N. 158 SENTENZA 8 - 18 aprile 1991

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Filiazione  -  Riconoscimento  di  figlio naturale - Impugnazione per
 difetto di veridicita' - Imprescrittibilita' dell'azione - Situazione
 non comparabile con quella di figlio legittimo - Inammissibilita'.
 
 (C.C., art. 263)
 
 (Cost., artt. 2, 3, 10, 29 e 30).
(GU n.17 del 24-4-1991 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici:  prof.  Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, avv. Ugo
 SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio  BALDASSARRE,
 prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,  avv. Mauro FERRI, prof.  Luigi MENGONI,
 prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof.  Giuliano VASSALLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 263 del  codice
 civile,  promosso  con  ordinanza  emessa  il  21  settembre 1990 dal
 Tribunale di Bolzano nel procedimento  civile  vertente  tra  Pifferi
 Luciano  e  Pifferi  Lucio, iscritta al n. 707 del registro ordinanze
 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  47,
 prima serie speciale dell'anno 1990;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 27 febbraio 1991 il Giudice
 relatore Francesco Paolo Casavola;
                           Ritenuto in fatto
   Nel corso di un giudizio d'impugnazione per difetto di  veridicita'
 del  riconoscimento  di figlio naturale, il Tribunale di Bolzano, con
 ordinanza emessa il 21 settembre 1990,  ha  sollevato,  in  relazione
 agli  artt.  2,  3,  10,  29  e  30  della Costituzione, questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 263 del  codice  civile,  nella
 parte in cui sancisce l'imprescrittibilita' dell'azione de qua.
    Il  giudice rimettente individua un primo profilo d'illegittimita'
 nella violazione dell'art. 3, ponendo come tertium  comparationis  la
 diversa  disciplina dettata dall'art. 244 del codice civile (che, per
 l'azione di disconoscimento della paternita'  da  parte  del  marito,
 prevede il termine di decadenza di un anno).
    Il  confronto evidenzierebbe una disparita' non giustificata dalla
 "differenza  tra  i  due  status  di  figlio  naturale  e  di  figlio
 legittimo,  che  non  sembrano differenziarsi per una prevalenza solo
 nel primo caso di un preminente interesse alla verita' carnale  dello
 stato di figlio, anzi solo nel primo caso si fa capo costantemente ad
 un  atto  volontario di assunzione delle obbligazioni e dei doveri di
 padre, ex art. 261  del  codice  civile,  ove  nel  secondo  caso  la
 paternita' puo' risultare da dichiarazioni di altre persone, a cui il
 padre legittimo soggiace".
    In  secondo  luogo, la norma impugnata, nel consentire "la pratica
 retrattazione" di un riconoscimento falso,  finirebbe  per  vulnerare
 l'art. 2 della Costituzione rendendo possibile l'"arbitrario svincolo
 del  recogniscente" dai doveri inderogabili di solidarieta' economica
 e sociale, richiamati  anche  dalla  Convenzione  internazionale  dei
 diritti  dell'uomo  (ed  in  proposito  verrebbe in rilievo l'art. 10
 della Costituzione).
    Infine, parrebbero al giudice a quo anche lesi i parametri di  cui
 agli  artt.  29  e  30  della  Costituzione  per il pregiudizio che i
 diritti  inviolabili  dei  figli  riceverebbero  dalla   possibilita'
 riconosciuta ai genitori di "svincolarsi dai doveri familiari".
                        Considerato in diritto
    1.  - Il Tribunale di Bolzano, con ordinanza del 21 settembre 1990
 (R.O. n. 707 del 1990), solleva, in riferimento agli artt. 2, 10,  29
 e  30,  nonche'  3  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 263 del codice  civile,  per  disparita'  di
 trattamento  rispetto  ai  termini di proposizione dell'azione di cui
 all'art. 244 del codice civile.
    2.  -  Il  Tribunale  rimettente,  dato  il  caso  di  specie   di
 impugnativa  per  difetto  di  veridicita'  da  parte dell'autore del
 riconoscimento,  da   sempre   consapevole   della   falsita'   della
 filiazione,  imputa  alla norma di cui all'art. 263 del codice civile
 di  consentire  la  "retrattazione  di  un  volontario  e   cosciente
 riconoscimento   falso,   con  violazione  dei  diritti  fondamentali
 inviolabili  dell'uomo  nella  formazione  sociale-famiglia,  ove  si
 svolge  la sua personalita', ed arbitrario svincolo del recogniscente
 dai  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  economica   e   sociale"
 volontariamente   assunti,   con   cio'  violandosi  l'art.  2  della
 Costituzione.
    Tali doveri inderogabili sono individuati in  corrispondenza  con:
 a)  il  diritto  al  rispetto  della vita privata e familiare, di cui
 all'art. 8 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei  diritti
 dell'uomo, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, e per il quale
 varrebbe  il richiamo in Costituzione tramite l'art. 10; b) i diritti
 dei componenti della societa' familiare nei confronti reciproci,  dei
 terzi e dello Stato, come risultano nei precetti di cui agli artt. 29
 e  30  della Costituzione, con particolare specificazione nel diritto
 all'educazione dei figli verso i genitori.
    2.1 - La prospettazione della questione non  e'  da  condividersi.
 Essa  muove  dalla  petizione  di principio che il riconoscimento del
 figlio naturale debba essere irretrattabile da parte del suo  autore.
 La  storia  della  norma  censurata,  al  contrario, registra come un
 progresso la legittimazione  ad  agire  per  difetto  di  veridicita'
 estesa allo stesso autore del riconoscimento.
    L'art.  339  del  Codice  Napoleone prevedeva l'impugnativa per il
 falso riconoscimento  solo  da  parte  dei  terzi  e  il  legislatore
 italiano  del 1865, nell'art. 188 del codice civile, vi aggiungeva il
 figlio, volendosi  con  cio'  escludere  che  il  padre  o  la  madre
 potessero  far  valere  un  proprio  interesse alla veridicita' della
 riconosciuta filiazione in quanto autori dell'atto di agnizione.
    Gli interpreti giustificavano tale esclusione in due  modi:  a)  o
 costruendo  il  riconoscimento come confessione e derivando da questa
 la irrevocabilita' (argom. ex art. 1360 codice  civile  1865  =  art.
 2732  codice  civile  vigente);  b)  o  deducendo  dal principio nemo
 auditur turpitudinem  suam  allegans  il  divieto  per  l'autore  del
 riconoscimento di provare il proprio mendacio.
    Dopo   che   la   dottrina   aveva   superato   la  identita'  tra
 riconoscimento e confessione e considerato il mendacio  non  piu'  un
 ostacolo  all'impugnativa da parte del falso genitore, il legislatore
 del 1942 dava luogo al tenore del vigente art. 263 del codice  civile
 che legittima all'azione anche l'autore del riconoscimento.
    Come  si  legge  nella Relazione del Guardasigilli, il legislatore
 civile adotto' "il principio  di  ordine  superiore  che  ogni  falsa
 apparenza di stato deve cadere".
    In  forza  di  questo  principio  superiore, il legislatore civile
 consapevolmente  rifiuto'  di   limitare   la   legittimazione   alla
 impugnativa   al  solo  autore  del  riconoscimento  in  buona  fede,
 escludendone quello in male fede, e scegliendo di non sanzionare  per
 costui  con  la  irretrattabilita'  il  disvalore  del  comportamento
 subbiettivo.
    Cio'   significa   che   l'autore   del   falso    riconoscimento,
 indipendentemente  dalla  sua  buona  o  mala fede, e' oggettivamente
 utilizzabile come strumento di caducazione di uno  status  costituito
 contro  verita'.  Anzi,  mentre  a  fondamento  della  legittimazione
 all'impugnativa del riconoscimento per  difetto  di  veridicita'  del
 riconosciuto  o  del  terzo sono individuabili posizioni di interesse
 personale,  sia  morale  sia   patrimoniale,   nella   legittimazione
 dell'autore   del   mendacio   puo'  residuare  soltanto  l'interesse
 disinteressato  alla  verita',  mero  pentimento  per   la   falsita'
 dichiarata.
    2.2 - Data la irrilevanza della condizione subbiettiva dell'autore
 del  falso  riconoscimento  perche' si realizzi l'interesse oggettivo
 dell'ordinamento alla verita' dello status personale  di  filiazione,
 non puo' farsi valere lo scioglimento dai vincoli assunti dal pseudo-
 genitore  verso  il  preteso  figlio ( ex art. 261 del codice civile)
 come causa del contrasto con l'art. 2 della Costituzione.
    L'inderogabilita' dei doveri di solidarieta' ivi richiamati, nella
 specifica formazione sociale costituita dalla famiglia, di  cui  agli
 artt.  29 e 30 della Costituzione, non e' invocabile quando il legame
 familiare venga meno perche' privato  del  fondamento  della  verita'
 della filiazione.
    Ne'  quel legame e' automaticamente surrogabile in equivalenza con
 l'altro della  c.d.  famiglia  degli  affetti,  dato  che  quello  e'
 radicato  legalmente in una dichiarazione di scienza rivelativa della
 procreazione, e questo invece in un atto  di  volonta',  che  ha  per
 presupposto l'assenza di un vincolo di sangue.
    I   parametri   costituzionali   invocati   non  hanno  forza  per
 subordinare e modificare il principio dell'ordinamento che modella la
 norma, di cui all'art. 263 del codice civile.
    3.  -  Il  profilo  di  disparita'  di  trattamento  tra il figlio
 naturale  riconosciuto,  permanentemente  esposto  alla  perdita  del
 proprio  status,  data la imprescrittibilita' dell'azione ex art. 263
 del codice civile, e il figlio legittimo, per il cui  disconoscimento
 il  padre  dispone di azione sottoposta a termine di decadenza annale
 ex art. 244 del codice civile, non sussiste.
   Le due situazioni non sono comparabili, dato che per la prima, come
 s'e' detto, vale il principio superiore che ogni falsa  apparenza  di
 status deve cadere, da cui la imprescrittibilita' dell'azione; per la
 seconda  vale  la  presunzione  pater  est  is  quem  iustae  nuptiae
 demonstrant superabile solo - per il favor  legitimitatis  -  con  la
 decadenza   nel   breve   termine   di   un   anno   dell'azione   di
 disconoscimento.
    Non puo' ignorarsi  che  alla  coscienza  collettiva,  mutando  il
 rapporto  di  valore  tra  appartenenza familiare e isolata identita'
 individuale,   potrebbe   apparire   eccessivamente    rigorosa    la
 imprescrittibilita'dell'azione di impugnazione del riconoscimento non
 veridico  qualora  si  volesse  bilanciare la incertezza della durata
 dello status  del  riconosciuto  con  l'interesse  sociale  alla  sua
 verita'.  Su  analoga questione questa Corte ha gia' statuito che non
 il giudice delle leggi, ma "solo il legislatore potrebbe stabilire la
 durata del termine  da  sostituire  all'imprescrittibilita'  disposta
 dall'art. 263 del codice civile" (sentenza n. 134 del 1985).
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 263 del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt.
 2, 3, 10, 29 e 30 della Costituzione, dal Tribunale  di  Bolzano  con
 l'ordinanza di cui in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, l'8 aprile 1991.
                       Il Presidente: CORASANITI
                        Il redattore: CASAVOLA
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 18 aprile 1991.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 91C0503