N. 68 SENTENZA 28 gennaio - 8 febbraio 1991

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale- Nuovo codice- Richiesta di rito abbreviato-
 Disposizioni di attuazione- Reati concernenti le armi e gli
 esplosivi- Adozione del giudizio direttissimo- Asserita erronea
 cognizione del processo da parte del g.i.p.- Ingiustificata omissione
 della fase dell'udienza preliminare- Violazione dei principi e
 direttive  della legge delega - Illegittimita' costituzionale.
 
 (D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, artt. 233, secondo comma)
 
 (Cost., artt. 3, 21, 24, 76, 97).
(GU n.7 del 13-2-1991 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giovanni CONSO;
 Giudici:  prof.  Ettore  GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
 BORZELLINO, dott. Francesco GRECO,  prof.  Gabriele  PESCATORE,  avv.
 Ugo   SPAGNOLI,   prof.   Francesco  Paolo  CASAVOLA,  prof.  Antonio
 BALDASSARRE, prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,  avv.  Mauro  FERRI,  prof.
 Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 233, secondo
 comma, del testo  delle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
 transitorie  del  codice  di procedura penale (testo approvato con il
 decreto legislativo 28 luglio  1989,  n.  271),  promossi  con  n.  5
 ordinanze  emesse da varie autorita' giurisdizionali, iscritte ai nn.
 253, 418, 419, 463 e 558 del registro  ordinanze  1990  e  pubblicate
 nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 20, 27, 33 e 38, prima
 serie speciale, dell'anno 1990;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice
 relatore Giovanni Conso;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  corso del procedimento penale a carico di Zanoni Marco
 per il reato di "detenzione illecita di arma  comune  da  sparo",  il
 Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento promuoveva
 giudizio direttissimo,  ma,  a  se'guito  di  richiesta  di  giudizio
 abbreviato  da  parte  dell'imputato,  richiedeva  al  Giudice per le
 indagini preliminari  l'udienza  preliminare,  prestando  il  proprio
 consenso  all'abbreviazione  del  rito.  Durante tale udienza "veniva
 sollevato il problema della competenza a conoscere del procedimento",
 in  quanto,  essendo  imposta  dall'art. 233 del testo delle norme di
 attuazione, di coordinamento e transitorie del  codice  di  procedura
 penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n.
 271) l'adozione del giudizio direttissimo "per i reati concernenti le
 armi  e  gli  esplosivi",  la  cognizione  del processo a quo sarebbe
 spettata non al  Giudice  per  le  indagini  preliminari,  bensi'  al
 Tribunale,  in  base  agli  artt.  451  e 452 del codice di procedura
 penale.
    Il  Giudice  per  le  indagini  preliminari presso il Tribunale di
 Trento, ritenendosi erroneamente investito del  rito,  ma,  al  tempo
 stesso,  rivendicando  la  propria  competenza  a  decidere,  ha, con
 ordinanza del 21 febbraio 1990  (n.  253  del  1990),  sollevato,  in
 riferimento  agli  artt. 3, 24, 76 e 97 della Costituzione, questione
 di legittimita' dell'art. 233, secondo comma, del testo  delle  norme
 di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
 penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n.
 271),  "e cioe' della norma che impone nella fattispecie di reato per
 cui si procede il rito direttissimo".
    Il  principio  di  eguaglianza  risulterebbe vulnerato dalla norma
 censurata perche' verrebbe del tutto  ingiustificatamente  omessa  la
 fase dell'udienza preliminare.
    Si  avrebbe,  poi,  violazione del diritto di difesa, non soltanto
 "per l'assenza del filtro dell'udienza preliminare", ma anche per  la
 soppressione  di  alcuni  epiloghi  propri  di tale udienza, quali la
 conclusione del processo in camera  di  consiglio,  "con  conseguente
 riservatezza del procedimento stesso".
    Sarebbe, inoltre, violato l'art. 2, n. 43, della legge 16 febbraio
 1987, n. 81, ove il legislatore delegante "ha  chiarito  entro  quali
 limiti  fosse ammissibile il sacrificio al principio di eguaglianza e
 del diritto di difesa, che si realizza con la instaurazione del  rito
 direttissimo".   Una   violazione   rilevante   anche   in   sede  di
 coordinamento normativo, non censurandosi una mera violazione formale
 della  difesa,  "ma la lesione del diritto di eguaglianza e di difesa
 per il tramite della violazione della delega".
    Risulterebbe,  infine,  vulnerato l'art. 97 della Costituzione, in
 quanto il  rito  direttissimo  "anomalo",  instaurandosi  rispetto  a
 procedimenti  non caratterizzati dall'evidenza probatoria che e' alla
 base del giudizio direttissimo previsto dagli artt.  449  e  seguenti
 del  codice  di procedura penale, determina "rilevanti problemi nella
 organizzazione   dei   dibattimenti   penali,   secondo   una   linea
 contrastante  con  la  legge-delega  e, quindi, ancora, con l'art. 76
 della Costituzione".
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata  e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 20, prima serie speciale,  del
 1990.
    E'   intervenuto   il   Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   Generale   dello   Stato,
 chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    Con   riferimento   alla  dedotta  violazione  dell'art.  3  della
 Costituzione, l'Avvocatura richiama la sentenza n. 172 del 1972,  che
 ha  riconosciuto  legittimo  il  giudizio direttissimo per i reati di
 stampa, rispetto ai quali, inoltre, "la specialita' del rito viene...
 a coniugarsi a fin troppo intuibili opzioni di politica criminale".
    La  sentenza  n.  172 del 1972 escluderebbe pure la violazione del
 diritto  di  difesa.  D'altro  canto,   l'udienza   preliminare   non
 rappresenterebbe   una   fase  imposta  costituzionalmente,  come  e'
 dimostrato dall'assoluta mancanza di essa nel procedimento davanti al
 pretore.
    Parimenti  insussistente  sarebbe  la  violazione dell'art. 76 con
 riferimento all'art. 2, n. 43, della delega.  Infatti,  la  legge  16
 febbraio  1987,  n. 81, nel conferire al Governo il potere di emanare
 norme di  coordinamento  del  nuovo  codice  (art.  6),  non  avrebbe
 "imposto  al  delegato  vincoli  specifici,  quali  l'osservanza  dei
 principi e dei criteri direttivi stabiliti dall'art. 2 della medesima
 legge  per l'emanazione del nuovo codice di rito", ma avrebbe rimesso
 "allo stesso legislatore delegato di apprezzare se ed in quale misura
 istituti  previsti  da  leggi speciali richiedessero un intervento di
 raccordo con il rinnovato impianto  codicistico",  impedendo  in  tal
 modo la formazione di lacune nel complessivo assetto del sistema. Una
 funzione, questa, connaturata all'esigenza avvertita dal  legislatore
 delegante  di  prescrivere l'emanazione di norme di coordinamento, ad
 evitare, altrimenti, la caducazione di tutti gli istituti e di  tutte
 le disposizioni incompatibili con la disciplina codicistica.
    "Palesemente irrilevante, prima che infondata" sarebbe, infine, la
 dedotta violazione dell'art. 97 della Costituzione, non  interferendo
 in  alcun modo la norma denunciata con i principi che la Costituzione
 detta in tema di organizzazione dei pubblici uffici.
    2.  -  Un'analoga  questione  e'  stata sollevata dal Tribunale di
 Varese, con ordinanza del 19 luglio 1990 (n. 558  del  1990),  emessa
 nel  processo  penale  a  carico  di  Gatti Fabrizio, denunciando, in
 riferimento  all'art.   76   della   Costituzione,   l'illegittimita'
 dell'art. 233, secondo comma, del testo delle norme di attuazione, di
 coordinamento e transitorie del codice  di  procedura  penale  (testo
 approvato  con  il  decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), che,
 nell'imporre il giudizio direttissimo, "anche fuori dei casi previsti
 dagli  artt.  449 e 556" del codice di procedura penale, "per i reati
 concernenti le armi e gli esplosivi", contrasterebbe con la direttiva
 di cui all'art. 2, n. 43, della legge 16 febbraio 1987, n.  81.
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata  e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 38, prima serie speciale, del
 1990.
    E'   intervenuto   il   Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   Generale   dello   Stato,
 chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
    3.  -  Il  Tribunale  di  Lecce, con due ordinanze aventi identico
 contenuto, emesse entrambe il  10  aprile  1990,  nel  corso  di  due
 diversi  procedimenti  penali,  a carico di Luciano Tarricone (n. 418
 del 1990) e di Gerardo Mario Filippo (n. 419 del 1990), ha sollevato,
 in  riferimento  agli  artt.  3,  21, 24, 76 e 97 della Costituzione,
 questione di legittimita' dell'art. 233,  secondo  comma,  del  testo
 delle  norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice
 di procedura penale (testo approvato con il  decreto  legislativo  28
 luglio  1989,  n.  271),  "limitatamente  alla  parole 'e per i reati
 commessi con il mezzo della stampa'".
    In  primo  luogo, "la diversita' di trattamento dei reati commessi
 col mezzo della stampa rispetto agli altri"  risulterebbe  "priva  di
 razionale   giustificazione",  costituendo  "un  mero  residuo  della
 concezione  del  rito  direttissimo  propria  del   vecchio   sistema
 processuale, nel quale il legislatore" era motivato non "da finalita'
 garantistico-accusatorie,  ma  dal   desiderio   di   stimolare   una
 repressione  'fulminea  e  spettacolarmente  esemplare'":  da cio' la
 conclusione che, sotto tale profilo, la norma denunciata  "appare  in
 contrasto coi principi di uguaglianza e di liberta' di stampa".
    Inoltre,  poiche'  "la fase processuale anteriore al dibattimento"
 adempirebbe "una funzione  di  tutela  dei  diritti  dell'indagato  e
 dell'efficienza dell'amministrazione giudiziaria", sarebbero violati,
 in  combinato  disposto,  gli  artt.  24  e  97  della  Costituzione,
 consentendosi,   proprio   attraverso   l'udienza   preliminare,  "di
 accertare i casi piu' evidenti di innocenza  dell'indagato,  evitando
 allo  stesso  la sofferenza del giudizio, alla societa' il suo costo,
 economico e di credibilita'".
    Non  sarebbe,  infine,  rispettato l'art. 2, n. 43, della legge 16
 febbraio 1987, n. 81, con conseguente violazione dell'art.  76  della
 Costituzione,  perche',  in  base  alla  detta direttiva, al pubblico
 ministero avrebbe dovuto, comunque, competere un potere di scelta del
 rito.
    Le  ordinanze,  ritualmente  notificate  e  comunicate, sono state
 entrambe pubblicate nella  Gazzetta  Ufficiale  n.  27,  prima  serie
 speciale, del 1990.
    E'   intervenuto   il   Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   Generale   dello   Stato,
 riportandosi    integralmente   a   quanto   dedotto   in   relazione
 all'ordinanza del Giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il
 Tribunale di Trento.
    4. - Il Tribunale di Trento, con ordinanza emessa il 23 marzo 1990
 (n. 463 del 1990) nel processo penale a carico di  Vivarelli  Roberto
 ed altro, imputati del reato di diffamazione a mezzo della stampa, ha
 sollevato,  in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  76  e   97   della
 Costituzione, questione di legittimita' dell'art. 233, secondo comma,
 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento  e  transitorie
 del  codice  di  procedura  penale  (testo  approvato  con il decreto
 legislativo 28 luglio 1989,  n.  271),  il  quale  "prevede...che  in
 deroga   ai   principi  generali  del  codice  si  procedera'  (o  si
 continuera' a procedere, dato  che  questa  era  anche  la  normativa
 speciale  previgente)  con il rito direttissimo nell'ipotesi di reati
 commessi col mezzo della stampa ovvero  concernenti  le  armi  e  gli
 esplosivi".  Cosi'  da  determinare  una ingiustificata disparita' di
 trattamento di questi  rispetto  ad  altri  reati  e  violazione  del
 diritto  di  difesa,  "non solo per l'assenza del filtro dell'udienza
 preliminare, ma anche per la  eliminazione  di  tutta  una  serie  di
 possibilita'  che  la  stessa udienza offre", nonche' dell'art. 2, n.
 43, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, e del  princi'pio  del  buon
 andamento   dell'amministrazione  della  giustizia,  atteso  che  "la
 introduzione  dei  procedimenti  con  rito   direttissimo   'anomalo'
 portera'  rilevanti  problemi  nell'organizzazione  dei  dibattimenti
 penali".
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata  e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 33, prima serie speciale, del
 1990.
    Anche  in tale giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,  concludendo  per  la  dichiarazione  di  non fondatezza della
 questione.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  cinque  ordinanze in epigrafe sottopongono al vaglio di
 questa Corte, con vario riferimento agli artt. 3, 21,  24,  76  e  97
 della  Costituzione, l'art. 233, secondo comma, del testo delle norme
 di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura
 penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n.
 271), in forza del quale "il pubblico  ministero  procede"  -  cioe',
 deve  procedere  -  "al  giudizio  direttissimo, anche fuori dei casi
 previsti dagli articoli 449 e 556 del codice, per i reati concernenti
 le  armi  e  gli  esplosivi e per i reati commessi con il mezzo della
 stampa".
    Anche   se,   a   tener  conto  della  rilevanza  delle  questioni
 rispettivamente sollevate, due ordinanze (la n. 253 del 1990 e la  n.
 463  del  1990)  vengono in effetti a coinvolgere il comma denunciato
 nella parte in cui  il  giudizio  direttissimo  obbligatorio  ha  per
 oggetto  "i  reati  concernenti  le  armi e gli esplosivi", mentre le
 altre tre (la n. 418 del 1990, la n. 419 del 1990 e  la  n.  558  del
 1990)  vengono  in  effetti  a  coinvolgerlo  nella  parte  in cui il
 giudizio direttissimo obbligatorio ha per oggetto "i  reati  commessi
 con   il  mezzo  della  stampa",  la  sostanziale  coincidenza  delle
 argomentazioni addotte,  evidenziata  pure  dalla  pressoche'  totale
 comunanza  dei  parametri invocati (solo l'art. 21 della Costituzione
 si ritrova esclusivamente, per ragioni di  specifica  materia,  nelle
 prime  due  ordinanze  del secondo gruppo), conduce alla riunione dei
 relativi giudizi di legittimita', al fine di deciderli  con  un'unica
 sentenza.
    2.   -   Inquadrato  nel  tessuto  complessivo  dell'articolo  cui
 appartiene e  che,  a  sua  volta,  e'  inserito  fra  "le  norme  di
 coordinamento  delle  disposizioni  previste  dagli articoli 2, 3 e 5
 della legge delega" per l'emanazione del nuovo  codice  di  procedura
 penale  "con  tutte le altre leggi dello Stato", il comma in esame si
 presenta chiaramente come un'eccezione al dettato del primo comma del
 medesimo  art. 233 ("Tuttavia, sono abrogate le disposizioni di leggi
 o decreti che prevedono il giudizio direttissimo in casi, con forme o
 termini  diversi da quelli indicati nel codice") e, al tempo stesso -
 attraverso   la   proclamata   persistente    applicabilita'    della
 regolamentazione  speciale da tempo vigente in ordine sia al giudizio
 direttissimo per i reati concernenti le armi e gli esplosivi  sia  al
 giudizio  direttissimo per i reati commessi con il mezzo della stampa
 - come una deroga alla disciplina dettata, quanto  a  casi,  forme  e
 termini  del  giudizio  direttissimo, dagli artt. 449 e 556 del nuovo
 codice di procedura penale.  Infatti,  a  differenza  di  questi  due
 ultimi  articoli, che subordinano l'adozione del rito direttissimo ad
 una scelta del pubblico ministero ("puo'": v. art. 449, primo, quarto
 e  quinto  comma;  art. 566, quarto comma), le disposizioni tenute in
 vita dall'art. 233,  secondo  comma,  delle  norme  di  coordinamento
 impongono   al   pubblico   ministero   l'instaurazione  diretta  del
 dibattimento - connotato essenziale del giudizio direttissimo  "anche
 fuori dei casi previsti dagli articoli 449 e 556 del codice":  cioe',
 sempre  e  comunque,   allorquando   l'imputazione   riguardi   reati
 concernenti  armi  od  esplosivi  oppure  reati commessi con il mezzo
 della stampa. La deviazione dal nuovo modello codicistico viene cosi'
 ad  assumere  una  doppia  valenza:  l'adozione  del rito speciale e'
 doverosa,  anziche'  discrezionale,  in   quanto   imposta   pure   a
 prescindere  dall'esistenza dei presupposti fissati dall'art. 449 per
 il giudizio direttissimo davanti al tribunale e dall'art. 566 per  il
 giudizio direttissimo davanti al pretore.
    Ad  avviso  dei  giudici  a  quibus, tutto cio' comporterebbe, nei
 rapporti di costituzionalita', la violazione degli artt. 3 (in quanto
 verrebbe    ingiustificatamente    omessa    la   fase   dell'udienza
 preliminare), 24  (in  quanto  si  priverebbe  l'imputato  di  alcuni
 epiloghi   propri  di  tale  udienza),  76  (in  quanto  non  sarebbe
 rispettato un criterio direttivo di cui al punto n.  43  dell'art.  2
 della  legge-delega  per  l'emanazione  del nuovo codice di procedura
 penale,  ove  sono  tracciate  le  linee  dalle  quali  il   giudizio
 direttissimo,  tipico  giudizio speciale, non puo' allontanarsi nella
 previsione del legislatore delegato), 97 (in quanto  l'organizzazione
 dei dibattimenti penali risulterebbe negativamente condizionata dalla
 non   preventivabile   instaurazione   dei    giudizi    direttissimi
 obbligatori) e - per i reati commessi con il mezzo della stampa anche
 21 (in quanto ci si troverebbe di fronte ad un residuato del  vecchio
 sistema  processuale, nato dal proposito di stimolare una repressione
 esemplare, a freno della liberta' di stampa).
    3. - Le questioni sono fondate.
    Secondo  quanto  adombrato  dalle  due  ordinanze del Tribunale di
 Lecce (n. 418 del 1990 e n. 419  del  1990)  sul  finire  della  loro
 motivazione,  si  appalesa "decisivo" il rilievo che, muovendo dal n.
 43 dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, imperniato
 sul  "potere  del  pubblico  ministero  di  citare  l'imputato per il
 giudizio direttissimo,  nei  casi  poi  trasfusi  nell'art.  449  del
 codice",  porta  a  constatare  come  tale  potere "nel caso previsto
 dall'art. 233 cpv.  d.legisl.  271/89"  sia,  invece,  "diventato  un
 dovere,  in  chiara violazione della legge-delega (e quindi dell'art.
 76 Cost.), che del resto ancorava lo  stesso  potere  a  ben  precisi
 presupposti   (quelli   di   cui   all'odierno   art.   449  c.p.p.),
 completamente trascurati dalla norma censurata.
    4.  - Innegabilmente, il n. 43 dell'art. 2 della legge-delega, nel
 configurare,  tra  le   alternative   al   giudizio   ordinario,   la
 possibilita'  ("potere")  per  il  pubblico  ministero  di presentare
 l'imputato direttamente in giudizio entro  termini  e  per  casi  ben
 predeterminati, rivela il preciso intento di mantenere l'adozione del
 giudizio direttissimo entro confini nettamente circoscritti, tali  da
 non consentire al legislatore delegato di superarli con l'aggiunta di
 ipotesi esulanti dai paradigmi ivi descritti, salvo incorrere  in  un
 eccesso di delega contrastante con l'art. 76 della Costituzione.
    I   lavori   parlamentari   che   hanno  progressivamente  portato
 all'approvazione della legge-delega nel corso  della  IX  legislatura
 risultano particolarmente eloquenti al riguardo. Dopo che il giudizio
 direttissimo era rimasto addirittura escluso dalle  previsioni  della
 precedente   legge-delega  del  1974  e,  quindi,  dall'impianto  del
 correlativo progetto preliminare del 1978, un emendamento, presentato
 dal  Governo  nel  corso  dell'VIII  legislatura in vista del rinnovo
 della delega,  aveva  profilato  la  "possibilita'  per  il  pubblico
 ministero   di   disporre   il   giudizio   direttissimo"   in   casi
 predeterminati, su'bito  accendendo  vivaci  discussioni  all'interno
 della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in un continuo
 oscillare tra la formula "possibilita' per  il  pubblico  ministero",
 divenuta  in  seguito  "potere  del pubblico ministero", e la formula
 "potere-dovere del pubblico ministero". In sede  di  approvazione  da
 parte  di  quella  Commissione  fu  la  formula  "potere del pubblico
 ministero di  presentare  l'imputato  direttamente  al  tribunale"  a
 prevalere,  per venire poi sostanzialmente mantenuta durante le varie
 fasi della successiva, e decisiva, IX legislatura,  pur  nel  variare
 degli  altri  contenuti  del  relativo  punto,  diventando  alla fine
 "potere del pubblico ministero di presentare l'imputato  direttamente
 in  giudizio".  Il  tutto  nella  prospettiva di riservare all'organo
 dell'accusa il potere  di  adottare,  di  volta  in  volta,  il  rito
 valutato  come  il  piu'  adatto,  non  senza giungere, nel contempo,
 quanto ai casi specifici di giudizio direttissimo,  al  risultato  di
 renderne  piu'  ampio  l'ambito  rispetto  alle previsioni del codice
 precedente,  cosi'  da  assorbire  sin  dove  ritenuto  possibile  le
 aggiunte dovute a leggi speciali.
    5.  -  Tale  e  tanta  e' la chiarezza del punto n. 43 dell'art. 2
 della legge-delega per l'emanazione del  nuovo  codice  di  procedura
 penale  che,  per sottrarre l'art. 233, secondo comma, delle norme di
 coordinamento  alla   lamentata   violazione   dell'art.   76   della
 Costituzione,  non  resterebbe che la via di ritenere inapplicabili i
 princi'pi ed i criteri direttivi elencati nell'art. 2 alla delega  di
 cui  all'art.  6, avente per oggetto, fra l'altro, l'emanazione delle
 norme di coordinamento.
    Proprio sulla base di questa prospettazione, l'Avvocatura Generale
 dello Stato - pur riconoscendo, nell'atto di intervento  relativo  al
 primo  dei  cinque  giudizi  riuniti  (n. 253 del 1990), che la norma
 denunciata "si muove secondo prospettive di eccezionale  deroga  alla
 disciplina del codice" - perviene a considerare infondato il sospetto
 di un eccesso di delega. Infatti, secondo l'Avvocatura Generale dello
 Stato,  la  legge di delegazione, "nel conferire al Governo il potere
 di emanare norme di coordinamento del  nuovo  codice  'con  tutte  le
 altre leggi dello Stato' (art. 6), non ha imposto al delegato vincoli
 specifici".
    Ma,  se  le  cose  stessero  effettivamente  cosi',  si sarebbe in
 presenza di una delega - quella, appunto, conferita con l'art. 6 che,
 in  quanto  priva  di  ogni  "determinazione  di  principi  e criteri
 direttivi", si troverebbe in palese, diretto e radicale contrasto con
 l'art. 76 della Costituzione.
    Anche  la  pretesa  che,  trattandosi  di  norme di coordinamento,
 sarebbe "rimesso allo stesso legislatore delegato di apprezzare se ed
 in  quale misura istituti previsti da leggi speciali richiedessero un
 intervento di raccordo con il rinnovato impianto  codicistico,  cosi'
 da  impedire  il  determinarsi  di  un  altrimenti  incolmabile vuoto
 normativo" - a parte la facile obiezione che nessun incolmabile vuoto
 normativo si sarebbe determinato nella specie (l'abrogazione di tutte
 le precedenti previsioni di giudizio  direttissimo  avrebbe  lasciato
 intero  posto  alle  previsioni  del nuovo codice) - va incontro allo
 stesso decisivo rilievo:  il  libero  apprezzamento  del  legislatore
 delegato  non puo' mai assurgere a principio od a criterio direttivo,
 in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale e',  per
 definizione, la legislazione su delega.
    Il  completo  silenzio  dell'art.  6  della  legge-delega quanto a
 princi'pi e criteri direttivi  non  puo',  dunque,  intendersi,  come
 vorrebbe   l'Avvocatura   Generale   dello  Stato,  alla  stregua  di
 un'indiscriminata     rimessione     al     legislatore      delegato
 dell'apprezzamento del se e del come raccordare gli istituti previsti
 da leggi speciali all'impianto del nuovo codice.  Tale  silenzio  va,
 invece,  inteso  come tacito rinvio ai princi'pi ed ai criteri di cui
 all'art. 2 (e, per il processo penale a carico di imputati minorenni,
 all'art.  3)  della  medesima  legge,  nel  senso  che  le  norme  di
 coordinamento non debbono mai porsi in contrasto con tali princi'pi e
 criteri, proprio perche' l'esercizio di una delega volta a coordinare
 il codice con le altre leggi dello Stato non puo' spingersi  fino  al
 punto  di  aggirare  uno  dei princi'pi e criteri su cui il codice e'
 stato costruito. La finalita' dell'art. 6, nella parte concernente le
 norme di coordinamento ivi contemplate, sta proprio nel non escludere
 possibili sopravvivenze normative, purche' coerenti con gli artt. 2 e
 3 della stessa legge.
    Ne'  giova  asserire  in  contrario,  come  nella parte conclusiva
 dell'atto di intervento fa l'Avvocatura Generale dello Stato, che  la
 funzione    di   un   coordinamento   cosi'   limitata   risulterebbe
 sostanzialmente inutile. A prescindere dalla considerazione  che,  se
 cosi'  fosse, nemmeno il primo comma dell'art. 233, che sia nel testo
 del progetto preliminare sia nel testo del progetto definitivo  delle
 norme  di coordinamento si presentava come unico, troverebbe una vera
 ragione d'essere, non  sempre  le  caducazioni  ritenute  automatiche
 significano   certezza   normativa.   Il   fenomeno  dell'abrogazione
 implicita non di rado suscita dubbi, che, specie nel passaggio da una
 vecchia   ad  una  nuova  codificazione,  e'  bene  evitare  il  piu'
 possibile, tanto piu' quando si sia in presenza di  una  legislazione
 delegata, per sua natura carica di condizionamenti.
    6.   -   Si   deve,   percio',   pervenire  alla  declaratoria  di
 illegittimita'  della  norma  impugnata,  con  conseguente  riduzione
 dell'art.  233  delle norme di coordinamento al solo primo comma, che
 viene in tal modo a  conglobare,  nell'abrogazione  ivi  esplicitata,
 tutte  "le  disposizioni di leggi o decreti che prevedono il giudizio
 direttissimo in casi, con forme e termini diversi da quelli  indicati
 nel  codice".  Con  l'ulteriore  effetto  che,  in  ordine  ai  reati
 concernenti le armi o gli esplosivi ed ai reati commessi con il mezzo
 della  stampa, il rito direttissimo potra' pur sempre essere adottato
 in presenza dei presupposti indicati negli artt. 449 e 566 del codice
 (arresto in flagranza, confessione).
    Resta,  a questo punto, assorbita ogni analisi relativa agli altri
 parametri di costituzionalita' indicati dai giudici a quibus.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  233, secondo
 comma, del testo  delle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
 transitorie  del  codice  di procedura penale (testo approvato con il
 decreto legislativo 28 luglio 1989.  n. 271).
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.
                    Il Presidente e redattore: CONSO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria l'8 febbraio 1991.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 91C0167