N. 33 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 9 aprile 1990
N. 33 Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 9 aprile 1990 (della regione Lombardia) Finanza regionale - Integrazione del fondo comune delle regioni (previsto dall'art. 8 della legge n. 281/1970) costituito dal gettito di imposte erariali con l'importo occorrente per assicurare una consistenza del fondo pari a 6.000 miliardi Ripartizione di 1.000 miliardi di detto fondo, secondo criteri da fissarsi con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, tenendo conto del gettito della tassa sulle concessioni automobilistiche Istituzione nel fondo comune di un fondo separato e diverso sottratto ai criteri di ripartizione del fondo stesso indicati dalla legge n. 40/1989 - Autorizzazione alla Cassa depositi e prestiti per la concessione ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, con un minimo di cento milioni annui ad ogni comune, fino ad un importo complessivo di 600 miliardi di lire, di mutui ventennali per la costruzione, l'ampliamento o la ristrutturazione di acquedotti, fognature, impianti di depurazione delle acque, di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, incluso l'acquisto dei mezzi speciali per il trasporto dei rifiuti stessi - Ingiustificata lesione del principio dell'autonomia finanziaria delle regioni, in considerazione della diversa distribuzione del fondo in rapporto alla aliquota della tassa automobilistica regionale stabilita da ogni singola regione - Erogazione di somme ai comuni per la realizzazione di spese in settori di competenza regionale. (D.L. 28 dicembre 1989, n. 425, artt. 2, comma 1-bis, 17 e 25, quinto comma, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 38). (Cost., artt. 117 e 119).(GU n.18 del 2-5-1990 )
Ricorso della regione Lombardia, in persona del presidente della pro-tempore della giunta regionale ing. Giuseppe Giovenzana, autorizzato con delibera della giunta regionale n. 52828 del 20 marzo 1990, rappresentato e difeso dagli avvocati prof. Valerio Onida e Gualtiero Rueca, ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in Roma, largo della Gancia n. 1, come da delega a margine del presente atto, cotro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore. Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli artt. 2, comma 1-bis, 17 e 25, quinto comma, del decreto-legge 28 dicembre 1989, n. 415, recante "norme urgenti in materia di finanza locale e di rapporti finanziari tra lo Stato e le regioni nonche' disposizioni varie", convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 38, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 1990. 1. - La legge 28 febbraio 1990, n. 38, ha convertito in legge, con rilevanti modificazioni, il decreto-legge 28 dicembre 1989, n. 415, recante norme in materia di finanza locale e regionale nonche' disposizioni varie, anche in materia sanitaria (un altro decreto-legge omnibus, in spregio all'obbligo, di recente sancito dall'art. 15, terzo comma, della legge n. 400/1988, di dare ai decreti-legge un contenuto "specifico, omogeneo e corrispondente al titolo". Fra le numerose disposizioni del decreto convertito, alcune - e precisamente quelle contenute nel comma 1- bis dell'art. 2, aggiunto dalla legge di conversione, nell'art. 17, modificato in sede di conversione, e nell'art. 25, quinto comma - appaiono illegittime e lesive dell'autonomia regionale. 2. - L'art. 2, comma 1- bis, recita: "Entro il limite di importo complessivo stabilito dal primo comma, lett. f), la Cassa depositi e prestiti e' autorizzata, per l'anno 1990, a concedere ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, assicurando un minimo di lire 100 milioni annui ad ogni ente, fino ad un importo complessivo di lire 600 miliardi, mutui ventennali per la costruzione, l'ampliamento o la ristrutturazione di acquedotti, fognature, impianti di depurazione delle acque, di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, incluso l'acquisto dei mezzi speciali per il trasporto dei rifiuti stessi. L'onere di ammortamento dei mutui contratti ai sensi del predetto comma e' assunto a carico del bilancio dello Stato. Al relativo onere si provvede nell'ambito dello stanziamento a favore del fondo perequativo per i comuni di cui al primo comma, lett. b), secondo periodo. La somma messa a disposizione potra' essere impegnata entro e non oltre il secondo anno successivo, a pena di decadenza. I mutui di cui al presente comma possono essere concessi, su deliberazione dei comuni beneficiari, direttamente a consorzi regolarmente costituiti di cui i comuni stessi facciano parte, purche' l'intervento sia realizzato sul territorio dei medesimi, o, per gli impianti di depurazione o di smaltimento, essi siano comunque destinati a servizio permanente dei comuni beneficiari. Per le assegnazioni effettuate per l'anno 1989 in conformita' al comma 1bis dell'art. 12 del d.-l. 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, resta ferma la facolta' di impegnare le stesse entro il secondo anno successivo all'assegnazione, a pena di decadenza". Si dispone dunque una erogazione di somme ai comuni minori, nella forma di mutui ma con oneri di ammortamento a totale carico dello Stato, finalizzate alla realizzazione di opere o all'acquisto di attrezzature nei settori degli acquedotti, delle fognature, degli impianti di depurazione delle acque, dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani: settori tutti rientranti nella competenza della regione, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione nonche' degli artt. 87 e 109 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e dell'art. 6 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915. L'erogazione di spesa statale nei settori di competenza regionale costituisce, secondo la giurisprudenza di questa Corte, lesione delle attribuzioni regionali. La ricorrente non ignora che questa Corte, nella sentenza n. 307/1983, ha affermato la legittimita' delle disposizioni contenute nell'art. 9 del d.-l. 28 febbraio 1983, n. 55, che contemplavano l'erogazione di mutui della Cassa depositi e prestiti a favore di comuni e province. Ma non si tratta di un precedente che si attagli alla presente questione, per piu' ragioni. E infatti: a) nel caso allora deciso i mutui erano per gran parte a destinazione non vincolata, cioe' utilizzabili per qualsiasi tipo di investimenti degli enti locali (solo il 20% era riservato ai comuni minori genericamente per opere di urbanizzazione primaria, ma era ripartito - si badi - fra detti comuni in modo oggettivo, in proporzione alla popolazione residente). L'art. 2, comma 1- bis, del d.-l. n. 415/1989 e' diretto invece a finanziare proprio e solo opere di acquedotti, fognature, depurazione, smaltimento rifiuti, quindi opere pubbliche di interesse e di competenza regionale: proponendo quindi non come una norma di generico finanziamento dei comuni e dei loro investimenti, ma piuttosto come una norma di finanziamento di specifiche opere di competenza regionale; b) l'art. 2, comma 1- bis, del d.-l. n. 415/1989 pone per tutti i mutui previsti l'intero onere di ammortamento a carico dello Stato. In sostanza dunque non prevede e non disciplina l'erogazione di crediti ai comuni da parte della Cassa depositi e prestiti (come avveniva per la maggior parte dei mutui contemplati dall'art. 9 del d.-l. n. 55/1983). Onde non potrebbe qui valere la considerazione - svolta dalla Corte nella sentenza n. 307/1983 - secondo cui la funzione regolata e' l'esercizio del credito da parte di un organo statale - la Cassa depositi e prestiti - a favore degli enti locali; ne' quella secondo cui, se si fosse annullata la disposizione di legge (allora) contestata non sarebbe caduta la generale competenza della Cassa depositi e prestiti, bensi' sarebbero ridiventati applicabili ai mutui in questione "i generici criteri gia' fissati dal legislatore statale circa i finanziamenti da attribuire in tal senso agli enti locali", senza che ne fosse rafforzata o allargata in alcun modo la competenza delle regioni. Nel presente caso la legge, sotto la forma del mutuo della Cassa, dispone in sostanza un diretto finanziamento statale delle opere, che si realizza attraverso l'integrale accollo degli oneri di ammortamento dei mutui, integrando una fattispecie del tutto assimilabile a quelle decise da questa Corte con le setenze nn. 517/1987 e 921/1988, in cui ha riconosciuto l'illegabilita' di finanziamenti statali di opere di competenza regionale; c) nel caso deciso con la sentenza n. 307/1983 la Corte rilevo' che la legge preveda che nell'individuazione le opere da finanziare la Cassa depositi e prestiti si riferisse agli indirizzi programmatici contenuti nei programmi regionali di sviluppo (ove esistenti), che non venivano quindi trascurati dal legislatore statale. Viceversa la disposizione qui contestata non fa alcun riferimento alla programmazione regionale, ne' prevede in alcun modo che di essa si tenga conto nel finanziare le opere in questione; d) per di piu' la disposizione denunciata prevede che i mutui possano essere concessi, su deliberazione dei comuni beneficiari - e ancora una volta senza alcun riferimento ai programmi regionali - a consorzi di cui i comuni medesimi facciano parte o che realizzino opere a servizio permanente dei comuni medesimi. In questi casi dunque i finanziamenti statali concernono opere che per definizione saranno di rilevanza sovracomunale, senza, lo si ripete, alcun riferimento alla programmazione regionale. La violazione della competenza regionale, sotto il profilo programmatorio, amministrativo e finanziario, e' palese. 3. - L'art. 17 del d.-l. n. 415/1989, come modificato dalla legge di conversione, recita: "1) Per l'anno 1990 la quota del 15 per cento dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, loro derivati e prodotti analoghi, indicata alla lett. a) del primo comma dell'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281, e' ridotta al 13,18 per cento. 2) Il fondo comune regionale, determinato ai sensi dell'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281, e' integrato dell'importo occorrente per assicurare una consistenza del fondo stesso pari a lire 6.000 miliardi per l'anno 1990. 3) Il fondo comune, cosi' determinato, e' comprensivo delle somme di cui all'art. 1, secondo comma, della legge 1 febbraio 1989, n. 40, e viene ripartito ed erogato, nell'importo di lire 5.000 miliardi, con le modalita' e i criteri di cui al terzo comma del medesimo articolo. Il residuo importo di lire 1.000 miliardi viene, invece, ripartito ed erogato con i criteri che all'uopo verranno fissati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, quale fondo perequativo che tenga anche conto del diversificato gettito delle maggiori entrate di cui all'art. 23, primo comma. Il Ministro per gli affari regionali ed i problemi istituzionali riferisce alla commissione parlamentare per le questioni regionali sui predetti criteri. Per l'anno 1990 rimangono acquisite al bilancio dello Stato le entrate di cui all'art. 1, quarto comma, della predetta legge n. 40/1989". E' ben noto come l'applicazione, realizzata con l'art. 8 della legge n. 281/1970, dell'art. 119 della Costituzione nella parte in cui prevede l'attribuzione alle regioni, fra l'altro, di "quote di tributi erariali in relazione ai bisogni delle regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali", sia apparsa per lo piu' ai commentatori una applicazione forzata, se non lesiva del disposto costituzionale: cio' in quanto le "quote di tributi erariali" cui allude l'art. 119 sembrano essere quote del gettito riscosso nell'ambito delle regioni cui tali quote sono devolute, mentre l'art. 8 della legge n. 281/1970 ha formato un fondo nazionale unico, alimentato da quote del gettito complessivo di alcuni tributi riscossi nell'insieme delle regioni ordinarie, e ne ha previsto il riparto con criteri che non hanno alcun riguardo all'entita' del gettito dei tributi medesimi nell'ambito di ciascuna regione, e sono ancorati a parametri oggettivi di popolazione, superficie e condizioni economico-sociali. E tuttavia le regioni ordinarie non hanno finora contestato tale disciplina voluta dal legislatore nazionale per scopi perequativi, nella considerazione che comunque il sistema del fondo comune assicurava loro un'entrata meramente globalmente al gettito dei tributi erariali prescelti, e ripartita fra le regioni in base a criteri legislativamente predeterminati: cosi' che, pur risultando sacrificato il riferimento delle entrate di ciascuna regione alla "capacita' fiscale" della regione medesima, quanto meno risultava assicurato un trasferimento ancorato alle entrate tributarie dello Stato e fondato su criteri di certezza, sulla cui base le regioni potevano operare le proprie scelte in termini di programmazione e destinazione delle risorse per l'esercizio delle loro funzioni normali. Questo sistema e' stato peraltro gravemente vulnerato da quando - scaduto il quinquennio di efficacia della legge n. 356/1976 - il legislatore statale e' passato a determinare l'entita' complessiva del fondo comune anno per anno, attraverso decisioni di incremento spesso fondate su tassi di inflazione programmati, e ricorrendo (nell'intento di prestare formale ossequio all'art. 119 della Costituzione) al fragile espediente di rideterminare annualmente la percentuale del gettito dei tributi erariali prescelti in modo tale che la quota affluente al fondo comune corrispondesse esattamente all'entita' cui si voleva che ammontasse in ogni anno il fondo medesimo. Il tal modo il gia' tenue legale del fondo comune con la attribuzione di "quote di triobuti erariali", costituzionalmente prevista, di fatto veniva meno. Tuttavia restava ancora - ultima barriera a difesa delle esigenze minime di garanzia della finanza regionale - la circostanza che, una volta determinato annualmente il fondo con decisione del legislatore nazionale, per lo piu' ancorata ai tassi programmati (non a quelli reali) di inflazione, esso veniva ripartito fra le regioni con criteri oggettivi predeterminati, coincidenti ormai non piu' con quelli fissati dall'art. 8 della legge n. 281/1970, bensi' con quelli "storici", consolidati in base alla prima applicazione del medesimo art. 8. In altri termini, ciascuna regione sapeva, quanto meno, che ogni anno avrebbe ricevuto una percentuale predeterminata e nota del fondo comune come annualmente stabilito. Ora l'art. 17 del d.-l. n. 415/1989 fa crollare anche quest'ultima barriera. L'ammontare complessivo del fondo comune non e' piu' nemmeno formalmenteancorato al gettito di tributi erariali: si fissa bensi' una quota (il 13,18%) del gettito dell'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, che affluisce al fondo (primo comma), ma subito dopo si fissa in modo del tutto autonomo l'ammontare del fondo, in una entita' superiore a quella della predetta quota di gettito, e che e' direttamente determinato dalla legge (6.000 miliardi). Fin qui parrebbe trattarsi solo dell'abbandono della "finzione" attuata negli anni precedenti. Ma si va molto oltre. Infatti l'ammontare complessivo del fondo non e' piu' ripartito fra le regioni in base a criteri oggettivi predeterminati: solo una parte di esso (5.000 miliardi) e' ripartita con i criteri storici, adottati da ultimo dall'art. 1, terzo comma, della legge n. 40/1989. L'altra parte (1.000 miliardi pari al 16,66%) viene ripartito "con i criteri che all'uopo verranno fissati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, quale fondo perequativo che tenga anche conto del diversificato gettito delle maggiori entrate di cui all'art. 23, primo comma, vale a dire dell'aumentata tassa automobilistica. Viene dunque meno qualunque certezza e qualsiasi predeterminazione legislativa in ordine all'ammontare delle somme spettanti a ciascuna regione a titolo di riparto del fondo comune. Questa, che e' l'entrata da trasferimento non vincolata piu' significativa per le regioni, e rappresenta una fondamentale fonte di finanziamento della spesa ordinaria regionale per le funzioni normali, diviene un'entrata di ammontare aleatorio, rimesso alle discrezionali determinazioni di un organo di governo, col solo pallido correttivo di un parere (destinato ad incidere ben poco) della conferenza permanente. Ma tale sistema di riparto, se puo', al limite, comprendersi per entrate vincolate nella destinazione e volte a finanziare spese su cui concorra in concreto un qualche interesse nazionale, non ha invece alcuna giustificazione nei riguardi del fondo comune. Esso si traduce nella sottrazione alle regioni di ogni certezza in ordine alle risorse disponibili, con conseguente impossibilita' di programmare autonomamente e tempestivamente la destinazione delle risorse stesse fra gli scopi istituzionali della regione medesima. Si traduce percio' in una palese e gravissima lesione della autonomia finanziaria regionale pur se intesa nella restrittiva accezione fatta propria dal legislatore a partire dalla legge n. 281/1970. Ma c'e' di piu'. L'aver ancorato - sia pure in modo generico - i futuri cirteri di riparto di tale quota del fondo anche "al diversificato gettito delle maggiori entrate" derivanti dall'aumento della tassa automobilistica, lungi dal costituire una garanzia per le regioni, si traduce in un ulteriore, inammissibile lesione della loro autonomia finanziaria, sotto il profilo della portata che deve attribuirsi ai tributi propri delle regioni, costituzionalmente previsti come prma fonte di alimentazione della spesa regionale per le funzioni normali. La tassa automobilistica e' infatti l'unico dei tributi propri regionali ad avere un gettito di importo non del tutto insignificante, e un gettito alquanto diversificato fra le diverse regioni, in relazione alla differente quantita' e qualita' dei veicoli posseduti dalla popolazione. In relazione a tale diversa quantita' e qualita' di veicoli le regioni sopportano anche oneri diversificati: ad esempio per quanto attiene alle spese per viabilita', traffico urbano, inquinamento atmosferico, ecc. L'aumento della tassa automobilistica regionale disposto con l'art. 23, primo comma, del d.-l. n. 415/1984, e' gia' stato tenuto in conto dal legislatore statale allorquando esso ha ridotto con l'art. 17, l'importo del fondo comune. Ora se, come fa tale ultima disposizione, si correla al riparto di una quota del fondo comune all'entita' del maggior gettito della tassa automobilistica, si viene in sostanza a duplicare, nei confronti delle regioni - come la ricorrente - in cui il gettito della tassa automobilistica e' piu' elevato, sia l'effetto di compensazione fra tributi propri accresciuti e fondo comune ridotto, sia l'effetto perequativo delfondo comune. Esso e' gia' ripartito, come si e' ricordato, con criteri in parte perequativi (per i tre decimi di cui all'art. 8, quinto comma, lett. c), della legge n. 281/1970). Per di piu' una quota verrebbe ora ripartita con un criterio ulteriormente perequativo, con cio' annullando o attenuendo di molto l'effetto della attribuzione alle regioni dell'unico tributo proprio significativo, cioe' la tassa automobilistica. Insomma lo Stato, nel ridurre il fondo comune e nel ridisciplinarne il riparto, tende a togliere con una mano cio' che con l'altra ha dato alle regioni quando ha attribuito loro la tassa automobilistica, e ha incrementato l'ammontare di questa; ma nei confronti di regioni come la ricorrente, toglie qualcosa in piu', attraverso l'accennata duplicazione dei criteri perequativi. La violazione, ancora una volta, dell'autonomia regionale appare palese. 4. - L'art. 25, quinto comma, del d.-l. n. 415/1989 recisa: "Presso il Ministero della sanita' e' istituito l'osservatorio sui prezzi e sulle tecnologie sanitarie come articolazione del sistema informativo sanitario per l'effettuazione di rilevazioni, studi e controlli nel settore dell'acquisto dei beni e servizi, con particolare riguardo ai beni di largo consumo, ai farmaci e presi'di in uso ospedaliero alle apparecchiature e agli strumenti di alta tecnologia. I dati relativi alle rilevazioni sono pubblicati con tre mesi a cura del Ministero della sanita'. Nell'ambito dell'osservatorio e' istituito l'albo dei fornitori. Con atto di indirizzo e coordinamento, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sentito il Consiglio sanitario nazionale, sono stabiliti criteri in materia di acquisti e approvigionamento di beni e servizi, da ispirare ai princi'pi di garanzia delle normative vigenti presso il provveditorato generale dello Stato per le forniture alle amministrazioni pubbliche statali. Questa Corte, con la sentenza n. 245/1984, ha dichiarato com'e' noto la illegittimita' costituzionale dell'art. 31, primo comma, della legge 27 dicembre 1983, n. 730, che attribuiva al Ministro della sanita' il potere di provvedere con proprio decreto "alla definizione di capitolati generali per forniture di beni e servizi alle unita' sanitarie locali, nonche' di capitolati speciali". La Corte sanci' invece che non e' illegittimo il secondo comma dello stesso art. 31 che prevede l'istituzione "presso le regioni" dell'albo regionale dei fornitori del Servizio sanitario nazionale", attribuendo al Ministro solo poteri di individuzione delle tipologie e delle classi di appartenenza nonche' dei requisiti per l'iscrizione nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria. Chiari' la Corte in quell'occasione che i contratti di fornitura delle uu.ss.ll. rientrano indiscutibilmente nella competenza propria della regione, in quanto aspetto della contabilita' delle uu.ss.ll., di competenza regionale ai sensi dell'art. 50, primo comma, n. 8, della legge n. 833/1978; e che in questo campo non si ravvisa "la presenza di interessi che, per natura e dimensione attengano all'intera collettivita' nazionale e restino necessariamente affidati all'apprezzamento degli organi centrali di Governo: cosi' da giustificare... il ritrasferimento delle funzioni in esame dalle regioni allo Stato". Quanto all'istituzione dell'albo dei fornitori, la relativa disciplina venne giudicata conforme alla Costituzione in quanto "rimane implicitamente fermo che l'istituzione stessa, comne pure la tenuta degli albi in questione, compete alle regioni e non al Ministro della sanita'", al quale poteva riconoscersi solo il potere di stabilire i requisiti minimi atti a garantire la fondamentale uniformita' delle prestazioni sanitarie (punto 12 del considerato in diritto). Ora, la disposizione qui impugnata contrasta frontalmente con i criteri affermati nella citata sentenza n. 245/1984. Essa stabilisce che "e' istituito" l'albo dei fornitori, nell'ambito dell'"osservatorio sui pressi e sulle tecnologie sanitarie" a sua volta istituito presso il Ministero della sanita'. Quindi l'altro non e' piu' istitutito dalla regione, ma e' unico ed e' istituito dallo Stato presso il Ministero; la sua tenuta non e' piu' demandata alle regioni, ma al Ministero: proprio il contrario, cioe', di quanto la Corte, nella citata sentenza, statui' essere necessario per rispettare le competenze regionali. Ma c'e' di piu'. Si prevede un "atto di indirizzo e coordinamento" - peraltro senza determinare alcun criterio di esercizio della potesta', in violazione del principio di legalita' e di riserva di legge tante volte ribadita da questa Corte - il quale dovrebbe stabilire "criteri in materia di acquisti e approvvigionamenti di beni e servizi, da ispirare ai princi'pi di garanzia delle normative vigenti presso il provveditorato generale dello Stato per le forniture alle amministrazioni pubbliche statali". Con tale involuta espressione si vorrebbe dunque imporre alle uu.ss.ll. l'osservanza delle norme che valgono per le forniture curate dal provveditore generale dello Stato, per di piu attribuendo larga discrezionalita' al Governo nel dettare la disciplian di dettaglio delle forniture della u.s.l. In sostanza il Governo tornerebbe a definire i capitolati per le forniture delle uu.ss.ll. (perche' nella sostanza non sono cosa diversa i "criteri in materia di acquisti e approvvigionamenti di beni e servizi", cioe' ad esercitare quel potere che la Corte, nella citata sentanza n. 245/1984, chiari' non poter essere attribuito al Ministro della sanita', in quanto questi verrebbe a riassumere "un complesso di compiti gia' trasferiti alle regioni stesse, cosi' integralmente da esaurire le attribuzioni delle quali si tratta". Anche tale disposizione appare dunque illegittima e lesiva dell'autonomia regionale.
P. Q. M. La regione ricorrente chiede che l'ecc.ma Corte costituzionale voglia dichiarare costituzionalmente illegittimi gli artt. 2, comma 1- bis, 17 e 25, quinto comma, seconda parte, del d.-l. 28 dicembre 1989, n. 415, convertito in legge con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 38, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, e anche in riferimento agli artt. 87 e 101 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, dell'art. 6 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, degli artt. 4 e 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281, dell'art. 50, primo comma, della legge 23 dicembre 1978, n. 833. Roma, addi' 29 marzo 1990 Avv. prof. Valerio ONIDA - Avv. Gualtiero RUECA 90C0468