N. 446 SENTENZA 26 settembre - 12 ottobre 1990

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Giurisdizione penale - Militare U.S.A. appartenente alla N.A.T.O. -
 Rinunzia a  jurisdicere da parte dello Stato italiano  - Sottrazione
 arbitraria del procedimento al giudice naturale precostituito per
 legge - Questione gia' decisa come non fondata  (sentenza n. 96/1973)
 - Non fondatezza - Inammissibilita'.
 
 (Legge 30 novembre 1955, n. 1335, art. 2, nella parte attuativa
 dell'art. VII, paragrafo 3, lett.  c), della convenzione di Londra
 del 19 giugno 1951; d.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, art.   1).
 
 (Cost., artt. 25, primo comma, 101, 102, 104, primo comma, e 112)
 
(GU n.41 del 17-10-1990 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge
 30 novembre 1955, n. 1335 (Ratifica ed esecuzione  della  Convenzione
 tra  gli  Stati partecipanti al Trattato Nord Atlantico sullo Statuto
 delle loro Forze armate, firmata a  Londra  il  19  giugno  1951),  e
 dell'art.  2 (rectius: art. 1) del regolamento approvato con d.P.R. 2
 dicembre  1956,  n.  1666  (Approvazione  del  regolamento   relativo
 all'applicazione  dell'art.  VII  della  Convenzione  fra  gli  Stati
 aderenti al Trattato del Nord Atlantico  sullo  "status"  delle  loro
 Forze  armate,  firmata  a  Londra  il  19 giugno 1951), promosso con
 ordinanza emessa il 30 dicembre 1989 dal Giudice istruttore presso il
 Tribunale  di  Roma  nel  procedimento  penale  a carico di Lee Nance
 Reginald, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 1990 e pubblicata
 nella   Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  18,  prima  serie
 speciale, dell'anno 1990;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito   nella  camera  di  consiglio  del  26  giugno  il  Giudice
 costituzionale Mauro Ferri.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Il  Giudice  istruttore  presso  il  Tribunale di Roma, con
 ordinanza del  30  dicembre  1989,  ha  giudicato  rilevante,  e  non
 manifestamente  infondata in riferimento agli artt. 25, 101, 102, 104
 e 112 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  2  della  legge  30  novembre  1955 n. 1335, e dell'art. 2
 (rectius: art. 1) del regolamento approvato  con  d.P.R.  2  dicembre
 1956 n. 1666, nella parte in cui conferiscono al Ministro di Grazia e
 Giustizia la facolta' di rinuncia alla giurisdizione nei confronti di
 militari  appartenenti a Corpi Armati della NATO di stanza in Italia.
    2.  -  Nel  corso  di  un  procedimento  penale  nei confronti del
 militare della NATO Lee Nance  Reginald,  ritenuto  responsabile  dei
 reati  di  detenzione di eroina, resistenza a pubblico ufficiale, uso
 abusivo di uniforme e rifiuto di indicazioni sulla propria  identita'
 personale, il Giudice istruttore provvedeva ad interrogare l'imputato
 e ad informare il Dipartimento  della  marina  militare  degli  Stati
 Uniti,  che  manifestava  la  volonta'  di  perseguire esso stesso il
 militare; detto Dipartimento domandava inoltre, in base all'art.  VII
 della  Convenzione  di  Londra  istitutiva  del Patto Atlantico (reso
 esecutivo in Italia con  legge  30  novembre  n.  1335  ed  applicato
 mediante il regolamento di cui al d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666), al
 Ministro di Grazia e  Giustizia  di  rinunciare  alla  giurisdizione:
 quest'ultimo, in data 16 giugno 1989, concedeva il suo assenso.
    3.  -  Dopo  aver  rammentato  che  la  questione  e'  stata  gia'
 affrontata dalla Corte con sent. n. 96 del 1973,  il  giudice  a  quo
 ritiene  che  gli  argomenti  allora  portati  per  pervenire  ad una
 dichiarazione di infondatezza non possano definirsi soddisfacenti, se
 esaminati alla luce del divenire dei rapporti internazionali.
    Secondo una secolare e consolidata tradizione, afferma l'ordinanza
 di  rimessione,  le  norme  internazionali  vanno  distinte  in   due
 principali  categorie:  le  consuetudini  e  le  norme  pattizie;  le
 consuetudini  prevalgono  su  queste  ultime,  data  la   particolare
 struttura  dell'ordinamento internazionale nell'attuale fase storica.
 L'art. 10  della  Costituzione  stabilisce  l'automatico  adeguamento
 dell'ordinamento  italiano  alle  norme  internazionali  generalmente
 riconosciute:  e'  evidente  che  tale  articolo  intende   riferirsi
 esclusivamente  alle  consuetudini,  che pertanto non necessitano del
 c.d. ordine di esecuzione per operare in Italia: non altrettanto puo'
 dirsi  riguardo  alle  norme  pattizie,  che  sottostanno  al  regime
 ordinario.
    Tutto  cio'  premesso  -  prosegue  il giudice remittente - appare
 problematico affermare l'esistenza, a tutt' oggi, di una consuetudine
 che sancisca la giurisdizione esclusiva di uno Stato sui propri Corpi
 Armati di stanza  all'estero.  Tale  principio,  che  pure  ha  avuto
 applicazione  fino al secondo conflitto mondiale, risulta nell'ultimo
 quarantennio  praticamente  ignorato  dalle  Convenzioni  che   hanno
 istituzionalizzato  la  presenza  di  Corpi di truppa stranieri negli
 Stati aderenti a  singoli  accordi  difensivi.  Al  contrario,  nella
 prassi  internazionale piu' recente si assiste alla formazione di una
 consuetudine diretta ad affermare, in modo sempre piu'  radicato,  il
 principio  del  "locus  regit  actum", con rigorose limitazioni delle
 ipotesi eccezionali.
    Se  quindi  la  norma  immessa nell'ordinamento con l'art. 2 della
 legge 30 novembre 1955 n.  1335  ha  natura  pattizia,  al  pari  del
 regolamento  emanato con d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666, entrambe non
 possono   trovare   tutela   costituzionale   nell'art.   10    della
 Costituzione,  e  nemmeno  nell'art. 11 della Costituzione, in quanto
 quest'ultimo  fa  esclusivo  riferimento  alle  c.d.   organizzazioni
 generali,  mentre la NATO e' pur sempre un'organizzazione a carattere
 particolare.
    Anche in ordine all'art. 25 della Costituzione ed al principio del
 "giudice naturale precostituito per legge",  ad  avviso  del  giudice
 remittente, non appaiono condivisibili le argomentazioni svolte nella
 citata sentenza n. 96 del 1973.
    Cio'  in quanto la norma impugnata non attuerebbe il trasferimento
 del processo da  una  giurisdizione  ad  un'altra,  ma  soltanto  una
 rinuncia  all'azione  penale, con eventuale riinizio della stessa. Vi
 sarebbe quindi un'incidenza solo in senso negativo  sulla  competenza
 dell'organo  giurisdizionale  procedente e designato in via generale,
 senza che vi sia individuazione  dell'organo  che  dovra'  giudicare.
 Inoltre  la  sottrazione  al  giudice  naturale  avverrebbe  in  modo
 estremamente arbitrario, per la facolta', data al Ministro di  Grazia
 e  Giustizia, di scegliere l'organo piu' idoneo a "jurisdicere". Tale
 disciplina violerebbe quindi altri articoli della  Costituzione:  gli
 artt.  101  e  104,  primo  comma,  in  quanto  il procedimento viene
 sottratto al giudice naturale con un atto del potere esecutivo, senza
 che   l'organo   giurisdizionale   possa   sindacare  il  merito  del
 provvedimento, e inoltre l'art. 112, che  introduce  nell'ordinamento
 il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    4.  -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, rappresentato  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato;  ad
 avviso  dell'Avvocatura  non sussiste alcuna violazione del principio
 del giudice naturale precostituito per legge in  quanto  il  precetto
 costituzionale invocato presiede alla disciplina delle competenze dei
 giudici all'interno dell'ordinamento e non anche al coordinamento fra
 le giurisdizioni di diversi Stati.
    Ad  analoghe  conclusioni  d'infondatezza l'Avvocatura perviene in
 ordine alle adombrate violazioni degli artt.  101,  102,  104,  primo
 comma, della Costituzione.
    Il meccanismo attuativo dell'art. VII della Convenzione di Londra,
 afferma   l'Avvocatura,   si   sostanzia   in   una   rinuncia   alla
 giurisdizione,  ma  tale  situazione  non  integra  di per se' alcuna
 violazione delle indicate norme, ne', di quella dettata dall'art.  25
 cpv.  della  Costituzione,  le  quali,  prescrivendo  il principio di
 stretta legalita', statuendo l'autonomia ed indipendenza  dell'ordine
 giudiziario  e  la  soggezione  dei  giudici  soltanto  alla legge, e
 riservando ai  magistrati  la  funzione  giurisdizionale,  inibiscono
 interventi  di  organi  del  potere  esecutivo  che siano destinati a
 integrare o a sovrapporsi al precetto di legge, ovvero  trasferiscano
 dal  giudice al potere politico o amministrativo decisioni pertinenti
 all'esercizio della giurisdizione.
    Il  potere  di  rinunciare  alla giurisdizione esula completamente
 dall'area di operativita' delle  predette  disposizioni  e  non  puo'
 quindi  essere  censurata  la  scelta  legislativa  di rimettere tale
 potere al Ministro  di  Grazia  e  Giustizia,  quale  organo  cui  e'
 funzionalmente  affidata  la  rappresentanza dello Stato nei rapporti
 internazionali in  materia  di  giustizia  (e  per  le  ineliminabili
 valutazioni di opportunita' che l'esercizio di tale potere richiede).
    L'atto  con  cui  il  Ministro  della  Giustizia si avvale di tale
 facolta' incide sul regime di procedibilita' del fatto-reato e,  piu'
 precisamente,  determina  l'insorgere  di un ostacolo a perseguire lo
 stesso; ostacolo che si configura nel nostro ordinamento  come  causa
 di  improcedibilita'  (o  improseguibilita')  dell'azione  penale. La
 relativa richiesta di declaratoria di non doversi procedere da  parte
 del  pubblico ministero costituisce, per il nostro sistema, esercizio
 dell'azione penale, con la conseguenza che dovrebbero  ritenersi  del
 tutto infondate le perplessita' concernenti la pretesa violazione del
 principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    L'Avvocatura  in  conclusione rileva che i termini della questione
 non sono sostanzialmente diversi,  oggi,  da  quelli  gia'  esaminati
 nella sentenza n. 96 del 1973 della Corte.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Il  Giudice  istruttore  presso il Tribunale di Roma dubita
 della legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 25, 101,
 102,  104  e  112  della  Costituzione,  dell'art.  2  della legge 30
 novembre 1955 n. 1335, nella parte in cui da' esecuzione all'art. VII
 della  Convenzione  di  Londra  del  1951  tra  gli Stati aderenti al
 Trattato Nord Atlantico, e dell'art. 2 del regolamento approvato  con
 d.P.R.  2  dicembre 1956 n.  1666, nella parte in cui "attribuisce al
 Ministro di Grazia e Giustizia la facolta' di rinuncia alla priorita'
 nell'esercizio   della   giurisdizione   nei  confronti  di  militari
 appartenenti a corpi armati N.A.T.O. di stanza in Italia".
    Giova  rammentare  che  l'articolo  VII  della citata Convenzione,
 disciplinando la materia dei possibili conflitti di giurisdizione tra
 autorita'  dello  Stato di origine e di soggiorno, delimita i casi di
 giurisdizione esclusiva e di giurisdizione concorrente, specificando,
 in  quest'ultima  ipotesi,  le  fattispecie  rimesse  alla  priorita'
 giurisdizionale dell'uno o dell'altro Stato.
    In  relazione a tale diritto primario di giurisdizione, appartenga
 esso allo Stato di soggiorno o di origine, e' prevista (al  paragrafo
 3,  lettera  c)  la  facolta'  di rinuncia che puo' essere esercitata
 dallo Stato che e' titolare della priorita', o di sua iniziativa o su
 espressa richiesta da parte dell'autorita' dell'altro Stato.
    Con  d.P.R.  2  dicembre  1956  n.  1666  e'  stata  approvata  la
 disciplina applicativa del citato articolo VII ed e' stato attribuito
 al  Ministro  di Grazia e Giustizia, inteso il Ministro degli Esteri,
 il potere di esercitare la detta facolta' di rinuncia.
    2. - Per un evidente errore materiale il giudice a quo ha indicato
 tale ultima disposizione nell'art. 2 del d.P.R. n. 1666 del 1956, che
 disciplina  invece  l'ipotesi in cui il Ministro guardasigilli chieda
 alle competenti autorita' dello Stato  di  origine  del  militare  di
 stanza  in Italia, di rinunciare alla propria giurisdizione in favore
 dello Stato italiano, anziche' nell'art. 1 del medesimo  d.P.R.  che,
 regolando   l'ipotesi  inversa,  attribuisce,  come  gia'  detto,  al
 Ministro la facolta' di accogliere le istanze di rinuncia  presentate
 dalle autorita' dello Stato di origine.
    Nondimeno   il  provvedimento  di  rimessione  e'  inequivoco  nel
 delineare correttamente la fattispecie oggetto della questione (nella
 quale  si  discute appunto della rinunciabilita' da parte dello Stato
 italiano al diritto di priorita' nell'esercizio della giurisdizione),
 nell'esporre  il  contenuto  normativo della disposizione impugnata e
 nel  motivare  la   rilevanza   della   questione   di   legittimita'
 costituzionale  ai  fini  della  decisione  finale;  tanto  basta per
 ritenere la questione inequivocabilmente riferita  alla  disposizione
 di  cui  all'art.  1  del citato d.P.R. n. 1666 del 1956 e, pertanto,
 l'indicazione della ordinanza puo' essere corretta dalla Corte  (cfr.
 sentt. nn. 47 del 1962, 138 del 1986, 115 del 1990).
    3.  - La prima questione sottoposta all'esame della Corte riguarda
 la compatibilita' con l'art. 25,  primo  comma,  della  Costituzione,
 della  norma  di  cui all'art. VII, par. 3, lett. c della Convenzione
 (resa esecutiva dall'art. 2 della citata legge n. 1335 del 1955), che
 prevede  specificamente,  in caso di concorso di giurisdizione tra lo
 Stato di soggiorno e quello di origine, la facolta' di rinuncia dello
 Stato  cui  e'  riconosciuto il diritto prioritario, dietro richiesta
 dell'altro Stato.
    La questione e' gia' stata esaminata da questa Corte, e dichiarata
 non fondata con la sent. n. 96 del 1973; ma il giudice  a  quo,  dopo
 aver  diffusamente  argomentato sulla non applicabilita' della tutela
 di cui all'art.  10,  primo  comma,  della  Costituzione  alla  norma
 impugnata, ritiene ora di riproporla sotto un differente profilo.
    In  particolare,  secondo  il giudice remittente, la disciplina in
 esame  non  attuerebbe  il  trasferimento   del   processo   da   una
 giurisdizione  all'altra  ma  soltanto una rinuncia all'azione penale
 con "riinizio eventuale" della stessa; vi sarebbe quindi un'incidenza
 solo  in  senso negativo sulla competenza dell'organo giurisdizionale
 procedente,  e  designato  in  via  generale,  senza   che   vi   sia
 individuazione dell'organo che dovra' giudicare.
    Da  qui  la  denunciata lesione del principio del giudice naturale
 precostituito per legge.
    4. - La questione non e' fondata.
    Occorre  rilevare che l'invocato principio costituzionale e' posto
 essenzialmente a garanzia della assoluta imparzialita'  degli  organi
 giudiziari  ed  esige  che la loro competenza venga sottratta ad ogni
 possibile  arbitrio  attraverso  la  precostituzione  per  legge  del
 giudice in base a criteri generali fissati in anticipo e non in vista
 di singole controversie gia' insorte (cfr. sentt. nn. 77 del  1977  e
 127 del 1979).
    Detto   principio,   presiedendo   quindi  alla  disciplina  delle
 competenze dei giudici all'interno  dell'ordinamento,  e'  del  tutto
 estraneo  ad  una  fattispecie, quale quella in esame, che si propone
 invece di regolare il coordinamento tra le giurisdizioni  di  diversi
 Stati  e  dalla cui applicazione dipende non gia' quale giudice debba
 procedere, ma se vi debba essere un processo nello Stato italiano.
    Ne'   puo'   ipotizzarsi   che   il   potere  di  rinunciare  alla
 giurisdizione, in se' considerato, o, per altro verso,  di  stabilire
 che  determinate  condizioni concorrano perche' l'azione penale possa
 essere  promossa  o  proseguita,  sia  vietato  da  alcun   principio
 costituzionale  o  precluso al legislatore ordinario. Al contrario la
 Costituzione afferma agli artt. 10, 11 e 26 (ad es. circa le  deroghe
 alla   giurisdizione   derivanti   dall'immunita'  diplomatica,  alle
 limitazioni di sovranita' in condizioni di parita' con  altri  Stati,
 all'estradizione  del cittadino: cfr. sentt. nn. 48 del 1979 e 14 del
 1964) significativi esempi della disponibilita' dell'ordinamento alla
 cooperazione tra Stati sia in materia penale sia in ogni altro campo.
    5.  -  Le  ulteriori  censure  prospettate  nel  provvedimento  di
 rimessione sono tutte rivolte avverso la norma contenuta nell'art.  1
 del d.P.R. n. 1666 del 1956: sostiene infatti il giudice a quo che la
 sottrazione  del  procedimento  avverrebbe  "in   modo   estremamente
 arbitrario,  in quanto e' conferita al Ministro di Grazia e Giustizia
 la facolta' di scegliere l'organo piu' idoneo a jurisdicere".
    Si verificherebbe quindi un'intromissione del potere esecutivo nel
 procedimento  per  mezzo  di  un  atto  non  sindacabile   da   parte
 dell'organo  giurisdizionale,  in  violazione  degli artt. 101 e 104,
 primo   comma,   della   Costituzione,    nonche'    del    principio
 dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale sancito dall'art. 112 della
 Costituzione  (la  violazione  dell'art.  102,  indicata   nel   solo
 dispositivo dell'ordinanza, non e' argomentata nella motivazione).
    6.  -  La  questione  e'  inammissibile,  in  quanto sollevata nei
 confronti di norma avente natura regolamentare.
    Tutti  i  suddetti  rilievi sono infatti rivolti nei confronti non
 gia' dell'istituto  della  rinuncia  alla  giurisdizione  (introdotto
 nell'ordinamento  dall'ordine  di esecuzione della Convenzione, e nei
 cui confronti e' stato prospettato specificamente il  solo  contrasto
 con  l'art.  25  della  Costituzione,  prima  esaminato)  ma verso le
 disposizioni regolamentari che disciplinano il procedimento  relativo
 all'applicazione dell'articolo VII della Convenzione di Londra.
    E' del tutto evidente come sia solo il regolamento in questione ad
 individuare l'organo competente a formare e manifestare l'intento  di
 rinunciare,  ed  e'  sempre  e  soltanto  il  regolamento che prevede
 l'obbligo del giudice penale italiano di emettere una sentenza di non
 luogo a procedere per intervenuta rinuncia.
    Cio'  comporta  che il riscontro della legittimita' di dette norme
 regolamentari non spetta a questa Corte ma e' riservato, alla stregua
 di  quanto  e'  stabilito  per  ogni  atto amministrativo, al giudice
 chiamato ad applicarle.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata la questione di legittimita' costituzionale,
 in  riferimento  all'art.  25,  primo  comma,   della   Costituzione,
 dell'art.  2  della  legge  30  novembre  1955  n.  1335 (Ratifica ed
 esecuzione della Convenzione tra gli Stati partecipanti  al  Trattato
 Nord  Atlantico  sullo  Statuto  delle  loro  Forze armate, firmata a
 Londra il 19 giugno 1951), nella parte in cui da' esecuzione all'art.
 VII, paragrafo 3, lett. c della detta Convenzione;
    Dichiara    inammissibile    la    questione    di    legittimita'
 costituzionale, in riferimento agli artt. 101, 102, 104, primo comma,
 e  112  della Costituzione, dell'art. 1 del d.P.R. 2 dicembre 1956 n.
 1666  (Approvazione   del   regolamento   relativo   all'applicazione
 dell'art.  VII  della  Convenzione fra gli Stati aderenti al Trattato
 del Nord Atlantico sullo "status" delle loro Forze armate, firmata  a
 Londra  il 19 giugno 1951); sollevate entrambe dal Giudice istruttore
 presso il Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe indicata.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 26 settembre 1990.
                          Il Presidente: SAJA
                          Il redattore: FERRI
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 1990.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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