N. 98 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 dicembre 1990

                                 N. 98
 Ordinanza  emessa  il  13  dicembre  1990 dal giudice per le indagini
 preliminari presso la pretura  di  Roma  nel  procedimento  penale  a
 carico di Fagotti Giuseppe ed altro
 Processo  penale  -  Procedimento  pretorile - Indagini preliminari -
 Procedimenti speciali - Applicazione della pena  su  richiesta  delle
 parti  -  Emissione del provvedimento in camera di consiglio Asserita
 natura di sentenza di  condanna  -  Lamentata  omessa  previsione  di
 pronuncia  in  pubblica udienza - Violazione dei principi della legge
 delega e della convenzione per i diritti dell'uomo e  delle  liberta'
 fondamentali - Disparita' di trattamento tra imputati.
 (C.P.P. 1988, artt. 447, 448 e 563).
 (Legge  16  febbraio  1987,  n. 81, art. 2, primo comma, prima parte;
 legge 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, primo comma, punto 45; legge 4
 agosto 1955, n. 848, art. 6, primo comma; Cost., artt. 3 e 76).
(GU n.9 del 27-2-1991 )
                 IL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI
    Visti  gli  atti  del procedimento penale n. 10243/90 rg. gip. (n.
 40760/90N rg. p.m.);
                           PREMESSO IN FATTO
      che  in  data  24  settembre  1990  Fagotti Giuseppe e Andreocci
 Cosimo e il pubblico ministero presso  la  pretura  circondariale  di
 Roma  presentavano richiesta congiunta di applicazione della pena nel
 corso delle indagini ai sensi degli artt.  444  e  segg.  e  549  del
 c.p.p. di giorni venti di arresto e lire otto milioni di ammenda, con
 il beneficio della  sospensione  condizionale  dell'esecuzione  della
 pena  in ordine al reato previsto dall'art. 17, lett. b), della legge
 28 gennaio 1977, n. 10, sostituito  dall'art.  20,  lett.  b),  della
 legge  28  febbraio 1985, n. 47, per avere abusivamente costruito, in
 assenza di concessione  edilizia,  un  manufatto  in  muratura  delle
 dimensioni  di  metri  32  x  15,50  x  3  di  altezza,  sito  in via
 Presenzano, 9 (gia' via Laurentina, km. 16,500). Accertato in Roma il
 24 ottobre 1983, 1› dicembre 1983, 30 gennaio 1984, 15 febbraio 1984,
 8 marzo 1984, 25 marzo 1986, 25 maggio 1988;
                          PREMESSO IN DIRITTO
      che  questo  giudice,  ritiene  che  la sentenza di applicazione
 della pena su richiesta delle parti sia una sentenza  di  condanna  e
 che come tale debba essere emessa in pubblica udienza e non in camera
 di consiglio e tale eccezione, attenendo alle forme con le  quali  va
 celebrato il giudizio, e' in ogni caso rilevante;
      che  non  ricorrono  nel  caso  in  esame  i  presupposti di una
 pronunzia di  proscioglimento  ai  sensi  dell'art.  129  del  c.p.p.
 perche':
        a)  non  vi  e'  alcuna  prova  evidente  di  innocenza  degli
 imputati;
        b)  il  reato  ascritto  non  e' estinguibile per amnistia, ai
 sensi del d.P.R.  n.  75/1990,  perche'  le  opere  abusive  sono  di
 cospicue dimensioni;
        c)  esso non e' estinguibile ai sensi dell'art. 38 della legge
 28 febbraio 1985, n. 47 (cd. condono edilizio), perche' le opere  non
 erano ultimate entro il primo ottobre 1983 (epoca in cui erano appena
 iniziate) come risulta ampiamente dimostrato dalle fotografie in atti
 e   dai   numerosi   sequestri   operati   nel  corso  degli  anni  e
 conseguentemente e' provato che le domande di condono  in  atti  sono
 false;
        d) non sussistono altre cause di estinzione del reato;
      che la pena concordata dalle parti e' congrua;
      che  puo'  concedersi  il beneficio della sospensione della pena
 anche subordinatamente alla demolizione delle opere abusive;
      che   deve   essere  emessa  la  sanzione  amministrativa  della
 demolizione delle opere abusive ai sensi dell'art. 7,  ultimo  comma,
 della legge 28 febbraio 1985, n. 47;
      che tale sanzione e' ammissibile perche' la sentenza pronunziata
 ai sensi dell'art. 444 e' sentenza di condanna;
                             O S S E R V A
    I.  -  Ad  avviso  di  questo  giudice  va sollevata di ufficio la
 questione di legittimita' costituzionale degli artt. 447, 448  e  563
 del  c.p.p.  in  relazione al combinato disposto degli artt. 2, primo
 comma, prima parte, e punto 45 della legge 16 febbraio 1987, n. 81  e
 art. 6, primo comma, della legge 4 agosto 1955, n. 848, per contrasto
 con gli artt. 76 e 3 della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  non
 prevedono  che  nella  fase delle indagini preliminari la sentenza di
 applicazione della pena su richiesta delle parti ai  sensi  dell'art.
 444 del c.p.p. sia emessa in pubblica udienza.
    II.  -  Occorre  premettere  qualche considerazione in ordine alla
 natura della sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 del c.p.p.
    Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione la sentenza in
 questione non  e'  una  pronunzia  di  condanna  (sezione  prima,  19
 febbraio  1990,  Migliardi);  essa  ha  in  particolare  sostenuto il
 principio che la sentenza de quo non comporta un  accertamento  della
 responsabilita'  dell'imputato  in  ordine  al  reato  addebitatogli;
 pertanto non e' inquadrabile tra  le  sentenze  di  condanna,  bensi'
 nella   categoria   delle   "sentenze  in  ipotesi",  precisando  che
 l'interpretazione data dalla Corte costituzionale con la sentenza  n.
 66/1990,  incidenter  tantum,  non  affermava  in maniera precisa che
 potesse trattarsi di sentenza di condanna, posto che l'accordo tra le
 parti non puo' essere sostitutivo dell'accertamento della verita' che
 e'  compito  del  giudice.  In  sintesi  l'assunto  della  Corte   di
 cassazione si fonda sui seguenti punti:
      1)  la  relazione  parlamentare  sul nuovo codice afferma che la
 sentenza emessa ai sensi dell'art. 444  del  c.p.p.  prescinde  dalla
 responsabilita' del reo;
      2)  l'art.  445  del  c.p.p. prevede che tale sentenza non abbia
 efficacia nei giudizi civili o amministrativi;
      3)  l'art. 445 citato si limita ad equiparare tale sentenza, per
 alcuni effetti, ad una pronunzia di condanna e cio' dimostra  che  il
 legislatore non l'ha voluta considerare una sentenza di condanna.
    Dissentendo dall'orientamento di cui sopra, ritiene questo giudice
 che la natura di pronuncia di condanna nel caso di sentenza emessa ai
 sensi dell'art. 444 del c.p.p. si evince innanzitutto dal rilievo che
 non  puo'  infliggersi  una  sanzione  penale,  tanto  piu'  a   pena
 detentiva,  se  non  in  virtu'  del  principio della responsabilita'
 personale accertata dal giudice ai sensi degli artt. 27, primo comma,
 25 e 101 della Costituzione.
    Vi  e'  un'altra  ragione  per la quale la sentenza pronunziata ai
 sensi dell'art. 444 del c.p.p. e' e non puo' essere che di  condanna:
 l'art.  6,  primo comma, primo periodo, della legge 4 agosto 1955, n.
 848, di ratifica della convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti
 dell'uomo e delle liberta' fondamentali, stabilisce che "ogni persona
 ha  diritto  che  la  sua   causa   sia   esaminata   imparzialmente,
 pubblicamente  e  in  un  tempo ragionevole, da parte di un tribunale
 indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che  decidera'...
 sul  fondamento  di  ogni  accusa in materia penale elevata contro di
 lei".  Spetta  dunque  solo   al   giudice   la   valutazione   della
 responsabilita'  penale e non puo' essere emessa sentenza di condanna
 se non dopo che il giudice abbia valutato la fondatezza delle accuse.
    Ritiene questo giudice che la natura di sentenza di condanna della
 pronunzia emessa ai sensi dell'art. 444 del  c.p.p.,  gia'  adombrata
 nella  sentenza n. 66/1990 di codesta Corte costituzionale, sia stata
 definitivamente chiarita con la sentenza n. 313/1990, nella quale  si
 afferma   che   il  giudice  ha  il  potere-dovere  di  accertare  la
 responsabilita'  dell'imputato   e   conseguentemente   valutare   la
 congruita'  della  pena  rispetto  alla  fattispecie concreta, previa
 verifica della sussistenza delle circostanze,  della  congruita'  del
 giudizio  comparativo  ai  sensi dell'art. 133, anche in funzione del
 fine sia retributivo sia rieducativo che la pena deve avere.
    III.  -  Una  volta  chiarito che la sentenza de quo e' una vera e
 propria  sentenza  di  condanna,  assume   rilievo   l'eccezione   di
 incostituzionalita' oggi sollevata.
    Tale  sentenza  nel  procedimento pretorile e' emessa in camera di
 consiglio per il rinvio che l'art. 563, primo comma, del c.p.p. opera
 alle  norme  per  i  reati  di  competenza  del  tribunale, in quanto
 applicabili. Trattandosi di sentenza che accerta  la  responsabilita'
 dell'imputato,  ad  avviso  di  questo  giudice deve essere emessa in
 conformita' dell'art. 6  della  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  di
 ratifica  ed  esecuzione  della Convenzione per i diritti dell'uomo e
 delle liberta' fondamentali, il quale prevede che "il  giudizio  deve
 essere  pubblico,  ma  l'ingresso  nella  sala di udienza puo' essere
 vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del  processo
 nell'interesse   della   moralita',   dell'ordine  pubblico  o  della
 sicurezza nazionale in una societa' democratica,  quando  lo  esigono
 gli  interessi  dei  minori o la protezione della vita delle parti in
 causa, o in quella misura ritenuta  strettamente  indispensabile  dal
 tribunale,  quando  in  circostanze  speciali  la pubblicita' potesse
 ledere gli interessi della giustizia".
    Dalla formulazione della norma emergono due punti essenziali:
       a) che la pubblicita' dell'udienza e' prevista per ogni tipo di
 giudizio nel corso del quale debba  emettersi  una  sentenza  con  la
 quale si dichiara la colpevolezza dell'imputato;
       b) che la limitazione alla pubblicita' del giudizio va valutata
 in concreto  dal  giudice,  in  relazione  alla  singola  fattispecie
 sottoposta al suo esame, ma non puo' essere applicata in via generale
 ad un determinato rito processuale.
    Il  giudizio  che  conduce ad una sentenza di condanna, sia pure a
 pena concordata dalle parti e sia  pure  nella  fase  delle  indagini
 preliminari, non puo' sottrarsi alla pubblicita' dell'udienza, tipica
 di ogni ordinamento democratico. Ne' vale sostenere  che  proprio  la
 sottrazione  alla pubblicita' e' un aspetto premiale dell'istituto in
 esame, perche' il fine precipuo  della  pubblicita'  dell'udienza  e'
 quello  della  garanzia di trasparenza del processo nei confronti sia
 dell'imputato che della collettivita'.
    Pertanto le norme del codice sottoposte oggi al vaglio della Corte
 appaiono  in  contrasto  con  l'art.  6  della   citata   convenzione
 internazionale che e' legge dello Stato in seguito alla ratifica.
    Ne'  puo'  ritenersi  che  il  legislatore  delegante abbia inteso
 abrogare implicitamente la norma della legge  di  ratifica,  perche',
 anzi,  l'art.  2  della legge delega, al comma 1, detta una direttiva
 "cornice", di portata generale, cui le altre direttive formulate  nel
 corso del medesimo articolo debbono uniformarsi: quest'ultimo infatti
 afferma che: "il codice di procedura penale deve attuare  i  principi
 della   Costituzione   e   adeguarsi  alle  norme  delle  convenzioni
 internazionali ratificate dall'Italia e  relative  ai  diritti  della
 persona e al processo penale".
    La  direttiva  di  cui  al punto 45 stabilisce che l'imputato e il
 pubblico ministero possono chiedere al giudice, fino all'apertura del
 dibattimento,  l'applicazione  della pena concordata e che il giudice
 decide in  udienza  con  sentenza  inappellabile;  la  direttiva  non
 precisa  tuttavia  se l'udienza debba essere pubblica, ma cio' appare
 implicito in virtu' di quanto detto al primo comma  dell'art.  2.  Il
 legislatore  delegato ha interpretato il punto 45 della direttiva nel
 senso che l'applicazione della pena su richiesta  delle  parti  possa
 essere  effettuata  in  udienza  camerale,  senza  tener  conto della
 direttiva primaria posta dal primo comma dell'art. 2  della  medesima
 legge  delega; ma, in tal modo, ha ecceduto dalla delega postagli dal
 comma 1 dell'articolo citato, cosi' violando il disposto dell'art. 76
 della   Costituzione   e   creando   disparita'  di  trattamento  tra
 giudicabili, in violazione dell'art. 3 della Costituzione, perche' la
 medesima  pena  per  un  identico  reato  puo'  essere inflitta ad un
 imputato senza la garanzia della pubblicita' dell'udienza rispetto ad
 un altro imputato giudicato con rito ordinario.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta  non  manifestamente  infondata  e  rilevante ai fini del
 presente giudizio la questione di legittimita'  costituzionale  degli
 artt.  447,  448  e 563 del c.p.p. in relazione al combinato disposto
 degli artt. 2, primo comma, prima parte, e punto 45  della  legge  16
 febbraio  1987,  n.  81  e  art. 6, primo comma, della legge 4 agosto
 1955, n. 848, per contrasto con gli artt. 76 e 3 della  Costituzione,
 nella  parte  in  cui  non  prevedono  che  nella fase delle indagini
 preliminari la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle
 parti  ai  sensi  dell'art.  444  del  c.p.p.  sia emessa in pubblica
 udienza;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del
 Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti  delle  due  Camere
 del Parlamento.
      Roma, addi' 13 dicembre 1990
            Il giudice delle indagini preliminari: BRESCIANO

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