N. 281 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 febbraio 1991

                                N. 281
    Ordinanza emessa il 28 febbraio 1991 dal tribunale militare di
                         sorveglianza di Roma
             sull'istanza proposta da Di Lorenzo Antonino
 Ordinamento  penitenziario - Beneficio della detenzione domiciliare -
 Ritenuta impossibilita' di concederlo nei  confronti  dei  condannati
 militari  in quanto la reclusione militare e' giuridicamente distinta
 dalla  pena  detentiva  per  la  quale  e'  ammesso  il  beneficio  -
 Ingiustificata  violazione  dei  principi  della funzione rieducativa
 della pena, del diritto al lavoro, dei diritti della famiglia e della
 salute,  che  sono   alla   base   dell'istituto   della   detenzione
 domiciliare.
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 47-ter, introdotto dalla legge 10
 ottobre 1986, n. 663, art. 13).
 (Cost., artt. 2, 3, 4, 27, 29, 31 e 32).
(GU n.17 del 24-4-1991 )
                 IL TRIBUNALE MILITARE DI SORVEGLIANZA
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    1.  -  Con istanza in data 6 febbraio 1991 il detenuto militare Di
 Lorenzo Antonino, nato ad  Asti  il  9  maggio  1970  e  residente  a
 Castiglione  della  Pescalia  via  Sauro  n. 24, che sconta presso il
 Carcere militare di Roma la pena di mesi 4 di  reclusione  sostituita
 con la reclusione militare per eguale durata inflittagli con sentenza
 del  giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale militare di
 Roma in data 28 giugno 1990 per il  reato  di  rifiuto  del  servizio
 militare di leva, ha richiesto a questo tribunale di poter espiare il
 residuo pena in regime di detenzione domiciliare.
    L'istanza  e'  motivata  dalla  particolare  situazione  in cui la
 famiglia del Di Lorenzo si e' venuta a trovare a seguito della  morte
 improvvisa  del  padre  del  detenuto ed e' supportata da consistente
 documentazione probatoria.
    Il  provvedimento  richiesto  e',  evidentemente,  quello  di  cui
 all'art.  47-  ter  della  legge  di ordinamento penitenziario, quale
 introdotto  dall'art.  13  della  legge  10  ottobre  1986,  n.  663,
 ricorrendo,  ad  avviso  dell'istante,  l'ipotesi  di cui al n. 4 del
 primo comma.
    2. - Il rappresentante del p.m. eccepisce in via  preliminare  che
 l'istituto  della  detenzione  domiciliare  non  e'  applicabile  nei
 confronti  del   condannato   militare   e   chiede   di   dichiarare
 inammissibile l'istanza in questione.
    Rileva  il  procuratore generale che l'art. 47- ter della legge di
 ordinamento penitenziario oggi in  vigore  prevede  il  beneficio  in
 parola  non  per  qualsiasi pena detentiva ma soltanto per l'arresto,
 qualunque ne sia la durata, e per la reclusione, per una  durata  non
 superiore  a  due  anni. Non vi e' espressa menzione delle ipotesi di
 condanna alla pena della "reclusione militare", che  invece  si  deve
 ritenere  compresa  (ai  sensi  dell'art. 23 c.p.m.p.) nella generica
 dizione di "pena detentiva", cui altre volte  fa  ricorso  la  stessa
 legge  di  ordinamento  penitenziario,  per  esempio  nel  caso della
 liberazione anticipata di cui all'art. 54.  Tale  rilievo  letterale-
 sistematico  preclude,  per  il  rappresentante  del p.m., ogni altra
 indagine e impone la dichiarazione di inammissibilita' dell'istanza.
    Sembra  a  questo  collegio  che  il  rilievo  sia   difficilmente
 superabile   in   via   di  interpretazione,  sopattutto  perche'  la
 "reclusione militare" e' pena detentiva del tutto  assimilabile  alla
 reclusione,  ma da questa giuridicamente distinta, stante la mancanza
 di una generica norma equiparativa e  rinvenendosi  nel  sistema,  al
 contrario,  aspetti  di differente ed autonoma disciplina: fra tutti,
 la diversa durata legale minima, quindici giorni  per  la  reclusione
 (art.  23  del c.p.), un mese per la reclusione militare (art. 26 del
 c.p.m.p.).
    Sembra quindi a questo collegio che, posta la  autonoma  rilevanza
 giuridica,  nel  sistema,  della  reclusione  militare  rispetto alla
 reclusione, sia compito del legislatore  prevedere  espressamente  la
 disciplina  riservata  all'una  e  all'altra,  quando  viceversa  non
 ritenga di  affasciare  i  due  istituti  nella  medesima  disciplina
 attraverso il ricorso alla onnicomprensiva dizione "pena detentiva".
    3.  -  Tuttavia, le cadenze argomentative del procuratore generale
 non possono essere seguite sino alla conseguenza della  dichiarazione
 di    inammissibilita',    perche',   rilevato   l'ostacolo   formale
 all'applicazione del beneficio nei confronti del condannato militare,
 vi e' da dubitare che tale esclusione -  verosimilmente  dovuta  alla
 consueta   mera   dimenticanza  del  settore  penale  militare  nelle
 occasioni della riforma della legge penale comune - sia  conforme  al
 principio  costituzionale  di  eguaglianza come fissato all'art. 3 in
 relazione ai principi di pari livello di cui agli artt. 2, 4, 27, 29,
 31 e  32  della  Costituzione,  su  cui  si  fonda  l'istituto  della
 detenzione domiciliare.
    Invero,  per  dissipare  il dubbio in parola si dovrebbe ravvisare
 nella  reclusione  militare  una   pena   detentiva   dai   contenuti
 profondamente   diversi   rispetto  a  quelli  riferibili  alle  pene
 detentive  "comuni",  e,  inoltre,  individuare  in  tali   specifici
 contenuti  delle  ragioni che impongano o giustifichino, quanto meno,
 una disciplina derogatoria che sacrifichi i principi o beni di  rango
 costituzionale  di  cui  il  legislatore  ha  tenuto invece conto nel
 prevedere l'istituto della detenzione domiciliare.
   Appare gia'  sufficientemente  improba  la  fatica  di  coloro  che
 provino   a   connotare   la   reclusione   militare   con  caratteri
 contenutistici differenziati da quelli della reclusione  tout  court,
 cioe'  che si cimentino a ravvisare nella distinzione formale imposta
 dal  sistema  di  diritto  positivo  una  corrispondente  distinzione
 sostanziale.
    La  dottrina  piu'  avveduta ha gia' messo in guardia dai contorni
 fumosi, se non addirittura foschi e  pericolosi,  di  cui  e'  capace
 l'idea  della  "rieducazione militare" come separata e distinta dalla
 "rieducazione" tout court di cui parla l'art. 27 della  Costituzione,
 formula  in  cui,  parecchi  anni orsono, si era cercato di ravvisare
 proprio  quel  carattere  distintivo  sostanziale.   A   prescindere,
 comunque,  dalla  accorata  denuncia della dottrina e dal rilievo che
 dalla eventuale prospettiva  della  rieducazione  militare  sarebbero
 comunque  esclusi i condannati per reati "determinati da obiezione di
 coscienza",  come  si  ricava  dal  regime   speciale   per   costoro
 predisposto  in materia di affidamento in prova (art. 3, terzo comma,
 della legge 29 aprile 1983, n. 167), sarebbe  difficile  rintracciare
 nel   sistema  istituti  propri  della  reclusione  militare  che  si
 ricolleghino  ad  una  idea  di  rieducazione  "speciale"  nel  senso
 suddetto;  cio',  a  meno  che  non si voglia considerare tali quelle
 contenute  nello  scarno  r.d.  10  febbraio  1943,   n.   306,   che
 genericamente parla di "istruzioni militari" da impartire ai detenuti
 militari  (art. 12), o addirittura nel d.lgt. 27 ottobre 1918, n. 201
 in cui l'unico "trattamento" di cui si  parla  e'  quello  di  favore
 riservato  agli  ufficiali  o ex ufficiali detenuti circa i pasti, la
 biancheria, l'attendente e i mobili (parr.  452-460),  per  il  quale
 l'unico  modo  di  uscire  dal carcere diverso dalla pena scontata e'
 costituito dalla "grazia Sovrana" ottenibile dopo aver  scontato  due
 terzi  di  pena  non  breve  (parr. 418-419), o secondo cui una della
 sanzioni disciplinari e' la c.d. "prigione di rigore  con  ferri"  in
 base  al  prudente  dosaggio  di  cui  al  par.  634 (che distingue i
 trattamenti con "ferri lunghi" da quelli con "ferri corti").
    In ogni caso, quand'anche si ammetta che la distinzione giuridico-
 formale  tra reclusione militare e reclusione rimandi ad una speciale
 rieducazione cui la prima debba tendere, occorrerebbe dimostrare  che
 detta  rieducazione,  per  la  cui  attuazione  non sembrano esistere
 istituti  propri,  imponga  viceversa  esigenze   tali   da   cozzare
 irrimediabilmente con il finalismo rieducativo della pena comune, per
 attuare  il  quale  si  sono  creati strumenti normativi, impensabili
 prima del 1948.
    Tale dimostrazione sembra non possa essere fornita:  l'idea  della
 rieducazione   militare   non   puo'   certo   spingere   la  propria
 materializzazione sino al punto di negare per il condannato  militare
 diritti,   prospettive,   premi   previsti  per  il  detenuto  comune
 nell'ambito  dell'esigenza  rieducativa  voluta  dalla  Costituzione;
 soprattutto non puo' in questo effetto derogatorio consumare l'intero
 suo contenuto.
    Manca,  quindi, ad avviso del collegio persino il parametro per un
 qualsiasi  eventuale  giudizio   di   bilanciamento   tra   interessi
 contrastanti,  tramite  il  quale  si  possa  "misurare" la forza dei
 principi su cui  si  fonda  il  beneficio  richiesto  dal  condannato
 militare  Di  Lorenzo; non e' certo lo status di militare a suggerire
 la possibilita' o la doverosita' di una minore  attenzione  verso  il
 diritto  al  lavoro, i diritti della famiglia come formazione sociale
 cui si riconoscono "compiti" particolarmente delicati,  ovvero  verso
 il diritto alla salute; ne' e' certo lo status di militare in capo al
 condannato  ad  escludere  che la pena che costui deve scontare debba
 consistere in trattamenti conformi al senso di umanita'.
    Si  e'  piuttosto  di  fronte  ad  un  trattamento  deteriore  del
 condannato   militare   rispetto   al  condannato  comune  del  tutto
 irragionevole  ed  ingiustificato,  che  va  rimosso   dagli   organi
 competenti.
    Quanto,  infine,  alla  rilevanza  della questione coinvolgente la
 applicabilita'  della  detenzione  domiciliare  nella  decisione  del
 procedimento  in  esame,  essa  e'  di  tutta evidenza poiche' ove il
 beneficio fosse inapplicabile al detenuto militare l'istanza andrebbe
 dichiarata inammissibile, come richiesto dal pubblico ministero.
                               P. Q. M.
    Sentite le richieste  delle  parti  che  hanno  concluso  come  da
 separato verbale;
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva  di  ufficio  la  questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 47- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, come introdotto
 dall'art. 13 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in  cui
 esclude  che la pena detentiva della reclusione militare possa essere
 espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura  o
 di assistenza, in relazione agli artt. 2, 3, 4, 27, 29, 31 e 32 della
 Costituzione ritenendo tale questione rilevante nel presente giudizio
 e non manifestamente infondata;
    Ordina  la  trasmissione  degli  atti dalla Corte costituzionale e
 sospende il giudizio in corso;
    Dispone  inoltre  che,  a  cura  della  cancelleria,  la  presente
 ordinanza  sia  notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e
 comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Roma, addi' 18 febbraio 1991
                        Il presidente: FABRETTI
                                     Il magistrato estensore: BRUNELLI
 91C0496