N. 81 SENTENZA 28 gennaio - 15 febbraio 1991

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale - Rito abbreviato ordinario - Richiesta dell'imputato
 - Dissenso del p.m. - Sindacabilita' e obbligo di motivazione -
 Omessa previsione - Conseguente inapplicabilita' della diminuente ex
 art. 442 del c.p.p. anche a dibattimento concluso qualora ritenuto
 ingiustificato dal giudice il mancato consenso - Irrazionale
 disparita' di trattamento tra le parti processuali   (p.m. e
 imputato) e tra imputati - Illegittimita' costituzionale parziale.
 
 (C.P.P., artt. 438, 439, 440 e 442).
 
 (Cost., artt. 3, 24, 25, 27, 101, secondo comma, e 111, primo comma).
 
 Processo penale - Giudizio immediato - Richiesta di rito abbreviato -
 Dissenso del p.m. - Conseguente inapplicabilita' della diminuente  ex
 art. 442 del c.p.p. - Estensione,  ex officio, della declaratoria di
 illegittimita' costituzionale parziale.
 
 (C.P.P., art. 458, primo e secondo comma).
 
 (Legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 27).
 
 Processo penale - Decreto penale - Opposizione - Richiesta di rito
 abbreviato - Dissenso del p.m. - Conseguente inapplicabilita' della
 diminuente  ex art. 442 del c.p.p. Estensione,  ex officio, della
 declaratoria di illegittimita' costituzionale.
 
 (C.P.P., art. 464, primo comma).
 
 (Legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 27).
(GU n.8 del 20-2-1991 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giovanni CONSO;
 Giudici:  prof.  Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, dott. Francesco
 GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.   Francesco
 Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Luigi MENGONI, prof.
 Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA;
 ha pronunciato la seguente
                                    SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 438, 439,440 e
 442 del codice di procedura  penale, promossi con ordinanze emesse il
 3  gennaio 1990  dal Giudice  per le  indagini preliminari  presso il
 Tribunale di  Rieti, il 17  aprile 1990  dal Giudice per  le indagini
 preliminari presso il Tribunale per i minorenni di Roma, il 10 aprile
 1990 dal Giudice  per le indagini preliminari presso  il Tribunale di
 Torino,  l'8 maggio  1990  dal Giudice  per  le indagini  preliminari
 presso il Tribunale di Treviso, il  19 luglio 1990 dal Giudice per le
 indagini  preliminari presso  il Tribunale  di Brescia,  il-25 luglio
 1990 dal Giudice  per le indagini preliminari presso  il Tribunale di
 Torino e  il 19 luglio 1990  dal Giudice per le  indagini preliminari
 presso il Tribunale di Termini Imerese, ordinanze iscritte ai nn.
 145,  379, 421,  531, 592,  603, 661  del registro  ordinanze 1990  e
 pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, n. 25, n.
 27, n. 36, n. 39 e n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1990.
    Visti  gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    udito  nella camera di consiglio del 12 dicembre 1990 il Giudice
 relatore Giovanni Conso.
                    Ritenuto in fatto
    1.  - Nel corso dell'udienza preliminare  instaurata  davanti al
 Giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale di Rieti nei
 confronti  di Marzola Giancarlo, Impeciati Ivetta e Bonfante Gaetano,
 due degli imputati, il Marzola e il Bonfante, richiedevano la
 definizione  del  processo  con rito  abbreviato: su tali richieste
 il pubblico ministero esprimeva un <>.
    Con  ordinanza  del  3  gennaio  1990  (n. 145 del 1990), il
 Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale  di Rieti,
 dopo aver separato gli atti relativi alla Impeciati, ha sollevato,
 in  riferimento  agli  artt. 3  e  25  della Costituzione,  questione
 di legittimita'  degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di
 procedura penale, nelle parti in  cui:   subordinano   al   consenso
 non  motivato  ed insindacabile del pubblico ministero l'adozione
 del giudizio abbreviato  richiesto  dall'imputato;  non   consentono
 al giudice di valutare le ragioni  addotte  dal  pubblico ministero
 a  giustificazione  del <>; non attribuiscono al giudice,
 una volta ritenuto ingiustificato  <>,  il
 potere di applicare la riduzione  di  pena  prevista  dall'art. 442,
 secondo comma, dello stesso codice.
    Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, che, per un
 verso, il processo sarebbe definibile allo stato degli  atti
 nell'udienza  preliminare, <> e,
 per un altro verso, che la risoluzione della questione incide non
 soltanto sulla scelta  del rito, ma anche <> sulla   misura   della   pena   ove   venisse  affermata  la
 responsabilita' degli  imputati, <>; e, in punto di manifesta infondatezza, che la
 normativa  denunciata  determina  sotto diversi  profili  un'irragio-
 nevole disparita' di trattamento (ed una conseguente violazione,
 oltre che dell'art. 3, anche dell'art. 25 della Costituzione): in
 primo luogo fra  accusa e  difesa;  in  secondo  luogo  fra  piu'
 imputati, <>; infine, rispetto  alla  disciplina dettata per il
 <>,  dove  l'esercizio  della  funzione  giurisdizio-
 nale,  riservata al giudice, non  e' menomato, a differenza di quanto
 avviene per  la  disciplina dettata  per  il rito abbreviato, dalla
 scelta insindacabile del pubblico ministero.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata,  e'  stata
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 14, prima serie speciale,
 del 4 aprile 1990.
    2. - Nel corso dell'udienza preliminare a carico  di  Uldanh
 Massimiliano  e  La Forgia Roberto per violazioni alla legge sugli
 stupefacenti e sulle sostanze psicotrope, gli imputati formulavano
 tempestivamente richiesta di giudizio abbreviato,  richiesta cui
 il pubblico ministero si opponeva <>.
    Il Giudice per le indagini preliminari presso  il  Tribunale di
 Torino,  con  ordinanza  del  10 aprile 1990 (n. 421 del 1990),  ha
 sollevato, su  eccezione  della difesa, in riferimento  agli artt. 3,
 primo comma, 25, primo e secondo comma,  101, secondo comma, e  111,
 primo  comma, della Costituzione,  questione  di  legittimita' degli
 artt. 438, 439, 440 e 442  del  codice  di procedura penale, <>.
    Sotto il profilo della  violazione del principio di eguaglianza,
 il giudice a quo rileva che da situazioni identiche, sia sotto
 l'aspetto sostanziale   sia   sotto   l'aspetto  processuale, possono
 derivare conseguenze diverse  sul  piano sanzionatorio  (la riduzione
 di un  terzo della  pena) <>.
    Quanto alla violazione  del principio di legalita'  della pena,
 l'ordinanza  osserva  che  la  disciplina predisposta dagli artt. 438
 e seguenti del codice di  procedura  penale, oltre  a  conferire al
 pubblico  ministero  un  potere discrezionale in grado di vincolare
 il  giudice nella commisurazione della sanzione, pone    il   singolo
 nell'impossibilita'  di  conoscere  previamente  quale  pena debba
 essergli  irrogata. L'art. 25 sarebbe, poi, vulnerato pure nel primo
 comma, giacche' il negato consenso  al giudizio  abbreviato  sottrae
 l'imputato alla decisione del giudice  dell'udienza   preliminare,
 <>.
    Risulterebbero altresi' violati: l'art. 101, secondo  comma, della
 Costituzione, perche', incidendo il dissenso del pubblico ministero
 anche sulla determinazione della pena, si realizzerebbe <>; l'art. 24 della
 Costituzione,  perche' sarebbe preclusa ogni difesa dall'imputato;
 l'art. 111, primo comma, della  Costituzione, perche' la  motivazione
 dell'ordinanza di rigetto della richiesta di abbreviazione del rito
 adottata dal giudice  si esaurisce <>.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, e' stata
 pubblicata nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 27, prima serie speciale,
 del 4 luglio 1990.
    3. - Con ordinanza dell'8 maggio del 1990 (n. 531 del 1990),
 emessa nell'udienza  preliminare  a  carico  di Merlo Maria Elena, il
 Giudice per le indagini  preliminari presso il Tribunale di Treviso
 ha sollevato, su eccezione della difesa dell'imputata, questione  di
 legittimita', in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art.
 438, primo comma, del codice di procedura  penale, <> e,
 d'ufficio, questione di legittimita', in riferimento  agli artt. 24
 e 101 della Costituzione, dell'art. 438, primo  comma,  e  440, primo
 comma, dello stesso codice, nella parte in cui non vi si <>.
    Le  censure prospettate dal giudice a quo si porrebbero come
 conseguenziali alla sentenza n. 66 del  1990, che, <>, avrebbe delineato  un
 regime  contrastante con  l'art. 3 della Costituzione  anche  per il
 rito abbreviato avente  sede,  per  il  caso di  specie, nell'udienza
 preliminare.
    Sussisterebbe pure la sottrazione al giudice di ogni <>, con conseguente violazione degli
 artt. 24 e 101 della Costituzione.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, e' stata pubbli-
 cata nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 36, prima serie speciale, del 12
 settembre 1990.
    4.  -  Con  ordinanza emessa il 19 luglio 1990 (n. 592 del 1990),
 il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il  Tribunale di
 Brescia  nell'udienza  preliminare  a  carico  di  Scotuzzi Simone -
 premesso  che  l'imputato, a mezzo  del  suo procuratore   speciale,
 aveva tempestivamente avanzato richiesta di giudizio abbreviato e che
 a  tale  richiesta  si  era  opposto  il  pubblico  ministero <>  -  ha  sollevato, in riferimento
 agli  artt. 3, primo comma, 24, primo e secondo comma, 25, primo e
 secondo comma, 101, secondo comma, e 111, primo comma, della
 Costituzione, questione  di  legittimita' degli  artt.  438,  439,
 440 e 442 del codice di procedura penale, <>.
    Sarebbe, in primo luogo, violato il <> espresso dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione,
 condizionandosi la misura della pena stessa alla condotta del
 pubblico  ministero  e, quindi,  di una parte (v.  sentenza n. 249
 del 1990) - senza predeterminazione dei criteri (v. sentenza n. 66
 del 1990) e, percio', con il rischio di arbitri  - e conseguente
 impossibilita' per il singolo di conoscere <>.
    Sussisterebbe, inoltre, contrasto con gli artt. 101, secondo
 comma, e 102, primo comma, della Costituzione, incidendo il dissenso
 del pubblico ministero  dalla richiesta di giudizio abbreviato
 avanzata dall'imputato  non  soltanto  sul  rito,  ma  anche <>.
    Risulterebbe, poi, vulnerato il principio di eguaglianza per
 l'irragionevole  disparita'  di  trattamento  tra  accusa  e difesa:
 infatti, <>,  nonostante  il  dissenso  del   pubblico
 ministero coinvolga  non  soltanto  il  rito, ma  pure  il  merito.
    Anche il <> resterebbe  compromesso:
 e cio' in  conseguenza della definitiva sottrazione della richiesta
 dell'imputato - qualificata  dalla  Corte  (v.  sentenza  n.  277
 del 1990) <>  -  alla
 valutazione del giudice.
    Si  deduce,  infine, contrasto con l'art. 25, secondo comma,
 e, 111, secondo comma, della Costituzione.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, e' stata
 pubblica nella Gazzetta Ufficiale n. 39, prima  serie speciale, del
 3 ottobre 1990.
    5. - Albigiani Giuseppe formulava davanti al Giudice per  le
 indagini preliminari presso il Tribunale di Termini Imerese richiesta
 di giudizio abbreviato,  richiesta  non  condivisa dal Pubblico
 ministero per <>. Il  detto  giudice,
 rilevato che la motivazione <>, con  ordinanza  del  19  luglio  1990 (n. 661 del 1990),  ha
 sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101, secondo comma,
 della Costituzione, questione di legittimita' dell'art.  438  del
 codice  di  procedura  penale, <>.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, e' stata pubbli-
 cata nella Gazzetta Ufficiale n. 43, prima serie speciale, del 31
 ottobre 1990.
    6. - Guida Piero, imputato di omicidio  colposo,  formulava,
 all'apertura dell'udienza preliminare, richiesta di giudizio abbre-
 viato, in ordine alla quale il Pubblico ministero negava il suo
 assenso, occorrendo <>.
    Il Giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale di
 Torino, con ordinanza del 25  luglio  1990  (n.  603  del 1990), ha
 sollevato, su eccezione della difesa dell'imputato, in riferimento
 agli artt. 3, 24, 25, secondo comma,  e  101,  primo  comma,  della
 Costituzione, questione  di  legittimita' dell'art.  438  del  codice
 di procedura penale, <>.
    Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva che e' all'udienza
 preliminare che si consuma il potere dell'imputato  di  formulare la
 richiesta <>; quanto alla
 non manifesta infondatezza, richiama le sentenze  costituzionali
 n. 66 del  1990  e n. 183 del 1990, deducendo che la norma censurata
 contrasterebbe con il principio di legalita' della pena e con il
 principio di eguaglianza, lederebbe il <>, comporterebbe uno  sconfinamento  del  pubblico  ministero
 nell'attivita' decisoria riservata al giudice.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata,  e'  stata
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale n. 39, prima serie speciale,
 del 3 ottobre 1990.
    7. - In tutti i suddetti giudizi - ad eccezione di quello
 instaurato dal Giudice per le indagini preliminari di Torino con
 ordinanza  del  10  aprile  1990 (n. 421 del 1990) - e' intervenuto
 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
 dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
 dichiarata inammissibile e comunque non fondata.
    L'inammissibilita' deriverebbe dal restare <>, nonche',  quel  che  piu'
 conta,   dall'impossibilita'  di  identificare  una <>.
    La  non fondatezza deriverebbe dal rilievo che l'accordo tra
 pubblico ministero ed imputato, necessario presupposto del giudizio
  abbreviato, non puo' essere suscettibile di sindacato esterno.
    8.  - Con ordinanza del 17 aprile  1990  (n. 379  del  1990),  il
 Giudice per le indagini  preliminari  presso  il  Tribunale  per  i
 minorenni di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25,
 27  e  101 della  Costituzione,  questione  di  legittimita'  degli
 artt. 438, primo comma, e 442 del codice di procedura penale, <>.
    La violazione dell'art. 3 della Costituzione viene addebitata alla
 disparita'  di  trattamento  rispetto  all'<>  istituto
 dell'applicazione della pena  su  richiesta, una disparita' <> per  gli  imputati  minorenni, cui non e' permesso
 accedere al procedimento <>,  nonche', in
 combinato disposto con l'art. 24  della  Costituzione,  alla  vulne-
 razione della <>.
    Quanto agli altri  parametri invocati, il giudice a quo ravvisa
 un contrasto  con  gli  artt.  25  e  101  della Costituzione per il
 vincolo imposto al giudice ad  opera  di una  parte processuale, un
 vincolo che non incide solo sulla scelta del rito, ma anche sulla
 commisurazione  della  pena; ritiene, altresi', violati gli  artt. 3
 e 27 della Costituzione per lesione dei  principi  di  legalita'  e
 di colpevolezza,  in  quanto,  da  un  lato, la riduzione di un terzo
 della pena resta vincolata alla mera scelta dell'accusa, sottraendosi
 all'imputato  la  certezza delle conseguenze dei suoi comportamenti,
 mentre, dall'altro lato, e' latente il pericolo   dell'irrogazione
 di pene sproporzionate  tra  chi  fruisca  e  chi  non fruisca nella
 medesima situazione del  consenso immotivato del pubblico ministero,
 in  contrasto  con <>.
    L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata,  e'  stata
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 25, prima serie speciale,
 del 20 giugno 1990.
    Anche in questo giudizio e' intervenuto il Presidente del Consi-
 glio  dei  ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale
 dello Stato, chiedendo che la questione  venga  dichiarata  non
 fondata. Richiamate le sentenze n. 66 del 1990, n. 183 del 1990 e
 n. 313 del 1990, l'Avvocatura rileva  come non  possa  ravvisarsi
 nelle  peculiarita' del rito minorile alcun ulteriore contrasto con
 l'art. 3 Cost. Il fatto che l'imputato minorenne non  possa accedere
 all'istituto dell'applicazione  della  pena  su richiesta - peraltro,
 compensato  dalla   previsione  di analoghi  vantaggi  ex art. 32,
 secondo comma, del d.P.R. 22 settembre 1988,  n.  448  -  si  spiega
 in  quanto <>.
                            Considerato in diritto
    1.  - Le ordinanze  in epigrafe,  anche  se non sempre coincidenti
 nell'individuazione  delle  norme  denunciate  e  dei  parametri
 costituzionali invocati, mettono tutte in discussione la legittimita'
 costituzionale  della  disciplina  che  il titolo I del libro VI del
 codice  di procedura penale dedica al giudizio abbreviato  ordinario,
 tutte muovendo  dalla considerazione che il dissenso  non  motivato
  del  pubblico  ministero  toglie  al  giudice  ogni  possibilita' di
 valutare  la  richiesta  avanzata  dall'imputato sia prima sia nel
  corso dell'udienza preliminare.
    I  relativi giudizi vanno, quindi, riuniti per essere decisi con
 un 'unica sentenza.
    2.  - Ai fini di una migliore  puntualizzazione, quanto  a  norme
 denunciate,  delle  questioni di  volta  in  volta proposte,  occorre
 precisare  che ad  essere oggetto  di censura  sono ora  il combinato
 disposto degli  artt. 438,  439, 440  e 442  del codice  di procedura
 penale, ora  il combinato  disposto degli artt.  438, primo  comma, e
 440, primo comma,  ora gli artt. 438 e  442 singolarmente considerati
 (con  limitazione, in  un caso,  al primo  comma dell'art.  438 e  al
 secondo comma dell'art.  442), ora il solo art. 438,  sempre in parti
 di  mancate previsioni  variamente individuate. Piu' in  particolare,
 mentre quasi tutte le ordinanze (n. 145 del l990, n. 379 del 1990, n.
 421 del 1990, n.  531 del 1990, n. 592 del  1990) lamentano tanto che
 il pubblico ministero non sia tenuto  a motivare il suo dissenso alla
 definizione  del processo  con il  rito abbreviato,  quanto che  tale
 dissenso non sia passibile di  controllo giurisdizionale, due di esse
 (n. 603  del 1990,  n. 661  del 1990)-entrambe  emanate nel  corso di
 processi in cui, pur non obbligato dalla legge, il pubblico ministero
 aveva  motivato il  suo dissenso  (un evento,  peraltro, verificatosi
 anche  nel corso  del  processo sfociato  nell'ordinanza  n. 421  del
 1990)-si  dolgono  unicamente del  fatto  che  il giudice  non  possa
 sindacarlo.
 Ulteriormente distinguendo, non si puo' non rilevare come, accanto ad
 un'ordinanza (n. S31  del 1990) che vorrebbe il  controllo al termine
 del dibattimento, cosi  da consentire al giudice  di quest'ultimo, in
 caso di  dissenso ritenuto ingiustificato, di  applicare la riduzione
 di pena, ve  ne siano tre (n. 421  del 1990, n. 592 del  1990, n. 661
 del 1990), che, perseguendo la finalita' di un controllo esteso anche
 alla  possibilita di  dare egualmente  corso al  giudizio abbreviato,
 rivendicano  il controllo  sul dissenso  del pubblico  ministero allo
 stesso giudice  dell'udienza preliminare, mentre altre  due ordinanze
 (n.  145  del 1990,  n.  603  del  1990) chiedono  l'affidamento  del
 controllo  allo   stesso  giudice  dell'udienza  preliminare   e,  in
 subordine, al giudice del dibattimento.
    Poiche' la  disciplina oggetto di censura si impernia  tutta  sul
 dissenso  immotivato  del  pubblico ministero,  l'ordine  logico  dei
 quesiti variamente proposti viene a  tradursi in una serie di momenti
 successivi,  strettamente  conseguenziali  l'uno  all'altro:  se  sia
 costituzionalmente legittimo che il  pubblico ministero possa opporsi
 senza motivazione di sorta alla richiesta di giudizio abbreviato; se,
 nel  caso  di  risposta  in senso  negativo,  sia  costituzionalmente
 legittimo  che  tale  motivazione   vada  esente  da  ogni  controllo
 giurisdizionale;  infine,  anche  qui   a  seguito  di  una  risposta
 negativa, a quale  giudice debba essere demandato il  controllo ed in
 quale ambito questo debba estrinsecarsi, con una duplice alternativa:
 o  il   giudice  dell'udienza  preliminare,  nella   quale  evenienza
 resterebbe  intatta   la  possibilita   di  far  luogo   al  giudizio
 abbreviato,  con  conseguente  automatica applicazione,  ove  venisse
 pronunciata condanna, della riduzione di  pena, oppure il giudice del
 dibattimento,  nella quale  evenienza, preclusa l'instaurabilita' del
 giudizio  abbreviato,   il  controllo   sul  dissenso   del  pubblico
 ministero, collocandosi dopo la conclusione del dibattimento, darebbe
 luogo, ove venisse pronunciata condanna, alla sola riduzione di pena.
    La  complessita' della situazione richiede di  muovere   dalla
 prospettazione piu ampia, relativa al combinato disposto degli artt.
 438, 439, 440 e 442 del codice di procedura penale.
    3.  - Quanto ai parametri  costituzionali  invocati,  uno  solo  e
 riscontrabile in  tutte le ordinanze, grazie  al concorde riferimento
 all'art.  3 della  Costituzione, di  volta in  volta affiancato  agli
 artt. 24, primo e secondo comma,  25, primo e secondo comma, 27, 101,
 secondo  comma,  102,   primo  comma,  e  111,   primo  comma,  della
 Costituzione.
  Diversi sono, pero', i profili sotto cui il parametro comune risulta
 invocato:   si  lamenta,   infatti,  un'irragionevole   disparita  di
 trattamento, da un  lato, fra accusa e difesa e,  dall'altro, fra piu
 imputati dello stesso  reato coinvolti in ipotesi  nell'ambito di uno
 stesso processo, nonche la diversita di disciplina rispetto all'altro
 rito   speciale  rappresentato   dall'applicazione   della  pena   su
 richiesta.  Quest'ultimo  profilo,  presente fin  dalla  prima  delle
 ordinanze in  epigrafe (n. 145 del  1990; v. anche n.  379 del 1990),
 pur  anteriore alla  sentenza  n. 66  del 1990  di  questa Corte,  si
 ritrova  con  espresso  rinvio  a  tale  sentenza  in  due  ordinanze
 successive  (n. 531  del 1990  e n.  661 del  1990, ove  si parla  di
 ).
    4. - La questione prospettata nell'ottica dei rapporti con il rito
 dell'applicazione della  pena su  richiesta-argomento che in  un caso
 (ordinanza n. 379 del 1990, relativa al processo minorile) neppure si
 appalesa praticabile, data l'inoperativita  di tale rito speciale nel
 processo a carico di imputati minorenni - non e' fondata.
    A  scanso  di  equivoci,  va  su'bito  detto che l'autonomia della
 disciplina del giudizio abbreviato, quale configurata  dall'art.  247
 del  testo  delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie
 (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n.  271),
 rispetto  alla  disciplina  del giudizio abbreviato ordinario dettata
 dal codice di procedura penale, impedisce di considerare la  presente
 questione "analoga" a quella oggetto della sentenza n. 66 del 1990. E
 lo stesso si dica per i suoi rapporti con la questione oggetto  della
 sentenza  n. 183 del 1990, in ordine alla richiesta di trasformazione
 del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato.
    Le  differenze che intercorrono fra la disciplina ordinaria, da un
 lato,  e  la  disciplina  transitoria,  dall'altro,  come   pure   le
 differenze  che intercorrono fra la disciplina ordinaria, da un lato,
 e la disciplina prevista per il passaggio dal  rito  direttissimo  al
 rito  abbreviato,  dall'altro, sono di portata fondamentale, trovando
 il   giudizio   abbreviato   ordinario    collocazione    all'interno
 dell'udienza preliminare, davanti al giudice preposto ad essa, mentre
 tanto il giudizio abbreviato previsto dalle norme transitorie  quanto
 il  giudizio  abbreviato  per  conversione  del giudizio direttissimo
 trovano posto nella fase predibattimentale, davanti  al  giudice  del
 dibattimento.  Cosicche',  non  potendosi qui dire che "il rito viene
 sostanzialmente  a  corrispondere  per  quel  che  concerne  giudice,
 momento  e sede della decisione finale", risulta del tutto inadeguato
 il richiamo alla statuizione contenuta nella sentenza n. 66 del  1990
 (e  ribadita nella sentenza n. 183 del 1990), in base alla quale "non
 si giustifica che il pubblico ministero, di fronte ad  una  richiesta
 di  giudizio  abbreviato,  possa  sacrificare,  oltre  al rito, anche
 l'effetto sulla pena, senza neppure dover enunciare  le  ragioni  del
 proprio  dissenso,  a  differenza  di quanto avviene di fronte ad una
 richiesta di applicazione della pena, dove  un  rito  sostanzialmente
 corrispondente  puo'  essere  sacrificato dal pubblico ministero solo
 enunciando le ragioni del dissenso e l'effetto sulla pena puo' essere
 sacrificato  solo  con  un  dissenso  non ritenuto ingiustificato dal
 giudice".
    In  particolare,  le  notevoli analogie riscontrabili fra giudizio
 abbreviato ed applicazione della pena su richiesta, quali configurati
 sia  dalle norme transitorie sia dalle norme del codice relative alla
 trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio  abbreviato,  si
 stemperano  cosi'  fortemente  nella  configurazione  dei  rispettivi
 regimi ordinari da passare in seconda linea di fronte alle  rilevanti
 differenze che reciprocamente ne caratterizzano la fisionomia.
    5.  -  E',  invece,  fondata  la questione proposta in riferimento
 all'art. 3  della  Costituzione  sotto  il  profilo  dell'irrazionale
 disparita'  cui  la  normativa impugnata, vista all'interno della sua
 applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti fra pubblico ministero
 ed imputato, quanto nei rapporti fra imputato ed imputato.
    Non  risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza
 una disciplina che autorizza il pubblico  ministero  ad  opporsi  non
 soltanto  a  una  "determinata  scelta del rito processuale", la qual
 cosa sarebbe pienamente "in armonia con le  normali  prerogative  del
 pubblico  ministero"  (v.  sentenza  n. 120 del 1984), ma anche a una
 consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato  in  caso
 di  condanna,  senza  neppure  dover  esternare  le  ragioni  di tale
 opposizione,  cosi'   sottraendola   all'"obiettiva   ed   imparziale
 valutazione"  del giudice (v., ancora, sentenza n. 120 del 1984). Per
 giunta, in un sistema, come quello del nuovo codice,  imperniato  sul
 princi'pio  di  "partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di
 parita' in ogni stato e grado del procedimento" (v.  art.  2,  n.  3,
 della  legge 16 febbraio 1987, n. 81), non dovrebbe essere consentito
 che i rapporti fra pubblico ministero ed imputato  si  sbilancino  al
 punto  che  il  primo, con un semplice atto di volonta' immotivato e,
 percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo  di
 un  rilevante  vantaggio  sostanziale.  Con  la  possibilita'  di  un
 ulteriore squilibrio nel trattamento fra due imputati destinatari  di
 un'identica   imputazione  e  portatori  di  un'analoga  capacita'  a
 delinquere, qualora il pubblico  ministero  adotti  un  atteggiamento
 consenziente  nei  confronti  dell'uno  e  dissenziente nei confronti
 dell'altro, senza nemmeno  dover  esternarne  le  ragioni  e  vederle
 sottoposte ad un qualsiasi controllo giurisdizionale.
    6. - Quanto ai parametri cui la motivazione del pubblico ministero
 dovrebbe rapportarsi nel manifestare la sua opposizione, la Corte  ha
 gia'  avuto  modo  di  prendere in esame (v. sentenza n. 66 del 1990,
 nonche' sentenza n. 183 del  1990)  quel  passo  della  Relazione  al
 progetto   preliminare  dove  si  sostiene  che  tali  parametri  non
 sarebbero "ne' tipizzati ne'  tipizzabili  dalla  legge".  Ma  -  pur
 riconoscendo  che, data la collocazione del rito abbreviato ordinario
 "nell'udienza  preliminare",  fase  "destinata  in  via  primaria  al
 controllo  della  richiesta  di  rinvio  a  giudizio", si "renderebbe
 difficilmente ipotizzabile l'esternazione delle ragioni del  dissenso
 del   pubblico   ministero   o,   piu'  precisamente,  della  mancata
 prestazione del suo consenso alla richiesta  di  giudizio  abbreviato
 formulata  dall'imputato"  - la Corte non ha mancato di rilevare come
 "le argomentazioni della Relazione in  tanto  sono  condivisibili  in
 quanto   il   pubblico   ministero,  non  tenuto  a  motivare,  possa
 liberamente determinarsi a dissentire". Ne consegue  che,  una  volta
 ritenuta  illegittima la mancata previsione per il pubblico ministero
 del dovere di motivare il proprio eventuale dissenso dalla  richiesta
 di  giudizio  abbreviato ordinario, il problema dei parametri implica
 la soluzione di altri due problemi, concernenti l'uno la sede ove  il
 controllo su tale motivazione deve esplicarsi e l'altro il giudice al
 quale affidare tale controllo.
    Poiche',  con  il negare il proprio consenso all'adozione del rito
 abbreviato, il pubblico ministero esprime la volonta' che il processo
 sia  definito  in quella fase cruciale del sistema accusatorio che e'
 il dibattimento, il controllo sulla motivazione del diniego non  puo'
 trovar posto all'interno dell'udienza preliminare e, quindi, non puo'
 venir  affidato  al  giudice   preposto   ad   essa,   perche'   cio'
 significherebbe  adottare  un  rito speciale contro le determinazioni
 del pubblico ministero. Solo al termine del dibattimento  il  giudice
 di  quest'ultimo  sara'  in  grado  di  verificare se il dissenso del
 pubblico ministero sia  da  ritenere  giustificato  e  -  qualora  la
 verifica  si  risolva  negativamente - di riconoscere all'imputato la
 riduzione della pena prevista dall'art. 442, secondo comma.
    Una  volta  escluso  che  il  giudizio abbreviato sia instaurabile
 senza il consenso del pubblico ministero ed individuata  la  funzione
 della  motivazione  del  suo  eventuale  dissenso  e  del susseguente
 controllo  di  essa  nel  dare  al  giudice   del   dibattimento   la
 possibilita'  di  far  luogo alla riduzione della pena allorquando il
 dissenso del pubblico ministero gli risulti  ingiustificato,  l'unico
 criterio   idoneo  a  rendere  concreto  l'esercizio  della  suddetta
 funzione   deve   considerarsi,   al   momento,   quello   imperniato
 sull'effettiva  utilita' del passaggio al dibattimento: criterio che,
 alla stregua della normativa in vigore, non puo' che identificarsi in
 quello  -  ricavabile dal confronto con i poteri conferiti al giudice
 dall'art. 440, primo comma - consistente nel ritenere il processo non
 definibile  allo stato degli atti. Vedra' il legislatore, se del caso
 utilizzando lo strumento predisposto dall'art. 7 della legge  delega,
 se siano enucleabili criteri ulteriori.
    7.  -  La  questione proposta nei confronti del combinato disposto
 degli artt. 438, 439, 440 e 442 del codice di  procedura  penale  va,
 quindi,  accolta,  tanto  nella parte in cui non vi si prevede che il
 pubblico ministero, in caso di dissenso dalla richiesta  di  giudizio
 abbreviato  avanzata  dall'imputato,  sia  tenuto  ad  enunciarne  le
 ragioni, quanto nella parte in cui non vi si prevede che il  giudice,
 qualora,  a dibattimento concluso, ritenga ingiustificato il dissenso
 del pubblico ministero, possa applicare all'imputato la riduzione  di
 pena  contemplata  dall'art. 442, secondo comma, dello stesso codice,
 restando  con  cio'  assorbita  ogni  altra   censura   proposta   in
 riferimento  agli  ulteriori  parametri  costituzionali dai giudici a
 quibus.
    9.  -  Alla stregua dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
 la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  va  estesa,  in
 termini  analoghi,  sia  all'art.  458,  primo  e  secondo comma, con
 riguardo alla richiesta di trasformazione del giudizio  immediato  in
 giudizio abbreviato, sia all'art. 464, primo comma, con riguardo alla
 richiesta di giudizio abbreviato da parte  dell'opponente  a  decreto
 penale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
     A)   dichiara   l'illegittimita'   costituzionale  del  combinato
 disposto degli artt. 438, 439, 440 e  442  del  codice  di  procedura
 penale,  nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero, in
 caso di dissenso, sia tenuto ad enunciarne le ragioni e  nella  parte
 in  cui  non prevede che il giudice, quando, a dibattimento concluso,
 ritiene ingiustificato il  dissenso  del  pubblico  ministero,  possa
 applicare  all'imputato  la  riduzione  di pena contemplata dall'art.
 442, secondo comma, dello stesso codice;
     B) in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87:
      a) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 458, primo
 e secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte  in  cui
 non  prevede  che  il  pubblico  ministero,  in caso di dissenso, sia
 tenuto ad enunciarne le ragioni e nella parte in cui non prevede  che
 il  giudice,  quando, a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato
 il dissenso del pubblico ministero, possa applicare  all'imputato  la
 riduzione  di  pena  contemplata  dall'art. 442, secondo comma, dello
 stesso codice;
      b) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 464, primo
 comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede
 che  il  pubblico  ministero,  in  caso  di  dissenso,  sia tenuto ad
 enunciarne le ragioni e  nella  parte  in  cui  non  prevede  che  il
 giudice,  quando,  a dibattimento concluso, ritiene ingiustificato il
 dissenso del pubblico  ministero,  possa  applicare  all'imputato  la
 riduzione  di  pena  contemplata  dall'art. 442, secondo comma, dello
 stesso codice.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1991.
                    Il Presidente e redattore: CONSO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 15 febbraio 1991.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 91C0201