N. 155 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 dicembre 1989
N. 155 Ordinanza emessa il 14 dicembre 1989 dal pretore di Nardo' nel procedimento penale a carico di Clemente Leonardo Processo penale - Procedimento in corso all'entrata in vigore del codice - Richiesta, in via preliminare, della applicazione della pena condizionata alla concessione della sospensione condizionale - Consenso del p.m. - Mancata previsione di sindacabilita' del giudice sulla congruita' della pena richiesta - Lamentato ugual trattamento per situazioni differenziate - Limitazione del potere giurisdizionale per decisione discrezionale delle parti (imputato e p.m.) sia pure limitatamente alla misura della pena Commisurazione della stessa, rapportata alla "meritorieta' processuale" anziche' alla gravita' del reato o alla valutazione della personalita' del reo - Violazione del principio di rieducazione - Sottrazione del giudizio al giudice naturale Conseguente limitazione della garanzia del diritto di difesa. (Legge 16 febbraio 1987, n. 81, artt. 2 e 45; disposizioni di attuazione del c.p.p. 1988, art. 248 in relazione all'art. 241 e segg. stesse disposizioni; c.p.p. 1988, artt. 563, 444 e 448). (Cost., artt. 3, 24, 25, 27, 101, 102 e 111).(GU n.15 del 11-4-1990 )
IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Clemente Leonardo (n. 57/1987 reg. gen.), imputato del delitto di cui agli artt. 624 e 625, n. 1, del c.p., per essersi impossessato, al fine di trarne profitto, di un portafoglio contenente la somma di L. 200.000 ed un assegno di L. 150.000 che sottraeva dalla abitazione di Salerno Lucio, in agro di Porto Cesareo il 28 luglio 1986. PREMESSO IN FATTO Con rapporto giudiziario del 7 gennaio 1987, i carabinieri di Porto Cesareo informavano questo pretore che, in data 16 agosto 1986, si era presentato presso quella caserma Salerno Lucio da Trepuzzi, denunziando che, in data 28 luglio 1986, nelle ore pomeridiane, si era allontanato dalla sua abitazione estiva ubicata in localita' "Club Azzuro". Alle ore 21 circa, nel fare ritorno, constatava che ignoti erano penetrati nell'interno di detta abitazione, asportando un portafoglio contenente la somma di L. 200.000 circa in banconote, nonche' un assegno tratto sulla Banca Vincenzo Tamborrino, con sede in Maglie e con filiale in Lecce; assegno avente il n. 0668490 su c/c n. 748/41, a firma di Petrucci Francesco, per un importo di L. 150.000 ed in favore del Salerno. In seguito a cio', gli stessi carabinieri accertavano che l'assegno suddetto era stato incassato da Clemente Leonardo, residente in Sandonaci, presso la Banca Sud Puglia della stessa citta' il 14 agosto 1986. Il Salerno, reso edotto, precisava che la firma col suo nome, apposta nella girata dell'assegno, era apocrifa e che non conosceva affatto il Clemente. Veniva, quindi, sentito quest'ultimo dai carabinieri di Sandonaci ai quali dichiarava: che la sua firma era l'ultima apposta per girata sul retro dello stesso assegno; che non conosceva la persona la quale gli aveva consegnato il titolo, ma che della stessa era creditore, per cui riceveva la somma di L. 200.000, consistente in L. 150.000 contenute dal suddetto assegno e L. 50.000 in banconote; che il prestito allo sconosciuto era stato fatto in una piazza di Veglie nel corso della festa Patronale e le caratteristiche di costui gli erano rimaste impresse e, in seguito ad un confronto, avrebbe potuto riconoscerlo; che, portato l'assegno all'incasso presso la Banca Popolare Sud Puglia con filiale in Sandonaci, lo stesso era stato pagato senza difficolta', ma, dopo qualche tempo, veniva richiesta dai funzionari di detta filiale la restituzione della somma portata dal titolo, in quanto, tale assegno era stato o rubato o trovato; che, aderendo alla richiesta; aveva restituito all'istituto teste' indicato la somma di L. 150.000. I carabinieri facevano presente pero' che le dichiarazioni rese dal Clemente non potevano ritenersi attendibili, in quanto avevano dichiarato di essersi ricevuto l'assegno da persona da lui non conosciuta, una settimana dopo i festeggiamenti di S. Giovanni, in Veglie avvenuti il 10 - 11 - 12 agosto 1986, mentre l'assegno era stato negoziato in data 31 luglio 1986 e pagato dalla banca traente il 6 agosto 1986. I medesimi carabinieri denunziavano, quindi, il Clemente per il delitto di ricettazione ex art. 648 del c.p., iniziatosi procedimento penale a carico del suddetto Clemente, costui veniva rinviato a giudizio davanti a questo pretore per rispondere del reato di furto aggravato di cui in epigrafe. Al dibattimento del 21 novembre 1989, preliminarmente, l'imputato ed il suo difensore chiedevano l'applicazione della pena ex art. 444 del c.p.p., approvato con decreto d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, nella misura di mesi sei di reclusione e L. 200.000 di multa; subordinando tale richiesta alla concessione della sospensione condizionale della pena, alla quale si era giunti partendo dalla pena base di mesi nove di reclusione e L. 300.000 di multa, previa applicazione delle attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata aggravante. Il p.m. d'udienza, in persona del v. procuratore onorario avv. Antonio Paladini (espressamente delegato dal sig. procuratore della Repubblica di Lecce presso la pretura circondariale di Lecce) prestava il suo consenso. Stante l'ora tarda e la necessita' di approfondire i problemi inerenti all'istituto la cui applicazione veniva richiesta, anche a livello di legittimita' costituzionale, il dibattimento veniva rinviato, su accordo delle parti all'udienza fissa del 14 dicembre 1989. In quest'ultima udienza, dopo aver sentito le stesse parti, che concludevano in atti, questo Pretore, ritiratosi in camera di consiglio, con il dispositivo dell'ordinanza letto in udienza. OSSERVAVA IN DIRITTO Sono ben note le vicende che hanno caratterizzato il nuovo c.p.p., approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, ed entrato in vigore il 24 ottobre 1989, nonostante le gravi perplessita' - da tutti riconosciute, sino a poche ore prima - stante, la mancanza di strutture adeguate per la funzionalita' del primo codice dell'Italia repubblicana. In particolare, per quanto riguarda, il nuovo istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), previsto dagli artt. 444, 448 e 563 relativamente al processo pretorile, non possono tenersi in adeguata considerazione, anzitutto, i lavori preparatori su detto istituto che meritano di essere qui riportati, sia pure in parte: relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale Omisis... Titolo II - Applicazione della pena su richiesta delle parti. L'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti ha fatto la sua comparsa, nell'iter parlamentare della legge-delega, nella direttiva 35, terza parte, del testo licenziato nel marzo 1982 dal comitato ristretto della commissione giustizia della Camera dei deputati. L'esigenza di una adeguata differenziazione dei riti penali era stata tradotta, per l'appunto, non solo nella previsione di un giudizio immediato (che era venuto a sostituire il giudizio direttissimo gia' indicato nelle proposte governative del febbraio 1980) e nella delineazione di un giudizio per decreto (nuovamente limitato alle sole pene pecuniarie, sia pure sostitutive della pena detentiva), bensi' anche nell'individuazione di due nuovi schemi processuali, nei quali era stato attuato in termini inediti il principio del premio-incentivo per atteggiamenti di meritorieta' processuale dell'imputato. Ed uno dei procedimenti cosi' strutturati era quello della direttiva 35, terza parte, che richiamava da vicino le forme del c.d. patteggiamento, introdotto pochi mesi prima con la legge 24 novembre 1981, n. 689. Rispetto all'istituto disciplinato negli artt. 77 e 85 della legge 689/1981, comunque, si poteva subito rilevare l'indubbio ampliamento delle ipotesi applicative e la particolare significativita' della previsione premiale: difatti, si prevedeva che il: p.m., ottenuto il consenso dell'indiziato o dell'imputato, e questi ultimi ottenuto il consenso del pubblico ministero, potessero chiedere al giudice in apposita udienza, o nell'udienza preliminare o nel giudizio fino a che non siano state compiute le formalita' di apertura, l'applicazione - nei casi consentiti - di una delle sanzioni sostitutive della detenzione previste dalla legge, ovvero di una pena detentiva pari a quella edittale per il reato per cui si procede, diminuita di un terzo e comunque non superiore a tre mesi di reclusione o di arresto. Il prosieguo del cammino parlamentare della futura della legge-delega doveva segnare, senza alcuna inversione di rotta, un ulteriore e progressivo allargamento degli spazi operativi dell'istituto in esame, sulla base della consapevolezza degli innegabili vantaggi per la deflazione e la celerita' della giustizia derivanti dal potenziamento, in generale, dei meccanismi processuali differenziati e, in particolare, di questa nuova specie di patteggiamento. Si e' cosi' giunti all'attuale testo della direttiva 45, nella quale si prevede che: il pubblico ministero, con il consenso dell'imputato, ovvero l'imputato con il consenso del pubblico ministero, possano chiedere al giudice, fino all'apertura del dibattimento, l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi consentiti, o della pena detentiva irrogabile per il reato quando essa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino ad un terzo, non superi due anni di reclusione o di arresto soli o congiunti a pena pecuniaria, e che, il giudice, in udienza, applichi la sanzione nella misura richiesta, provvedendo con sentenza inappellabile. E' stato inoltre demandato al legislatore delegato il compito di disciplinare in rapporto ai diversi tipi di sanzioni applicare, gli effetti della pronuncia. Si tratta indubbiamente di una scelta coraggiosa, in quanto consente il ricorso al rito differenziato per una gamma assai ampia di imputazioni. Del resto, nella sua relazione alla Camera (29 gennaio 1987), l'on.le Casini aveva fatto rilevare come "buona parte dell'efficienza del nuovo codice" fosse "affidata a questo istituto", che consente, non solo di risparmiare tutto il dibattimento, ma anche di eliminare un grado di impugnazione, vista l'inappellabilita' della sentenza emessa su accordo delle parti; istituto che se da un lato si ricollega nella ispirazione al patteggiamento della legge n. 689/1981, dall'altro se ne differenzia notevolmente per una impostazione piu' matura e robusta, che ha superato le originarie incertezze, anche di natura costituzionale. Illustrazione degli articoli... Omissis... Nel secondo comma e' delineata l'attivita' demandata al giudice per la decisione sulla richiesta. La decisione viene presa sulla base degli atti, senza quindi acquisire ulteriori elementi probatori. Anche alla luce di alcune indicazioni ricavabili dai lavori parlamentari, si e' peraltro riconosciuto al giudice il potere di rifiutare la ratifica dell'accordo quando egli non conviene sugli elementi giuridici che determinano la cornice entro cui e' avvenuta la commisurazione della pena. Pertanto il giudice non provvedera' secondo la richiesta quando riterra' che la qualificazione giuridica del fatto sia diversa da quella operata e comporti una pena maggiore o che le circostanze attenuanti prospettate non ricorrano od ancora che diverso debba essere l'esito del giudizio di comparazione. Per contro, al giudice non viene riconosciuto alcun sindacato sulla congruita' della pena richiesta, trattandosi di materia riservata alla determinazione esclusiva delle parti. Quindi, una volta verificata la corretteza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione delle circostanze e del giudizio di comparazione, il giudice non potra' fare altro che applicare la pena nella specie e nella misura indicata dalle parti. Resta pero' il potere-dovere del giudice di pronunciare il proscioglimento a norma dell'art. 128, se ricorrono le condizioni. In conclusione il compito del giudice e' di accertare, sulla base degli atti, se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se e' esatto il quadro nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della responsabilita' penale. Soprattutto per questa ragione si e' escluso che il giudice possa decidere su eventuali domande della parte civile, ma si e' anche considerato che una soluzione diversa sarebbe stata fortemente disincentivante per l'imputato, la cui richiesta avrebbe finito con il comportarne la soccombenza nella controversia civile... Omissis... Pertanto, nel terzo comma dell'art. 339 si e' espressamente prevista la possibilita' per l'imputato di subordinare la richiesta di applicazione della pena alla concessione della sospensione condizionale, di modo che il giudice si trovera' di fronte all'alternanza di accogliere integralmente la richiesta, concedendo anche la sospensione condizionale, ovvero di rigettarla facendo venir meno la possibilita' di adottare le forme del procedimento speciale. L'art. 440 regola gli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta, risolvendo espressamente alcune delle questioni che si sono poste con riferimento all'art. 77 della legge n. 689/1981. Sono stati quindi ribaditi gli aspetti di premialita' gia' presenti nell'art. 77 cit., aspetti che acquistano senza dubbio un peso consistente in considerazione dell'ampio ambito di operativita' del nuovo istituto, e si e' chiarito che la sentenza emessa su accordo delle parti non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento e non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Per quanto non espressamente previsto la sentenza e' equiparata a una pronuncia di condanna, cosi' ad esempio, e' valutabile ai fini della recidiva, se non vi e' stata l'estinzione degli effetti penali, previsti dal secondo comma. Nel secondo comma emergono gli altri aspetti premiali, costituiti, nell'ordine, dall'estinzione del reato, dall'estinzione di ogni effetto penale e dalla non ostativita' dell'applicazione su richiesta rispetto ad una successiva sospensione condizionale... Omissis... L'ultimo comma dell'art. 441, nello stabilire che nel caso di dissenso sulla richiesta dell'imputato il p.m. e' tenuto ad enunciarne le ragioni, introduce una disponibilita' che si ricollega, come si vedra', a quella del terzo comma dell'articolo successivo, il quale da' al giudice il potere di sindacare l'eventuale dissenso dell'organo dell'accusa. Occorre sottolineare che la determinazione del p.m. e' discrezionale, non arbitraria; per negare il consenso devono esistere delle valide ragioni, che vanno esternate... Omissis... In ogni caso, e cioe' anche se prima e' stato negato, come preciso il terzo comma, il consenso puo' essere dato fino a quando non e' spirato il termine finale, che e' quello dell'esposizione introduttiva del giudizio di primo grado. Quando vi e' la concorde volonta' delle parti e ricorrono le condizioni indicate nell'art. 339, il giudice, nell'udienza preliminare o nel giudizio, pronuncia immediatamente la sentenza di applicazione della pena su richiesta. Il quarto comma aggiunge che dopo la chiusura del giudizio di primo grado o nel giudizio di impugnazione il giudice puo' accogliere la richiesta dell'imputato anche in mancanza del consenso del p.m., se ritiene che il consenso e' stato negato ingiustificatamente. Con quest'ultima disposizione sono state recepite le indicazioni contenute nella sentenza 30 aprile 1984, n. 120, della Corte costituzionale, che con una pronuncia interpretativa di rigetto ha escluso l'illegittimita' costituzionale degli artt. 77 e 78 della legge n. 689/1981. La Corte ha ritenuto che il parere del pubblico ministero sia vincolante per il rito ma non per il merito e cioe', che nel caso di parere negativo sia precluso l'epilogo anticipato del procedimento, ma non l'accoglimento della richiesta dell'imputato da parte del giudice una volta completato regolarmente il dibattimento. Si e' gia' detto che il p.m. si muove in un quadro di discrezionalita' e deve enunciare le ragioni del proprio dissenso; non e' e non puo' essere arbitro delle sorti dell'imputato, e quindi non puo' precludergli un trattamento vantagioso quando ne ricorrono le condizioni e il dissenzo, all'esame del giudice, risulta ingiustificato. E' invece un potere tipico del pubblico ministero come parte, non sindacabile dal giudice, quello di consentire o meno che il procedimento si svolga in forme diverse dalle ordinarie, ed e' per questa ragione che se manca il consenso del p.m., cosi' come da un lato deve essere escluso un epilogo anticipato, dall'altro deve essere riconosciuto a tale parte il diritto di proporre l'appello contro la sentenza di primo grado, anziche' il ricorso per Cassazione, che e' l'unico mezzo consentito invece per le parti che hanno richiesto l'applicazione della pena o che su di essa hanno concordato. Sempre in relazione ai lavori preparatori, merita di essere tenuto presente, tra i numerosi altri commenti, quanto precisato dal Lattanzi nel convegno di studio "Enrico De Nicola" ("Problemi attuali di diritto e procedura penale". "Verso una nuova giustizia penale". "Il nuovo codice di procedura penale al vaglio di docenti, magistrati ed avvocati") svoltosi in Lecce nel marzo 1988, a cura del Centro studi giuridici Michele Di Pietro: "Giudizio abbreviato e patteggiamento". Uno dei difetti piu' vistosi della delega del 1974 e del progetto preliminare del 1978, che ne era derivato, era costituito dalla rigidita' del sistema, privo di variazioni rispetto allo schema tipo e quindi privo di procedimenti semplificativi. Anche nella relazione al disegno di legge n. 845/C, presentato dal Ministro Morlino il 31 ottobre 1979 per un'ulteriore proroga del termine per l'esercizio della delega del 1974, nel fare il punto sullo stato dei lavori per il nuovo codice e su alcune indicazioni critiche che nel corso di questi erano emerse, era venuta in evidenza la "fondata esigenza da piu' parti sottolineata ai fini della funzionalita' del nuovo sistema... di realizzare differenti modelli processuali, riservando cosi' i meccanismi piu' articolati ai casi piu' complessi ed in quanto tali non suscettibili di una rapida progressione verso il dibattimento". In realta' la delega del 1974 non aveva preso in considerazione neppure il processo pretorile, mettendo in seria difficolta' il legislatore delegato, chiamato a decidere se ed in quale misura almeno questo processo potesse essere costruito con diverse e piu' agili regole processuali. Era chiara l'impraticabilita' di un sistema processuale che pretendeva di applicare in tutti i casi un unico schema, che appunto, perche' unico, era stato strutturato per far fronte alle situazioni piu' complesse. Occorreva non solo evitare un inutile spreco di energie giudiziarie, che gia' erano cosi' carenti, ma anche realizzare un codice che non imponesse ingiustificati trattamenti uguali per situazioni disuguali. Si trattava di individuare gli strumenti e le garanzie necessarie e sufficienti in relazione ai vari casi che presenta normalmente una realta' giudiziaria assai diversificata e solo quegli strumenti e quelle garanzie; perche', un eccesso di attivita' procedimentale puo' costituire un inutile aggravio, oltre che per la collettivita', per lo stesso imputato. Ed e' un principio costituzionale cardine che, cosi' come situazioni uguali devono avere un trattamento uguale, situazioni diverse richiedono trattamenti diversi. Nel lungo iter legislativo che ha portato alla nuova delega, i procedimenti speciali, generalmente indicati nel corso dei lavori parlamentari con le espressioni "meccanismi processuali differenziati" e "riti differenziati", sono stati fra le parti del nuovo sistema sulle quali piu' approfonditamente e proficuamente si e' esercitata la riflessione, originando una gamma articolata di meccanismi divergenti, per uno o piu' aspetti, dallo schema tipo. Non tutti originali, questi meccanismi nel progetto preliminare, sono raggruppati con la denominazione di procedimenti speciali, nel libro VI, che comprende il giudizio abbreviato, l'applicazione della pena su richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato e il procedimento per decreto. A questi si aggiunge con caratteristiche particolari il procedimento davanti al pretore. Il giudizio direttissimo e il procedimento per decreto, pur se con alcune diversita', ricordano modelli ben noti, ed anche il giudizio immediato, caratterizzato da un intervento del giudice che dispone il giudizio senza fissare l'udienza preliminare, si ricollega a schemi processuali tradizionali, tendenti in presenza di situazioni meno complesse a semplificare la fase che precede il giudizio. Una novita' assoluta e' costituita invece dal giudizio abbreviato, mentre l'applicazione della pena su richiesta ricorda per molti aspetti il patteggiamento della legge n. 689/1981, anche se se ne differenzia nettamente. La denominazione "procedimenti speciali" riecheggia quella attuale, "giudizi speciali", ma la parola procedimenti sottolinea che non sempre c'e' la fase del giudizio. Anche la collocazione diversa: tra le indagini preliminari e il giudizio, anziche' dopo questo, dato che il decreto penale, il giudizio abbreviato e il patteggiamento tendono ad escludere la fase processuale del giudizio. Negli ultimi due procedimenti la specialita' si collega alla volonta' delle parti: nel giudizio abreviato (direttiva 53 della delega) la richiesta dell'imputato e il consenso del pubblico ministero fanno si' che la decisione venga presa nell'udienza preliminare, escludendo il dibattimento, e che si riducano i casi di appellabilita'; nell'applicazione della pena su richiesta, che costituisce il nuovo patteggiamento, le parti concordano la sanzione, anche detentiva, ed il giudice provvede ad applicarla con sentenza inappellabile. Nella ricerca di forme semplificative per giungere ad una pronuncia di condanna anche a pene detentive il Governo inizialmente, nel febbraio 1980, con un emendamento alla direttiva 36 aveva proposto la "previsione di un procedimento per decreto, per condanne a pene detentive non superiori a tre mesi purche' sospese condizionalmente o estinte per indulto". Sembrava il massimo che si potesse fare per giungere ad una condanna a pena detentiva nei casi in cui l'accertamento non richiedeva il dibattimento e poteva contarsi su un'adesione dell'imputato, attraverso la rinuncia a proporre opposizione; poi e' sopraggiunta la legge 24 novembre 1981, n. 689, con gli artt. 77 e segg., che hanno introdotto il patteggiamento aprendo nuove prospettive nel nostro ordinamento. Ispirandosi al patteggiamento, il legislatore ha abbandonato l'idea, di scarsa utilita' e per piu' aspetti discutibile, del decreto penale per pene detentive ed ha intrapreso la strada dei procedimenti semplificati con il consenso dell'imputato, incentivato con riduzioni di pena ed altri vantaggi. Cosi' sono nati il nuovo patteggiamento e il giudizio abbreviato, che hanno fatto la loro prima comparsa nel testo licenziato nel 1982 dal comitato ristretto della commissione giustizia della Camera dei deputati (direttive rispettivamente 35- ter e 39, lettera e), trasfuse poi nelle direttive 41 e 47, lettera e), del testo approvato dalla commissione giustizia). Era quello il periodo della prima applicazione del patteggiamento e della ostilita' di numerosi giudici nei confronti del nuovo istituto, che era stato investito con una raffica di eccezioni di incostituzionalita', non solo legate a specifici momenti della nuova disciplina ma anche volte ad invalidarla totalmente. Era stato contestato il ruolo dominante attribuito alle parti ed erano nati i paragoni con prassi americane (plea bargaining) che apparivano incompatibili con il nostro sistema costituzionale; sembrava che in un sol colpo fossero stati traditi principi fondamentali come quello dell'inviolabilita' della liberta' personale (art. 13 della Costituzione), della presunzione di non colpevolezza, della nulla poena sine iudicio (art. 27, secondo comma della Costituzione) e dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 della Costituzione). Principi troppo spesso intesi in senso solo formalistico ed invocati per conservare un sistema non privo di ipocrisie, nel quale un ossequio formale per i diritti fondamentali della persona si unisce non di rado una prassi che li disattende in misura intollerabile. Dubbi di un giudice penale non abituato a percepire esattamente la sua collocazione nel processo, preoccupato in questo caso di svolgere funzioni di tutela dell'imputato, cosi' come in altri casi si e' dato e continua a darsi carico di funzioni, di tutela della collettivita' e di lotta all'una o all'altra manifestazione delittuosa, che spettano piuttosto al p.m. e ad altri organi pubblici. Dubbi che avevano determinato nel legislatore del nuovo codice di procedura penale qualche incertezza di cui e' traccia nella relazione dell'on.le Sabatini al testo della commissione, ma che tuttavia non gli avevano fatto abbandonare la strada intrapresa, coerente con le direttrici del nuovo processo, se era esatto il giudizio del Cordero che nel commentare gli artt. 77 e segg. della legge n. 689/1981 aveva qualificato molto accusatoria questa situazione caleidoscopicamente variabile, aggiungendo: quest'ancora confuso ordigno costituisce un segnale positivo: se il nostro legislatore fosse attento ai dati sperimentali, delle future esperienze forse nascerebbe qualcosa. Il legislatore non ha deluso le attese ed ha continuato a lavorare sul nuovo patteggiamento e sul giudizio abbreviato, mettendo a punto gli istituti ed ampliandone la sfera di applicazione. Superate le perplessita' non e' stato un lavoro controcorrente perche' dal 1982 (anno nel quale le direttive sui due procedimenti avevano cominciato a formarsi) al 1987 (anno nel quale sono state definite nei nn. 45 e 53 della nuova delega) molte cose sono cambiate. Il patteggiamento della legge n. 689/1981, anche se con un ruolo marginale, si e' radicato nel sistema e nella cultura giuridica e se ne e' anzi generalmente auspicato un potenziamento. Dall'auspicio si sono fatti interpreti i Ministri di giustizia succedutisi dal 1985 ad oggi, che hanno tentato di promuovere un potenziamento del patteggiamento, ed e' in questo mutato clima culturale e di opinione che sono maturate le scelte del legislatore delegante. Ma c'e' di piu': e' mutata in parte la prassi giudiziaria. Concessioni reciproche, anche se non "patteggiate" e neanche vicendevolmente dichiarate, sono non infrequenti e si legano non solo ai fenomeni del c.d. pentitismo con chiamate in correita', ma piu' in generale, alla semplice ammissione della propria responsabilita', con disponibilita' a subire sanzioni che, nella misura e nelle modalita' di esecuzione introdotte dall'orientamento penitenziario, risultano accettabili per l'imputato, e accade non infrequentemente che questi, specie se in custodia cautelare, si induca a rinunciare all'impugnazione per accellerare la definizione del proceso e scontare la pena usufruendo delle misure alternative alla detenzione. In realta' esiste una sfera di discrezionalita' di un'ampiezza della quale forse non si e' presa ancora piena consapevolezza. La differenza, non di poco conto, e' che nel nostro sistema tutto passa attraverso il controllo del giudice. E' in questo quadro normativo e di prassi che i due nuovi procedimenti vanno visti per valutarne caratteristiche e prospettive. La formula iniziale contenuta nella direttiva 35-ter del comitato ristretto, che prevedeva il nuovo patteggiamento per pene detentive non superiori a tre mesi e' stata via via modificata portando il limite prima ad un anno, nel testo approvato dalla Camera (direttiva 44), e infine a due anni nel nuovo testo del Senato, poi divenuto legge, e si tratta di due anni determinati in concreto, dopo aver operato quella riduzione di un terzo della pena irrogabile prevista per incentivare il ricorso da parte dell'imputato al procedimento speciale. Non occorre sottolineare quanto sia ampia la sfera di applicazione del nuovo patteggiamento, che risulta utilizzabile per la maggior parte dei procedimenti penali; va piuttosto rilevato che il passaggio dai tre mesi ai due anni ha fatto acquisire la consapevolezza che ci si trova di fronte ad un istituto totalmente diverso da quello introdotto con la legge n. 689/1981. Non si tratta di un "beneficio", come e' stato qualificato il patteggiamento della legge n. 689/1981, e correlativamente non sono state previste esclusioni per alcuni reati, ne' condizioni soggettive ostative... Omissis... A ben vedere la parentela del nuovo patteggiamento con quello della legge n. 689/1981 risulta alla fine abbastanza remota. Con riferimento al patteggiamento della legge n. 689/1981 era stata prospettata la tesi che l'applicazione su richiesta determinasse una modificazione della natura della sanzione, mentre ora quella che viene applicata e' indiscutibilmente una sanzione penale. E' venuta meno anche qualunque ragione di incompatibilita' con la sospensione condizionale della pena, in quanto non ci si trova piu' in presenza di un meccanismo estintivo come quello dell'art. 77 della legge n. 689/1981, che puo' apparire alternativo alla sospensione condizionale e collegato all'esecuzione della sanzione. E la novita' non e' di poco conto, perche' uno degli ostacoli alla diffusione del patteggiamento della legge n. 689 e' rappresentato proprio dalla sua alternativita' rispetto alla sospensione condizionale della pena, che l'imputato nella maggior parte dei casi considera piu' conveniente... Omissis... In conclusione il nuovo patteggiamento e' un procedimento speciale con un unico limite segnato dall'entita' della pena, nel caso di reati puniti con la reclusione o con l'arresto; un procedimento caratterizzato da un accordo tra imputato e pubblico ministero sulla sanzione da applicare e da una correlativa modificazione del rito, che si esemplifica e da' luogo a un esito parzialmente diverso da quelli generali... Omissis... Nel patteggiamento il giudice e' vincolato dalla richiesta delle parti, nel senso che non puo' applicarsi una sanzione diversa, ne' riggettare la richiesta perche' ritiene incongrua la pena. E' il testo della direttiva, nella formula risultante, in seguito alla modifica apportata dal Senato che ha imposto questo schema, coerente in un sistema che intende valorizzare il ruolo delle parti. La differenza tra il testo della Camera e quello del Senato e' netta perche' dal primo, che conteneva le parole "previsione che il giudice..., in caso di accoglimento, applichi la sanzione nella misura richiesta" e non si vede quale altro significato dare alla soppressione se non quello di sottrarre al giudice ogni apprezzamento discrezionale sulla richiesta. In questo senso del resto la modificazione e' stata intesa, anche se con qualche perplessita', dall'on.le Casini, quando nella sua ultima relazione alla Camera ha in proposito osservato che il testo del Senato sembra rendere obbligatoria la pronuncia del giudice una volta che ci sia accordo tra p.m. e imputato. Tutto considerato pero' il vincolo per il giudice finisce con il risultare meno astratto di quanto appaia a prima vista. Infatti al giudice resta il potere di decidere in modo difforme quando non condivide il quadro giuridico entro cui e' stata determinata la pena, quadro che e' costituito non solo dalla qualificazione del fatto, ma anche dell'applicazione delle circostanze e dal giudizio di comparazione, e se si considera l'incidenza che nella realta' hanno il riconoscimento delle attenuanti generiche e il giudizio di comparazione diviene chiaro che resta al giudice il potere di non sanzionare con la propria decisione trattamenti di eccessivo favore, visto che questi non possono che passare attraverso l'applicazione dell'art. 62 - bis del c.p. e una valutazione di prevalenza... Omissis... Di fronte alla richiesta delle parti al giudice quindi non resta che verificare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione delle circostanze e del giudizio di comparazione; non gli si chiede un positivo accertamento di responsabilita', ma si dice espressamente che deve pronunciare il proscioglimento se gli risulta che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che il reato e' estinto o che manca una condizione di procedibilita'. La motivazione ha una struttura molto semplice e il dispositivo e' costituito dall'applicazione della pena e dalla enunciazione "che vi e' stata la richiesta delle parti". Reazioni negative, all'istituto in esame, non sono pero' affatto mancate e, per compiutezza di indagine, debbono essere rammentate, anche per l'autorevolezza delle fonti. Si fa riferimento al Leone, al Dell'Andro (il quale, nel corso di un incontro di studiosi sul nuovo processo penale in Pretura, dopo le prime applicazioni dello stesso, ha osservato, tra l'altro, secondo quanto riportato dalla stampa "Si e' parlato di processi lunghi e sono previsti i riti speciali; ma se il nuovo codice di procedura penale deve servire per eliminare il dibattimento, non posso essere d'accordo"; ed, ancora, al Virgilio (il quale in un articolo pubblicato su un noto quotidiano della capitale il 5 dicembre 1989 dal titolo "Subito da emendare il nuovo codice" ha rilevato: "... Omissis... e' sufficiente porre in evidenza che l'istituto del patteggiamento della pena, appare il piu' lontano dalla nostra cultura giuridica. Attraverso il meccanismo della pena su richiesta di parte (imputato e p.m.) il giudice si spoglia parzialmente della funzione di infliggere la sanzione ritenuta congrua al fatto reato di cui abbia acquisito la prova, limitandosi in sostanza a convalidare l'accordo intervenuto tra i soggetti suindicati, con esclusione di ogni efficace ingerenza della persona offesa dal fatto criminoso. Per dimostrare quanto cio' contrasti con i principi generali dell'ordinamento giuridico basta ricordare che perfino nella materia civile e' vietato rimettere alla decisione di arbitri, cioe' di giudici privati, nominati dalle parti, alcune controversie particolari, per le quali e' ritenuto indispensabile l'esercizio della potestas decidendi del giudice dello Stato. Il patteggiamento e altri profili del codice vanno necessariamente emendati con urgenza, in attesa che il tempo faccia emergere piu' compiutamente sia gli aspetti positivi che negativi della nuova disciplina". E, mentre il Grevi, sul "Corriere della Sera" del 16 novembre 1989, ha raccomandato che: "...Si eviti un ricorso troppo disinvolto, e percio', obiettivamente iniquo, al nuovo modello processuale: sia da parte dell'imputato (che, mal consigliato, potrebbe talora indursi ad accettare pene piu' elevate del dovuto), sia, soprattutto da parte del p.m. (che, spinto dal desiderio di concludere, potrebbe accordarsi su pene troppo lievi, tale da sconcertare il comune senso di giustizia); a quest'ultimo proposito e' necessario che il p.m., nel prestare il proprio consenso in sede di patteggiamento, si faccia carico - come non sempre e' avvenuto, a quanto pare, nei giorni scorsi -, di tutti gli interessi pubblici collegati alla funzione repressiva ivi compreso, l'interesse alla applicazione di una pena adeguata al disvalore sociale del reato e alla gravita' dell'offesa causata alle vittime", il Messina, in un articolo su Rivista penale n. 10 del 1989 dal titolo: Arretramento della linea di difesa sociale con nuovo codice di procedura penale (Intorno ad alcuni dubbi di illegittimita' costituzionale) ha assunto una posizione di netto contrasto con l'istituto in esame, merce' varie ed articolate argomentazioni alle quali si rinvia. Infine, sempre dalla stampa, si e' appreso che varie questioni di costituzionalita' sono state gia' sollevate con riferimento allo stesso istituto. In particolare, verso la fine dell'ottobre 1989, il tribunale di Firenze ha rimesso gli atti a codesta Corte con riferimento all'art. 248 delle disposizioni di attuazione del c.p.p (applicazione della pena, su richiesta delle parti). Tale rinvio e' scaturito dalle osservazioni dei difensori degli imputati del resto di diffamazione a mezzo stampa, ai quali era stato negato il ricorso al patteggiamento in un procedimento gia' rinviato due volte, prima dell'entrata in vigore della riforma del c.p.p. Gli stessi difensori avevano osservato che l'art. 248, ora citato, incide sulla pena e, quindi, si e' al cospetto, non di una norma processuale, ma sostanziale. Pertanto non possono avere importanza le formalita' di apertura del dibattimento se la condizione del cittadino imputato resta identica, con conseguente violazione del principio di eguaglianza tra gli imputati di un procedimento gia' iniziato prima dell'entrata in vigore del nuovo codice e quella di un processo con inizio successivo. Nel novembre dello stesso anno, il tribunale di Busto Arsizio ha rimeso gli atti a codesta Corte, in relazione agli artt. 444 e 445 del c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto il patteggiamento tra difesa ed accusa non lascia spazio alla parte civile. Ancora, il pretore di Vercelli, sempre nel novembre 1989, ha pure lui, rimesso gli atti a codesta Corte, in relazione all'art. 444 del c.p.p. per violazione degli artt. 101 e 24 della Costituzione, affermando, tra l'altro, nella sua ordinanza (riportata in parte dalla stampa nazionale): "Il fatto che una sentenza possa essere emanata sulla sola base di atti compiuti durante le indagini preliminari, qualunque spessore semantico tali atti abbiano, sembra comporatare che una condanna possa essere emanata senza accertamento di responsabilita', riducendo entro tali limiti angusti la possibilita' concreta di emettere una pronunzia". Infine, il tribunale di Pistoia ha pure rimesso gli atti a codesta Corte, affermando che il c.d. patteggiamento violerebbe l'art. 101 della Costituzione perche' il collegio giudicante verrebbe privato del potere di determinazione di una pena adeguata alla gravita' del reato, non in base ad una situazione rigorosamente prefissata dalla legge, ma a causa dell'esercizio di un potere discrezionale attribuito alle parti (imputato e p.m.) e, comunque, non sindacabile. Cio' premesso, rivela, anzitutto, questo pretore, che, secondo l'orientamento unanime dottrinale e giurisprudenziale (anche di codesta Corte), compito del giudice e' l'applicazione delle leggi, con la necessaria interpretazione delle stesse, e la possibilita', qualora si ravvisi una questione di costituzionalita' rilevante e non manifestatamente infondata, di rimettere gli atti a codesta Corte per la decisione in merito (art. 134 della Costituzione; art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948 e artt. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87). Pertanto, pur dovendosi tener conto - specie al cospetto di recentissime normative e di nuovi istituti - di quanto e' stato osservato da che si e' soffermato sugli stessi (e cio' giustifica la premessa della presente ordinanza), non si puo', a parere di questo pretore, rimanere suggestionati dalle fonti autorevoli e da valutazioni tecnico-giuridiche, che sembrerebbero - prima facie, sospinti da una certa emotivita' inconscia - quasi ineccepibili ed indispensabili, sia in senso favorevole che in senso contrario. Conseguentemente, anche con riferimento all'istituto della "Pena su richiesta delle parti" previsto dalle norme sopra indicate (c.d. patteggiamento) - istituto che interessa il caso in esame l'approccio deve avvenire con serenita', senza prevenzione alcuna, non potendosi disconoscere, in linea di principio, che lo stesso, come gli "altri riti differenziati per una gamma assai ampia di imputazioni, costituisce una scelta coraggiosa, tanto che, buona parte dell'efficienza del nuovo codice e' stata affidata a questo istituto che, consente, non solo di risparmiare tutto il dibattimento, ma anche di eliminare un grado di impugnazione, vista l'inappellabilita' della sentenza emessa su accordo delle parti" (relazione al progetto preliminare sopra indicata). Si e' poi ossevato che al giudice resta il potere di decidere in modo difforme dalla richiesta di applicazione dell'istituto in esame, quando non condivide il quadro giuridico entro il quale e' stata determinata la pena, quadro che e' costituito, non solo dalla qualificazione del fatto, ma anche dall'applicazione delle circostanze e del giudizio di comparazione (art. 444, secondo comma, del c.p.p.). Invece il giudice e' vincolato all'entita' della pena; cio' risulta coerente con un "processo di parti" e, non puo' sorprendere il fatto che lo stesso giudice non possa applicare una sanzione maggiore o minore di quella concordata, ne' rigettare la richiesta e procedere con le forme ordinarie, soltanto perche' ritiene che si dovrebbe applicare una sanzione diversa. In particolare, se si considera che e' il p.m. l'organo titolare dell'azione, non puo' meravigliare il fatto che il giudice non possa applicare una sanzione maggiore di quella richiesta. Questo limite, oltre che sul c.d. patteggiamento, e' presente nel procedimento per decreto, ma, a ben vedere, un divieto piu' generale, per il giudice, di andare nell'applicazione della pena, ultra petita, mentre non sarebbe concepibile in un sistema inquisitorio, come quello gia' vigente, potrebbe risultare in sintonia con il nuovo sistema (Lattanzi sopra citato). Pur se tali considerazioni possano ritenersi valide (e cio' sara' oggetto di un ulteriore specifico esame da parte di questo pretore), ne discende, pero', senza alcun dubbio, che le stesse non siano compatibili con il sistema de codice del 1930. A questo punto, sempre con riferimento a quest'ultimo codice, sembra opportuno far presente a codesta Corte, quanto dalla stessa precisato con sentenza n. 120 del 30 aprile 1984 (richiamata anche nei lavori preparatori al nuovo c.p.p.) e, con successive ordinanze n. 203 e 204 del 9 luglio 1984, sia pure con riferimento alle sanzioni sostitutive di cui agli artt. 77, primo comma, 78, secondo comma, della legge n. 689/1981 in relazione all'art. 79 della stessa legge, sanzioni ritenute anch'esse risultato di un patteggiamento, ben diverso pero' da quello previsto dagli artt. 444 e segg. del c.p.p. del 1989. Invero, pur con le notevoli differenze or ora evidenziate, i criteri seguiti da codesta Corte al cospeto di numerose ordinanze di rimessione per non manifesta infondatezza della questione relativa alle norme contenute nella legge n. 689/1981, gia' indicate, per violazione degli artt. 24 e 101, secondo comma, 3, primo comma, 102, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, meritano di essere testualmente riportati:... 0missis... Fino a che il dibattimento non sia stato aperto, la formulazione di un parere negativo con efficacia vincolante da parte del p.m. altro non significa che preclusione ad un epilogo del procedimento in anticipo rispetto alla fase processuale maggiormente garantita, qual'e' il dibattimento imperniato sul contraddittorio diretto tra le parti. In altre parole, il no del p.m., circoscritto alle fasi dell'istruzione e degli atti predibattimentali, equivale, in armonia con le normali prerogative del p.m., ad una determinata scelta del rito processuale, nel senso di un passaggio - assolutamente non eludibile con la sentenza che dichiara estinto il reato per intervenuta applicazione della sanzione sostitutiva su richiesta dell'imputato - alla fase del dibattimento: fase nel corso della quale le parti avranno la piena possibilita' di tutelare le rispettive posizioni, in parita' di armi, compresi sia il mantenimento della richiesta di una sanzione sostitutiva ai sensi dell'art. 77, primo comma, della legge n. 689/1981, sia un nuovo interpello del p.m., ed il giudice avra' ogni potere decisionale, compreso quello di accogliere o no la richiesta dell'imputato, indipendentemente dall'atteggiamento assunto dal p.m. Cosi' circoscritta alle fasi precedenti il dibattimento di primo grado, la norma che conferisce portata vincolante al parere negativo del p.m. non contrasta, dunque con nessuno dei parametri costituzionali invocati. a) non con il primo comma dell'art. 3 della Costituzione perche' le ragioni del p.m. contrarie alla richiesta dell'imputato, non si impongono in modo definitivo al giudice, ma anch'esse come quelle dell'imputato, riceveranno obiettiva ed imparziale valutazione nella fase del dibattimento; la differenza riscontrabile fra p.m. ed imputato per le fasi che precedono il dibattimento trova giustificazione nelle esigenze sottostanti all'esercizio dell'azione penale, sulle cui forme e modi il legislatore chiama il p.m. a vigilare, sino al punto di addivenire ad uno sdoppiamento tra pretore e procuratore della Repubblica nei momenti piu' delicati dell'intervento pretorile; b) non con l'art. 24, primo e secondo comma della Costituzione, perche' la richiesta dell'imputato non viene ad essere sottratta in modo definitivo alla valutazione del giudice, restando acquisita al processo, in attesa di un piu' approfondito esame contraddittorio della fase dibattimentale; c) non con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, perche', con il pretendere il passaggio al dibattimento il p.m. lascia intatte, anzi esalta, le attribuzioni di organo giudicante proprie del giudice, nella pienezza della sua liberta' di valutazione e di convincimento, ben potendo questi emettere in sede dibattimentale qualsiasi tipo di sentenza, compresa la declaratoria di estinzione del reato, per applicazione della sanzione sostitutiva su richiesta dell'imputato; d) non con l'art. 102, primo comma, della Costituzione, perche', cio' che attiene all'esercizio dell'azione penale, nelle varie forme di impulso processuale previsto dal legislatore, com'e' il caso di ogni richiesta vincolante di passaggio al dibattimento da parte del p.m.: se pur evidentemente implica una valutazione in senso logico delle prove raccolte, non per questo acquista natura decisoria, essendo diversa dal giudizio in senso tecnico, in quanto non contiene alcuna decisione sulla notitia criminis, cosi' da non sconfinare nel campo dell'attivita' decisoria riservata al giudice, una diversita', che nella fattispecie, risulta ulteriormente sottolineata, quando si tratti di procedimenti pretorili, dal gia' ricordato sdoppiamento di compiti tra pretore e procuratore della Repubblica; e) non con l'art. 111, secondo comma, della Costituzione, perche', per le ragioni dianzi precisate, un parere negativo dalla cui formulazione discende soltanto la necessita' di far posto al dibattimento, non integra in alcun modo gli estremi di un provvedimento decisorio da sottoporre a ricorso per cassazione. In definitiva, codesta Corte, con riferimento al c.p.p. del 1930 e successive modificazioni, stabiliva i ruoli ben definiti dell'imputato, del p.m. e del giudice, riconoscendo a quest'ultimo "le attribuzioni di organo giudicante, nella pienezza della sua liberta' di valutazione e di convincimento". E, si trattava di una sentenza di proscioglimento per estinzioni del reato| Occorre, tuttavia, svolgere un ulteriore indagine per quanto concerne l'applicazione dell'istituto in esame, anche con riferimento al nuovo c.p.p., che, come si e' gia' detto, viene considerato un "processo di parti" sino al punto di non consentire al giudice, proprio nel caso di "pena su richiesta delle parti", di pronunciarsi ultra petita, cosi' come avviene nel codice di rito civile; non tenendo presente, pero', che, come e' stato giustamente osservato (Virgilio cit.) "persino in materia civile e' vietato rimettere alla decisione di arbitri, cioe' di giudici privati, nominati dalle parti, alcune controversie particolari, per le quali e' ritenuto indispensabile l'esercizio della potestas decidendi del giudice dello Stato". Deve rivelarsi, comunque, che appare davvero strano che proprio in un processo di "parti" con il controllo, la terzieta' e la centralita' del giudice, si finisce, con l'istituto in esame, a costringerlo, su richiesta delle parti, ad emettere, al di fuori del tanto declamato e valorizzato dibattimento del nuovo c.p.p., una sentenza "equiparata ad una pronuncia di condanna (?) salve diverse disposizioni di legge ex art. 445 del c.p.p. del 1989, peraltro inappellabile ex art. 448 s.c. Cio' senza aver potuto stabilire la congruita' della pena, sulla base di un pur sempre necessario accertamento di colpevolezza dell'imputato (altrimenti, sia pure con estrema difficolta', dovrebbe esser pronunciata sentenza di proscioglimento ex art. 129) senza potersi avvalere della discrezionalita' stabilita dall'art. 132 del c.p. vigente e, soprattutto, dei criteri obbligatori per l'esercizio di tale discrezionalita' previsti dall'art. 133 s.c. (Gravita' del reato. Valutazione agli effetti della pena), art. 133- bis s.c. (Condizioni economiche del reo; valutazione agli effetti della pena pecuniaria) e della facolta' di cui all'art. 133- ter (pagamento rateale della multa o dell'ammenda); norme queste del codice penale vigente. A parere di questo pretore, i poteri-doveri di cui si e' teste' detto, dovrebbero, sia pure con gli adattamenti del caso, esplicarsi anche al cospetto di una "pena su richiesta delle parti" senza cosi' snaturare l'istituto del "nuovo patteggiamento" e dei suoi effetti positivi gia' riconosciuti in premessa; tenendo conto, anzitutto, che il giudice, ex art. 444 n. 2, sulla base degli atti, deve controllare la qualificazione giuridica del fatto e che l'applicazione e la comparazione delle richieste prospettate dalle parti siano corrette; inoltre che, secondo quanto stabilito dall'art. 444 del c.p.p.: se l'imputato, nel formulare la richiesta, subordina l'efficacia della stessa alla sospensione condizionale della pena, il giudice, se ritiene che la sospensione, non puo' essere concessa, rigetta la richiesta; ed, infine, che ex art. 448 s.c., allorquando vi e' il dissenso motivato del p.m. sulla richiesta della pena formulata dall'imputato, lo stesso giudice procede al dibattimento (con tutte le conseguenze e le novita' che lo stesso comporta) e pronuncia immediatamente la sentenza di cui all'art. 444, n. 2, ove ritenga ingiustificato il dissenso del p.m. e congrua la richiesta dell'imputato. Cio' significa, in sostanza, a parere di questo pretore, che, tutto sommato, l'istituto in esame, sia pure con palesi discriminazioni che non dovrebbero essere consentite ex art. 3 della Costituzione, non e', ne' deve essere lasciato completamente alle libere iniziative o all'arbitrio delle parti per esplicare la sua valenza secondo l'ottica del nuovo c.p.p. Da tutto cio' consegue comunque, anzitutto, che l'art. 248 delle norme transitorie al c.p.p. (che consente l'applicazione dell'istituto anche ai procedimenti in corso che si trovano in una fase diversa da quella istruttoria, ex art. 241 e segg. delle stesse norme transitorie e per i quali non si e' potuto attuare quanto previsto da sistema del nuovo c.p.p. (come e' accaduto nel procedimento penale a carico dell'imputato Clemente), puo' violare gli artt. 3, 101 della Costituzione, in quanto, a situazioni chiaramente differenziate si vuol applicare la stessa disciplina, con palese dispregio del principio di eguaglianza ed, inoltre, ad un giudice che deve svolgere ancora la sua funzione con le caratteristiche desumibili dal codice abrogato, (caratteristiche che conserva per i procedimenti ex artt. 241 e 242 delle norme transitorie al c.p.p.) si sottraggono, con l'applicazione dell'istituto in esame, i poteri di una piena giurisdizione e la soggezione, ingiustificata, alla decisione ampiamente discrezionale dell'imputato e del p.m., sia pure soltanto in ordine alla congruita' della pena, in un procedimento che di parti non e', peraltro con sentenza di condanna inappellabile. Inoltre, sempre tenendo conto delle caratteristiche e delle prerogative del giudice nel sistema del codice abrogato, questi, al cospetto di una richiesta di patteggiamento potrebbe e dovrebbe pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 248 delle disposizioni transitorie con riferimento agli artt. 421 e 152 del codice abrogato, sulla base di atti - ben diversi da quelli previsti dal nuovo codice - sino al compimento delle formalita' di apertura del dibattimento di primo grado, con possibile contrasto del suddetto art. 248 anche in questo caso, con gli artt. 3, 101 e 102 della Costituzione. Occorre aggiungere che, a parere di questo pretore, la non manifesta infondatezza delle questioni teste' prospettate non puo' considerarsi inficiata dalla circostanza che, trattandosi di norme transitorie, le stesse si riferiscono, presumibilmente, ad un numero limitato di procedimenti, e cioe' a quelli previsti dagli artt. 241 e 242 delle disposizioni transitorie, in quanto, sia pure in relazione a tali processi, le norme costituzionali debbono essere rispettate. Si e' d'avviso, altresi', che, la diminuzione della pena automaticamente stabilita dall'art. 444 cit., essendo applicabile in funzione della scelta di un rito, tanto da denominarsi di "meritorieta' processuale", prescindendo dalla gravita' del reato commesso e dalla valutazione della personalita' del colpevole puo' violare, cosi' come si e' avvvertito dalla dottrina, l'art. 27 della Costituzione, col qualle si prescrive che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Inoltre, laddove l'istituto in esame non venga integrato e corretto, nel senso sopra precisato, in ordine all'accertamento della colpevolezza dell'imputato (senza inammissibile valore di prova legale alla richiesta di pena da parte dello stesso) ed all'applicazione del potere discrezionale nella determinazione della pena ex art. 132 e segg. del c.p., rimane affievolito il potere giurisdizionale del giudice, con devoluzione di parte dello stesso, non solo al p.m., ma anche allo stesso imputato e, quindi, con possibile violazione degli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma, 24 e 25, primo comma, della Costituzione. Cio', perche', dando esclusivo rilievo alla convergenza di interessi che le parti abbiano a definire il giudizio, significa, pure, distogliere, l'imputato dal suo giudice naturale - che non puo' essere il p.m. - e, quindi, non garantisce, neppure, il vero dirito alla difesa. Occorre rilevare, infine, che la motivazione della sentenza ex art. 445 del c.p.p. non puo' che esser ridotta, con esclusivo riferimento ad accertamenti approssimativi, piu' formali che sostanziali, con possibile violazione dell'art. 111 primo comma della Costituzione, secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati. La rilevanza delle questioni sollevate, per il caso in esame, e' evidente, in quanto laddove codesta Corte dovesse ritenerle non manifestamente infondate, questo Pretore, potrebbe esaminare ed eventualmente rigettare le richieste concordate e formulate dall'imputato e dal p.m., stabilendo o di procedere col dibattimento o di valutare anche la congruita' o meno della pena richiesta, determinandola con i criteri di cui agli artt. 132 e 133 del c.p. e con sentenza di condanna, adeguatamente motivata.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; Dichiara d'ufficio, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, per quanto specificato in motivazione, degli artt. 2 e 45 della legge 16 febbraio 1987 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del codice di procedura penale); 248 con riferimento agli artt. 241 e segg. delle "Norme transitorie dello stesso codice"; 563 ed, in quanto applicabili, 444 e 448 del medesimo codice approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale) per contrasto con gli artt. 3, 101, secondo comma, 102, primo comma, 27, 24, 25 e 111 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata trasmissione degli atti del procedimento alla Corte costituzionale e che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga notificata all'imputato, al pubblico ministero d'udienza, al Presidente del Consiglio dei Ministri in carica e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Nardo', addi' 14 febbraio 1989 Il pretore: SODO 90C0360