N. 666 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 febbraio 1990
N. 666 Ordinanza emessa il 26 febbraio 1990 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Portoghesi Paolo e Amato Antonio Filippo ed altri Elezioni - Ineleggibilita' a consigliere comunale di colui che occupi la carica di consigliere comunale in altro comune - Ingiustificata deroga al principio, affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui le cause di ineleggibilita' hanno carattere eccezionale e, pertanto, devono rigorosamente contenersi entro i limiti ragionevolmente indispensabili per garantire la soddisfazione dell'esigenza di pubblico interesse cui sono preordinate - Richiamo alle sentenze della Corte costituzionale nn. 46/1969, 58/1972, 5/1978 e 1020/1988. (Legge 23 aprile 1981, n. 154, art. 2, primo comma, n. 12). (Cost., artt. 3 e 51).(GU n.44 del 7-11-1990 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento civile al n. 1 del registro dei ricorsi in materia elettorale dell'anno 1990, posto in deliberazione all'udienza del 26 febbraio 1990 e vertente tra Paolo Portoghesi residente in Roma, ivi elettivamente domiciliato in piazza Borghese, 3, presso lo studio dell'avv. Giuseppe Guarino, che lo rappresenta e difende per procura a margine del ricorso, ricorrente, e Antonio Filippo Amato, elettivamente domiciliato in Roma, via Alessandria 130, presso lo studio del dott. proc. Ivo Correale che, con l'avv. Giulio Correale, lo rappresenta e difende per procura a margine del controricorso, controricorrente, e il sindaco di Roma pro-tempore, nella qualita' di presidente del consiglio comunale, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Delfini, presso lo stesso domiciliato nella sede dell'Avvocatura comunale, in via del Tempio di Giove, 21, controricorrente, e il pubblico ministero, domiciliato nel proprio ufficio, presso i locali del tribunale civile di Roma, in viale Giulio Cesare, 54; Letti gli atti; Udito nella pubblica udienza del 26 febbraio 1990 il giudice relatore Alfonso Amatucci; Uditi gli avv.ti Giuseppe Guarino per Paolo Portoghesi, Giulio Correale per Antonio Filippo Amato, Antonio Delfini per il Sindaco di Roma; Udito il pubblico ministero nella presona del dott. Eugenio Mauro. RITENUTO IN FATTO 1. - Con ricorso notificato il 12 febbraio 1990 Paolo Portoghesi, eletto al consiglio comunale di Roma nelle elezioni dell'ottobre 1989, insorgeva avverso la deliberazione del consiglio comunale in data 12 dicembre 1989 con la quale la sua elezione non era stata convalidata a causa della ravvisata sussistenza della sua qualita' di consigliere comunale in carica del comune di Calcata (Viterbo), integrante una delle ipotesi di ineleggibilita' di cui all'art. 2, primo comma, n. 12, della legge 23 aprile 1981, n. 154. Prospettava l'illegittimita' sotto vari profili della deliberazione che aveva dichiarato la propria decadenza dalla carica, contestualmente attribuendo il seggio al primo dei non eletti nella stessa lista, Antonio Filippo Amato. Assumeva in primo luogo che alla sua mancata partecipazione a tutte le sedute del consiglio comunale di Calcata (esclusa la prima) non potesse non conferirsi la valenza di un comportamento concludente in ordine alla manifestazione della propria volonta' di dimettersi; tal che, non essendo prescritta da alcuna norma positiva la forma scritta delle dimissioni a pena di nullita', esse dovevano aversi per tacitamente intervenute sin dalla scadenza della prima sessione ordinaria alla quale egli non aveva partecipato (senza addurre giustificazioni in ordine al proprio comportamento). Ne' la circostanza che le dimissioni non fossero state accettate poteva considerarsi ostativa al verificarsi dell'effetto dismissivo, giacche' egli si era poi effettivamente astenuto dall'esercizio delle funzioni ed aveva dunque serbato un comportamento che, ex art. 2, secondo comma (ma, recte, quinto) della citata legge n. 154/1981, comportava effetti equivalenti alla mancata accettazione. Sosteneva, in secondo luogo, che la omessa pronuncia della decadenza (prescritta nel caso di cui sopra dall'art. 289, del r.d. n. 148/1915, a suo avviso integrante un ipotesi di dimissione tacita) fosse del tutto irrilevante ai fini in questione, posto che la mancata formale dichiarazione della stessa doveva aversi a sua volta per sostituita dall'effettiva astensione dalle funzioni. In via subordinata, per il caso in cui le raggiunte conclusioni circa il difetto del proprio status di consigliere comunale in carica di Calcata (nel giorno della presentazione delle candidature al consiglio comunale di Roma) non apparissero condivisibili, prospettava la necessita' di interpretare la disposizione piu' volte citata nell'unico senso compatibile con la sua ratio (evitare una possibile captatio benevolentiae), alla luce dei restrittivi criteri ermeneutici imposti dal suo carattere limitativo del diritto di elettorato passivo: e, dunque, di intenderla riferita al solo caso in cui il comune del cui consiglio comunale l'eligendo faccia gia' parte e quello al quale sia candidato, siano siti nel territorio della stessa provincia. In via ancor piu' gradata prospettava l'illegittimita' costituzionale della norma de qua sotto molteplici profili. 2. - Sia Antonio Filippo Amato che il sindaco di Roma depositavano controricorsi con i quali contestavano le deduzioni del ricorrente ed instavano per il rigetto del ricorso previa declaratoria della manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimita' costituzionale. 3. - Alle stesse conclusioni motivatamente perveniva l'intervenuto pubblico ministero. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. - Va preliminarmente rilevato che il tribunale ritiene di condividere le osservazioni dei controricorrenti e del p.m. in ordine all'inconfigurabilita' di dimissioni per pretesi comportamenti concludenti ed alla imprescindibilita' di una formale pronuncia di decadenza (anche) ai fini in esame. Opina, del pari, che la chiara, inequivoca, compiuta formulazione letterale della disposizione che si sta scrutinando non consenta la interpretazione restrittiva auspicata dal ricorrente, tra l'altro implicante il rinvenimento da parte dello stesso interprete, fra infiniti possibili criteri astrattamente idonei ad eliminare l'addotta discrasia, dell'unico ritenuto compatibile coi fini dalla norma perseguiti; e, dunque, in definitiva, un'inammissibile operazione non solo elusiva della voluntas legis, ma addirittura risolventesi in una sostanziale invasione dell'ambito riservato alla discrezionalita' legislativa. Ritiene dunque il tribunale che l'impugnata deliberazione del comune di Roma si sottragga alle censure in questa sede prospettate, essendo del tutto legittima. 2. - De iure condito, il ricorso andrebbe pertanto respinto. Esso dovrebbe per contro essere accolto ove fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 12, della legge 23 aprile 1981, n. 154, nella parte in cui prevede l'ineleggibilita' ad un consiglio comunale di chi faccia gia' parte di altro consiglio comunale. Il ricorrente s'e' infatti poi dimesso dalla carica di consigliere comunale di Calcata. Da qui la indubbia rilevanza della questione che, in larga misura condividendo le osservazioni svolte dal ricorrente, il tribunale ritiene di dover sollevare siccome non manifestamente infondata per i motivi qui di seguito illustrati. 3. - E' noto che l'ineleggibilita' e' tradizionalmente correlata ad un triplice ordine di situazioni: 1) quelle idonee ad indurre un'inopportuna influenza sulla volonta' degli elettori; 2) quelle integrate da conflitto di funzioni (segnatamente allorche' il legislatore consideri altamente improbabile l'accettazione della carica e miri dunque ad evitare inutili alterazioni del risultato elettorale utile); 3) quelle comportanti un possibile conflitto di interessi. Ovvio essendo come all'ipotesi in esame sia affatto estranea la terza, e' agevole osservare che la seconda e' dallo stesso legislatore costruita come causa di incompatibilita' (art. 4, secondo comma, della legge citata) e che, comunque, la legge consente esplicitamente la contemporanea candidatura a due consigli comunali (art. 7, secondo comma, della legge citata), in tal modo mostrando che la pur (quasi) certa alterazione del risultato "utile" in almeno uno dei due comuni e' stata ritenuta entro tale limite accettabile a fronte della contrapposta esigenza di evitare in via generale restrizioni al diritto di elettorato passivo (non altra e' evidentemente la ragione del divieto di candidatura in non piu' di due comuni di cui all'art. 7, primo comma, della legge citata: allorche', infatti, l'aspettativa di alterazione del risultato utile sia aritmeticamente superiore ad uno su due, la candidatura non e' ammissibile). Tal che apparirebbe del tutto irragionevole - ove la ratio della norma fosse in ipotesi da sussumere nella seconda (ovvero anche nella terza) delle situazioni sopra rappresentate - l'aver consentito la doppia candidatura e la doppia elezione allorche' le operazioni elettorali siano contemporanee ed aver, invece, l'una e l'altra inibito allorche' ad un consiglio si sia gia' stati eletti. E palese risulterebbe la violazione, sotto tale profilo, dei parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 51 della Costituzione. 4. - Unica possibile ragione giustificativa della causa di ineleggibilita' costituita dalla qualita' di consigliere comunale in carica potrebbe allora essere rappresentata dalla esigenza, dal legislatore ravvista, di evitare la captatio benevolentiae sugli elettori del secondo consiglio comunale. Ma anche in tale ipotesi - che e' quella dal ricorrente specificamente considerata - la disposizione non si sottrarrebbe al dubbio di incostituzionalita'. Sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale - costante nell'affermare che le cause di ineleggibilita' devono rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (sentenze nn. 46/1969, 58/1972, 5/1978) e che ogni limite che il legislatore pone in ordine ai requisiti di eleggibilita' ha carattere di eccezione e va calibrato con estrema cautela in stretta aderanza ai principi costituzionali (sentenza n. 1020 del 1988) - non pare che un consigliere comunale in carica possa esercitare sugli elettori di altro comune una captatio benevolentiae ovvero indurre negli stessi un metus potestatis tale da influire in modo apprezzabile sulle scelte del corpo elettorale e da giustificare dunque la prevista ineleggibilita'. Sembra, anzi, per vero, che non possa, in ragione della carica di consigliere comunale, influire su alcunche'; comunque, certamente, non piu' di quanto sia possibile ad un consigliere regionale o provinciale in carica (anche addirittura) nella regione o nella provincia nel cui territorio il comune sia ricompreso (con conseguente coincidenza, in parte de qua, del corpo elettorale, invece sempre diverso per l'elezione a diversi consigli comunali), ovvero un membro del Parlamento, un ministro o un sottosegretario di Stato, per nessuno dei quali l'ineleggibilita' e' prevista. 5. - E' allora giuocoforza ritenere - tanto evidente risulta l'intima contraddittorieta' della positiva disciplina vigente - che la disposizione impugnata costituisca il frutto di un difetto di coordinamento, in sede redigente, fra gli artt. 2, 4 e 7 della legge n. 154/1981, onde appare inevitabile il ricorso al giudice delle leggi perche', in applicazione dei criteri gia' reiteratamente enunciati in subjecta materia, espunga la disposizione denunciata dal sistema.
P. Q. M. Visto l'art. 23, della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 51, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 12, della legge 23 aprile 1981, n. 154, nella parte in cui prevede come causa di ineleggibilita' a consigliere comunale la qualita' di consigliere comunale in carica in altro comune; Sospende il giudizio in corso; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria di notificare copia della presente ordinanza alle parti costituite ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e di darne comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso nella camera di consiglio della prima sezione civile del tribunale di Roma, il 26 febbraio 1990. Il presidente: DELLI PRISCOLI Il giudice estensore: AMATUCCI 90C1300