N. 54 SENTENZA 28 gennaio - 6 febbraio 1991

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Fallimento - Piccole imprese commerciali - Esclusione Razionalita' -
 Discrezionalita' legislativa - Inammissibilita'.
 
 (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, secondo comma, ultima
 disposizione).
 
 (Cost., art. 3).
(GU n.7 del 13-2-1991 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giovanni CONSO;
 Giudici:  prof.  Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, dott. Francesco
 GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.   Francesco
 Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Luigi MENGONI, prof.
 Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 1, secondo
 comma, ultima proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942,  n.  267
 (Disciplina    del    fallimento,    del    concordato    preventivo,
 dell'amministrazione  controllata   e   della   liquidazione   coatta
 amministrativa),  promosso con ordinanza emessa il 15 maggio 1990 dal
 Tribunale  di  Savona  nel  procedimento  su  istanze  di  fallimento
 proposte  da  Ottoboni  Monica  ed  altri  contro  la  Ditta Fratelli
 Fontana, iscritta al n. 504 del registro ordinanze 1990 e  pubblicata
 nella   Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  34,  prima  serie
 speciale, dell'anno 1990;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice
 relatore Francesco Greco;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Ottoboni Monica ed altri hanno chiesto al Tribunale di Savona
 di  dichiarare  il  fallimento  della  Ditta  Fratelli  Fontana.  Con
 ordinanza  del  15 maggio 1990 (R.O. n. 504 del 1990) il Tribunale ha
 sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,
 secondo   comma,   regio   decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Legge
 fallimentare), nella parte in cui, dopo avere escluso dalla procedura
 fallimentare i piccoli imprenditori, dispone che "in nessun caso sono
 considerate piccoli imprenditori le societa' commerciali".
   Il  giudice remittente, premesso che nella fattispecie si tratta di
 una piccola societa' di fatto,  il  cui  capitale  si  compone  delle
 scorte  consistenti in confezioni e delle attrezzature indispensabili
 per la vendita, e che  il  locale  in  cui  si  esercita  l'attivita'
 commerciale   e'   condotto   in   locazione,   ha  rilevato  che  la
 interpretazione letterale della disposizione de qua, secondo  cui  la
 esclusione  dal  fallimento  riguarda  solo  i  piccoli  imprenditori
 individuali  e  non  anche  le  piccole  imprese   sociali,   importa
 violazione dell'art. 3 della Costituzione. Infatti, applicandola alle
 societa' di persone, per le quali vige  la  regola  della  illimitata
 responsabilita'  patrimoniale  dei  soci,  si  crea una disparita' di
 trattamento fra il piccolo imprenditore individuale, non soggetto  al
 fallimento,  ed  i  soci  illimitatamente responsabili di una impresa
 sociale,  anch'essi  imprenditori,  ai  quali  ex  art.   147   legge
 fallimentare  si  puo'  estendere  il  fallimento  della societa'. La
 disparita' di trattamento sarebbe tanto piu'  grave  in  quanto,  per
 giurisprudenza costante della Cassazione e dei giudici di merito, non
 sono soggetti  al  fallimento  ne'  gli  artigiani  ne'  le  societa'
 artigiane  quando  le  dimensioni  dell'impresa  non  superano  certi
 limiti.  Si  fa  specifico  richiamo  alle   sentenze   della   Corte
 costituzionale nn. 94 del 1970 e 570 del 1989.
    2.   -   Nel  giudizio  dinanzi  a  questa  Corte  e'  intervenuta
 l'Avvocatura Generale dello Stato in  rappresentanza  del  Presidente
 del Consiglio dei ministri, che ha concluso per la inammissibilita' o
 la infondatezza della questione.
    Ha  osservato  che la figura della piccola societa' commerciale e'
 ignota  al  nostro  ordinamento,  che   riserva   solo   al   piccolo
 imprenditore  individuale  un regime differenziato, incompatibile con
 quello proprio delle societa' commerciali; che  le  realta'  poste  a
 confronto  non  sono  omogenee in quanto anche la posizione del socio
 illimitatamente  responsabile   non   e'   riconducibile   a   quella
 dell'imprenditore;  che,  comunque,  la disciplina de qua risponde ad
 una valutazione di politica economico-sociale incensurabile  in  sede
 di legittimita' costituzionale.
                         Considerato in diritto
    1. - La Corte e' chiamata a verificare se l'art. 1, secondo comma,
 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui, ai  fini
 dell'esclusione  dalla  procedura  fallimentare,  stabilisce  che  in
 nessun  caso  sono  considerati  piccoli  imprenditori  le   societa'
 commerciali,  violi  l'art. 3 della Costituzione per la disparita' di
 trattamento che creerebbe tra i piccoli imprenditori individuali e le
 piccole  imprese commerciali, nonche' tra queste ultime e le societa'
 artigiane, per consolidata giurisprudenza, escluse dal fallimento.
    2. - La questione e' inammissibile.
    La sottoposizione alla procedura fallimentare delle societa' anche
 se di fatto e di modeste dimensioni  trova  adeguata  giustificazione
 nella presunzione di speculazione e di profitto che ne ha determinato
 la costituzione. In via generale, quindi, la differenziazione tra  le
 societa' ed il piccolo imprenditore individuale non e' irrazionale.
    2.1.  -  Non  sussiste  nemmeno  omogeneita' tra la situazione del
 piccolo imprenditore e quella dei soci di  una  societa'  di  persone
 anche  se  di  modeste  dimensioni. Invero, e' soggetta al fallimento
 solo la societa' e ai soci  illimitatamente  responsabili  puo'  solo
 estendersi  il  suo  fallimento.  In altri termini, il fallimento del
 socio segue per legge quello della societa',  mentre  rimane  persino
 irrilevante  il  fatto  che  egli  non sia imprenditore commerciale e
 versi o meno in istato di insolvenza. La estensione del fallimento e'
 diretta  ad impedire che il socio possa compiere atti di disposizione
 del suo patrimonio che, invece, deve servire a soddisfare i creditori
 sociali.
    3.  -  Il  diverso trattamento fatto alla societa' artigiana trova
 giustificazione nella natura  e  nel  carattere  di  questo  tipo  di
 societa',  la  quale gode di uno status particolare ed e' soggetta ad
 una disciplina peculiare, la quale si applica, pero', fino a  che  le
 sue  dimensioni  siano  modeste.  Se  essa  si ingrandisce, se la sua
 organizzazione si espande fino ad assumere le dimensioni di una  vera
 e  propria  impresa commerciale o industriale, se il suo guadagno, in
 altri  termini,  assume  i   connotati   del   profitto,   perde   le
 caratteristiche  di impresa artigiana ed e' soggetta al fallimento in
 quanto e' ritenuto  prevalente  il  fine  della  speculazione  e  del
 profitto.  Cio' avviene, del resto, anche per l'artigiano il quale e'
 soggetto a fallimento quando si espande ed organizza la produzione su
 basi speculative.
    4.  - Per quanto riguarda il precedente giurisprudenziale invocato
 (sentenza Corte cost. n.  579  del  1989)  si  osserva  che  esso  ha
 riguardato  la  legittimita'  costituzionale  della norma della legge
 fallimentare che stabiliva un criterio fisso per la esclusione  dalla
 soggezione al fallimento del piccolo imprenditore, cioe' il limite di
 lire  900.000  del  capitale  investito   nelle   aziende,   divenuto
 addirittura irrisorio per il mutamento dei valori monetari successivi
 all'emanazione della legge (1942).  Tuttavia,  alcune  considerazioni
 svolte  in  quella  sentenza  possono  valere  anche  per le societa'
 commerciali di modeste  dimensioni.  E  cioe'  quelle  relative  alla
 entita'  dell'impresa, alle dimensioni della sua organizzazione e dei
 mezzi impiegati, agli effetti  ed  alle  ripercussioni  del  dissesto
 nell'economia  nazionale  generale,  alla  utilita'  del ricorso alla
 procedura fallimentare per gli stessi creditori specie  in  relazione
 all'esiguita'  del patrimonio attivo, per la sua durata e le spese e,
 in genere, per la  sua  complessita',  in  relazione  alla  esiguita'
 dell'attivo  con  il  conseguente rischio della mancata realizzazione
 delle finalita' di tutela degli interessi dei creditori.
    Le   dette  considerazioni,  pero',  attengono  alla  sfera  della
 discrezionalita' del legislatore perche' rientrano nell'ambito  della
 generale politica economica e giudiziaria e a lui spetta la scelta di
 una delle varie soluzioni possibili.
    Pertanto la questione va dichiarata inammissibile.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 1, secondo comma, ultima proposizione, del regio decreto 16
 marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del  concordato
 preventivo, dell'amministrazione  controllata  e  della  liquidazione
 coatta amministrativa), in riferimento all'art. 3 della Costituzione,
 sollevata dal Tribunale di Savona con la ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.
                          Il Presidente: CONSO
                          Il redattore: GRECO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 6 febbraio 1991.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 91C0151