N. 194 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 gennaio 1990
N. 194 Ordinanza emessa il 29 gennaio 1990 dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura di Verbania nel procedimento penale a carico di Perazzi Gianni Processo penale - Nuovo codice - Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Impossibilita' per il giudice di mutare il rito in caso di pena ritenuta illegale o non congrua - Violazione del principio di soggezione del giudice alla sola legge - Limitazione dell'indipendenza di giudizio in ordine alla congruita' della pena - Lesione del principio di presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva - Elusione del controllo giurisdizionale sui provvedimenti limitativi della liberta' personale - Vulnerazione del principio di obbligatorieta' e irretrattabilita' dell'azione penale. Processo penale - Nuovo codice - Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Prevista riduzione di pena - Omessa previsione di analoghi benefici per il prevenuto che affronti il giudizio - Limitazione del diritto di difesa e, in specie, del diritto a un processo con cognizione piena Conseguente deteriore trattamento per i cittadini economicamente e socialmente piu' deboli. Processo penale - Nuovo codice - Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Prevista disponibilita' per l'imputato di determinare il giudice che irroghi la pena richiesta (g.i.p. o giudice del dibattimento), in contrasto con principio del "giudice naturale precostituito per legge". (C.P.P. 1988, artt. 563, primo e terzo comma, 447, primo comma, 448, primo comma, 562, in relazione al codice penale, artt. 132 e 133; c.p.p. 1988, artt. 563, primo e terzo comma, 444, primo e secondo comma, 445, 447, primo comma, 448, primo e secondo comma, 555, primo comma, lett. e), 563, secondo e quarto comma). (Cost., artt. 3, primo comma, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 25, primo comma, 27, secondo comma, 101, secondo comma, 111, primo e secondo comma, 112).(GU n.18 del 2-5-1990 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Rilevato che l'imputato ed il pubblico ministero hanno chiesto al giudice l'applicazione della pena di lire cinquecentomila di multa, in sostituzione di giorni venti di reclusione, ai sensi degli artt. 563, 444 e segg. del c.p.p., per il reato di cui all'art. 612, cpv., del c.p.; che nella specie non sussistono i presupposti per una pronuncia di proscioglimento ex art. 129 del c.p.p., in quanto, sulla base degli atti non puo' concludersi che il fatto non sussiste, che l'imputato non l'ha commesso, che il fatto non costituisce reato, che il reato e' estinto o che manca una condizione di procedibilita'; che appare corretta la qualificazione giuridica del fatto; riconosciute le attenuanti generiche, che possono concedersi in considerazione di non gravi precedenti penali del pervenuto; ritenuto che e' corretta l'applicazione delle circostanze prospettate, nonche' la loro comparazione; che dovrebbe, conseguentemente e necessariamente, essere emessa sentenza che disponga l'applicazione della pena indicata dalle parti, su loro richiesta, in virtu' del disposto degli artt. 563, primo comma, 444, secondo comma, 563, terzo comma, 447, primo comma, 448, primo comma, e 562 del c.p.p.; che le norme applicabili non consentono al giudice alcun sindacato circa la legalita' della pena, della quale neanche e' possibile valutare la congruita' secondo i criteri dalla legge dettati agli artt. 132 e 133 del cod. pen.; che in ogni caso determina perplessita' la circostanza che l'imputato o indagato possa negoziare la propria liberta personale; che, inoltre, l'enorme valenza dell'oggetto del "patteggiamento" potrebbe compromettere il libero esercizio del diritto di difesa, a causa degli incentivi previsti per tale rito e, in particolare, della riduzione di pena, stabiliti dagli artt. 563, primo comma, 444, primo comma, e 445 del c.p.p.; O S S E R V A A) - Non appare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 563, primo e terzo comma, 447, primo comma, 448, primo comma, e 562 del c.p.p., nella parte in cui non e' prevista la possibilita' di trasformazione del rito, ex art. 562 del c.p.p., anche nei casi in cui il giudice ritenga di non poter accogliere la richiesta delle parti, perche' la pena e' illegale, ovvero non congrua, avuto riguardo ai criteri dettati dagli artt. 132 e 133 del c.p., per possibile contrasto del disposto in questione con gli artt. 101, secondo comma, 13, primo e secondo comma, 27, secondo comma e 111, primo e secondo comma, nonche' 112 della Carta costituzionale. 1) L'art. 101, secondo comma, della Costituzione dispone che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. La salvaguardia costituzionale dell'autonomia del giudice non puo' non estendersi a quel tipico momento giurisdizionale che e' la determinazione della pena. L'individuazione di questa ad opera delle parti (non si tratta, va notato, di pena fissa ex lege, per scelta preventiva del legislatore) inibisce l'esercizio della giurisdizione nell'ambito dei soli limiti posti dalla legge. la sentenza deve considerarsi, infatti, quanto alla determinazione della pena, un atto dovuto (come si e' gia' rilevato in dottrina), imposto dalla comune volonta' delle parti. Si realizza, cosi', una grave compromossione del diritto del giudice al libero esercizio della giurisdizione, che non puo' non limitarne l'indipendenza di giudizio, sopprimendola anzi del tutto, con l'obbligarlo ad un'attivita' dal contenuto vincolato. Ne' puo' superarsi l'eccezione proponendo, come pure si e' tentato in dottrina, una diversa lettura delle norme del codice, dalla quale dovrebbe evincersi la possibilita' per il giudice di non decidere sulla base degli atti anche per ragioni di "opportunita'", ivi comprese quelle attinenti alla congruita' della pena. L'interpretazione proposta, infatti, oltre a contrastare con la lettera della legge, appare non in sintonia con la relazione ministeriale, che testualmente cosi' si esprime: "Al giudice non e' riconosciuto alcun sindacato sulla congruita' della richiesta (relativa alla pena - n.d.e. -)". D'altro canto, che il sindacato del giudice non possa esercitarsi con riferimento alla legalita' e congruita' della pena si desume anche argomentando "a contrario" dal potere, che invece al giudice e' conferito, di rigettare la richiesta dell'imputato, ove questa sia subordinata alla sospensione condizionale della pena e quegli ritenga che il beneficio non possa essere concesso. 2) Il contenuto della decisione (equiparata a sentenza di condanna, com'e' precisato nell'art. 445, primo comma, del c.p.p.) non e' vincolato solo nella statuizione relativa alla pena. Il limite costituito dal solo obbligo di proscioglimento nei casi previsti dall'art. 129 del c.p.p. fa si' che si debba pervenire alla sentenza senza un esame approfondito circa la sussistenza degli estremi della responsabilita' penale. Non a caso si scrive nella relazione ministeriale che "non occorre un positivo accertamento della responsabilita' penale". La pronuncia, resa sulla base degli atti, non presuppone percio' una cognizione piena, con la conseguente violazione anche del principio costituzionale, consacrato dall'art. 27, secondo comma, della Carta, della presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva. Ma detta presunzione non puo' considerarsi legittimamente superata per effetto di una sentenza avente significato di condanna in senso solo formale ("equiparata" ad una decisione di condanna); in assenza, cioe', di un esaustivo accertamento di responsabilita' penale, per effetto di una cognizione piena da parte del giudice. La norma costituzionale dell'art. 27, terzo comma, infatti, assegna alla pena una necessaria funzione rieducativa che non consente di svincolare la condanna dal presupposto indefettibile del previo accertamento di responsabilita', causa della sanzione. 3) Allorquando le pene concordate dalle parti siano detentive, poi, il c.d. "patteggiamento" sottrae alla giurisdizione (intesa come motivata affermazione della volonta' della legge, e solo di questa, ad opera di un giudice terzo), anche determinazioni attinenti, pur mediatamente, alla liberta' personale dell'individuo, bene invece inviolabile e, percio', indisponibile. L'interpretazione dalla dottrina data del secondo comma dell'art. 13 della Costituzione induce, per contro, all'affermazione che la tutela costituzionale della liberta' personale dell'imputato in rapporto ad eventuali restrizioni si fonda su alcuni capisaldi, tra i quali certamente anche una "riserva di giurisdizione" (con la sola eccezione posta dal terzo comma dello stesso articolo) ed un obbligo di motivazione a sostegno dei provvedimenti limitativi della liberta' personale. Ne' la dottrina ha mancato di precisare che la liberta' personale tutelata e' la liberta' dagli arresti (habeas corpus) come "stato di liberta' fisica implicante l'assenza di coercizioni sul corpo, di cui dirimpettai sono i poteri d'arresto. . ., nonche' quelli di cattura e di condanna (a pena detentiva) del giudice penale". La garanzia costituzionale che la riguarda e' per conseguenza "la determinazione dei presupposti e dei modi di esercizio di tali poteri". La riserva di giurisdizione, che in passato poteva ritenersi estesa a favore anche dei magistrati del pubblico ministero, potrebbe oggi, nel nuovo sistema processuale penale, essere intesa in senso molto piu' angusto. Il pubblico ministero non puo' piu', infatti, adottare provvedimenti restrittivi della liberta' personale senza il controllo del giudice. Il legislatore ha ridisegnato la figura del p.m., degiurisdizionalizzandola quasi del tutto. Certamente non e' manifestazione di funzioni giurisdizionali il consenso all'applicazione della pena (anche detentiva) a richiesta, manifestato dal p.m. (al dibattimento nel rito pretorile addirittura anche espresso da un ufficiale di polizia giudiziaria, cui certo va negata ogni partecipazione a funzioni giurisdizionali, tanto che neanche ne e' garantita l'indipendenza). Non risulta percio' piu' rispettato il principio costituzionale. Se pure va rilevato come la riserva del Costituente operava, letteralmente, in favore dell'"autorita' giudiziaria", non gia' del giudice, non puo' ignorarsi la diversa valenza che connotava la riserva posta dalla Costituzione in un sistema in cui anche il pubblico ministero partecipava, sia pure in parte, di funzioni giurisdizionali. Una evolutiva, diversa e piu' restrittiva lettura della norma della Carta fondamentale s'impone, ormai, per le mutate connotazioni della figura del p.m. nel nuovo codice di procedura penale. Puo', pertanto, dubitarsi che la riserva di giurisdizione, intesa in senso stretto, come necessita' del controllo del giudice in ordine ai provvedimenti limitativi della liberta', non sia, dalle norme sospettate d'incostituzionalita', garantita. Certamente violato appare, poi, il principio dell'obbligo di motivazione, giacche' questa, pur prevista dall'art. 546 del c.p.p. tra i requisiti della sentenza, non potra' mai, nella fattispecie che ne occupa, avere ad oggetto la congruita' e legalita' della pena, essendo il giudice tenuto semplicemente a motivare l'insussistenza delle condizioni ostative al recepimento del contenuto del patto stipulato tra le parti. Totalmente privo di significato resta anche, per tale profilo, il disposto dell'art. 606, secondo comma, del c.p.p., nonche' quello costituzionale dell'art. 111, primo e secondo comma. E', per contro, evidente che la quantificazione della pena detentiva costituisce il momento piu' pregnante dell'"iter" che si conclude con la limitazione della liberta' personale. Non appare conforme alla Costituzione sottrarre proprio tale momento all'obbligo di una motivazione reale, che non sia il semplice riferimento all'accordo delle parti. 4) Non e' rispettato daVlle norme gia' menzionate, inoltre, il disposto del primo comma dell'art. 13 della Costituzione. La liberta' personale e' inviolabile. Deve certamente convenirsi con la dottrina che uno dei profili dell'inviolabilita' e' costituito dall'indisponibilita' della propria liberta' personale. Nessuno, infatti, dubiterebbe dell'illiceita' di una convenzione che avesse ad oggetto tale bene, al di fuori di forme limitative comunque verificabili in ambito giurisdizionale. Nel sistema penale potrebbe in astratto ammettersi la possibilita' per l'individuo di accettare restrizioni alla propria liberta', ma in assenza di un controllo giurisdizionale: A) sulla sussistenza dei presupposti per la limitazione (da effettuarsi con cognizione piena, non allo stato degli atti); B) sulla legalita' e congruita' della pena concordata. Oltre tali limiti (nel sistema vigente, pertanto) la libera ed incontrollabile disposizione della propria liberta' personale appare in contrasto con il principio costituzionale. 5) Le norme ordinarie sospettate d'incostituzionalita', poi, nell'escludere il momento giurisdizionale relativo alla determinazione della pena, fanno si' che il promovimento dell'azione penale risulti, in parte qua, del tutto svuotato di contenuto reale. E' violato, allora, anche il principio dell'obbligatorieta' (ed irretrattabilita') dell'azione penale, di cui all'art. 112 Costituzione. L'iniziativa penale del p.m., infatti, si arresta, non consentendo l'ingresso del momento di controllo giurisdizionale della pena, allorche' questa sia concordata tra le parti. Vieppiu' il contrasto con la Costituzione e' evidente, ove si pensi che il giudice non puo' neanche conoscere del reato con cognizione piena. Tradizionale definizione dell'azione penale e', invece, quella di richiesta di una decisione su di una notitia criminis. B) - 6) Non appare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 563, primo e terzo comma, 444, primo e secondo comma, 445, 447, primo comma e 448, primo e secondo comma, del c.p.p., nella parte in cui prevede, per l'applicazione della pena su richiesta, effetti piu' favorevoli al prevenuto (v. art. 445 del c.p.p.) e, segnatamente, una sensibile riduzione di pena (v. art. 444, primo comma, del c.p.p.), con consentiti nell'ipotesi in cui l'imputato o indagato opti per la celebrazione del giudizio, limitando sensibilmente il diritto di difesa, tutelato dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione. L'inviolabilita' del diritto a difendersi e' connotata anche dal requisito della indisponibilita'. La difesa deve essere, comunque, garantita in maniera integrale, oltre la volonta' dello stesso prevenuto, sostanziandosi in primo luogo nel diritto irrinunciabile ad un processo con cognizione piena, non gia' sommaria. Non puo', tale diritto, risultare compromesso da un sistema incentivante la rinuncia al giudizio con cognizione piena, con la previsione di effetti particolarmente favorevoli non solo sul piano processuale, ma certamente anche del diritto penale sostanziale, come per la riduzione di pena. La prospettiva di ricavarne benefici puo' certamente e concretamente indurre all'accettazione del giudizio sommario allo stato degli atti, con rinuncia ad eventuali possibilita' assolutorie. La difesa piena si configura, piuttosto, nel sistema vigente, come bene che ha un costo: il rischio di condanna senza i benefici previsti per il "patteggiamento". Ne' vale considerare che e' piuttosto vero l'inverso: che, cioe', sono previsti benefici particolari per chi volontariamente accetti la decisione allo stato degli atti, piuttosto che un giudizio con cognizione piena. Nella sostanza, infatti, l'alternativa per l'imputato o indagato resta pur sempre la stessa e la difesa ne risulta condizionata da elementi estranei alla logica della semplice scelta del rito, perche' coinvolgenti profili di rilievo anche penale sostanziale. 7) La minore entita' dei costi nell'ipotesi di "patteggiamento" (non solo per la mancanza di condanna alle spese, ex art. 445, primo comma, del c.p.p., ma anche per la meno rilevante onerosita' della difesa tecnica rispetto al rito ordinario) induce, poi, a ravvisare nel combinato disposto in esame un ulteriore profilo di possibile incostituzionalita' per contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo comma, della Carta. E', infatti, evidente come la prospettiva di maggiori costi possa, nell'esiguita' dei limiti per l'ammissione al gratuito patrocinio, scoraggiare i cittadini economicamente e socialmente piu' deboli dalla pretesa di esercitare in maniera piena il diritto di difesa, costringendoli a rinunciare al piu' costoso rito ordinario, che pure assicurerebbe una cognizione piena da parte del giudice, per accettare il piu' economico rito dell'applicazione della pena su richiesta, destinato a sfociare in una decisione da assumere solo allo stato degli atti. C) - 8) Non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 555, primo comma, lett. E), e 563, secondo e quarto comma del c.p.p., nella parte in cui consente all'imputato di decidere se l'applicazione della pena a richiesta debba essere effettuata dal giudice per le indagini preliminari, ovvero dal giudice del dibattimento, per contrasto con l'art. 25, primo comma, della Costituzione. Nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, citato). Tale precetto costituzionale e' stato opportunamente inteso nel senso che non v'e' solo un divieto di sottrazione al giudice naturale, "ma anche un obbligo di legale determinazione (almeno altrettanto importante)". Detto obbligo "e' formulato attraverso il participio 'precostituito'. . .". Non sembra che nella specie il precetto costituzionale risulti rispettato dal legislatore ordinario, posto che la diversa competenza non e' stabilita in relazione a diversi momenti processuali, bensi' con riferimento esclusivo alla scelta dell'imputato rispetto a due vicende processuali diverse e, percio', a due distinti giudici. Tutte le enunciate questioni di legittimita' costituzionale sono, nella specie, rilevanti, in quanto le norme del codice menzionate ai punti A), B) e C) vengono necessariamente in considerazione per la pronuncia di questo giudice, perche' tutte applicabili alla fattispecie. D'ufficio gli atti vanno rimessi alla Corte costituzionale perche' si pronunci in ordine alle questioni prospettate. Il giudizio va sospeso, ex art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
P. Q. M. Ordina trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso; Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti, ivi compreso il pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e di comunicarli ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Verbania, addi' 29 gennaio 1990 Il giudice per le indagini preliminari: VOLPE 90C0477