N. 672 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 settembre 1990

                                 N. 672
  Ordinanza emessa il 14 settembre 1990 dal magistrato di sorveglianza
   di Pisa nel procedimento per concessione di liberazione anticipata
                  nei confronti di La Greca Sebastiano
 Processo   penale  -  Procedimento  per  concessione  di  liberazione
 anticipata - Interessato detenuto in luogo fuori della circoscrizione
 del  giudice competente - Richiesta di essere ascoltato personalmente
 - Mancata disposta traduzione - Audizione delegata al  magistrato  di
 sorveglianza  -  Disparita'  di  trattamento fra individui detenuti e
 non, nonche' fra gli  stessi  detenuti  Limitazione  del  diritto  di
 difesa   -   Lamentata   negata  legittimazione  per  il  giudice  di
 sorveglianza  delegato  a  sollevare  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale (sentenza n.  207/1980).
 (C.P.P. 1988, art. 666, quarto comma).
 (Cost., artt. 3 e 24).
(GU n.44 del 7-11-1990 )
                     IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
    Delegato  nel corso di procedimento per concessione di liberazione
 anticipata nei confronti di La Greca Sebastiano, nato a Forli' il  25
 marzo  1965, ad acquisire le dichiarazioni del La Greca dal tribunale
 di sorveglianza di Milano;
                                OSSERVA
    In  data  5 settembre 1990 il tribunale di Sorveglianza di Milano,
 nel corso di procedimento per concessione di liberazione  anticipata,
 ha  delegato questo giudice ad acquisire le dichiarazioni di La Greca
 Sebastiano, detenuto presso la casa di reclusione di Volterra. Il  La
 Greca,   pur   volendo   essere  ascoltato  direttamente  dall'organo
 decidente, ha tuttavia, alla stregua della normativa vigente  (quarto
 comma  dell'art.  666  del  c.p.p. la cui applicazione risulta quindi
 determinante nel procedimento in  esame),  solo  la  possibilita'  di
 essere  ascoltato  da  questo  magistrato. E' infatti da osservare al
 proposito  che  l'art.  666,  quarto  comma   del   c.p.p.    dispone
 relativamente   al  procedimento  di  esecuzione  (applicabile  nella
 fattispecie) che, ove l'interessato sia detenuto o internato in luogo
 posto  fuori  dalla circoscrizione del giudice competente a decidere,
 sia  sentito  prima  del  giorno  della  udienza  dal  magistrato  di
 sorveglianza  del  luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la
 traduzione.
    Tale  norma riproduce sostanzialmente la disciplina gia' contenuta
 nell'art. 630, secondo comma, del vecchio codice la cui  legittimita'
 e'  stata  reiteratamente  affermata  dalla  Corte costituzionale (v.
 sentenze nn. 5/1970 e 159/1976).
    Occorre  tuttavia  esaminare  se tale legittimita' possa ritenersi
 sussistente  anche  nell'ambito  dell'ordinamento  posto  dal   nuovo
 codice,  e,  preliminarmente,  se  questo  giudice possa considerarsi
 legittimato a sollevare la relativa questione.
    A   quest'ultimo   proposito   e'   da   osservare  che  la  Corte
 costituzionale ha gia' dato in materia risposta negativa,  osservando
 che  la  questione non puo' essere sollevata nel corso di un giudizio
 che non e' demandato alla cognizione del magistrato di  sorveglianza,
 essendo competente in materia il tribunale di sorveglianza (v. ord. 4
 aprile 1990, n. 207).
    A  sostegno  di  tale  tesi  la  Corte costituzionale ha ricordato
 alcune precedenti pronunce che  a  sommesso  avviso  dello  scrivente
 attengono a situazioni o nettamente diverse da quella in esame, o, se
 in qualche modo ravvicinabili a quest'ultima, purtuttavia ad essa non
 compiutamente  rapportabile, almeno sotto il profilo che interessa in
 subiecta materia.
    Numerosi  provvedimenti sono difatti relativi a fattispecie in cui
 l'organo  che  ha  sollevato  l'eccezione  di  incostituzionalita'  a
 null'altro  era  tenuto  che  a  svolgere  un compito di trasmissione
 materiale  degli  atti  processuali  (che  in  taluni   casi   poteva
 addirittura  essere  svolto dalla competente cancelleria) v. sentenza
 n. 136/1980 e ordinanza n. 224/1974; o ad esprimere semplicemente  un
 parere   cui  non  poteva  essere  attribuito  neppure  carattere  di
 giurisdizionalita', v. sentenza n. 8/1979, o che addirittura atteneva
 ad   un  procedimento  meramente  amministrativo  al  quale  l'organo
 giudiziario preposto  all'esecuzione  penale  rimaneva  estraneo,  v.
 sentenza  n.  81/1970.  In  altri casi e' stato osservato un assoluto
 difetto  del  giudizio  di  rilevanza  della  questione   prospettata
 rispetto  alla  definizione  del  giudizio  in  corso, v. sentenza n.
 13/1965.
    Evidentemente  diversa  e'  la  fattispecie  in  esame,  in cui il
 giudice delegato e' in  ogni  caso  tenuto  (a  differenza  dal  caso
 contemplato  dalla sentenza n. 112/1964, in cui il giudice sprovvisto
 di potesta' decisoria poteva anche non  dar  corso  alla  domanda  di
 nuovi accertamenti presentatagli dall'interessato) a svolgere un vero
 e proprio atto processuale indispensabile per  il  completamento  del
 giudizio  (avendo  il  tribunale di sorveglianza rifiutato l'aduzione
 diretta).
    Talora  la Corte costituzionale ha anche ritenuto inammissibili le
 questioni proposte da giudici istruttori civili (pur investiti di una
 attivita'  giurisdizionale)  in materie riservate alla competenza del
 collegio (v. sentenze nn. 62/1966, 44/1963, 109/1962),  ritenendo  in
 sostanza   che   solo  quest'ultimo  organo,  competente  ad  emanare
 provvedimenti idonei a porre termine al processo, potesse valutare il
 presupposto  relativo  all'impossibilita'  di  definire  il giudizio,
 indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
 costituzionale.  Con  cio' la Corte non ha escluso la possibilita' di
 eccepire la incostituzionalita'  di  una  norma,  ma  l'ha  riservata
 all'organo  collegiale,  competente a definire il giudizio (v. in tal
 senso anche sentenza n. 141/1971).
    Tuttavia  nella  fattispecie in esame il Tribunale di Sorveglianza
 (che puo' comunque decidere se ricorrere o no all'audizione  diretta)
 non  potrebbe sollevare eccezione di incostituzionalita' per la norma
 di cui all'art. 666, quarto comma,  del  c.p.p.,  che  non  limita  e
 quindi  non ha rilievo per il suo giudizio; tale norma invece risulta
 cogente per il solo giudice  delegato  che,  ove  se  ne  escluda  la
 legittimazione  a  ricorrere alla Corte costituzionale, si troverebbe
 obbligato  a  dover  agire  sulla  base   di   una   norma   ritenuta
 incostituzionale.
    Ma  non  si comprende come un giudice possa non essere abilitato a
 proporre questioni di costituzionalita' che  risultino  pregiudiziali
 all'espletamento dei compiti a lui affidati.
    E'  difatti  dinanzi  al magistrato di sorveglianza che si pone il
 dubbio sulla costituzionalita' della legge (art. 666,  quarto  comma,
 del  c.p.p.) che egli e' chiamato direttamente ad applicare e che non
 puo'  applicare  se  non  allorquando  la   ritenga   conforme   alla
 Costituzione.   La   soluzione   della   questione   di  legittimita'
 costituzionale si pone in altri termini come l'antecedente logico per
 il compimento dell'atto processuale delegato e quindi quale strumento
 indispensabile per condurre il giudizio alla sua definizione.
    Sotto   un  profilo  piu'  generale,  riconoscere  come  questione
 rilevante  solo  quella  che  condiziona  direttamente  la  decisione
 conclusiva della causa in quel grado del giudizio, significa, come e'
 stato osservato,  non  tener  sufficientemente  conto  del  dinamismo
 progressivo  del  processo,  realizzantesi  di  regola attraverso una
 serie di atti reciprocamente collegati. Ne deriva che legittimata  ad
 adire  la  Corte  costituzionale  non  potra'  non  essere accanto al
 giudice  competente  a  pronunciare  nel   merito,   ogni   autorita'
 giurisdizionale   competente   a  porre  in  essere  uno  degli  atti
 preliminari che conducono a tale pronuncia, ove la questione  insorta
 attenga  alla  fase  assegnata  alla  competenza  di questa autorita'
 giurisdizionale,  e  la  mancata  soluzione  della   stessa   blocchi
 l'ulteriore,  regolare  corso del processo. Opinando diversamente, si
 dovrebbe negare  l'ammissibilita'  della  questione  di  legittimita'
 costituzionale   in   relazione   a  tutte  le  norme  non  attinenti
 direttamente alla definizione del processo,  e  con  cio'  potrebbero
 addirittura  sorgere  dubbi  sulla  legittimita' costituzionale dello
 stesso  art.  23,  secondo  comma,  della  legge  n.  87/1953,  cosi'
 interpretato.   Ne'   si  potrebbe  sostenere  che  e'  eventualmente
 possibile rispetto al  problema  di  legittimita'  costituzionale  un
 successivo  intervento del collegio, poiche' si tratterebbe sempre di
 intervento tardivo. Ancora e' da osservare che le  norme  applicabili
 nei   singoli   momenti  dell'istruzione  sono  certamente  rilevanti
 rispetto al perseguimento degli scopi istruttori, ed  e'  rispetto  a
 questi   che   deve  valutarsi  la  rilevanza  di  una  questione  di
 legittimita' costituzionale che le riguardi.
    Si puo' porre la questione se sia competente il giudice istruttore
 ad emettere il provvedimento di sospensione. Al  proposito  e'  stato
 osservato  come  l'art. 23 attribuisca esso stesso a quel giudice che
 accerta  la  rilevanza  e  la  non  manifesta  infondatezza   ed   e'
 legittimato  ad  emettere  l'ordinanza di rimessione, la competenza a
 sospendere il  giudizio  nel  corso  del  quale  sorge  la  questione
 costituzionale,  ritenendo  cioe'  che  il  potere di sospensione sia
 conseguenziale  a  quello  di  rimessione  degli  atti   alla   Corte
 costituzionale,   e   non   invece  che  quest'ultimo  dipenda  dalla
 legittimazione a sospendere il processo.
    D'altra  parte  l'audizione dell'interessato (salvo ovviamente che
 quest'ultimo  vi  rinunci),  e'  necessaria,  nel   procedimento   di
 sorveglianza,  ai  fini della decisione, cioe', e' pregiudiziale alla
 pronuncia che definisce la  causa,  cosicche'  appare  insopprimibile
 l'esigenza di sospendere il giudizio.
    In  conclusione  nella  fattispecie  in  esame,  il  magistrato di
 sorveglianza, obbligato a svolgere un atto processuale indispensabile
 per   il   completamento   del   giudizio  (avendo  il  tribunale  di
 sorveglianza rifiutato l'aduzione diretta), sulla base di  una  norma
 ritenuta  incostituzionale  ed il cui vizio non potrebbe essere fatto
 valere dalla autorita' giudiziaria che ha operato la delega, non puo'
 non ritenersi legittimato ad eccepire l'illegittimita' costituzionale
 della norma che deve applicare.
    Passando ad esaminare il merito della questione prospetta, si puo'
 osservare che nella vigenza del menzionato art. 630  del  c.p.p.  era
 chiaramente  ravvisabile  un  orientamento a riconoscere il carattere
 giurisdizionale del procedimento incidentale  di  esecuzione,  ma  e'
 indubbio  che  nella  nuova normativa si coglie una accentuazione dei
 momenti giurisdizionali nel  rapporto  processuale  della  esecuzione
 che,  come  e'  stato  osservato,  pur  mutando  natura,  conserva le
 finalita'  essenziali  del   processo   di   cognizione   (si   pensi
 all'introduzione  della  possibilita'  di  valutare  anche in sede di
 esecuzione il concorso formale dei rati e la continuazione,  ai  fini
 della  determinazione  della  pena).  Tale orientamento ben si coglie
 anche nella direttiva 96 della delega (legge 16 dicembre 1987, n. 81)
 relativa  ai  principi che regolano attualmente l'esecuzione: in esse
 si sottolinea l'esigenza delle "garanzie di giurisdizionalita'  nella
 fase   dell'esecuzione"   ed   in   particolare  la  "necessita'  del
 contraddittorio  nei   procedimenti   incidentali   in   materia   di
 esecuzione".
    Cio' precisato in ordine alle esigenze fondamentali di cui occorre
 tener conto  nel  valutare  la  disciplina  posta  dal  quarto  comma
 dell'art.  666  del c.p.p., e' da osservare che la procedura prevista
 da tale articolo e' applicabile  ad  un  ambito  quantitativamente  e
 qualitativamente  assai  piu'  esteso  e rilevante di quello previsto
 dall'art. 630 del vecchio codice. L'art.  678  del  c.p.p.,  difatti,
 regolando un procedimento unitario per tutte le materie di competenza
 del tribunale di sorveglianza e per gran parte di  quelle  attribuite
 al  magistrato di sorveglianza, rinvia all'art. 666, che viene quindi
 ad essere utilizzato in tutta una  vastissima  serie  di  fattispecie
 estremamente   delicate   in  cui  la  valutazione  discrezionale  su
 situazioni  personali,  familiari  e  lavorative,  su   problematiche
 comportamentali  e sociali acquista un rilievo nettamente preminente.
 Ora,  gia'  nella   menzionata   sentenza   n.   5/1970,   la   Corte
 costituzionale,  pur  giungendo a dichiarare non fondata la questione
 di legittimita'  costituzionale  dell'art.  630,  secondo  comma  del
 c.p.p.,  ha osservato (seguendo in cio' i rilievi dell'Avvocatura per
 cui   nella   procedura   incidentale,   a   differenza   di   quella
 dibattimentale,    la    questione   da   risolvere   appariva   gia'
 cristallizzata e le posizioni delle  parti  chiaramente  delineate  e
 reciprocamente  conosciute)  che  nel  procedimento incidentale "alla
 parte privata condannata la comparizione di persona e' consentita per
 un  fine  diverso da quello per cui l'imputato e' convocato avanti al
 giudice dell'istruzione o del giudizio e che e' un  fine,  almeno  in
 parte,  volto  all'acquisizione di elementi probatori", cosicche' non
 poteva scorgersi nessuna compressione del diritto di  difesa  in  una
 comparizione  personale  attuata  per il tramite di un altro giudice,
 particolarmente  tenendo  conto  "del  carattere  del  procedimento",
 "ristretto   a   questioni   ordinariamente   di  solo  diritto,  ben
 circoscritte e determinate". Anche nella  sentenza  n.  159/1976,  la
 Corte   costituzionale   ha   osservato   che  "sulla  base...  delle
 caratteristiche proprie del procedimento incidentale" (ristretto,  in
 sostanza,  a  questioni  ordinariamente  di  mero  diritto),  nessuna
 rilevanza poteva attribuirsi, ai fini della completezza  del  diritto
 di  difesa, al fatto che l'art. 630, secondo comma, non prevedesse la
 possibilita' per il difensore dell'istante, detenuto in luogo diverso
 da  quello  del  giudice  competente  a  decidere  sull'incidente  di
 esecuzione, di essere posto in condizione di intervenire  dinanzi  al
 giudice  di  sorveglianza  o  al  pretore,  delegati  per l'audizione
 dell'istante stesso.
    Come  accennato,  proprio  il  carattere  del  procedimento di cui
 all'art. 666 del  c.p.p.  e'  nella  nuova  disciplina  profondamente
 mutato   ed   implica  l'acquisizione  di  elementi  probatori  e  la
 valutazione di elementi di fatto che devono essere  approfonditamente
 accertati, esaminati e discussi.
    In una tale situazione, la condizione dell'interessato detenuto in
 luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice che  deve  decidere
 sulla  sua  istanza  e' chiaramente deteriore. La Corte di cassazione
 (v. Cass. pen., sezione quinta, ord. 11  maggio  1978,  n.  1011)  ha
 osservato  che  nell'incidente di esecuzione l'intervento diretto del
 detenuto offre "una garanzia poziore rispetto a quella dell'audizione
 dello stesso detenuto da parte di organo diverso da quello decidente"
 e  cio'  e'  tanto  piu'  vero  nella  normativa   attuale   in   cui
 l'interessato (ove il giudice - secondo una sua valutazione del tutto
 discrezionale e che non puo' essere oggetto di censura - non  ritenga
 di  disporre  la  traduzione), non ha la possibilita' di essere udito
 dal  suo   giudice   naturale   esponendo   le   sue   problematiche,
 giustificando  i  suoi  comportamenti,  adducendo  al  giudizio nuovi
 elementi  nell'abito  del  contraddittorio  ed  alla   presenza   del
 difensore.  E  tale  condizione deteriore viene in concreto ad essere
 determinata da circostanze occasionali, fortuite,  che  per  lo  piu'
 sfuggono  totalmente  alla  possibilita'  di  intervento da parte del
 detenuto (sfollamento di istituti con numero eccessivo di  ristretti,
 ristrutturazione degli edifici carcerari, etc.).
    Nella   fase   del  procedimento  di  cognizione,  nonostante  sia
 riconosciuta in taluni casi una facolta' di delega (v.  ad  es.  art.
 294,  quinto  comma,  art.  398, quinto comma), e' prevista anche una
 presentazione spontanea che da' luogo ad un atto che equivale  ad  un
 interrogatorio  (v.  art.  374)  e  comunque  l'interessato partecipa
 sempre alle udienze in cui si decide il procedimento  instaurato  nei
 suoi confronti (artt. 421, 441, 447, 451 e 474).
    In realta' la norma in esame, stabilita dal quarto comma dell'art.
 666 del c.p.p. non  prevedono  il  diritto  del  condannato  che  sia
 detenuto  in  luogo  diverso  da  quello  in  cui  risiede il giudice
 competente a decidere, di intervenire  personalmente  all'udienza  in
 camera    di    consiglio,    risulta   affetto   da   illegittimita'
 costituzionale, sia nei confronti dell'art.  3,  primo  comma,  della
 Costituzione  (operando  una  disparita'  di trattamente non solo fra
 individui detenuti e non detenuti, ma anche tra gli stessi detenuti),
 sia   nei   confronti   dell'art.  24,  secondo  comma  (ponendo  una
 limitazione al diritto di difesa).
    Difatti  la  disparita'  e  la limitazione suddetti, indubbiamente
 sussistenti, non possono comunque piu' essere considerati "razionali"
 (v.  a  tal proposito sentenza n. 5/1970 della Corte costituzionale),
 sotto il profilo che  il  legislatore  avrebbe  giustamente  ritenute
 prevalenti  le  difficolta'  pratiche  scaturenti  da un trasporto in
 stato di detenzione, di fronte alla irrilevanza che il  beneficio  di
 essere  ascoltato  di  persona  dal  giudice  competente  a  decidere
 rappresenterebbe per il detenuto.
    In  realta'  il  trasporto  di detenuti, anche pericolosi, avviene
 attualmente con estrema frequenza, per i motivi piu' vari  (si  pensi
 ad  es.  ai  permessi  ex art. 30 della legge n. 354/1975), palesando
 cio' come il legislatore e la  prassi  tendano  sempre  piu'  a  dare
 maggiore  rilievo  alle  esigenze  sostanziali  che  alle difficolta'
 logistiche; e comunque la natura stessa delle fattispecie attualmente
 trattate  attraverso  la  procedura di cui all'art. 666 del c.p.p. e'
 tale da non tollerare di essere  compressa  (attraverso  l'esclusione
 del   mezzo   principale  di  difesa  costituito  dalla  comparizione
 personale) da problemi pratici di per se' certo non irresolubili.
    Nella  normativa  attuale  non  puo'  essere  usato un trattamento
 ripugnante alla logica del contraddittorio ed a fondamentali esigenze
 di  difesa,  dando  ingiustificatamente  la  prevalenza  a ragioni di
 ordine materiale o economico.
    Quest'ultima  "filosofia"  si  ritrova  in  verita' anche in altre
 disposizioni del nuovo codice (v. art. 127, terzo comma, del  c.p.p.,
 309,  ottavo  comma  del  c.p.p.,  101, secondo comma, delle norme di
 attuazione). In realta' anche il procedimento in camera di  consiglio
 e' previsto in ipotesi, quali ad es. l'appello contro le ordinanze in
 materia di misure cautelari personali ed il riesame  delle  ordinanze
 che  dispongono  una  misura  coercitiva,  che  non  vertono certo su
 questioni  "cristallizzate",  "di  mero  diritto"  e  "reciprocamente
 conosciute"   ed   in   cui   la  possibilita'  di  essere  ascoltato
 direttamente  dal  giudice  che  deve  decidere  appare  di  primaria
 importanza.  Sono  ipotesi, queste, in cui il diritto di difesa viene
 compresso,  analogamente  a  quanto  avviene  con  il  quarto   comma
 dell'art.  666, e che la nuova normativa, se vuol essere coerente con
 le  esigenze  espresse  nelle  direttive  della  delega,   non   puo'
 accettare.
                                P. Q. M.
    Visto  l'art.  134  della  Costituzione e l'art. 23 della legge 11
 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  d'ufficio  rilevante  e  non manifestamente infondata in
 riferimento agli artt. 3, primo comma, e  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 666, quarto comma, del cod. proc. pen. e cio' nei termini di  cui  in
 motivazione;
    Sospende il compimento dell'atto delegato in corso;
    Ordina    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Ordina  che,  a cura della cancelleria, l'ordinanza sia notificata
 all'interessato, alla procura generale di Firenze  ed  al  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri e comunicata ai Presidenti del Senato e
 della Camera dei deputati della Repubblica.
      Pisa addi', 14 settembre 1990
                Il magistrato di sorveglianza: BARSOTTI

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