N. 33 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 9 aprile 1990

                                 N. 33
 Ricorso  per  questione  di legittimita' costituzionale depositato in
 cancelleria il 9 aprile 1990
                       (della regione Lombardia)
 Finanza  regionale  -  Integrazione  del  fondo  comune delle regioni
 (previsto dall'art. 8 della legge n. 281/1970) costituito dal gettito
 di  imposte  erariali  con  l'importo  occorrente  per assicurare una
 consistenza del fondo pari a 6.000  miliardi  Ripartizione  di  1.000
 miliardi  di detto fondo, secondo criteri da fissarsi con decreto del
 Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,  sentita   la   conferenza
 permanente  per  i  rapporti  tra  lo Stato, le regioni e le province
 autonome di Trento e Bolzano, tenendo conto del gettito  della  tassa
 sulle concessioni automobilistiche Istituzione nel fondo comune di un
 fondo separato e diverso sottratto ai  criteri  di  ripartizione  del
 fondo  stesso  indicati  dalla legge n. 40/1989 - Autorizzazione alla
 Cassa  depositi  e  prestiti  per  la  concessione  ai   comuni   con
 popolazione  inferiore  a  5.000  abitanti,  con  un  minimo di cento
 milioni annui ad ogni comune, fino ad un importo complessivo  di  600
 miliardi   di   lire,   di   mutui  ventennali  per  la  costruzione,
 l'ampliamento  o  la  ristrutturazione  di   acquedotti,   fognature,
 impianti  di  depurazione  delle  acque,  di  smaltimento dei rifiuti
 solidi urbani, incluso l'acquisto dei mezzi speciali per il trasporto
 dei   rifiuti   stessi   -   Ingiustificata   lesione  del  principio
 dell'autonomia finanziaria delle  regioni,  in  considerazione  della
 diversa distribuzione del fondo in rapporto alla aliquota della tassa
 automobilistica  regionale  stabilita  da  ogni  singola  regione   -
 Erogazione  di  somme  ai  comuni  per  la  realizzazione di spese in
 settori di competenza regionale.
 (D.L.  28  dicembre  1989,  n.  425,  artt. 2, comma 1-bis, 17 e 25,
 quinto comma, convertito in legge 28 febbraio 1990, n. 38).
 (Cost., artt. 117 e 119).
(GU n.18 del 2-5-1990 )
    Ricorso  della  regione Lombardia, in persona del presidente della
 pro-tempore  della  giunta  regionale   ing.   Giuseppe   Giovenzana,
 autorizzato con delibera della giunta regionale n. 52828 del 20 marzo
 1990, rappresentato e difeso dagli avvocati  prof.  Valerio  Onida  e
 Gualtiero  Rueca, ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in
 Roma, largo della Gancia n. 1, come da delega a margine del  presente
 atto, cotro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore.
    Per  la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli artt.
 2, comma 1-bis, 17 e 25, quinto comma, del decreto-legge 28  dicembre
 1989,  n.  415, recante "norme urgenti in materia di finanza locale e
 di rapporti finanziari tra lo Stato e le regioni nonche' disposizioni
 varie",  convertito  in  legge,  con  modificazioni,  dalla  legge 28
 febbraio 1990, n. 38, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.  49  del
 28 febbraio 1990.
    1. - La legge 28 febbraio 1990, n. 38, ha convertito in legge, con
 rilevanti modificazioni, il decreto-legge
 28  dicembre 1989, n. 415, recante norme in materia di finanza locale
 e regionale nonche' disposizioni varie, anche  in  materia  sanitaria
 (un  altro  decreto-legge omnibus, in spregio all'obbligo, di recente
 sancito dall'art. 15, terzo comma, della legge n. 400/1988,  di  dare
 ai  decreti-legge  un contenuto "specifico, omogeneo e corrispondente
 al titolo".
    Fra  le  numerose  disposizioni del decreto convertito, alcune - e
 precisamente quelle contenute nel comma 1- bis dell'art. 2,  aggiunto
 dalla  legge  di  conversione,  nell'art.  17,  modificato in sede di
 conversione, e nell'art. 25, quinto comma -  appaiono  illegittime  e
 lesive dell'autonomia regionale.
    2.  -  L'art. 2, comma 1- bis, recita: "Entro il limite di importo
 complessivo stabilito dal primo comma, lett. f), la Cassa depositi  e
 prestiti  e'  autorizzata, per l'anno 1990, a concedere ai comuni con
 popolazione inferiore a 5.000 abitanti, assicurando un minimo di lire
 100  milioni  annui  ad  ogni ente, fino ad un importo complessivo di
 lire 600 miliardi, mutui ventennali per la costruzione, l'ampliamento
 o   la   ristrutturazione   di  acquedotti,  fognature,  impianti  di
 depurazione delle acque, di smaltimento dei  rifiuti  solidi  urbani,
 incluso  l'acquisto  dei  mezzi speciali per il trasporto dei rifiuti
 stessi. L'onere di ammortamento dei  mutui  contratti  ai  sensi  del
 predetto  comma  e'  assunto  a  carico  del bilancio dello Stato. Al
 relativo onere si provvede nell'ambito dello  stanziamento  a  favore
 del  fondo  perequativo per i comuni di cui al primo comma, lett. b),
 secondo  periodo.  La  somma  messa  a  disposizione  potra'   essere
 impegnata  entro  e  non  oltre il secondo anno successivo, a pena di
 decadenza. I mutui di cui al presente comma possono essere  concessi,
 su  deliberazione  dei  comuni  beneficiari,  direttamente a consorzi
 regolarmente costituiti  di  cui  i  comuni  stessi  facciano  parte,
 purche'  l'intervento  sia realizzato sul territorio dei medesimi, o,
 per gli impianti di depurazione o di smaltimento, essi siano comunque
 destinati  a  servizio  permanente  dei  comuni  beneficiari.  Per le
 assegnazioni effettuate per l'anno 1989 in conformita' al comma  1bis
 dell'art.  12  del  d.-l.  2  marzo  1989,  n.  66,  convertito,  con
 modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n.  144,  resta  ferma  la
 facolta'  di  impegnare  le  stesse  entro il secondo anno successivo
 all'assegnazione, a pena di decadenza".
    Si  dispone dunque una erogazione di somme ai comuni minori, nella
 forma di mutui ma con oneri di ammortamento  a  totale  carico  dello
 Stato,  finalizzate  alla  realizzazione  di  opere o all'acquisto di
 attrezzature nei settori degli  acquedotti,  delle  fognature,  degli
 impianti  di  depurazione  delle acque, dello smaltimento dei rifiuti
 solidi  urbani:  settori  tutti  rientranti  nella  competenza  della
 regione,  ai  sensi  dell'art.  117  della Costituzione nonche' degli
 artt. 87 e 109 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e  dell'art.  6  del
 d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915.
    L'erogazione  di spesa statale nei settori di competenza regionale
 costituisce, secondo la giurisprudenza di questa Corte, lesione delle
 attribuzioni regionali.
    La  ricorrente  non  ignora  che  questa  Corte, nella sentenza n.
 307/1983, ha affermato la legittimita' delle  disposizioni  contenute
 nell'art.  9  del  d.-l.  28  febbraio 1983, n. 55, che contemplavano
 l'erogazione di mutui della Cassa depositi e  prestiti  a  favore  di
 comuni e province.
    Ma  non  si  tratta  di un precedente che si attagli alla presente
 questione, per piu' ragioni.
    E infatti:
       a)  nel  caso  allora  deciso  i  mutui  erano per gran parte a
 destinazione non vincolata, cioe' utilizzabili per qualsiasi tipo  di
 investimenti  degli  enti locali (solo il 20% era riservato ai comuni
 minori genericamente per opere di  urbanizzazione  primaria,  ma  era
 ripartito  -  si  badi  -  fra  detti  comuni  in  modo oggettivo, in
 proporzione alla popolazione residente).
    L'art.  2, comma 1- bis, del d.-l. n. 415/1989 e' diretto invece a
 finanziare  proprio  e   solo   opere   di   acquedotti,   fognature,
 depurazione, smaltimento rifiuti, quindi opere pubbliche di interesse
 e di competenza regionale: proponendo quindi non come  una  norma  di
 generico  finanziamento  dei  comuni  e  dei  loro  investimenti,  ma
 piuttosto come una norma di  finanziamento  di  specifiche  opere  di
 competenza regionale;
       b) l'art. 2, comma 1- bis, del d.-l. n. 415/1989 pone per tutti
 i mutui previsti l'intero onere di ammortamento a carico dello Stato.
 In  sostanza  dunque  non  prevede  e  non disciplina l'erogazione di
 crediti ai comuni da parte della  Cassa  depositi  e  prestiti  (come
 avveniva  per  la maggior parte dei mutui contemplati dall'art. 9 del
 d.-l. n. 55/1983).
    Onde  non  potrebbe  qui  valere  la considerazione - svolta dalla
 Corte nella sentenza n. 307/1983 - secondo cui la  funzione  regolata
 e'  l'esercizio  del credito da parte di un organo statale - la Cassa
 depositi e prestiti - a favore degli enti locali; ne' quella  secondo
 cui,  se  si  fosse  annullata  la  disposizione  di  legge  (allora)
 contestata non sarebbe caduta  la  generale  competenza  della  Cassa
 depositi  e  prestiti,  bensi'  sarebbero  ridiventati applicabili ai
 mutui in questione "i generici criteri gia' fissati  dal  legislatore
 statale  circa  i  finanziamenti da attribuire in tal senso agli enti
 locali", senza che ne fosse rafforzata o allargata in alcun  modo  la
 competenza delle regioni.
    Nel  presente caso la legge, sotto la forma del mutuo della Cassa,
 dispone in sostanza un diretto finanziamento statale delle opere, che
 si   realizza   attraverso   l'integrale   accollo   degli  oneri  di
 ammortamento  dei  mutui,  integrando  una  fattispecie   del   tutto
 assimilabile  a  quelle  decise  da  questa  Corte con le setenze nn.
 517/1987 e  921/1988,  in  cui  ha  riconosciuto  l'illegabilita'  di
 finanziamenti statali di opere di competenza regionale;
       c) nel caso deciso con la sentenza n. 307/1983 la Corte rilevo'
 che la legge preveda che nell'individuazione le opere  da  finanziare
 la   Cassa   depositi   e   prestiti   si  riferisse  agli  indirizzi
 programmatici contenuti nei  programmi  regionali  di  sviluppo  (ove
 esistenti),  che  non  venivano  quindi  trascurati  dal  legislatore
 statale.
    Viceversa  la disposizione qui contestata non fa alcun riferimento
 alla programmazione regionale, ne' prevede in alcun modo che di  essa
 si tenga conto nel finanziare le opere in questione;
       d)  per  di piu' la disposizione denunciata prevede che i mutui
 possano essere concessi, su deliberazione dei comuni beneficiari -  e
 ancora  una  volta senza alcun riferimento ai programmi regionali - a
 consorzi di cui i comuni medesimi facciano  parte  o  che  realizzino
 opere a servizio permanente dei comuni medesimi.
    In questi casi dunque i finanziamenti statali concernono opere che
 per definizione saranno di  rilevanza  sovracomunale,  senza,  lo  si
 ripete, alcun riferimento alla programmazione regionale.
    La   violazione  della  competenza  regionale,  sotto  il  profilo
 programmatorio, amministrativo e finanziario, e' palese.
    3.  - L'art. 17 del d.-l. n. 415/1989, come modificato dalla legge
 di conversione, recita:
    "1)  Per  l'anno  1990  la  quota del 15 per cento dell'imposta di
 fabbricazione sugli oli minerali, loro derivati e prodotti  analoghi,
 indicata  alla  lett.  a)  del primo comma dell'art. 8 della legge 16
 maggio 1970, n. 281, e' ridotta al 13,18 per cento.
    2)  Il  fondo  comune  regionale, determinato ai sensi dell'art. 8
 della legge  16  maggio  1970,  n.  281,  e'  integrato  dell'importo
 occorrente  per  assicurare  una  consistenza del fondo stesso pari a
 lire 6.000 miliardi per l'anno 1990.
    3)  Il fondo comune, cosi' determinato, e' comprensivo delle somme
 di cui all'art. 1, secondo comma, della legge 1›  febbraio  1989,  n.
 40,  e  viene  ripartito  ed  erogato,  nell'importo  di  lire  5.000
 miliardi, con le modalita' e i criteri di  cui  al  terzo  comma  del
 medesimo  articolo.  Il residuo importo di lire 1.000 miliardi viene,
 invece, ripartito ed erogato con  i  criteri  che  all'uopo  verranno
 fissati  con  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei Ministri,
 sentita la conferenza permanente per i  rapporti  tra  lo  Stato,  le
 regioni  e  le  province autonome di Trento e di Bolzano, quale fondo
 perequativo che tenga anche conto  del  diversificato  gettito  delle
 maggiori entrate di cui all'art. 23, primo comma. Il Ministro per gli
 affari  regionali  ed  i  problemi   istituzionali   riferisce   alla
 commissione  parlamentare  per  le  questioni  regionali sui predetti
 criteri. Per l'anno 1990 rimangono acquisite al bilancio dello  Stato
 le  entrate  di cui all'art. 1, quarto comma, della predetta legge n.
 40/1989".
    E'  ben  noto  come  l'applicazione, realizzata con l'art. 8 della
 legge n. 281/1970, dell'art. 119 della Costituzione  nella  parte  in
 cui  prevede  l'attribuzione  alle regioni, fra l'altro, di "quote di
 tributi erariali in relazione ai bisogni delle regioni per  le  spese
 necessarie ad adempiere le loro funzioni normali", sia apparsa per lo
 piu' ai commentatori una applicazione  forzata,  se  non  lesiva  del
 disposto   costituzionale:  cio'  in  quanto  le  "quote  di  tributi
 erariali" cui allude l'art. 119 sembrano  essere  quote  del  gettito
 riscosso  nell'ambito  delle  regioni  cui  tali quote sono devolute,
 mentre l'art. 8 della legge n. 281/1970 ha formato un fondo nazionale
 unico,  alimentato da quote del gettito complessivo di alcuni tributi
 riscossi nell'insieme delle regioni ordinarie, e ne  ha  previsto  il
 riparto  con  criteri  che  non  hanno alcun riguardo all'entita' del
 gettito dei tributi medesimi nell'ambito di ciascuna regione, e  sono
 ancorati   a   parametri   oggettivi  di  popolazione,  superficie  e
 condizioni economico-sociali.
    E  tuttavia  le regioni ordinarie non hanno finora contestato tale
 disciplina voluta dal legislatore nazionale  per  scopi  perequativi,
 nella  considerazione  che  comunque  il  sistema  del  fondo  comune
 assicurava loro  un'entrata  meramente  globalmente  al  gettito  dei
 tributi  erariali  prescelti,  e  ripartita  fra le regioni in base a
 criteri legislativamente predeterminati: cosi'  che,  pur  risultando
 sacrificato  il  riferimento  delle  entrate di ciascuna regione alla
 "capacita' fiscale" della regione  medesima,  quanto  meno  risultava
 assicurato  un  trasferimento  ancorato alle entrate tributarie dello
 Stato e fondato su criteri di certezza, sulla  cui  base  le  regioni
 potevano  operare  le  proprie  scelte in termini di programmazione e
 destinazione  delle  risorse  per  l'esercizio  delle  loro  funzioni
 normali.
    Questo  sistema e' stato peraltro gravemente vulnerato da quando -
 scaduto il quinquennio di efficacia della  legge  n.  356/1976  -  il
 legislatore  statale  e'  passato a determinare l'entita' complessiva
 del fondo comune anno per anno, attraverso  decisioni  di  incremento
 spesso  fondate  su  tassi  di  inflazione  programmati, e ricorrendo
 (nell'intento  di  prestare  formale  ossequio  all'art.  119   della
 Costituzione)  al  fragile espediente di rideterminare annualmente la
 percentuale del gettito dei tributi erariali prescelti in  modo  tale
 che  la  quota  affluente  al fondo comune corrispondesse esattamente
 all'entita' cui si voleva  che  ammontasse  in  ogni  anno  il  fondo
 medesimo.
    Il  tal  modo  il  gia'  tenue  legale  del  fondo  comune  con la
 attribuzione di  "quote  di  triobuti  erariali",  costituzionalmente
 prevista, di fatto veniva meno.
    Tuttavia  restava ancora - ultima barriera a difesa delle esigenze
 minime di garanzia della finanza regionale - la circostanza che,  una
 volta  determinato annualmente il fondo con decisione del legislatore
 nazionale, per lo piu' ancorata ai tassi programmati  (non  a  quelli
 reali)  di  inflazione,  esso  veniva  ripartito  fra  le regioni con
 criteri oggettivi predeterminati,  coincidenti  ormai  non  piu'  con
 quelli fissati dall'art. 8 della legge n. 281/1970, bensi' con quelli
 "storici", consolidati in base alla prima applicazione  del  medesimo
 art. 8.
    In  altri  termini, ciascuna regione sapeva, quanto meno, che ogni
 anno avrebbe ricevuto una percentuale predeterminata e nota del fondo
 comune come annualmente stabilito.
    Ora l'art. 17 del d.-l. n. 415/1989 fa crollare anche quest'ultima
 barriera.
    L'ammontare  complessivo  del  fondo  comune  non  e' piu' nemmeno
 formalmenteancorato al gettito di tributi erariali: si  fissa  bensi'
 una quota (il 13,18%) del gettito dell'imposta di fabbricazione sugli
 oli minerali, che affluisce al fondo (primo comma), ma subito dopo si
 fissa  in  modo  del  tutto  autonomo  l'ammontare  del fondo, in una
 entita' superiore a quella della predetta quota di gettito, e che  e'
 direttamente determinato dalla legge (6.000 miliardi).
    Fin  qui  parrebbe  trattarsi solo dell'abbandono della "finzione"
 attuata  negli  anni  precedenti.  Ma  si  va  molto  oltre.  Infatti
 l'ammontare  complessivo  del  fondo  non  e'  piu'  ripartito fra le
 regioni in base a criteri oggettivi predeterminati: solo una parte di
 esso (5.000 miliardi) e' ripartita con i criteri storici, adottati da
 ultimo dall'art. 1, terzo comma, della legge n. 40/1989.
    L'altra parte (1.000 miliardi pari al 16,66%) viene ripartito "con
 i criteri che all'uopo verranno fissati con  decreto  del  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri, sentita la conferenza permanente per i
 rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento  e
 Bolzano,   quale   fondo   perequativo  che  tenga  anche  conto  del
 diversificato gettito delle maggiori  entrate  di  cui  all'art.  23,
 primo comma, vale a dire dell'aumentata tassa automobilistica.
    Viene dunque meno qualunque certezza e qualsiasi predeterminazione
 legislativa in ordine all'ammontare delle somme spettanti a  ciascuna
 regione a titolo di riparto del fondo comune.
    Questa,  che  e'  l'entrata  da  trasferimento  non vincolata piu'
 significativa per le regioni, e rappresenta una fondamentale fonte di
 finanziamento   della  spesa  ordinaria  regionale  per  le  funzioni
 normali, diviene un'entrata  di  ammontare  aleatorio,  rimesso  alle
 discrezionali  determinazioni  di  un  organo  di  governo,  col solo
 pallido correttivo di un parere  (destinato  ad  incidere  ben  poco)
 della conferenza permanente.
    Ma  tale  sistema di riparto, se puo', al limite, comprendersi per
 entrate vincolate nella destinazione e volte a  finanziare  spese  su
 cui  concorra  in  concreto  un  qualche  interesse nazionale, non ha
 invece alcuna giustificazione nei riguardi del fondo comune. Esso  si
 traduce  nella  sottrazione  alle  regioni di ogni certezza in ordine
 alle  risorse  disponibili,   con   conseguente   impossibilita'   di
 programmare  autonomamente  e  tempestivamente  la destinazione delle
 risorse stesse fra gli scopi istituzionali della regione medesima.
    Si  traduce  percio'  in  una  palese  e  gravissima lesione della
 autonomia finanziaria  regionale  pur  se  intesa  nella  restrittiva
 accezione  fatta  propria  dal  legislatore  a partire dalla legge n.
 281/1970.
    Ma  c'e'  di piu'. L'aver ancorato - sia pure in modo generico - i
 futuri  cirteri  di  riparto  di  tale  quota  del  fondo  anche  "al
 diversificato  gettito delle maggiori entrate" derivanti dall'aumento
 della tassa automobilistica, lungi dal costituire una garanzia per le
 regioni, si traduce in un ulteriore, inammissibile lesione della loro
 autonomia finanziaria,  sotto  il  profilo  della  portata  che  deve
 attribuirsi  ai  tributi  propri  delle  regioni,  costituzionalmente
 previsti come prma fonte di alimentazione della spesa  regionale  per
 le funzioni normali.
    La  tassa  automobilistica  e'  infatti l'unico dei tributi propri
 regionali  ad  avere  un   gettito   di   importo   non   del   tutto
 insignificante,  e  un  gettito alquanto diversificato fra le diverse
 regioni, in  relazione  alla  differente  quantita'  e  qualita'  dei
 veicoli posseduti dalla popolazione.
     In  relazione  a  tale diversa quantita' e qualita' di veicoli le
 regioni sopportano anche oneri diversificati: ad esempio  per  quanto
 attiene  alle  spese  per  viabilita',  traffico urbano, inquinamento
 atmosferico, ecc.
    L'aumento  della  tassa  automobilistica  regionale  disposto  con
 l'art. 23, primo comma, del d.-l. n. 415/1984, e' gia'  stato  tenuto
 in  conto  dal  legislatore  statale  allorquando esso ha ridotto con
 l'art. 17, l'importo del fondo comune.
    Ora se, come fa tale ultima disposizione, si correla al riparto di
 una quota del fondo comune  all'entita'  del  maggior  gettito  della
 tassa   automobilistica,  si  viene  in  sostanza  a  duplicare,  nei
 confronti delle regioni - come la ricorrente  -  in  cui  il  gettito
 della  tassa  automobilistica  e'  piu'  elevato,  sia  l'effetto  di
 compensazione fra tributi propri accresciuti e fondo comune  ridotto,
 sia l'effetto perequativo delfondo comune.
    Esso e' gia' ripartito, come si e' ricordato, con criteri in parte
 perequativi (per i tre decimi di cui all'art. 8, quinto comma,  lett.
 c),  della  legge  n.  281/1970).  Per di piu' una quota verrebbe ora
 ripartita  con  un  criterio  ulteriormente  perequativo,  con   cio'
 annullando  o  attenuendo  di molto l'effetto della attribuzione alle
 regioni dell'unico tributo  proprio  significativo,  cioe'  la  tassa
 automobilistica.
    Insomma   lo   Stato,   nel   ridurre   il   fondo  comune  e  nel
 ridisciplinarne il riparto, tende a togliere con una  mano  cio'  che
 con  l'altra  ha dato alle regioni quando ha attribuito loro la tassa
 automobilistica, e ha incrementato  l'ammontare  di  questa;  ma  nei
 confronti  di  regioni  come  la ricorrente, toglie qualcosa in piu',
 attraverso l'accennata duplicazione dei criteri perequativi.
    La  violazione,  ancora una volta, dell'autonomia regionale appare
 palese.
    4.  -  L'art.  25,  quinto  comma,  del  d.-l. n. 415/1989 recisa:
 "Presso il Ministero della sanita' e'  istituito  l'osservatorio  sui
 prezzi  e  sulle  tecnologie sanitarie come articolazione del sistema
 informativo sanitario per l'effettuazione  di  rilevazioni,  studi  e
 controlli   nel   settore  dell'acquisto  dei  beni  e  servizi,  con
 particolare riguardo ai beni di largo consumo, ai farmaci e  presi'di
 in  uso  ospedaliero  alle  apparecchiature  e agli strumenti di alta
 tecnologia. I dati relativi alle rilevazioni sono pubblicati con  tre
 mesi    a    cura    del   Ministero   della   sanita'.   Nell'ambito
 dell'osservatorio e' istituito l'albo  dei  fornitori.  Con  atto  di
 indirizzo  e  coordinamento,  da  emanare entro sessanta giorni dalla
 data di entrata in vigore del presente decreto, sentito il  Consiglio
 sanitario  nazionale, sono stabiliti criteri in materia di acquisti e
 approvigionamento di beni e servizi,  da  ispirare  ai  princi'pi  di
 garanzia  delle  normative  vigenti presso il provveditorato generale
 dello Stato per le forniture alle amministrazioni pubbliche  statali.
    Questa  Corte,  con  la sentenza n. 245/1984, ha dichiarato com'e'
 noto la illegittimita'  costituzionale  dell'art.  31,  primo  comma,
 della  legge  27  dicembre  1983,  n. 730, che attribuiva al Ministro
 della sanita' il potere  di  provvedere  con  proprio  decreto  "alla
 definizione  di  capitolati  generali per forniture di beni e servizi
 alle unita' sanitarie locali, nonche'  di  capitolati  speciali".  La
 Corte  sanci'  invece  che  non e' illegittimo il secondo comma dello
 stesso  art.  31  che  prevede  l'istituzione  "presso  le   regioni"
 dell'albo  regionale dei fornitori del Servizio sanitario nazionale",
 attribuendo al Ministro solo poteri di individuzione delle  tipologie
 e delle classi di appartenenza nonche' dei requisiti per l'iscrizione
 nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria.
    Chiari'  la  Corte in quell'occasione che i contratti di fornitura
 delle uu.ss.ll. rientrano indiscutibilmente nella competenza  propria
 della  regione, in quanto aspetto della contabilita' delle uu.ss.ll.,
 di competenza regionale ai sensi dell'art. 50,  primo  comma,  n.  8,
 della  legge  n.  833/1978;  e che in questo campo non si ravvisa "la
 presenza  di  interessi  che,  per  natura  e  dimensione   attengano
 all'intera collettivita' nazionale e restino necessariamente affidati
 all'apprezzamento  degli  organi  centrali  di  Governo:   cosi'   da
 giustificare...  il  ritrasferimento  delle  funzioni  in esame dalle
 regioni allo Stato".
    Quanto   all'istituzione  dell'albo  dei  fornitori,  la  relativa
 disciplina venne  giudicata  conforme  alla  Costituzione  in  quanto
 "rimane  implicitamente fermo che l'istituzione stessa, comne pure la
 tenuta degli albi  in  questione,  compete  alle  regioni  e  non  al
 Ministro  della sanita'", al quale poteva riconoscersi solo il potere
 di stabilire i requisiti minimi  atti  a  garantire  la  fondamentale
 uniformita'  delle prestazioni sanitarie (punto 12 del considerato in
 diritto).
    Ora,  la  disposizione  qui impugnata contrasta frontalmente con i
 criteri affermati nella citata sentenza n. 245/1984.
    Essa   stabilisce   che   "e'  istituito"  l'albo  dei  fornitori,
 nell'ambito  dell'"osservatorio  sui  pressi   e   sulle   tecnologie
 sanitarie"  a  sua volta istituito presso il Ministero della sanita'.
 Quindi l'altro non e' piu' istitutito dalla regione, ma e'  unico  ed
 e'  istituito  dallo  Stato presso il Ministero; la sua tenuta non e'
 piu' demandata alle regioni, ma al Ministero: proprio  il  contrario,
 cioe',  di  quanto  la  Corte,  nella citata sentenza, statui' essere
 necessario per rispettare le competenze regionali.
    Ma c'e' di piu'. Si prevede un "atto di indirizzo e coordinamento"
 - peraltro  senza  determinare  alcun  criterio  di  esercizio  della
 potesta',  in  violazione  del principio di legalita' e di riserva di
 legge tante volte ribadita  da  questa  Corte  -  il  quale  dovrebbe
 stabilire  "criteri  in  materia  di acquisti e approvvigionamenti di
 beni e servizi, da ispirare ai princi'pi di garanzia delle  normative
 vigenti   presso  il  provveditorato  generale  dello  Stato  per  le
 forniture alle amministrazioni pubbliche statali".
    Con  tale  involuta  espressione  si  vorrebbe dunque imporre alle
 uu.ss.ll. l'osservanza delle  norme  che  valgono  per  le  forniture
 curate  dal provveditore generale dello Stato, per di piu attribuendo
 larga discrezionalita'  al  Governo  nel  dettare  la  disciplian  di
 dettaglio delle forniture della u.s.l.
    In  sostanza  il Governo tornerebbe a definire i capitolati per le
 forniture delle uu.ss.ll.  (perche'  nella  sostanza  non  sono  cosa
 diversa  i  "criteri  in  materia di acquisti e approvvigionamenti di
 beni e servizi", cioe' ad esercitare quel potere che la Corte,  nella
 citata  sentanza  n. 245/1984, chiari' non poter essere attribuito al
 Ministro della sanita', in quanto questi verrebbe  a  riassumere  "un
 complesso  di  compiti  gia'  trasferiti  alle  regioni stesse, cosi'
 integralmente da esaurire le attribuzioni delle quali si tratta".
    Anche   tale  disposizione  appare  dunque  illegittima  e  lesiva
 dell'autonomia regionale.
                                P. Q. M.
    La  regione  ricorrente  chiede  che l'ecc.ma Corte costituzionale
 voglia dichiarare costituzionalmente illegittimi gli
 artt.  2,  comma  1-  bis,  17 e 25, quinto comma, seconda parte, del
 d.-l.  28  dicembre  1989,  n.   415,   convertito   in   legge   con
 modificazioni,  dalla  legge  28 febbraio 1990, n. 38, in riferimento
 agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, e anche in  riferimento
 agli  artt.  87  e 101 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, dell'art. 6
 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, degli artt. 4 e 8  della  legge
 16  maggio  1970,  n.  281, dell'art. 50, primo comma, della legge 23
 dicembre 1978, n. 833.
      Roma, addi' 29 marzo 1990
            Avv. prof. Valerio ONIDA - Avv. Gualtiero RUECA

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