N. 66 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 novembre 1990
N. 66 Ordinanza emessa l'8 novembre 1990 dal tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo sezione distaccata di Pescara, sul ricorso proposto da Di Fabio Dora contro l'E.N.P.A.S. Previdenza e assistenza sociale - Impiego statale - Indennita' di buonuscita - Esclusione dell'indennita' integrativa speciale dal computo della base contributiva da considerarsi ai fini della liquidazione della buonuscita - Ingiustificata disparita' di trattamento rispetto ai lavoratori privati e ai dipendenti degli enti pubblici - Violazione del principio della retribuzione (anche differita) proporzionata ed adeguata - Richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 220/1988 (non fondatezza di analoga questione) e alle ordinanze nn. 641, 869, 1070, 1072 del 1988 e 419/1989 (manifesta inammissibilita') ritenute superate dal giudice rimettente per l'inerzia prolungata del legislatore, invitato con le predette pronunce a provvedere all'omogeneizzazione dei rapporti di servizio. (Legge 27 maggio 1959, n. 324, art. 1, terzo comma, lett. b), modificato dalla legge 3 marzo 1960, n. 185; d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, artt. 3 e 38; legge 29 aprile 1976, n. 177, art. 7, primo comma; legge 20 marzo 1980, n. 75). (Cost., artt. 1, 3, 4, 35, 36, 38, 97 e 98).(GU n.8 del 20-2-1991 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da Di Fabio Dora, rappresentata e difesa dall'avv. Arcangelo Finocchi, con procura in calce al ricorso e domicilio eletto in Pescara, via Venezia, 25, contro l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza dei dipendenti statali (E.N.P.A.S.) in persona legale rappresentante (pro-tempore) presentato e difeso dall'avvocatura dello Stato per l'annullamento del provvedimento n. 177163 del 1983 dell'E.N.P.A.S. con quale si e' liquidata l'indennita' di buonuscita (mandato 08859 del 26 ottobre 1983 per L. 33.159.299); Visto il ricorso con i relativi allegati, notificato il 13-17 febbraio e depositato il 6 marzo 1987; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'avvocatura dello Stato (13 marzo 1987); Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Udito alla pubblica udienza dell'8 novembre 1990 il consigliere Dino Nazzaro e uditi, altresi', l'avv. A. Finocchi per la ricorrente e l'avv. dello Stato A. Piccirillo per l'amministrazione resistente; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: F A T T O La ricorrente, professoressa delle scuole medie inferiori, e' cessata dal servizio in data 10 settembre 1983 ed ha ricevuto, quale indennita' di buonuscita, una somma (L. 27.513.055 netta) in cui non e' stata conteggiata la indennita' integrativa speciale, che pure e' considerata retribuzione. Tale esclusione trova il suo fondamento di legge nella legge 27 maggio 1959, n. 324 (art. 1, terzo comma, modificato dalla legge 3 marzo 1960, n. 185) e d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (art. 38). Tale assunto viene ritenuto contrastante con la mutata funzione della i.i.s., che con legge 9 ottobre 1971, n. 825 e legge 3 giugno 1975, n. 160, e' considerata parte integrante della retribuzione, soggetta all'Irpf (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597) e constituente base imponibile per la contribuzione (art. 12 della legge n. 153/1969). Tale evoluzione funzionale sarebbe stata confermata dalla legge 31 luglio 1975, n. 364 e dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 (settore privato). Parte ricorrente ritiene che l'art. 1, terzo comma della legge n. 324/1959 e l'art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973 devono considerarsi abrogati e conseguentemente la liquidazione de qua e' errata e va annullata, dovendosi computare tutto lo stipendio annuo complessivo, ivi compreso la i.i.s. Conclusivamente si chiede, previa declaratoria del diritto, la condanna dell'E.N.P.A.S. al pagamento della differenza dovuta con interessi, svalutazioni e spese di causa. In via subordiata si eccepisce la illegittimita' costituzionale dell'art. 1, terzo comma della legge n. 324/1959, nella parte in cui esclude la conputabilita' della i.i.s. per i dipendenti statali, per violazione artt. 3 e 36 della Costituzione, prevedendosi per costoro un trattamento economico diverso e peggiore rispetto al settore privato ed al parastato, lesivo del principio della "retribuzione proporzionata" alla qualita' e quantita' del lavoro. Sarebbe altresi' violato l'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, non potendosi la i.i.s. quale componente dell'imponibile contributivo per i dipendenti statali. L'avvocatura dello Stato, con memoria depositata il 27 aprile 1990, resiste ed oppone quanto segue: la i.i.s. e' compenso accessorio e sussidiario variabile nel tempo, escluso tassativamente dal computo del trattamento di quiescenza e di previdenza, in quanto le leggi successive (legge 2 aprile 1976, n. 177 e legge 3 giugno 1975, n. 160) non hanno mai abrogato l'art. 1, terzo comma della legge n. 324/1959; la Corte costituzionale (sentenza 11-25 febbraio 1988, n. 220) ha rimesso ogni modifica alla discrezionalita' del legislatore, confermando tale orientamento con ordinanza n. 419 del 6 luglio 1989, proprio su rimessione di questo tribunale (ordinanza n. 4 del 10 gennaio 1989); la disparita' andrebbe valutata con riferimento ai vari sistemi normativi e non con le singole norme avulse dal loro complesso, mentre tra rapporto pubblico e rapporto privato, nonche' tra gli stessi rapporti pubblici, non e' possibile allo stato alcuna comparazione. Conclusivamente si chiede il rigetto con vittoria di spese. Alla pubblica udienza la causa e' stata assunta in decisione. D I R I T T O Viene riproposta all'attenzione di questo collegio la questione afferente l'inclusione della indennita' integrativa speciale nel computo della retribuzione, unitariamente e complessivamente intesa, da considerarsi ai fini della determinazione della indennita' di buonuscita E.N.P.A.S. Trattasi di problematica non nuova, gia' oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, tuttora irrisolta sul piano del riconoscimento del diritto, sicche' la stessa tende ormai a consolidarsi come quaestio perennis per la insensibilita' del legislatore, complice la remissivita' del giudicante, incapace di rendere giustizia e farsi viva vox legis. Ed invero, e' convinzione del tribunale che la pretesa della ricorrente sia fondata e vada accolta, ma in mancanza di un preciso indirizzo giurisprudenziale in tal senso, e tale da configurarsi quale vero e proprio diritto vivente, il collegio ha avuto forti perplessita' sulla utilita' di fare ricorso ad una interpretazione abrogatrice dell'art. 1, terzo comma, della legge 27 maggio 1959, n. 324 (modificato con legge 3 marzo 1960, n. 185) e dell'art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, con il conseguenziale riconoscimento del diritto alla Di Fabio Dora. Per altro verso questo giudicante ha anche presente l'indirizzo, per nulla convincente e poco equo, assunto dal giudice delle leggi, che sembra aver dato prevalenza ad altre considerazioni, rispetto alla primaria funzione di giustizia, sicche' il rinvio della questione alla Corte costituzionale, potrebbe sembrare un inutile rituale. Il collegio, peraltro, non ritiene di poter rigettare sic et simpliciter il presente ricorso, in quanto cio' equivarrebbe ad un diniego di giustizia sostanziale, ne' puo' accettare la tesi della "discrezionalita' legislativa" essendo convinto che i diritti del cittadino non possono essere supinamente rimessi alla volonta' del legislatore, che e' spesso mosso da meri ragionamenti utilitaristici. Ad avviso del giudicante e', pertanto, compito della Corte costituzionale rimuovere lo stallo legislativo che e' di per se' un fattore di ingiustizia e di sperequazione nell'ambito del mondo del lavoro, unitariamente inteso, ove la non omogeneita' non puo' essere portata a giustificazione di disparita', che offendono i boni cives, specie allorquando questi si aspettano il giusto riconoscimento per l'attivita' svolta al servizio dello Stato. La questione, rebus sic stantibus, va rimessa al giudice delle leggi, dandosi cosi' accoglimento alla richiesta subordinata della ricorrente, apparendo essa fondata e rilevante ai fini decisori del ricorso, in quanto, una volta conducata la normativa de qua, il giudicante dara' sicuro accoglimento alla pretesa attorea. Il tribunale, gia' con altre precedenti ordinanze (fra tutte si cita la n. 400 del 13 aprile 1989 in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 37 del 13 settembre 1989) ha illustrato la funzione sempre piu' sostanziale della i.i.s. sul piano della remunerazione, che non e' un dato statico ma un concetto "in espansione", con una sua precisa fisionomia "familiare", considerato dal Costituente come mezzo per la promozione sociale del singolo, che concorre con il suo lavoro all'elevazione materiale e spirituale della Nazione. Appare, pertanto, conseguenziale, come la i.i.s., avendo la funzione di "adeguamento al costo della vita", abbia ormai assunto una posizione di "rilevanza costituzionale" nell'ambito del complesso retributivo e come essa non possa essere relegata in posizione accessoria o sussidiaria, tale da essere pretermessa in sede di determinazione della liquidazione di fine rapporto, sia che tale indennita' abbia natura previdenziale o natura retributiva. E invero, nell'una e nell'altra ipotesi la i.i.s. trova pieno titolo a vedersi computare nel quantum retributivo, perche', quale voce stipendiale assoggettata a contribuzione, costituisce comunque o il parametro di determinazione della prestazione previdenziale finale o "elemento frazionale" della retribuzione differita. La legge 27 maggio 1959, n. 324, nel prevedere "miglioramenti economici al personale statale in attivita'" ed in "quiescenza", venne ad attribuire, a decorrere dal 1 luglio 1959, "una indennita' integrativa speciale mensile" che successivamente (legge 3 marzo 1960, n. 185) si afferma essere non "computabile agli effetti del trattamento di quiescenza, di previdenza e della indennita' di licenziamento " (art. 1, lett. b), nonche' "esente da qualsiasi ritenuta comprese quelle erariali, non concorrendo alla formazione del reddito complessivo ai fini dell'imposta complementare" (art. 1, lett. c). Con legge 31 luglio 1975, n. 364, la i.i.s. viene corrisposta anche "in aggiunta alla tredicesima mensilita'", assimilandosi cosi' completamente alle altre voci stipendiali corrisposte mensilmente e per tredici mensilita'. Di tale circostanza ne prende atto il legislatore che con logica conseguenzialita', sottopone a "ritenute in conto entrate Tesoro" (contribuzioni) anche "l'indennita' integrativa speciale di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni ed integrazioni, compreso l'importo corrisposto sulla tredicesima mensilita'" (art. 13, n. 5, della legge 29 aprile 1976, n. 177), la quale, poi, viene anche considerata reddito in denaro percepito continuativamente e soggetto a tassazione (art. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597). Tali sviluppi normativi non consentono piu', sul piano logico e razionale, di ritenere la base retributiva come un quid ingessato dall'art. 1, lett. b), della legge n. 324/1959 (come modificato dalla legge n. 185/1960), atteso che la "base contributiva", posta quale parametro della indennita' di buonuscita (art. 3 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032) si e' allargata anche alla i.i.s. Essa sembra non essere prevista neppure dall'art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, ma, per gli sviluppi normativi successivi (legge n. 177/1976) trovasi ad essere automaticamente ricompresa nella "base contributiva" di cui al predetto art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, che al secondo comma contiene una clausola di chiusura allargata agli "assegni e le indennita' previsti dalla legge come utili ai fini del trattamento previdenziale". Tale norma va letta necessariamente in coordinazione con l'art. 3, terzo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, il quale stabilisce che "per la determinazione della base contributiva ai fini dell'applicazionedel comma precedente (indennita' per dodicesimi), si considera l'ultimo stipendio e l'ultima paga e retribuzione integralmente percepiti", ovvero anche la i.i.s. che e' funzionalmente e concettualmente assorbita nella retribuzione. Ma a tale corretta interpretazione "evolutiva" appare di ostacolo proprio la norma originaria (art. 1), cosi' come modificata dalla legge n. 185/1960, art. 1, lett. b), nonche' l'art. 38, secondo comma, che sembra voler riaffermare, attraverso l'inciso "le indennita' previste dalla legge e come utili ai fini del trattamento previdenziale", la validita' e la vigenza dell'art. 1, terzo comma, della legge 27 maggio 1959, n. 324, cosi' come sostituito all'art. 1, lett. b), della legge 3 marzo 1960, n. 185, dando un contenuto "ristretto" al concetto di "ultimo stipendio o l'ultima paga o retribuzione integralmente percepiti", cui fa riferimento l'antecedente art. 3, terzo comma, dello stesso d.P.R. n. 1032/1973. Il giudicante, pertanto, se in adesione alla richiesta di parte, provvedesse a considerare implicitamente abrogati l'art. 1, terzo comma, della legge 27 maggio 1959, n. 324 (art. 1, lett. b), della legge 3 marzo 1960, n. 185) e l'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, secondo comma, non farebbe allo stato una corretta attivita' ermeneutica, consentita dall'ordinamento, ma verrebbe a cancellare due norme che sono ancora valide, anche se intrinsecamente irrazionali ed in palese contraddizione con altra normativa statale (legge 29 maggio 1982, n. 297, art. 1) ed il "diritto vivente", che si impone ad ogni altra forma di legalismo o di schematismo formale, ancorato alle presute differenze strutturali tuttora esistenti tra "rapporto di diritto privato e il rapporto di lavoro di diritto pubblico". Essi, infatti, trovano la loro sostanziale "unitarieta'" nel concetto di "lavoro" presente nella Carta costituzionale, la quale all'art. 1 fa del "lavoro" il fondamento della "Repubblica democratica" e lo strumento di coesione etico-sociale tra tutti i cittadini, che, in quanto "lavoratori" (ovvero esplicanti una qualsiasi "attivita' o funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della societa'" art. 4 della Costituzione), hanno garantiti la effettiva partecipazione "alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 della Costituzione). Va ancora ricordato che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni" (art. 35 della Costituzione), garantendo una "retribuzione proporzionale alla quantita' e qualita' del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa" (art. 36 della Costituzione), la quale non puo' non essere paritariamente considerata anche per le ipotesi di "cessazione del rapporto", dovendosi escludere artificiose "limitazioni" in sede di liquidazione di indennita' economiche, ancor piu' inconcepibili proprio nelle ipotesi di sussistenza di contribuzione da parte del "dipendente". Ne' puo' ritenersi che eventuali "differenziazioni" e "sperequazioni" a danno del "lavoratore pubblico" siano del tutto ininfluenti sul "buon andamento" dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) o siano conciliabili con il dovere di "servizio esclusivo alla Nazione" (art. 98 della Costituzione). Orbene il giudice amministrativo, al pari di tutti i giudici, e' soggetto "alla legge" (art. 101 della Costituzione) e non puo' arrogarsi funzioni proprie della Corte costituzionale, cancellando dall'ordinamento norme "censurate di illegittimita'" e ancora vigenti per la colpevole inerzia del legislatore, insensibile ai moniti ed alle sollecitazioni della stessa Corte, la quale, invero, non puo' non aver rilevato come "la disciplina legislativa del trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici", se e' stata stralciata dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 (art. 4, sesto comma) per mere ragioni di "sistematica" (la legge infatti, e' venuta a sostituire le norme del codice civile), non ha alcuna giustificazione "ragionevole", atteso che lo stesso legislatore ordinario ha statuito il principio di "pari trattamento" per tutti i "rapporti di lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennita' di anzianita', di fine rapporto, di buonuscita, comunque denominate e da qualsiasi fonte disciplinate" (art. 4, quarto comma, della legge n. 297/1982). Era, pertanto, pensabile che il legislatore si fosse voluto riservare la disciplina del "settore pubblico" ad altro separato provvedimento legislativo "a breve", ma cosi' non e' stato ed il dipendente pubblico trovasi costretto a "lottare per un suo diritto" sperando nella interpretazione adeguatrice del giudice amministrativo, cosi' come e' gia' avvenuto per l'altra vexata quaestio afferente la "svalutazione monetaria", ove il g.a. necessitate atque aequitate, e' stato costretto a superare lo stesso decisum della Corte costituzionale in merito all'art. 429, terzo comma, del c.p.c. (cosa di cui la Corte ne ha preso atto con successiva sentenza del 24 marzo 1986, n. 52, riconoscendo la forza del diritto vivente), attraverso una interpretazione analogica e di "pari trattamento" del dipendente pubblico con quanto gia' beneficiava il collega del settore privato. Un analogo sforzo ermeneutico dovrebbe essere fatto dal g.a. anche per la "questione buonuscita" (cosi' come avvenuto, pur tra contrasti, per i dipendenti degli enti pubblici disciplinati dalla legge n. 70/1975), ma appare piu' corretto, anche al fine di determinare una tranquillante certezza giuridica erga omnes, nonche' doveroso, dopo quanto gia' enunciato in merito dalla stessa Corte, rimettere la questione al supremo consesso dominus del giudizio di legittimita' della legge. Il collegio, invero, non ignora che la Corte con sentenza n. 220/1988 (seguita a sentenza n. 408/1988 e ordinanza n. 869/1988) si e' gia' posta la presente problematica, concludendo per la inammissibilita' della questione di costituzionalita' degli artt. 1, terzo comma, lett. b), della legge 27 maggio 1959, n. 324 e legge 3 marzo 1960, n. 185 e 3-38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, cosi' come modificati dagli artt. 7, primo comma, della legge 29 aprile 1976, n. 177 e dalla legge 20 marzo 1980, n. 75, ma e' proprio la lettura di tali precedenti che porta a ritenere la "sostanziale illegittimita' costituzionale della normativa de qua", anche se, nel solco delle tendenza, non certo di valido apporto costruttivo ai fini della "certezza dei diritti", la Corte si e' limitata ad un monito al legislatore (o forse un invito-richiamo per una palese dimenticanza del completamento dell'opera di riforma dell'istituto in parola, iniziato con la ormai gia' lontana legge n. 297/1982, che partiva da premesse di sicura perequazione per tutti i rapporti subordinati), il quale si e' ben guardato dal dare una sollecita risposta legislativa "adeguata alla sete di giustizia presente nel pubblico impiego", esponendo la stessa Corte a forme di "sentenze suicide", in cui alla espressa "inammissibilita'" fa riscontro una "convinta incostituzionalita' della normativa medesima". Che sia cosi' ne e' controprova la sentenza n. 971/1988, afferente la c.d. destituzione di diritto a seguito di condanna penale irrevocabile, senza la previsione del previo esperimento del procedimento disciplinare, ove la Corte, dopo aver con ordinanza n. 447 del 12 novembre 1987 (richiamata la sentenza n. 270/1986) dichiarato la manifesta inammissibilita' della questione con l'invito "fermamente ribadito" a che il legislatore "abbia a procedere in tempi brevi ad una attenta considerazione dei valori e dei connessi problemi afferenti la disciplina della sanzione di cui trattasi", ha successivamente ritenuto di rompere gli indugi e provvedere per la immediata declaratoria di illegittimita' della norma lesiva dei principi costituzionali, sussistendo "la necessita' di razionalizzare il sistema... con adeguamento" ai criteri di omogeneizzazione emergenti dalla legge-quadro sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93). Con sentenza n. 220 dell'11-25 febbraio 1988, preso atto che la i.i.s. in base agli artt. 46 e 48 del d.P.R. n. 597/1973 e art. 42 del d.P.R. n. 601/1973, concorre a formare il reddito complessivo netto ai fini dell'applicazione dell'aliquota e "quindi assoggettata ad imposta cosi' come tutti gli altri redditi di lavoro", nonche', in base all'art. 22 della legge 3 giugno 1975, n. 160, che la stessa e' pure assoggettata "ai contributi assistenziali e previdenziali", la Corte ha focalizzato la sua attenzione sulla legge 29 maggio 1982, n. 297 (art. 2120 del c.c., settore privato), sulla legge 20 marzo 1975, n. 70 (art. 13, personale enti substatali) e sulla legge 7 luglio 1980, n. 299 (art. 3, dipendenti enti locali) "norme queste che prevedono tutte la computabilita', nella base di calcolo delle indennita' di fine rapporto da esse regolate, rispettivamente dell'indennita' di contingenza e dell'indennita' integrativa speciale". Cio' posto la Corte, dato atto che gli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, cosi' come modificati dall'art. 7, primo comma, della legge 29 aprile 1976, n. 177, e dalla legge 20 marzo 1980, n. 75, non prevedono la indennita' integrativa nella "base contributiva", si e' limitata a riproporre, per quanto riferito al settore privato, la tralatizia differenziazione strutturale e funzionale tra rapporto privato e rapporto di diritto pubblico, comportando quest'ultimo l'esercizio di pubblici poteri, che renderebbero improponibile un raffronto tra i detti rapporti, pur ammettendo una "trasfusione reciproca di principi e di istituti garantistici". La Corte, peraltro, ha parlato di "non compatibilita' dei trattamenti di quiescenza, anche con riferimento alle indennita' di fine rapporto", in quanto la indennita' corrisposta dall'E.N.P.A.S. "differisce da ogni altra indennita'". quale l'indennita' di fine rapporto dei dipendenti substatali e l'indennita' premio di fine rapporto dei dipendenti degli enti locali, precisando che l'attenuarsi dei requisiti "piu' propriamente a vocazione previdenziale, non fa venir meno talune caratteristiche distintive dell'indennita' di buonuscita erogata dall'E.N.P.A.S., rispetto alle indennita' di fine rapporto", sussistendo "differenze sostanziali", tra cui individua "il concorso all'ammontare dell'indennita' dei contributi del pubblico dipendente, contributi ai quali essa e' proporzionata", mentre la indennita' ex art. 2120 del c.c. e art. 13 della legge n. 70/1975, sono collegate ad "accantonamenti" proporzionati alla retribuzione. Ed invero, una tale affermazione lascia fortemente perplesso il comune cittadino, in quanto proprio perche' c'e' un rapporto contributivo del dipendente, che si attua anche sulla i.i.s., non si comprende come mai essa possa sfuggire in sede di liquidazione finale. Tali perplessita' risultano accentuate, poi, dalla circostanza, rilevata dalla stessa Corte, che ai sensi del d.P.R. 17 settembre 1987, n. 494, la i.i.s. va conglobata nello stipendio di tutto il personale statale e pubblico, ragion per cui non si comprende quale "discrezionalita' legislativa" possa essere ancora riconosciuta al legislatore, se non quella di abrogare le norme "ostative", cosa che, invero, puo' ben fare la Corte costituzionale, se e' vero che "il sistema gia' soffre di sperequazioni sostanziali" che non puo' non condurre a valutazioni globali della normativa, che, sulla base dell'accentuazione del carattere irrazionale delle singole componenti, conduce ad "una valutazione di illegittimita' della normazione complessiva". Nella specie il tribunale amministrativo non viene a sollecitare un intervento "additivo", bensi' l'intervento decisorio della Corte su una questione che si trascina da anni comprimendo i legittimi diritti patrimoniali del "lavoratore dipendente pubblico", il che e' possibile solo con la declaratoria di illegittimita' degli artt. 1 della legge 27 maggio 1959, n. 324 e 3-38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, il che del resto e' una possibilita' gia' ipotizzata nella sentenza n. 220/1988, e non rinviabile, stante la completa latitanza del legislatore. La Corte costituzionale non puo' usurare la propria funzione di "garanzia suprema" in una mera attivita' di ammonimento-avvertimento al legislatore, ne' puo' trincerarsi su insussistenti situazioni di "discrezionalita' legislativa" (la sentenza n. 971/1988 docet), pena la stessa credibilita' dell'istituto, cui tutti i cittadini guardano come unico elemento di "certezza nell'ambito di un sistema normativo frammentario, convulso e rimesso a spinte contingenti e corporative". Questo tribunale amministrativo, pertanto, non potendo directe considerare superate le normative de qua, attraverso una interpretazione-abrogazione che, per quanto giustificata, sarebbe poco corretta nei confronti del sistema costituzionale, deve necessariamente sollevare la eccezione di costituzionalita' posta come subordinata da parte ricorrente, essendo la stessa sicuramente fondata e rilevante ai fini decisori del ricorso medesimo, in quanto il giudicante, una volta caducata la normativa ostativa, potra' tranquillamente dare accoglimento alla pretesa attorea, superando tutti i dubbi di correttezza interpretativa. La normativa censurata, cosi' come esposta in motivazione, e' costituita dai seguenti articoli: art. 1, terzo comma, lett. b), della legge 27 maggio 1959, n. 324 e legge 3 marzo 1960, n. 185; art. 3-38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (t.u. avente forza di legge ai sensi art. 134, primo comma, della Corte costituzionale), legge 29 aprile 1976 (art. 7, primo comma) n. 177 e legge 20 marzo 1980, n. 75, per la parte in cui esclude, in deroga a quanto stabilito per il settore privato e per gli altri dipendenti pubblici, la indennita' integrativa speciale dal computo della base contributivo retributivo da considerarsi ai fini della liquidazione della buonuscita, ponendo "sperequazioni sostanziali" tra le diverse categorie di "lavoratori", accentuando il "carattere di irrazionalita'" della "normazione complessiva". Gli articoli della Costituzione violati dalla predetta normativa sono: art. 1 della Costituzione che tutelando "unitariamente" il lavoro non tollera situazioni di privilegio, quali quelle riservate al settore privato, ai dipendenti substatali e degli enti locali, che hanno un trattamento economico di fine lavoro (la natura retributiva o previdenziale non incide sul carattere di "attribuzione patrimoniale finale" al lavoratore subordinato) irrazionalmente differenziato e piu' vantaggioso rispetto ai "pari dipendenti statali"; art. 4 della Costituzione da' dignita' costituzionale a ogni tipo di attivita' o funzionale (materiale e spirituale, ma anche privata, substatale e statale) cui deve corrispondere un pari trattamento di fine rapporto di lavoro, al di la' delle distinzioni teoriche sopra evidenziate; art. 3 della Costituzione, quale diretta conseguenza di quanto espresso in relazione agli artt. 1 e 4 della Costituzione e con riferimento al diritto all'uguaglianza e alla "pari dignita' sociale" che oggi e' sancita anche (e fortemente) sul piano dei trattamenti patrimoniali di qualsivoglia tipo; art. 35 della Costituzione, in relazione all'art. 3 della Costituzione, in quanto la "tutela del lavoro" si attua anche sul piano della pari considerazione in sede di attribuzione di benefici economici di eguale valenza, quali sono le indennita' di fine rapporto; art. 36 della Costituzione, in relazione all'art. 3 della Costituzione, perche' la retribuzione "dovuta" non puo' subire "limitazioni" di tipo discriminatorio in sede di applicazione di benefici pur sempre connessi all'attivita' lavorativa, cui la retribuzione medesima e' proporzionale; art. 38 della Costituzione, atteso che il carattere previdenziale di una attribuzione patrimoniale, non puo' costituire motivo di "discriminazione in danno", particolarmente quando sussiste una contribuzione di parte; artt. 97 e 87 della Costituzione, in relazione all'art. 3 della Costituzione, in quanto il trattamento di sfavore del dipendente statale rispetto ai dipendenti privati e substatali, si riflette negativamente sul piano della efficienza e della funzionalita' della p.a., la quale, al fine di assicurare il buon andamento e la imparzialita' dell'azione amministrativa, ha chiesto al proprio dipendente un "servizio esclusivo" che deve trovare "pari valutazione" in sede di corresponsione di trattamenti economici equivalenti. La Corte, invero, ha risposto alle sollecitazioni di questo tribunale premettendo che "ha gia' dichiarato inammissibile" l'eccezione de qua, "censurandosi una scelta riservata alla discrezionalita' legislativa", aggiungendo, poi, che il giudice a quo non ha motivato sulla incidenza dei parametri di incostituzionalita' (artt. 1, 4, 35 e 98 della Costituzione) nel giudizio, limitandosi a chiedere la declaratoria d'illegittimita' costituzionale delle norme impugnate per non avere il legislatore raccolto l'invito della Corte (sentenza n. 220/1988) a procedere alla omogeneizzazione dei trattamenti di quiescenza nell'ambito del pubblico impiego. Sempre nell'ordinanza n. 419/1989 si legge che non sarebbero stati allegati nuovi profili d'incostituzionalita', "mentre permane pressante l'invito all'intervento del legislatore, sia pur graduale nei modi e nei tempi anche in considerazione delle esigenze finanziarie connesse alla riforma generale dei trattamenti di quiescenza". Ed invero, da tale decisione si evidenziano con precisione le preoccupazioni "extragiuridiche" della Corte che, pur convinta della "incostituzionalita'" del distema di quiescenza degli statali (liquidazione E.N.P.A.S.), fa ricorso alla sussistenza di una presunta "autoeliminazione" dei propri poteri di giudice delle leggi, con rinvio della questione alla "discrezionalita' legislativa" che all'esterno, pero', appare al cittadino, vera e propria giustizia denegata, non comprendendo questi il significato dei "pressanti inviti" rivolti al legislatore, che ha dimostrato di perseguire come unico scopo quello di guadagnare tempo e denaro, prigioniero com'e' della logica perversa del mitico problema della spesa pubblica. Essa, infatti, alla lunga sta risultando un comodo espediente per perpetuare situazioni di ingiustizia, che sono tanto piu' intollerabili, specie allorquando "i cordoni" vengono allentati o sono del tutto inesistenti per altre categorie che hanno maggiore potere contrattuale. E' pur troppo facile imputare al "giudice" gli sfondamenti di bilancio, quando e' lo stesso legislatore che pone e mantiene nel tempo "situazioni di disparita'", e sarebbe veramente grave che la Corte, in un'epoca che tende a qualificarsi come una "societa' dei diritti", faccia prevalere la logica dell'economia, sulle esigenze di equita', per venire in soccorso della politica che, come ha insegnato un maestro del diritto, deve restare al di fuori della porta della Giustizia. E del resto la stessa Corte, con sentenze nn. 763 del 30 giugno 1988, e 821 del 14 luglio 1988, non ha esitato a dichiarare la illegittimita' costituzionale delle disposizioni della legge 8 marzo 1968, n. 152, disparitaria per i dipendenti degli enti locali iscritti all'I.N.A.D.E.L. rispetto agli statali, proprio in materia di "premio di servizio" analogo e omogeneo nella sostanza alla buonuscita. Nel mentre, pero', vengono aperte sempre nuove aspettative, si assiste, poi, da parte della stessa Corte, a improvvisi stoppage, accontentandosi di accordi generici in sede contrattuale o di proposte di legge presentate alla Camera o ancora di primi passi di conglobamento nello stipendio di una quota dell'indennita' integrativa speciale per alcune categorie (d.-l. 27 dicembre 1989, n. 413, convertito dalla legge 28 febbraio 1990, n. 37), seguiti dai rituali pressanti inviti al legislatore per una sistemazione organica della materia (ordinanza Corte costituzionale n. 143 del 7-26 marzo 1989 e 189 del 4-12 aprile 1990) che non servono, peraltro, ad arginare il contenzioso che e', invece, veramente pressante. Si assiste, poi, anche a dei veri e propri ripensamenti rispetto alla stessa sentenza n. 200/1988, ove la Corte dava per pacifico che per i dipendenti degli enti pubblici (legge n. 70/1975) la i.i.s. andava computata nella retribuzione da porsi a base della liquidazione di anzianita'; certezza che e' stata rimessa in dubbio e demandata alla "discrezionalita' del legislatore" con ordinanze nn. 217 e 218 del 4-19 aprile 1990. Questa posizione della Corte, ispirata al c.d. self-restraint, e' diventata ormai tralatizia (da ultima ordinanza n. 491 del 9-22 ottobre 1990) e tale da scoraggiare ogni giudicante, sia pure incalzato da forti "domande di giustizia". Questo collegio, pero', memore del valore insostituibile della "lotta per il diritto", ritiene suo dovere investire di nuovo della questione la Corte costituzionale che, peraltro, con altra sua pronuncia (sentenza n. 115 del 6-9 marzo 1990) ha, in materia di pignoralita' e sequestrabilita' dello stipendio, affermato che "non vi e' dubbio che l'indennita' integrativa speciale e' da considerare un elemento della retribuzione complessiva dipendente cosi' come l'indennita' di contingenza lo e' per i dipendenti privati". Se cio' e' esatto, come certamente lo e', quale discrezionalita' ha ancora il legislatore? Perche' limitarsi ad una funzione monitoria, che se troppo reiterata nel tempo perde ogni credibilita', quando e' nei poteri della Corte caducare la norma in parte qua cosi' come e' sempre stato fatto anche quando erano pendenti varie proposte legislative? Ed anzi, a proposito della "pubblicita'" della udienza nel giudizio tributario, la pronuncia della Corte e' venuta a precedere una legge gia' in dirittura d'arrivo, ritenendosi esaurita la fase degli ammonimenti e troppo lenta la elaborazione legislativa. Nell'ordinanza n. 419/1989 la Corte ha affermato che, pur facendosi riferimento a nuovi parametri (artt. 1, 4, 35 e 98 della Costituzione) rispetto ad altri gia' sollevati in precedenza (artt. 3, 36, 38 e 97 della Costituzione), sarebbe mancato da parte del giudice rimettente la motivazione sulla incidenza di tali nuovi parametri nel giudizio in corso e non sarebbero stati allegati nuovi profili d'incostituzionalita'. Tali affermazioni, invero, lasciano perplesso il collegio e sono apparse piu' finalizzate ad una frettolosa liquidazione della querelle, gia' affrontata in precedenza con sentenza n. 220/1988 e varie ordinanze (nn. 641, 869, 1070 e 1072 del 1988), senza ritenere di dover impegnarsi in una nuova motivata sentenza. Questo tribunale, peraltro, prende atto di tali appunti e, fedele ai canoni della chiarezza e della semplicita', viene a illustrare ulteriormente le proprie censure. I sollevati vizi di illegittimita' vengono ad incidere, infatti, sullo svolgimento e l'esito del giudizio in corso in forma diretta, immediata e sostanziale, perche', se essi risulteranno fondati, verranno ad eliminare, sul piano normativo, quelle disposizioni di legge che oggi sono ingiustamente ostative all'accoglimento della richiesta, salvo che il giudicante non volesse far ricorso al cd. uso alternativo del diritto. Circa i nuovi profili di incostituzionalita' si specifica che l'art. 1 della Costituzione, piu' che violato, e' calpestato dal legislatore, che ha posto in essere e mantiene tuttora una normativa penalizzante solo verso alcuni "lavoratori"; situazione questa aggravata dalla posizione assunta dalla Corte costituzionale che, trincerandosi dietro un incomprensibile non liquet e rimettendo la soluzione alla discrezionalita' del legislatore, ha dederminato una situazione di "incertezza del diritto", ove, venuto meno il criterio della ragionevolezza, resta solo l'arbitrarieta' del legislatore, essendo questi del tutto libero circa l' an , il quando e il quomodo armonizzare il sistema. Prova ne e' che la Corte non ha mai posto dei limiti temporali ai propri pressanti inviti, accontentandosi di timide iniziative legislative che sanno di molto fumo e poca sostanza. Con riferimento all'art. 4 della Costituzione la pari dignita' costituzionale e' del tutto svuotata e resta un vacuum nomen, non comprendendo il cittadino-lavoratore il perche' si nega ad alcuni quello che ad altri e' stato pacificamente concesso e come mai una vetusta legge possa imporsi agli stessi principi costituzionali, quasi che il principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) andrebbe letto con un'aggiunta nel senso che vi e' sempre qualcuno che e' "piu' uguale" di altri. Il principio lavorista e quello di uguaglianza postulano una "generale coerenza dell'ordinamento" (Corte Costituzionale n. 204/1982) ed escludono normative particolaristiche e settoriali. Dall'esigenza di universalita' della norma discende la tutela unitaria del lavoro (art. 35 della Costituzione) e non c'e' distinzione che tenga allorquando sono in discussione diritti "indistintamente comuni a tutti i lavoratori" (sentenza Corte costituzionale n. 136/1984). Dall'art. 36 in collegamento con l'art. 3 della Costituzione si ricava poi quel principio di "perequazione" che non puo' non operare in materia di liquidazioni di fine rapporto di lavoro, ove le esistenti disarmonie da fattore discriminatorio, non possono essere elevate ad elemento giustificativo di una diversita' intrinsicamente irragionevole (cfr. sentenze nn. 560/1987, 156/1988, 882/1988, 55/1989 e 141/1989). Di fronte ad un evidente scoordinamento legislativo o ad anacronismi normativi, la Corte costituzionale ha sempre fatto ricorso alla c.d. irragionevolezza sopravvenuta (sentenze nn. 1/1984, 89/1987 e 179/1988), specie nell'ambito del pubblico impiego, ove ormai sono consolidati i principi della onnicomprensivita' ed omogeneita' dei trattamenti retributivi (sentenza Corte costituzionale n. 267/1988), che non possono non valere anche in sede di liquidazione finale. Proprio con riferimento all'art. 36 della Costituzione, autorevolissima dottrina, ha ritenuto che la i.i.s. e' elemento determinante ai fini del concetto di retribuzione sufficiente e non si vede come tale retribuzione debba essere mozzata in sede di computo della buonuscita E.N.P.A.S. Il giudice costituzionale ha sempre sostenuto la immediata precettivita' dell'art. 38 della costituzione, collegato sia all'art. 3 che all'art. 36 della Costituzione (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 102/1975), anche se ha spesso concesso al legislatore la possibilita' di un "razionale contemperamento con la disponibilita' finanziaria" e la "gradualita' per riforme molto onerose"; ma nel caso di specie la gradualita' si e' fermata indefinitivamente e unicamente nei confronti di una specifica categoria di dipendenti, donde si ricava che la famosa discrezionalita' del legislatore si e' sostanziata in una scelta di "non provvedere", sacrificando, in base ad opinabili scelte politiche ed economiche, i diritti dei soggetti contrattualmente piu' deboli, complice la passivita' degli organi di giustizia. Tutto cio' non e' certamente funzionale per la pubblica amministrazione (artt. 97 e 98 della Costituzione) ed e' palese il contrasto tra l'assolutezza dei doveri del dipendente pubblico ed il disfavore del trattamento di quiescenza a questi riservato. Il tribunale, nel rimettere la questione all'esame della Corte, ritiene di adempiere ad un atto doveroso in favore della lotta per il diritto da parte dei tanti dipendenti statali che hanno lasciato e sono prossimi a lasciare il servizio con un trattamento di quiescenza quasi dimezzato. Si ritiene, altresi', che il vizio materiale dell'eccesso di potere legislativo possa avere sia una valenza in positivo (sconfinamento dai fini condizionanti la validita' della legge), sia una valenza in negativo (allorquando non si provvede, in tempi ragionevoli, ai compiti propri del legislatore, nonostante i "pressanti inviti", a eliminare manifeste situazioni di disparita' di trattamento). Ed in queste ipotesi, la Corte e' chiamata a svolgere un controllo piu' penetrante, allineando le normative in vista di un risultato di giustizia. Necessita, pertanto, una reductio ad legittimitatem dell'art. 1, terzo comma, lett. B), della legge 27 maggio 1959, n. 324 (modificato con legge 3 marzo 1960, n. 185) e degli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (t.u. con forza di legge art. 134 della Corte costituzionale), con la soppressione della regola illegittimamente enunciata (esclusione i.i.s. della base contributiva-retributiva ai fini della buonuscita E.N.P.A.S.), vero e proprio anacronismo legislativo senza piu' alcuna giustificazione, lasciando al legislatore il compito di provvedere alla copertura finanziaria che, invero, vista la categoria dei beneficiari e il tipo di prestazione che si scagliona naturaliter nel tempo, trovera' facile soluzione con ricorso alla contribuzione previdenziale (autofinanziamento). Tutto cio' premesso, il tribunale, ritenuta la fondatezza della eccezione di incostituzionalita' e la sua rilevanza ai fini decisori, solleva la questione di costituzionalita' nei termini di cui in motivazione, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 della Costituzione, legge costituzionale 9 febbraio 1948 (art. 1) e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Sospende il proseguo del giudizio.
P. Q. M. Dichiara la non manifesta infondatezza della dedotta questione di costituzionalita' e la sua rilevanza decisoria; Dichiara sospeso il giudizio relativo al ricorso in epigrafe; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della segreteria del tribunale, la presente ordinanza venga notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' che la stessa sia comunicata ai Presidente della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Pescara nella camera di consiglio dell'8 novembre 1990. Il presidente: PARDI Il consigliere: ELIANTONIO Il consigliere, relat. est: NAZZARO 91C0183