificazione (v. da ultimo, sent. Corte costituzionale 16 febbraio 1989, n. 50). Non sembra pero' a questa corte che tale motivazione possa essere invocata in materia di separazione personale e di divorzio. Invero la necessita' di definire sollecitamente il procedimento, onde evitare che le lungaggini procedurali abbiano riflessi marcatamente negativi in materia cosi' delicata, attinente a rapporti personali e familiari, non puo' di per se' giustificare la deroga di cui s'e' detto. A soddisfare una tale necessita', altri potrebbero essere i mezzi processuali idonei: come ad esempio lo stabilire una priorita' di trattazione, ovvero l'apprestamento di procedure contenziose particolari (analoghe a quelle in materia di lavoro e previdenza). In altri termini, si ammette che in casi di assoluta eccezionalita' possa anche derogarsi, con esclusione della pubblicita' dibattimentale, al rito contenzioso, in favore del rito in camera di consiglio. Ma, giova rilevare, non puo' non esservi in limite ad una deroga siffatta: perche' il normale rito contenzioso costituisce una garanzia, acquisita con il progredire della civilta' giuridica, attraverso la costituzione di un organico e articolato complesso di norme che regolano l'attivita' processuale. Lo stesso fatto che, per il primo grado, sia risultata ancora necessaria, per il legislatore, la procedura contenziosa, contraddice la non necessita' di essa per il secondo grado. Tanto piu' che poi, in grado di cassazione, il processo torna ad essere contenzioso. D'altro canto osservasi che i suddetti rilievi finiscono col riflettersi sull'intera scelta del rito camerale in luogo di quello naturale contenzioso, fatta dal legislatore (rif. artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione). Posta, quindi, la facolta' del legislatore di trasferire alla trattazione camerale anche materie di contenuto contenzioso, si ribadisce che l'esercizio di tale facolta' non possa esser privo di limiti. Invero, non pare al collegio che la scarna normativa del camerale sia sufficiente ad accogliere e regolare processi spesso altamente conflittuali, quali quelli in materia di separazione personale e di divorzio. Tanto piu' se un grado e' disarticolato, per il diverso rito, dall'altro. Non si comprende, invero, qualoi norme procedurali dovrebbero governare il processo d'appello, ad es. in tema di assunzione di prove (in particolare ci si chiede se sia ammissibile la delega ad un consigliere istruttore, o, fuori sede, ad un pretore, ex art. 203 del c.p.c.), ovvero per quanto riguarda la disciplina delle impugnazioni incidentali, o ancora la disciplina delle preclusioni varie, etc. Se la introduzione del rito camerale, in appello, significasse che le norme ivi da applicarsi rimangono quelle del rito contenzioso, salva solo la fase finale del grado, non si vede quale sia l'utilita' pratica della riforma attuata, con la legge n. 74/1987, mediante la sola abolizione della pubblica discussione conclusiva. Se invece, come di ritiene, deve intendersi che le norme procedurali da applicarsi ora in grado d'appello non siano piu' quelle del rito contenzioso, si rileva che il citato art. 4 dodicesimo comma non enuncia quali esse debbano essere: ed una genericita' siffatta appare di grado cosi' rilevato, da non poter esser colmata mediante processo interpretativo; e si traduce, in ultima analisi, in un vizio di costituzionalita' della norma: per la eccessiva discrezionalita' rimessa al giudice (con violazione dell'art. 24 della Costituzione) e per le conseguenti, inevitabili disparita' applicative (violaz. art. 3 della Costituzione).
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, dodicesimo comma della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, con riferimento agli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso, e conseguentemente, vista, e ritenutala tale, l'istanza di sospensione proposta dall'appellante, sospende altresi' l'esecutivita' della sentenza impugnata; Dispone che la cancelleria provveda alla notificazione nei confronti delle parti, del p.g. e del Presidente del Consiglio dei Ministri, e provveda altresi' alla comunicazione nei confronti dei Presidenti del Senato e della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Trento il 28 novembre 1989. Il presidente: DE CAPRARIIS 90C0145