N. 68 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 14 novembre 1990
N. 68 Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 14 novembre 1990 (della regione Emilia-Romagna) Sanita' pubblica - Misure urgenti per il finanziamento del saldo della maggiore spesa sanitaria relativa agli anni 1987 e 1988 e disposizioni per il finanziamento della maggiore spesa sanitaria relativa all'anno 1990 - Accollo alla regione dell'onere economico della relativa spesa, cui la regione e' dallo Stato autorizzata a provvedere mediante alienazione di beni od utilizzazione del provento di tributi - Indebita invasione della sfera di competenza regionale e lesione dell'autonomia finanziaria della regione. (D.L. 15 settembre 1990, n. 262). (Cost., art. 119).(GU n.46 del 21-11-1990 )
Ricorso per la regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 4914 del 18 ottobre 1990, rappresentanta e difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto a Roma presso l'avv. Luigi Manzi, via Confalonieri, 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per l'annullamento del d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, recante "Misure urgenti per il finanziamento del saldo della maggiore spesa sanitaria relativa agli anni 1987 e 1988 e disposizioni per il finanziamento della maggiore spesa sanitaria relativa all'anno 1990", e precisamente delle seguenti disposizioni: art. 3, primo comma, in quanto assegna alle regioni il compito di "autorizzare le unita' sanitarie locali e gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari finanziati dalle quote regionali del Fondo sanitario nazionale ad assumere impegni per l'esercizio finanziario 1990 anche in eccedenza agli stanziamenti di parte corrente autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere a spese improcrastinabili e di assoluta urgenza entro limiti prequantificati dalle regioni stesse per ciascun ente" senza prevedere corrispondenti entrate nel bilancio regionale; art. 3, secondo comma, in quanto assegna alle regioni il compito di "autorizzare le unita' sanitarie locali e gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari ad assumere con i propri tesorieri anticipazioni straordinarie di cassa alle condizioni previste dalle convenzioni di tesoreria" senza prevedere corrispondenti entrate nel bilancio regionale; art. 3, terzo comma, in quanto invece di prevedere apposite e nuove entrate di bilancio regionale per il finanziamento delle spese disposte ai sensi dei precedenti commi, pone espressamente la spesa a carico delle regioni; dei corrispondenti articoli della legge di conversione. FATTO Il d.-l. 15 settembre 1990, n. 262, qui impugnato, concerne, come enunciato dal suo titolo, da una parte il finanziamento del saldo della maggiore spesa sanitaria relativa agli anni 1987 e 1988, dall'altra disposizioni per il finanziamento della maggiore spesa sanitaria relativa all'anno 1990. Per quanto riguarda la maggiore spesa sanitaria relativa agli anni 1987 e 1988, il nuovo decreto-legge prevede un meccanismo destinato a completare il finanziamento statale della parte di tale maggiore spesa "non coperta con le operazioni di finanziamento" gia' disposte con l'art. 1 del d.-l. 25 novembre 1989, n. 382 (conv. con mod. nella legge 25 gennaio 1990, n. 8). Conviene ricordare che con tale disciplina si era previsto che la maggiore spesa relativa agli anni 1987 e 1988 fosse coperta essenzialmente "mediante operazioni di mutuo con onere di ammortamento a carico dello Stato": e tuttavia tali operazioni di mutuo con oneri a carico dello Stato venivano dalla stessa disposizione limitate al "20 per cento con operazioni di mutuo da attivare entro il 31 dicembre 1989 con la Cassa depositi e prestiti" ed al "35 per cento con operazioni di mutuo da attivare nell'anno 1990 con le aziende ed istituzioni di credito". Era inevitabile che siffatto meccanismo non coprisse per intero la maggiore spesa: ed e' appunto per la parte non coperta con tale meccanismo che il d.-l. n. 262/1990 prevede ora il completamento del finanziamento per la parte residua, mediante nuovi mutui, sempre con oneri di ammortamento a carico dello Stato, "entro i limiti del 20 per cento e del 25 per cento" (cioe' misura complessiva del 45 per cento, la quale, sommata al 55 per cento gia' coperto in base al precedente decreto, copre ora integralmente la spesa relativa agli anni 1987 e 1988). Cosi' intesa, la disciplina dell'art. 1 pone correttamente a carico dello Stato l'onere del ripiano dei bilanci delle unita' sanitarie locali e degli altri enti gestori dei servizi sanitari. Ben diversamente, invece, dispone il d.-l. n. 262/1990 per il finanziamento della maggiore spesa sanitaria relativa all'anno 1990. In particolare, il primo comma dell' art. 3 dispone che "le regioni possono autorizzare le unita' sanitarie locali e gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari finanziati dalle quote regionali del Fondo sanitario nazionale ad assumere impegni per l'esercizio finanziario 1990 anche in eccedenza agli stanziamenti di parte corrente autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere a spese improcrastinabili e di assoluta urgenza entro limiti prequantificati dalle regioni stesse per ciascun ente", mentre il secondo comma assegna alle regioni il compito di "autorizzare le unita' sanitarie locali e gli altri enti che gestiscono i servizi sanitari ad assumere con i propri tesorieri anticipazioni straordinarie di cassa alle condizioni previste dalle convenzioni di tesoreria". Ed in relazione a cio' il terzo comma, anziche' prevedere meccanismi di trasferimento dallo Stato idonei a produrre corrispondenti entrate nel bilancio regionale, dispone che i costi conseguenti "sono assunti a carico delle regioni e sono finanziati o con i propri mezzi di bilancio, o mediante alienazione dei beni patrimoniali disponibili, ovvero mediante la contrazione di mutui o prestiti con istituti di credito, da assumere anche in deroga alle limitazioni previste dalle vigenti disposizioni, avvalendosi per la copertura delle relative rate anche delle entrate tributarie previste dall'art. 6 della legge 14 giugno 1990, n. 158". E' dunque evidente che il meccanismo di copertura delle maggiori spese per l'anno 1990 poggia su gravosi pesi posti alla finanza regionale. Ma tale meccanismo non solo e' gravoso sul piano del fatto, ma e' costituzionalmente illegittimo, in quanto lesivo dell'autonomia finanziaria regionale, garantita dall'art. 119 della Costituzione, per le seguenti ragioni di DIRITTO 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, primo, secondo e terzo comma, in quanto assegnano alle regioni il compito di autorizzare spese anche in eccedenza agli stanziamenti di parte corrente autorizzati con il bilancio di previsione, per provvedere a spese improcrastinabili e di assoluta urgenza, e di autorizzare le relative anticipazioni di tesoreria, ponendo espressamente il relativo costo a carico del bilancio regionale. Ad una prima lettura, il meccanismo contenuto dall'art. 3 del d.-l. n. 262/1990 potrebbe sembrare favorevole alle regioni, dato che esso "permette" alle regioni stesse di autorizzare le unita' sanitarie e gli altri enti finanziati su quote del Fondo sanitario nazionale ad assumere per il 1990 impegni in eccedenza rispetto agli stanziamenti di parte corrente autorizzati con il bilancio di previsione. E sempre a prima vista, potrebbe anche sembrare "coerente", che il costo di tali spese permesse dalla regione gravi sulla regione stessa che le ha permesse, secondo quanto dispone il terzo comma dello stesso articolo. Cosi' infatti potrebbe dirsi se il deficit dei bilanci di parte corrente fosse la conseguenza delle autonome scelte regionali, espresse dalle autorizzazioni, e se a cio' si riferisse la responsabilita' finanziaria regionale. In realta', la citata disposizione costituisce un esempio quasi scolastico di irrazionalita' - si potrebbe persino dire di ipocrisia, se si potessero attribuire al legislatore i difetti degli uomini - legislativa. Infatti, il legislatore finge di non sapere che cio' che determina lo sfondamento dei bilanci di parte corrente degli enti gestori del servizio sanitario nazionale non sono presunte autonome scelte regionali di politica sanitaria - che nell'attuale sistema non esistono - ma e' semplicemente il sommarsi di voci di costo (quali il costo per l'assistenza farmaceutica, come pure per gli esami di laboratorio e le degenze ospedaliere) previste e disciplinate dalla legislazione statale, che operano in modo automatico e del tutto indipendente da qualunque possibilita' di intervento regionale. In tale situazione, non puo' non richiamarsi l'insegnamento di codesta ecc.ma Corte costituzionale, dato fin dalla sentenza n. 245/1984, secondo il quale deve oggi escludersi "che le amministrazioni regionali portino l'effettiva responsabilita' degli eventuali disavanzi delle unita' sanitarie locali", dato che "gran parte della spesa sanitaria si forma indipendentemente dalla scelte regionali (e dalle stesse deliberazioni degli organi di gestione delle unita' sanitarie locali": sicche' "la parte essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non puo' non gravare sullo Stato... per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta ugualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale". Tali principi sono stati poi confermati e sviluppati da codesta Corte costituzionale con la sentenza n. 452/1989, ove, sempre in materia di spesa sanitaria (con riferimento alle prestazioni specialistiche in regime di convenzionamento esterno), si ribadiva l'impossibilita' costituzionale di addossare al bilancio regionale gli oneri derivanti da decisioni non imputabili alla regione stessa. Ne' varrebbe obiettare che tali principi non sono violati dalla normativa qui impugnata, in quanto essa non impone ma solo "permette" alle regioni di autorizzare spese "improcrastinabili e di assoluta urgenza" in eccedenza agli stanziamenti di parte corrente. L'obiezione, infatti, non avrebbe pregio. Se lo Stato attribuisce alla regione un potere, deve evidentemente dotarla delle risorse corrispondenti, quando non si tratti di spese che possono legittimamente essere addossate al bilancio regionale, nei termini sopra detti. Invece, secondo le disposizioni del decreto-legge, il solo modo dato alle regioni per evitare un pesante ed ingiustificato onere di bilancio consisterebbe... nel rifiutare sistematicamente le autorizzazioni, quando gli enti gestori del servizio le richiedano. Ma cio' non solo e' paradossale - dato che la regione e' chiamata ad applicare le leggi, e non a difendersi da esse - ma e' anche del tutto insostenibile, sia sul terreno del fatto che su quello del diritto. Da una parte, infatti, e' evidente che la sola esistenza di tale potere autorizzatorio convoglia sulle regioni l'enorme pressione della domanda sociale tesa ad ottenere tali autorizzazioni, che corrispondono d'altronde alle necessita' oggettive (basti pensare al problema di garantire l'assistenza farmaceutica diretta, in relazione al quale secondo dichiarazioni autorevoli il meccanismo sarebbe stato pensato): sicche' non puo' certo immaginarsi, gia' sul piano del fatto, che in tale situazione la regione possa limitarsi ad opporre il suo rifiuto di autorizzare la spesa, e gia' la sola circostanza di porre la regione in tale condizione costituisce una palese lesione della sua autonomia. Ma soprattutto, la regione, una volta dotata del potere previsto dall'art. 3, non potrebbe nemmeno sul piano del diritto legittimamente rifiutarsi di concedere le autorizzazioni, qualora evidentemente ricorressero i presupposti che la stessa disposizione prevede. In effetti, il potere dato alla regione, come ogni potere pubblico, e' necessariamente un potere-dovere, ad esercizio doveroso. E si noti che i prosupposti previsti dal decreto-legge non solo non fanno riferimento a maggiori costi derivanti da scelte regionali, ma si riferiscono ad ogni spesa che sia "improcrastinabile" e "di assoluta urgenza": qualita' che e' ovviamente innegabile a spese, la cui eventuale non autorizzazione mette a repentaglio niente di meno che il diritto alla salute. Non solo dunque di fatto, ma anche in diritto la regione non potrebbe non concedere le autorizzazioni richieste. Di qui l'assoluta illegittimita' costituzionale di un meccanismo che dota le regioni di un potere-dovere, senza dotarle dei mezzi necessari al suo esercizio, e pretendendo al contrario che esse si addossino le spese conseguenti. Risulta evidente che tale meccanismo altro non e' - se ci si consente l'espressione propria usualmente di altro contesto - che una "misura di effetto equivalente" al puro e semplice addossamento degli oneri alle regioni, gia' dichiarato illegittimo da codesta Corte costituzionale. Che poi secondo l'art. 3, terzo comma, il costo sia addossato al bilacio regionale risulta con evidenza dall'espresso riferimento ai "propri mezzi di bilancio" e dalla specifica indicazione dei modi di reperire tali mezzi, consistenti in null'altro che nella cessione di propri beni, o nell'indebitamento, o nell'uso di proprie risorse finanziarie. A nulla vale in contrario, in particolare, il riferimento alle "entrate tributarie previste dall'art. 6 della legge 14 giugno 1990, n. 158". Basta infatti osservare che il primo comma di tale articolo ascrive esplicitamente tali entrate al "precetto di cui al secondo comma dell'art. 19 della Costituzione", cioe' al corpo generale e normale delle entrate regionali. Si conferma percio' che i costi di cui all'art. 3 dell'impugnato decreto-legge sono puramente e semplicemente addossati al bilancio regionale, con violazione dell'art. 119 della Costituzione, cosi' come rettamente inteso alla luce della costante giurisprudenza costituzionale.
Tutto cio' premesso, la ricorrente regione Emilia-Romagna, come sopra rappresentata e difesa chiede: voglia l'eccellentissima Corte costituzionale dichiarare l'illegittimita' costituzionale del d.-l. 15 settembre 1990, in relazione alle disposizioni specificamente impugnate, per violazione dell'autonomia finanziaria regionale garantita dall'art. 119 della Costituzione. Padova-Roma, addi' 31 ottobre 1990 Avv. prof. Giandomenico FALCON 90C1357