N. 410 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 maggio 1990

                                 N. 410
 Ordinanza emessa il 18 maggio 1990 dal tribunale militare di Roma nel
 procedimento penale a carico di Matteace Giacomo
 Reati  militari - Peculato per distrazione - Pena edittale - Misura -
 Introduzione, con la legge 26 aprile 1990, n. 86, della  riforma  dei
 delitti  dei  pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione -
 Previsione della nuova figura di peculato d'uso sanzionata in  misura
 minore  rispetto  al  peculato comune - Mancata previsione di analoga
 norma nel codice penale militare Irragionevolezza.
 (C.P.M.P., art. 215).
 (Cost., art. 3).
(GU n.26 del 27-6-1990 )
                         IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nella causa contro Matteace
 Giacomo, nato a Roma il 25 novembre 1949 (atto di nascita n. 1557/01/
 A)  residente  a  Pomezia  in via Virgilio n. 23 B/6. capitano presso
 l'8º  O.R.E.  in  Roma,  libero,  imputato  peculato  continuato   ed
 aggravato  (artt. 81 del c.p., 47, n. 2, e 215 del c.p.m.p.) perche',
 avendo per ragione del suo ufficio di aiutante maggiore  presso  l'8º
 battaglione trasporti (Casilina) in Roma il possesso dell'autoveicolo
 Fiat 900 tg EI 321 BD e dell'autoveicolo Fiat 900 tg EI  635  BD,  in
 esecuzione  di un medesimo disegno criminoso li distraeva, a profitto
 proprio, utilizzando il primo nei giorni 11, 12,  13  e  15  febbraio
 1989  e  il secondo nel giorno 14 febbraio 1989 per recarsi in orario
 di servizio e per fini privati nella propria abitazione  in  Pomezia.
 Con l'aggravio del grado rivestito.
                            FATTO E DIRITTO
    Prima del compimento delle formalita' di apertura del dibattimento
 l'imputato - con il consenso del p.m.  -  ha  richiesto  il  giudizio
 abbreviato,  a  norma  degli  artt.  442  del  c.p.p.  e  247 decreto
 legislativo 28 luglio 1989, n.  271.  Accolta  la  richiesta,  si  e'
 disposta  la celebrazione dell'udienza in camera di consiglio, ove il
 difensore del Matteace ha eccepito la  illegittimita'  costituzionale
 dell'articolo  215  del  c.p.m.p.,  in  relazione  all'art.  3  della
 Costituzione.
    La  sollevata  questione di costituzionalita' - oltre a non essere
 manifestamente infondata per le ragioni di seguito illustrate - e' in
 concreto, rilevante, poiche' il processo appare definibile allo stato
 degli  atti,  in  base  agli  elementi  raccolti  nel   corso   della
 istruttoria sommaria.
    Sono,   invero  risultati  compiutamente  provati  sia  l'elemento
 oggettivo che il corrispondente  elemento  soggettivo  del  reato  di
 peculato militare descritto in rubrica, nella forma della distrazione
 - a profitto proprio - dei mezzi militari sopra indicati,  dei  quali
 l'ufficiale aveva la disponibilita' giuridica e di fatto.
    E'   stato   infatti   accertato,  anche  alla  luce  della  piena
 confessione resa  dall'interessato,  che  questi,  nelle  circostanze
 specificate  nel capo di imputazione, impiego' per finalita' private,
 del tutto estranee al  servizio,  i  suddetti  veicoli,  (ogni  volta
 immediatamente    restituiti   dopo   l'uso),   cosi'   sottraendoli,
 temporaneamente,  alla  loro   naturale   e   legalmente   prefissata
 destinazione, ed utilizzandoli ad un fine assolutamente incompatibile
 rispetto a quello per il quale gli erano stati posti concretamente  a
 disposizione.
    Dovrebbe, pertanto, nei confronti del Matteace essere applicata la
 pena che il vigente art. 215 del c.p.m.p. stabilisce per il  peculato
 militare,  senza distinguere l'ipotesi di "appropriazione", da quella
 di "distrazione", e cioe' la reclusione da un minimo di due  anni  ad
 un massimo di dieci anni.
    Questo  tribunale  militare,  nel  recepire  l'eccezione sollevata
 dalla difesa, e sentito in proposito il p.m., dubita, peraltro, della
 legittimita'  costituzionale  del citato art. 215 del c.p.m.p., nella
 parte in cui equipara, sotto il  profilo  sanzionatorio  le  condotte
 della  appropriazione  e  della  distrazione  del denaro o della cosa
 mobile appartenente alla amministrazione militare, per contrasto  con
 il  fondamentale  canone di cui all'art. 3 Costituzione, in relazione
 al recentissimo intervento di riforma del legislatore  penale  comune
 che, con la legge 26 aprile 1990, n. 86 (contenente modifiche in tema
 di   delitti   dei   pubblici   ufficiali    contro    la    pubblica
 amministrazione),  ha,  sostanzialmente riscritto l'intero capo primo
 del titolo secondo del secondo libro del codice penale (artt.  314  e
 seguenti),  senza  nulla  disporre circa le corrispondenti o analoghe
 norme incriminatrici contenute nella legislazione penale militare.
    Prima  di tale intervento di riforma, la fattispecie dell'art. 215
 del c.p.m.p. ricalcava infatti, sostanzialmente, quella dell'articolo
 314  del  c.p.  vecchio  testo,  (salvo  l'indispensabile adattamento
 soggettivo), tanto sotto il profilo dei presupposti del reato, (. . .
 avendo  per ragione del suo ufficio o servizio il possesso etc. . . .
 ),  che  dell'oggetto  materiale,  (denaro  o   altra   cosa   mobile
 appartenente  all'amministrazione),  e  della  condotta  (.  .  .  se
 l'appropria ovvero  lo  distrae  a  profitto  proprio  o  di  altri):
 identica  era, in particolare, la pena edittale massima, pari a dieci
 anni di reclusione,  con  una  lieve  differenza  in  punto  di  pena
 edittale  minima  (due  anni di reclusione per il peculato militare e
 tre anni per il peculato comune).
    Tra  le  novita' piu' rilevanti della disciplina introdotta con la
 legge n. 86/1990, spicca oggi il riordino della  norma  sul  peculato
 comune  con  la  testuale  scomparsa del peculato per distrazione, la
 estensione dell'oggetto materiale del reato (. . . ) denaro  o  altra
 cosa mobile altrui) e la introduzione - al secondo comma della norma,
 come risultante dalla modifica  legislativa  -  del  peculato  d'uso,
 allorche'  il colpevole abbia posto in essere la condotta indicata al
 primo comma al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e questa,
 dopo l'uso momentaneo, sia stata immediatamente restituita.
    La  nuova  figura  del  peculato d'uso viene ora sanzionata con la
 piu' lieve pena della reclusione da sei mesi a tre anni.
    Alla  luce del quadro normativo ora delineato, emerge con evidenza
 una  profonda  differenza   di   regime   sanzionatorio   tra   fatti
 sostanzialmente  identici, a seconda che gli stessi si verifichino in
 ambito militare o  meno.  Secondo  la  normativa  del  codice  penale
 comune,  infatti,  l'eventuale  distrazione  -  da parte del pubblico
 funzionario  -  di  beni  di  cui  egli  abbia  il  possesso   o   la
 disponibilita'   e'   oggi   sanzionabile,   ricorrendone   tutti   i
 presupposti, a titolo di peculato d'uso (reclusione da sei mesi a tre
 anni),   ovvero,  forse,  residualmente  ed  in  altre  prospettabili
 ipotesi, a  titolo  di  abuso  di  ufficio  nei  casi  non  preveduti
 specificamente dalla legge (art. 323 del c.p. nuovo testo: reclusione
 fino a due anni).
    La   medesima   condotta   infedele,  se  compiuta  dal  "pubblico
 funzionario militare",  (altro  non  e'  il  militare  incaricato  di
 funzioni amministrative o di comando, individuando la norma dell'art.
 215 del c.p.m.p. un'area di soggetti tendenzialmente coincidente  con
 quella  dei  pubblici ufficiali ed incaricati di un pubblico servizio
 ex art. 314 del c.p.), rimane oggi, invece, punibile con la ben  piu'
 grave  pena  della  reclusione  da  due  a dieci anni, essendo - come
 accennato  -  rimasta  inalterata  la  comprensivita'   della   norma
 incriminatrice dell'art. 215 del c.p.m.p.
    Tale situazione, lungi dal rispondere ad insindacabili valutazioni
 discrezionali  del  legislatore  ed  anzi  frutto   di   un   cronico
 disinteresse   normativo   per  il  settore  dell'ordinamento  penale
 militare, appare, invero, manifestamente irrazionale,  (e  come  tale
 censurabile  sotto  il  profilo  della  legittimita' costituzionale),
 poiche' - per  quanto  subiettivamente  diversificati  nella  dizione
 legislativa  - i due comportamenti posti a raffronto si differenziano
 tra loro soltanto per aspetti non essenziali e ledono con la medesima
 intensita'  gli  stessi  interessi  protetti,  quello  patrimoniale e
 quello alla correttezza della azione del pubblico funzionario, mentre
 non  si  rinvengono nel sistema ulteriori valide ragioni che possano,
 in  qualche  modo  giustificare,  sotto  il  profilo  logico,  ed  in
 relazione  anche ad eventuali specifiche esigenze delle forze armate,
 l'indicata disparita' di trattamento.
    Osserva  peraltro  il  tribunale  che  i  problemi  interpretativi
 nascenti dalla nuova normativa sui  delitti  dei  pubblici  ufficiali
 contro  la  pubblica  amministrazione - in punto di coordinamento tra
 legge penale comune e legge penale militare - sono, in  realta',  ben
 piu'  numerosi ed ampi rispetto al solo prospettato, involgendo essi,
 necessariamente - tra l'altro -, anche il raffronto con gli ulteriori
 reati  militari  di peculato e malversazione contemplati dal c.p.m.p.
 (artt. 216, 217 e 218): a causa della irrilevanza nel giudizio a quo,
 pero'  tali  questioni  non possono essere affrontate in questa sede,
 salva per la Corte, la possibilita' di estendere d'ufficio il proprio
 giudizio alle altre norme la cui illegittimita' dovesse derivare come
 conseguenza della decisione adottata, ex art. 27 della legge 11 marzo
 1953, n. 87.
    Per  le ragioni sopra esposte, prospettandosi nell'interpretazione
 di questo tribunale militare  come  rilevante  e  non  manifestamente
 infondata  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 215
 del  c.p.m.p.  sollevata  dalla  difesa  nei  termini  di  cui   alla
 motivazione ed in relazione all'art. 3 della Costituzione, si rimette
 l'esame   alla   Corte   costituzionale,   previa   sospensione   del
 procedimento in corso.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 215 del c.p.m.p., in  relazione
 all'art. 3 della Costituzione;
    Ordina  la sospensione del procedimento in corso e la trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  la presente ordinanza sia notificata alle parti e al
 Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti  dei
 due rami del Parlamento.
      Roma, addi' 18 maggio 1990
              Il presidente estensore: (firma illeggibile)

 90C0803