N. 447 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 aprile 1991

                                N. 447
 Ordinanza emessa il 15  aprile  1991  dal  giudice  per  le  indagini
 preliminari  presso  il tribunale di Torino nel procedimento penale a
 carico di Scattaretica Salvatore ed altri
 Processo penale - Richiesta di rito abbreviato - Dissenso del p.m.
    per non definibilita' del procedimento allo  stato  degli  atti  -
    Indagini  limitate  alla  delibazione  della  notitia  criminis  -
    Conseguente inapplicabilita' della diminuente ex art. 442, secondo
    comma, del cod. proc. pen. -  Lamentata  omessa  previsione  della
    facolta'  di  integrazione  delle  prove  da  parte  del  g.i.p. -
    Violazione del principio di eguaglianza tra  imputati  nonche'  di
    parita'  tra  accusa e difesa - Lesione del principio di legalita'
    della pena.
 (C.P.P. 1988, artt. 438, 439 e 440).
 (Cost., artt. 3 e 25).
(GU n.27 del 10-7-1991 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Ha emesso la  seguente  ordinanza  a  scioglimento  della  riserva
 assunta  all'udienza  preliminare  del  giorno  12  aprile  1991  nel
 processo  penale  n.  8019/90  reg.  sez.  gip.  nei   confronti   di
 Scattaretica  Salvatore  e  di Trecate Rosario, entrambi imputati del
 reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., del c.p.  e  71,  primo  comma,
 della  legge  n.  685/1975, modificata dalla legge 26 giugno 1990, n.
 162, commesso in Buttigliera Alta ed  altri  luoghi,  il  17  ottobre
 1990,  provvedendo  in  ordine  all'eccezione, sollevata dalla difesa
 degli imputati, di legittimita' costituzionale  dell'art.  438  comma
 primo  del  c.p.p. con riferimento agli artt. 3 (laddove e' stabilito
 il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge),  104
 (principio di indipendenza della magistratura da ogni altro potere) e
 107,  terzo  comma  (principio  che  stabilisce  che  i magistrati si
 distinguono tra loro solo per la  diversita'  delle  funzioni)  della
 Costituzione,  in  quanto consente al p.m. di opporre il suo dissenso
 dalla richiesta dell'imputato di  procedere  a  giudizio  abbreviato,
 appellandosi  alla  non  definibilita' del caso allo stato degli atti
 dovuta a carenza delle indagini preliminari che avrebbe potuto essere
 evitata dallo stesso p.m.
                             O S S E R V A
    Nel corso  dell'udienza  preliminare,  gli  imputati  Scattaretica
 Salvatore   e   Trecate   Rosario   formulavano  richiesta  orale  di
 definizione anticipata del processo a norma dell'art. 438 del  c.p.p.
 Il  p.m.  non  prestava  tuttavia  il  suo  consenso,  motivando  con
 l'addurre che il processo non poteva essere definito allo stato degli
 atti, stante l'esigenza di acquisire  le  deposizioni  dibattimentali
 del  personale di P.G. che aveva proceduto all'arresto degli imputati
 ed  al  sequestro  del  corpo  di  reato.  Il  giudice   dell'udienza
 preliminare,  preso  atto  della  mancata prestazione del consenso da
 parte  del  p.m.  e  rilevato  che  pertanto difettava una condizione
 necessaria perche' si potesse procedere a  giudizio  abbreviato,  non
 accoglieva   la   richiesta   formulata  degli  imputati,  disponendo
 procedersi oltre nell'udienza.
    La difesa degli imputati a questo punto sollevava la questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  438, primo comma del c.p.p.,
 traendo   argomento   dalla   ritenuta   violazione   dei    principi
 costituzionali sopra enunciati.
    Il p.m. si opponeva, sostenendo che, mentre la questione sollevata
 appariva rilevante, era tuttavia manifestamente infondata.
    Occorre  in  primo  luogo osservare che l'eccezione proposta dalla
 difesa e' rilevante.
    E' infatti vero che si potrebbe opporre a questo riguardo  che  la
 Corte   costituzionale   con   sentenza   n.   81/91,  ha  dichiarato
 l'illegittimita' costituzionale del combinato  disposto  degli  artt.
 438, 439, 440 e 442 del c.p.p., nella parte in cui non prevede che il
 p.m.,  in  caso  di  dissenso,  sia tenuto ad enunciarne le ragioni e
 nella parte in cui non prevede che il giudice, quando, a dibattimento
 concluso,  ritiene  ingiustificato  il  dissenso  del   p.m.,   possa
 applicare all'imputato la riduzione di pena contemplata dall'art. 442
 secondo  comma dello stesso codice. Ed e' dunque vero che si potrebbe
 percio'   argomentare,   in   senso    contrario    alla    rilevanza
 dell'eccezione,  che l'eventuale ingiustificato dissenso del p.m. che
 male valutasse la possibilita' di definire  il  processo  allo  stato
 degli  atti  non  si tradurrebbe comunque in un danno per l'imputato,
 poiche' il giudice del dibattimento potrebbe in  seguito  applicargli
 pur sempre la diminuzione di pena prevista dall'art. 442 del c.p.p.
    Una  siffatta  maniera  di  argomentare,  peraltro, non darebbe il
 giusto  rilievo  alla  considerazione  che   la   valutazione   circa
 l'eventuale  carenza  dei requisiti necessari perche' il dissenso del
 p.m. possa ritenersi giustificato dovrebbe riportarsi alla situazione
 probatoria che esisteva  nel  momento  in  cui  il  consenso  non  fu
 prestato e non potrebbe quindi considerare ingiustificato il dissenso
 motivato  con  l'insufficiente estensione delle indagini preliminari;
 giacche', quando quella insufficienza fosse  reale,  l'impossibilita'
 di definire il processo allo stato degli atti sarebbe incontestabile.
 Con  la conseguenza, dunque, che, qualora, come nel caso in esame, il
 p.m. si limitasse a motivare la mancata prestazione del consenso  con
 l'insufficienza delle indagini da lui stesso compiute, in tal caso la
 motivazione  da  lui  addotta sarebbe ineccepibile ed il suo dissenso
 dovrebbe dal giudice  del  dibattimento  essere  ritenuto  pienamente
 giustificato.
    La  rilevanza  della  questione  proposta  e'  quindi  innegabile.
 Infatti l'ulteriore valutazione da parte del giudice, a  dibattimento
 ormai concluso, circa l'essere stato giustificato o ingiustificato il
 mancato  consenso  del  p.m.  non potrebbe riparare, sotto il profilo
 sanzionatorio,  all'impossibilita'  di  applicare   all'imputato   la
 diminuzione di pena prevista dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p.
 La  questione  sollevata  dalla  difesa  pertanto  appare  rilevante,
 perche' l'eccepito profilo di illegittimita' costituzionale dell'art.
 438, primo comma, del c.p.p. si concreterebbe,  se  fondato,  in  una
 diversa disciplina del caso in esame.
    Si  tratta quindi di stabilire, a questo punto, se l'eccezione sia
 manifestamente infondata.
    La difesa ha ritenuto che la fondatezza della  questione  discende
 dall'incompatibilita'  della  norma  dell'art.  438 del c.p.p. con il
 principio di eguaglianza e con il  principio  che  stabilisce  che  i
 magistrati  si  distinguono  tra  loro  solo  per la diversita' delle
 funzioni, sancito  dall'art.  107,  terzo  comma,  del  c.p.p.  della
 Costituzione,  oltre  che  con  il  principio dell'indipendenza della
 magistratura da  ogni  altro  potere  statuito  dall'art.  104  della
 Costituzione.  Ha  rilevato  a  questo  riguardo  che, da un lato, e'
 ravvisabile una violazione del primo principio in tutti i casi in cui
 il p.m. adotti un diverso modo di condurre  le  indagini  preliminari
 nei  confronti  di due diversi imputati, pur destinatari della stessa
 imputazione e caratterizzati dalla  stessa  capacita'  a  delinquere;
 dall'altro,  che  e' ravvisabile una violazione del secondo principio
 (il richiamo al  terzo  appare  invece  inconferente),  laddove,  nel
 distinguere  i  magistrati  del  p.m. da quelli a cui sono attribuiti
 compiti giurisdizionali  solo  per  la  diversita'  delle  rispettive
 funzioni,  li equipara pertanto ai giudici sotto ogni altro rispetto.
 In definitiva, il suo assunto e' che, in quanto  tali,  i  magistrati
 del  p.m.  sono  destinatari di un obbligo di imparziale applicazione
 della legge in ogni singolo caso. Da esso  ricava  che,  dunque,  non
 sarebbe  costituzionalmente  legittimo  che  conducessero le indagini
 preliminari in modo non uniforme per tutti i soggetti di indagini che
 si trovano in situazioni identiche,  con  la  conseguenza  di  creare
 arbitrariamente le condizioni per negare il consenso alla definizione
 anticipata del processo che li riguarda nei confronti di alcuni o per
 prestarlo invece nei confronti di altri.
    Questo  assunto,  cosi'  come  ora  sintetizzato,  non puo' essere
 condiviso. Non pare infatti corretto far discendere  dall'obbligo  di
 imparziale  applicazione  della legge previsto anche per i magistrati
 del p.m. un correlativo loro obbligo di condurre sempre  le  indagini
 preliminari  in  modo  esauriente  e  completo, si da permettere che,
 concluse le indagini con richiesta di decreto di rinvio  a  giudizio,
 all'udienza preliminare il processo possa sempre essere definito allo
 stato  degli  atti nei confronti di tutti gli imputati che versino in
 situazioni sostanzialmente uguali.
   La conclusione  a  cui  perviene  la  difesa  rappresenterebbe  una
 sensibile  lesione  della  direttiva,  stabilita  dal  punto 37 della
 legge-delega, secondo cui il p.m. ha  il  potere-dovere  di  compiere
 indagini in funzione dell'esercizio dell'azione penale; in attuazione
 della  quale  il legislatore delegato ha previsto all'art. 326 che il
 p.m. svolge le indagini necessarie  per  le  determinazioni  inerenti
 all'esercizio  dell'azione  penale.  Nella  Relazione ministeriale si
 commenta  inequivocabilmente,  a  tale  proposito,  che  l'art.   326
 specifica  le  finalita'  delle indagini preliminari per ribadire che
 esse non possono piu' venire  confuse  con  la  fase  dell'istruzione
 sommaria  e  chiarendo che tali finalita', in aderenza alla direttiva
 37  della  legge-delega,  sono  rappresentate  esclusivamente   dalla
 necessita'  di deliberare la notizia criminis al fine di configurarla
 entro una precisa imputazione e di scegliere un tipo  di  domanda  da
 proporre  al giudice competente. Si soggiunge poi che questa limitata
 finalizzazione delle indagini preliminari che emerge con evidenza dai
 lavori preparatori costituisce uno dei punti salienti della riforma.
    Non  sembra pertanto sia conforme alla visione del ruolo che viene
 attribuito al p.m. nel nuovo processo  conferirgli  non  soltanto  il
 potere-dovere  di  svolgere  le  indagini che siano necessarie per le
 determinazioni inerenti all'azione penale, ma anche il  potere-dovere
 di  svolgere  tutte  le altre indagini di cui egli ravvisi l'utilita'
 perche' si  possa  dare  ingresso  alla  definizione  anticipata  del
 processo  a  norma  degli  artt.  438  e  seguenti  del c.p.p. Simile
 interpretazione  stravolgerebbe  infatti  la  stessa  funzione  delle
 indagini preliminari nel nuovo processo. Inoltre non pare imposta dai
 principi  sanciti  dagli  artt. 104 e 107 della Costituzione, poiche'
 questi mirano unicamente a disciplinare le garanzie che  spettano  ai
 magistrati  del pubblico ministero, cosi' come agli altri magistrati,
 ma non sono rivolti a rendere inderogabile un  modo  di  svolgere  le
 indagini  preliminari  che,  in  ultima  analisi,  finirebbe  con  il
 corrispondere a quello che il codice  abrogato  aveva  esplicitamente
 previsto con riferimento all'istruzione sommaria.
    Tuttavia  le  norme  degli  artt.  438,  439 e 440 del c.p.p., nel
 subordinare al consenso del p.m. il potere del  giudice  dell'udienza
 preliminare  di  definire  anticipatamente  il processo, possono dare
 luogo a situazioni concrete tali da suscitare dubbi non  trascurabili
 circa  la  loro  legittimita'  costituzionale, specie alla luce delle
 recenti decisioni della Corte costituzionale. E questo  vale  appunto
 anche per il caso di cui si discute.
    Infatti,  se  e' vero che, come gia' visto, non puo' in alcun modo
 essere negato il potere del p.m. di limitare le indagini  preliminari
 da  lui  svolte  a  quanto gli e' imposto dalla stretta necessita' di
 delibare la notitia criminis e di scegliere quale domanda proporre al
 giudice competente, se e' vero, inoltre, che egli,  nel  motivare  il
 suo   eventuale  dissenso  dalla  richiesta  di  giudizio  abbreviato
 presentata  dall'imputato,  deve  raccordare  la  sua   scelta   alla
 definibilita'  del  processo  allo  stato  degli  atti  (sentenza  n.
 66/9/0), cioe' al criterio che e' imperniato sull'effettiva  utilita'
 del  passaggio  al  dibattimento,  criterio  che,  alla stregua della
 normativa  in  vigore,  non  puo'  che  identificarsi  in  quello   -
 ricavabile  dal confronto con i poteri conferiti al giudice dall'art.
 440,  primo  comma  -  consistente  nel  ritenere  il  processo   non
 definibile  allo  stato degli atti v. sentenza n. 81/1991), allora si
 possono verificare dei casi, come quello in esame, in cui  le  scelte
 compiute  appaiono  potenzialmente incompatibili sia con il principio
 costituzionale di uguaglianza che con il principio costituzionale  di
 legalita'  della  pena.  Puo'  accadere,  ed e' accaduto nel presente
 processo, che la motivazione del dissenso del p.m. sia  rappresentata
 dall'impossibilita'  di  definire  il  processo allo stato degli atti
 perche'  le  indagini  preliminari  da  lui   eseguite   sono   state
 volontariamente insufficienti.
    In questi casi l'impossibilita' di definire il processo allo stato
 degli    atti   e,   conseguentemente,   l'esclusione   del   diritto
 dell'imputato ad ottenere la riduzione  di  pena  prevista  dall'art.
 442, secondo comma, del c.p.p. dipendono dunque dalle scelte compiute
 da  una delle due parti del processo. Per di piu' dipendono da scelte
 compiute  insindacabilmente,  perche'   le   ragioni   di   strategia
 processuale  sulla  base  delle  quali  sono  state prese non possono
 essere  in  alcun   modo   riesaminate   dal   giudice   dell'udienza
 preliminare,  ne',  successivamente, dal giudice del dibattimento: il
 quale non potra' ritenere ingiustificato il  dissenso  del  p.m.,  se
 realmente  il  processo  non  poteva essere definito allo stato degli
 atti per insufficienza delle indagini riconducibile a fatto del p.m.
    Non si puo' fare  a  meno  di  osservare  che  la  situazione  ora
 descritta integra una violazione del principio di eguaglianza sancito
 dall'art. 3 della Costituzione.
    Sotto  un  primo  profilo,  questa  violazione  e' ravvisabile con
 riferimento alla disparita' di trattamento  di  casi  eguali  che  si
 ricollegherebbe  all'ipotesi  che  indagini  preliminari  sufficienti
 fossero invece compiute in casi sostanzialmente identici a quello  in
 cui  invece non fossero svolte dal p.m. Ma, sotto un secondo profilo,
 essa puo' invece essere ravvisata nella  lesione  della  parita'  tra
 accusa  e  difesa  che  ha  trovato  consacrazione  sistematica nella
 direttiva n. 3 della legge 16 febbraio 1987,  n.  81  (partecipazione
 dell'accusa  e  della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado
 del procedimento), poiche' il p.m.,  con  lo  scegliere  di  compiere
 indagini  non  sufficienti  per definire il processo allo stato degli
 atti, verrebbe a privare l'imputato della riduzione di pena  prevista
 dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p.
   Si  potrebbe  obiettare  che,  sotto  questo  secondo  profilo,  la
 violazione del principio  di  uguaglianza  non  sussiste,  perche'  i
 difensori   potrebbero   fare   ricorso  alla  facolta'  di  svolgere
 investigazioni loro riservata  dall'art.  38  delle  disp.  att.  del
 c.p.p.,  compensando  con  questo mezzo l'insufficiente attivita' del
 p.m. A tale argomento,  indipendentemente  dall'osservazione  che  la
 violazione   ora  prospettata  sarebbe  pur  sempre  ravvisabile  nei
 rapporti tra imputati che versassero in situazioni tra  loro  uguali,
 ma  i  cui  difensori  si  attivassero  diversamente, sembra tuttavia
 fondato  opporre  che  le  facolta'  riconosciute  ai  difensori  per
 l'esercizio  del  diritto alla prova non hanno estensione, ne' natura
 tali da eguagliare il potere-dovere attribuito al p.m. ai fini  dello
 svolgimento  delle  indagini  preliminari.  Basti  considerare, da un
 lato, che si e' autorevolmente ritenuto che le  investigazioni  della
 difesa  ex  art.  38  delle  disp.  att.  del c.p.p., non comportando
 l'esercizio di pubbliche funzioni, non possono menomare  le  liberta'
 individuali  (ad  esempio,  il  difensore  non  potra' mai richiedere
 l'accompagnamento  coattivo  del  testimonio),  dall'altro,   che   i
 risultati  di quelle investigazioni che si concretassero in documenti
 rappresentativi di dichiarazioni rilasciate ai fini del  procedimento
 (come  le  dichiarazioni  di  testimoni) non sarebbero acquisibili al
 procedimento, in quanto essi dovrebbero essere qualificati come atti,
 anziche' come documenti.
    L'ipotesi sopra ipotizzata,  cioe'  quella  del  p.m.  che  svolge
 indagini  insufficienti  a  consentire  la decisione allo stato degli
 atti, integra inoltre  una  possibile  violazione  del  principio  di
 legalita' della pena stabilito dall'art. 25 della Costituzione.
    Essa  infatti  pare  dare  luogo,  in  caso  di  condanna,  ad una
 soggezione del giudice, nella determinazione della  pena  che  dovra'
 essere  irrogata, all'attivita' o all'inattivita' di una delle parti.
 In altre parole lo assoggetta alla  sufficienza  o  all'insufficienza
 delle   indagini   svolte   dal  p.m.,  nel  senso  che  riconosce  a
 quest'ultimo la facolta' di vincolare il giudice alle scelte  da  lui
 compiute  per quanto concerne la possibilita' di definire il processo
 allo stato degli atti: conseguentemente la facolta' di vincolarlo, in
 caso di condanna, a non concedere la riduzione di pena  prevista  dal
 secondo comma dell'art. 442 del c.p.p.
    Non  varrebbe  obiettare,  neppure in questo caso, che, in seguito
 alla sentenza n. 81/1991 della Corte costituzionale, il  giudice  del
 dibattimento  che  ritenesse  ingiustificato  il  dissenso  del p.m.,
 potrebbe applicare all'imputato  la  riduzione  di  pena  contemplata
 dall'art. 442, secondo comma, del c.p.p. Si e' gia' infatti osservato
 che   la   facolta'   del   giudice   del  dibattimento  di  ritenere
 ingiustificata  la  mancata  prestazione  del  consenso  al  giudizio
 abbreviato  non  potrebbe  trovare  attuazione nell'ipotesi di cui si
 discute,  perche'  il  dissenso  del   p.m.   sarebbe   perfettamente
 giustificato  dall'impossibilita'  di definire il processo allo stato
 degli atti, sia pure da lui stesso voluta.
    Inoltre non sembra si potrebbe  fondatamente  opporre  che  questa
 soggezione del giudice alle scelte del p.m. e' esclusa dalla facolta'
 del  giudice  dell'udienza preliminare di fare ricorso alle attivita'
 di  integrazione  probatoria  previste  dall'art.  422   del   c.p.p.
 L'oggetto  di  questa  facolta'  e'  infatti rigorosamente limitato a
 quanto sia manifestamente decisivo ai  fini  dell'accoglimento  della
 richiesta  di rinvio a giudizio o a quanto sia evidentemente decisivo
 ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere (art.
 422, secondo comma, del c.p.p.). Essa non potrebbe dunque  estendersi
 alle attivita' di integrazione dello stato degli atti che apparissero
 necessarie per definire il processo.
    La normativa contenuta nel combinato disposto degli artt. 438, 439
 e  440  del  c.p.p.,  alla  stregua  di queste considerazioni, appare
 pertanto  sospetta  di  illegittimita'   costituzionale   anche   con
 riferimento all'art. 25 secondo comma della Costituzione.
    In   conclusione,   i  rilevati  profili  di  dubbia  legittimita'
 costituzionale paiono concretarsi nella mancata previsione, in  tutti
 i  casi  in  cui  l'impossibilita' di definire il processo allo stato
 degli atti  dipende  dall'insufficienza  rimediabile  delle  indagini
 preliminari  svolte  dal  p.m., di una facolta' di integrazione delle
 prove riservata al giudice dell'udienza preliminare. Questa  facolta'
 dovrebbe  tradursi,  non molto dissimilmente da quanto prevede l'art.
 422 del c.p.p., nel potere-dovere del giudice di indicare alle parti,
 ed in particolare al p.m., i temi lasciati  incompleti  dallo  stesso
 p.m.,  sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni
 al fine di poter definire il processo allo stato degli atti.
    Per ovvie considerazioni inerenti alla sua stessa  natura,  questa
 facolta'  di  integrazione  non  potrebbe  infatti  essere rimessa al
 giudice della fase dibattimentale, ma deve invece essere riservata al
 giudice dell'udienza preliminare.
    In questo senso ed in questi limiti la questione  di  legittimita'
 costituzionale   ora  esaminata  deve  ritenersi  non  manifestamente
 infondata.
    Il processo deve pertanto essere sospeso e gli atti devono  essere
 trasmessi   alla   Corte  costituzionale  per  la  risoluzione  della
 questione.
    Deve  nello  stesso  tempo  essere   ordinata   la   scarcerazione
 dell'imputato  Scattaretica  per scadenza dei termini a decorrere dal
 16 aprile 1991 (cioe'  dalla  decorrenza  del  termine  di  sei  mesi
 dall'arresto),  riservando  di disporre altre misure cautelari di cui
 ricorrano i presupposti qualora il p.m. ne faccia richiesta.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale del combinato disposto degli  artt.  438,
 439  e  440  del codice di procedura penale, - nella parte in cui non
 prevede che, in caso di dissenso del pubblico ministero motivato  con
 l'impossibilita'  che il processo sia definito allo stato degli atti,
 il giudice dell'udienza preliminare che ritiene che  l'impossibilita'
 addotta  dipende da fatto rimediabile dello stesso pubblico ministero
 non possa indicare alle parti i temi incompleti sui  quali  si  rende
 necessario  acquisire  ulteriori informazioni ai fini della decisione
 in ordine alla possibilita' di definire il processo allo stato  degli
 atti, - per contrasto con le disposizioni degli artt. 3 e 25, secondo
 comma, della Costituzione;
    Ordina    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Sospende il giudizio in corso;
    Dispone la notificazione della presente  ordinanza  al  Presidente
 del Consiglio dei Ministri;
    Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia  inoltre  comunicata  ai
 presidenti delle due Camere del Parlamento;
    Visti gli artt. 303, primo comma, lett.  a)  n.  2),  e  307,  del
 c.p.p.;
    Dichiara  che  la  custodia  cautelare  disposta  nei confronti di
 Scattaretica Salvatore perdera' efficacia a decorrere dal  giorno  16
 aprile 1991;
    Ordina  che  Scattaretica  Salvatore  sia  immediatamente posto in
 liberta', se non detenuto anche per altra causa, il giorno 16  aprile
 1991;
    Delega    per   l'esecuzione   del   presente   provvedimento   di
 scarcerazione il direttore della  casa  circondariale  di  Torino  Le
 Vallette.
      Torino, addi' 15 aprile 1991
                           Il giudice: OGGE

 91C0821