N. 61 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 novembre 1990

                                 N. 61
  Ordinanza emessa il 16 novembre 1990 dalla Corte d'appello di Torino
         nel procedimento penale a carico di De Maria Giuseppe
 Processo  penale - Giudizio abbreviato in grado di appello - Previsto
 rito  camerale  -  Violazione   di   principi   della   legge-delega:
 pubblicita'  dei  giudizi  penali  e  effettivita' dell'esercizio del
 diritto di difesa.
 (C.P.P.  1988,  art.  443,  quarto  comma, in relazione alla legge 16
 febbraio 1987, n. 81, art. 2).
 (Cost., artt. 76 e 77).
(GU n.7 del 13-2-1991 )
                           LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento penale
 contro De Maria  Giuseppe,  nato  a  Taurianova  l'11  ottobre  1954,
 residente  in  Chieri,  attualmente  detenuto  a  Torino;  appellante
 avverso sentenza del Tribunale di Torino del 10 aprile 1990,  con  la
 quale e' stato condannato alla pena complessiva di anni due mesi nove
 di reclusione e L. 3.340.000, di multa,  essendo  stato  riconosciuto
 responsabile dei ratei di detenzione di stupefacenti in quantita' non
 modica (art. 71 della legge n.  685/1975),  detenzione  di  banconote
 contraffatte  (art.  455 del c.p.), detenzione e porto di arma comune
 da sparo (art. 10, 12 e 14 della legge n. 497/1974).
    All'esito  del  giudizio  svoltosi  con  il  rito  della camera di
 consiglio,
                             O S S E R V A
    Il   presente  procedimento  viene  oggi  chiamato  in  camera  di
 consiglio perche' si tratta di impugnazione avverso sentenza di primo
 grado,  emessa  dal tribunale di Torino con il rito abbreviato di cui
 agli artt. 438 e seguenti del  nuovo  c.p.p.        Avendo  riportato
 condanna  a  pena  detentiva che deve essere scontata, la sentenza e'
 appellabile anche ai sensi dell'art. 443, secondo comma, del c.p.p.
 Con   l'atto   di   impugnazione,   la  difesa  chiede  in  linea  di
 principalita' l'assoluzione dell'imputato del reato di cui al capo  A
 (detenzione  di  quantita'  non  modica  di  stupefacenti) mancando o
 quantomeno essendo incerta la prova  che  la  sostanza  in  sequestro
 appartenesse  effettivamente  al  De  Maria, dal capo C (art. 455 del
 c.p.) trattandosi palesemente di falso grossolano non idoneo a trarre
 in  inganno,  dal  capo  D in quanto la bomboletta di gas non rientra
 nella categoria delle armi comuni da sparo.
    All'udienza  odierna,  svoltasi,  come  dianzi detto, in camera di
 consiglio, non era  presente  il  p.g.,  il  quale  pertanto  non  ha
 presentato   conclusioni;  la  difesa  ha  insistito  nei  motivi  di
 impugnazione.     Ritiene questa  Corte  che  non  sia  infondata  la
 questione  di  costituzionalita'  del  quarto comma dell'art. 443 del
 nuovo c.p.p., il quale prescrive che il giudizio di  appello  avverso
 le  sentenze  emesse  in primo grado con il rito abbreviato, previsto
 dagli artt. 438 e seguenti del c.p.p., abbia luogo con il rito  della
 camera  di  consiglio,  cioe' con le forme previste dall'art. 599 del
 nuovo codice, qualunque sia la doglianza  mossa  con  il  gravame,  e
 cioe'  anche al di fuori dei limiti dettati dallo stesso art. 599 del
 c.p.p., nel suo primo comma.
    Va  premesso che, a giudizio di questa Corte, il rito della camera
 di  consiglio  previsto  dal  citato  art.  599  del   nuovo   c.p.p.
 costituisce  una evidente deroga, anche se parziale, a due importanti
 principi, sanciti dalla Costituzione e dalla legge di delegazione  16
 febbraio 1987, n. 81, e precisamente:
       a) al principio di garanzia della difesa;
       b) al principio di pubblicita' del dibattimento.
    Il  procedimento  in  camera  di  consiglio e' regolato, nel nuovo
 c.p.p., dall'art. 127. Esso prescrive (secondo comma)  che  il  p.m.,
 gli altri destinatari dell'avviso nonche' i difensori sono sentiti se
 compaiono. Lo stesso imputato, se e' detenuto o  internato  in  luogo
 posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, viene
 sentito dal magistrato di sorveglianza del  luogo  prima  del  giorno
 fissato  per l'udienza.     Quanto alla presenza del difensore, essa,
 come quella del p.m., diventa necessaria solo quando il  giudice  del
 gravame dispone la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento per
 l'assunzione di nuove prove, mentre  quella  dell'imputato,  detenuto
 fuori  dal  luogo  in cui ha sede il giudice, non e' mai garantita (a
 meno che non sia disposto il suo interrogatorio).
    Certamente,  pero',  in  questo  modo l'imputato viene privato del
 diritto di  fare,  in  ogni  momento,  quelle  dichiarazioni  che  lo
 svolgimento del processo, e soprattutto l'assunzione delle prove, gli
 consigliano (v. art. 494 del nuovo c.p.p.).     Ancora al sesto comma
 il  citato  articolo 127 dispone che il dibattimento avvenga senza la
 presenza del pubblico.     Nel primo caso, quindi, si tratta  di  una
 non  indifferente  limitazione del diritto alla difesa, di un diritto
 cioe' sancito dalla Costituzione tra i primari diritti del cittadino.
    Nel  secondo  invece  si  tratta  di  esclusione  di  un principio
 importante, su cui il legislatore delegante ha a lungo discusso, come
 emerge  dagli  atti  delle  camere  citati della sentenza n. 435/1990
 della Corte costituzionale che ha, sanzionandolo  di  illegittimita',
 esaminato analogo argomento.
    Che  tali  principi  possono  essere,  in determinate circostanze,
 parzialmente  compressi  o  derogati,  lo  si  ricava  dall'art.   2,
 direttiva  n. 1, della legge delega n. 81/1974, il quale ha stabilito
 un  altro  principio,  quello  della  celerita'   dei   procedimenti,
 attraverso la "massima semplificazione nello svolgimento del processo
 con eliminazione di ogni atto o attivita' non essenziale".        Nel
 contrasto, quindi, tra i principi, occorre valutare in primo luogo se
 il legislatore delegante ha inteso far prevalere, nel caso specifico,
 l'uno  o  l'altro  di  essi,  e,  soprattutto  allorche' si tratta di
 diritti costituzionalmente garantiti, se  la  loro  compressione  non
 finisca  per  costituire  una  vera  e  propria  lesione  dei diritti
 medesimi.
    Va comunque tenuto presente che, trattandosi di deroghe a principi
 fondamentali,  una  eventuale  deroga   stabilita   dal   legislatore
 derogante  non  puo'  essere estesa al di la' di quanto dettato dallo
 stesso delegante, senza eccedere i limiti della delega stessa.
    La  legge  di  delegazione  n. 81/1974, all'art. 2, direttiva 53),
 regola le condizioni ed il procedimento per  il  rito  abbreviato  in
 primo grado, poi traslato negli artt. 438 e seguenti del nuovo c.p.p.
    Tra l'altro, stabilisce che la decisione abbia luogo alla  udienza
 preliminare,  e  quindi in camera di consiglio (e conseguentemente in
 assenza di pubblico), qualora vi sia la richiesta dell'imputato ed il
 consenso  del p.m. ed il giudice ritenga di poter decidere allo stato
 degli atti; prevede che in questo caso le pene siano  ridotte  di  un
 terzo.  Dispone  soprattutto, ma senza precisare casi ed entita', una
 limitazione all'appellabilita' della sentenza  stessa,  nonche'  alla
 incidenza   della   sentenza   stessa  nel  processo  civile  per  le
 restituzioni. Nulla prevede, invece, per quanto  attiene  alle  forme
 del procedimento in sede di appello.
    Alla direttiva 93) detto articolo regola, invece, la previsione di
 un procedimento in camera di  consiglio,  nel  contraddittorio  delle
 parti, "quando l'impugnazione ha esclusivamente per oggetto la specie
 o la misura della pena, la concessione delle  circostanze  attenuanti
 generiche   o   l'applicabilita'   di   sanzioni  sostitutive,  o  la
 concessione di benefici di legge".
    La  stessa  Corte  costituzionale,  nella  motivazione  della gia'
 citata sentenza n. 435/1990, da' atto che la "direttiva specifica, la
 n.  93,  che  delimita  cosi'  rigorosamente  i  casi  in cui ad esse
 (decisioni in camera di consiglio in appello) puo'  addivenirsi"  sia
 "da  configurarsi  come  norma di dettaglio piu' che come principio o
 criterio direttivo". Tant'e' che  la  stessa  relazione  al  progetto
 preliminare  ammette  che  l'elencazione  in  essa  contenuta  e'  da
 ritenersi tassativa.
    Ma  altrettanto  sembra  potersi  dire  della  direttiva  53,  poi
 trasfusa in parte nell'art. 443 del c.p.p., almeno per  la  parte  in
 cui  elenca  quali possano essere le deroghe ai principi che regolano
 il processo con il rito ordinario. Tra di esse  vi  e'  la  omissione
 della   istruzione   probatoria,  la  mancanza  di  pubblicita',  del
 dibattimento, i limiti  alla  appellabilita'.        Non  e'  affatto
 previsto,  pero',  che  il  processo  prosegua in camera di consiglio
 anche in secondo grado.
    Ne  consegue  che  il legislatore delegato ha con il quarto comma,
 dell'art. 443 del c.p.p. ampliato da un lato le deroghe  ai  principi
 generali operate dalla direttiva 53, aggiungendovi anche disposizioni
 in ordine al procedimento di secondo grado, dall'altra i casi per cui
 detto  rito  sarebbe  ammesso, sino a ricomprendervi, per gli appelli
 avverso sentenze emesse con il rito abbreviato, anche le impugnazioni
 vertenti sulla responsabilita', sul titolo del reato, ecc.
    Ma tali ampliamenti non sembrano giustificati.     Non vale in
 primo luogo far riferimento, come fa la relazione ministeriale al
 codice, ad una maggior celerita' del processo.  L'esperienza
 formatasi in questo breve lasso di tempo dalla entrata in vigore del
 nuovo codice ha gia' dimostrato come l'introdurre nel rito di camera
 di consiglio questioni di rilevante importanza, quali quelle
 attinenti alla responsabilita' o al titolo del reato, finisca per
 aggravare esageratamente il processo, per cui nessuna utile
 accelerazione viene ottenuta. Non solo, ma anche la stesura della
 sentenza diventa incompatibile con il breve termine (di cinque
 giorni) a disposizione del magistrato.
    La   situazione,  poi,  diventa  paradossale  allorche'  la  Corte
 stabilisca di non poter decidere senza l'assunzione di quelle  prove,
 alle  quali  le parti ed il giudice in primo grado avevano rinunciato
 aderendo al  rito  abbreviato.  In  questo  caso  la  non  necessaria
 presenza  del  difensore  e  del  p.g.,  la  derivata mancanza di una
 declaratoria di  contumacia,  implicano  l'obbligatorieta'  di  nuove
 citazioni e notifiche, che finiscono per rendere il rito in camera di
 consiglio piu' lungo e faraginoso di un dibattimento secondo il  rito
 ordinario.
    Parlare  di maggior celerita' del processo, in questi casi, non e'
 affatto pertinente.     Ma vi sono ancora altre ragioni che  sembrano
 dover  portare  ad  escludere  il  rito in camera di consiglio, al di
 fuori dei casi previsti dall'art. 599 del c.p.p., anche se  in  primo
 grado  e'  stato  seguito  il rito abbreviato.     Innanzitutto si e'
 gia' accennato al fatto che viene di molto compresso il diritto  alla
 difesa:  la  presenza  del  difensore  non  e' necessaria, cosi' come
 l'imputato che si trovi detenuto  fuori  dalla  circoscrizione  della
 Corte  non  ha  diritto  di  presenziare  al giudizio, ma soltanto di
 essere sentito dal magistrato di sorveglianza.        Se  una  simile
 compressione  del  diritto di difesa puo' trovare giustificazione nel
 fine di rendere piu' spedito il  processo,  allorche'  l'impugnazione
 verta  su  elementi  non essenziali della causa, per cui anche solo i
 motivi di impugnazione possono apparire  sufficienti  a  chiarire  le
 ragioni  dell'imputato, la situazione e' ben diversa allorche' sia in
 contestazione la stessa responsabilita' dell'appellante.
    In  simile  situazione  non  vi  sono  ragioni per impedire che il
 processo abbia uno svolgimento regolare e pubblico, anche se in primo
 grado  esso  si  e' svolto nella camera di consiglio.     Ne' si puo'
 affermare che l'appello  nelle  forme  previste  dall'art.   599  del
 c.p.p.   sia   il  naturale  corollario  del  processo  con  il  rito
 abbreviato: invero, ponendo in discussione  gli  elementi  essenziali
 della   causa,  le  parti  in  buona  sostanza  vengono  a  porsi  in
 contraddizione con le premesse stesse del rito abbreviato.  In  altri
 termini,  se  anche  non  ritengono che sia necessaria l'acquisizione
 delle  prove  cui  prima  avevano  sostanzialmente  rinunciato,  essi
 vengono  a  chiedere  una  nuova valutazione delle prove stesse, gia'
 contenute agli atti.
    Ma tutto cio' implica la presenza certa del p.g. e della difesa, e
 la possibilita' per l'imputato,  qualora  lo  ritenga  opportuno,  di
 essere presente.     In siffatti termini, la situazione contrasta con
 la possibilita' di un procedimento in camera di  consiglio  (vale  la
 pena  chiedersi,  a  questo  punto,  se  sussistano quelle ragioni di
 opportunita'  che  hanno  consigliato  al  legislatore  delegato   di
 introdurre  nel  procedimento  in  camera  di  consiglio  in grado di
 appello, la possibilita' di procedere alla  assunzione  delle  prove;
 atto questo che mal si concilia sia con la assenza dell'imputato, sia
 con la mancanza di pubblicita' della udienza).
    Che  il  legislatore  delegante, su questo punto, fosse di diverso
 avviso  sembra  poterlo  dedurre  dal  fatto  che  in  proposito   di
 applicazione  del rito in camera di consiglio in appello le assemblee
 legislative hanno apportato numerose restrizioni rispetto  alle  piu'
 ampie  proposte  delle  commissioni: tutto, cioe', fa ritenere che la
 volonta' del legislatore delegante fosse  di  ridurre  al  minimo  le
 eccezioni  al  processo ordinario.     Si ha quindi l'impressione che
 si sia fatto rientrare dalla finestra, attraverso l'art.  443  quarto
 comma, del c.p.p.a., cio' che per altro verso era stato escluso.
    Ma  cio'  facendo  il  legislatore delegato ha certamente ecceduto
 rispetto al dettato della legge di delegazione n.  81/1974,  per  cui
 detto  quarto  comma,  dell'art.  443  del  c.p.p.,  laddove  dispone
 procedersi con il rito in camera di consiglio  in  grado  di  appello
 anche  al  di fuori dei casi previsti dall'art. 599, primo comma, del
 c.p.p., deve ritenersi costituzionalmente illegittimo, per violazione
 degli artt. 76 e 77 della Corte costituzionale.
    Non  essendo  manifestamente  infondata,  la questione, come sopra
 delineata e rilevata di ufficio,  deve  essere  sottoposta  all'esama
 della  Corte  costituzionale,  alla  quale  gli  atti  devono  essere
 trasmessi, previa sospensione del procedimento.        Deve  altresi'
 disporsi  che a cura della cancelleria vengano eseguite le incombenze
 di cui all'art. 23, ultimo comma, della legge costituzionale 11 marzo
 1953, n. 87.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 53 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87;
    Dispone la sospensione del presente procedimento;
    Ordina  la  trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, per
 l'esame  della  questione  di  costituzionalita'  del  quarto   comma
 dell'art.  443  del  c.p.p.,  in  relazione  alle  direttive  53 e 93
 contenute nell'art. 2 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n.
 81, ed agli artt. 76 e 77 della Costituzione;
    Manda   alla  cancelleria  di  notificare  la  presente  ordinanza
 all'imputato ed al suo  difensore,  al  procuratore  generale  presso
 questa  Corte,  al  Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' di
 darne comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Cosi' deciso in Torino, il 16 novembre 1990
              Il presidente estensore: (firma illeggibile)

 91C0140