N. 390 SENTENZA 15 - 31 ottobre 1991

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale- Reato commesso in udienza- Magistrato parte offesa-
 Determinazione della  competenza  territoriale-  Deroga  al  criterio
 dello    spostamento-   Procedibilita'   rimessa   alla   valutazione
 discrezionale del p.m.- Necessita' di garantire la imparzialita' e la
 terzieta' del giudice- Illegittimita' costituzionale.
 
 (C.P.P., art. 11, terzo comma; legge 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2,
 direttiva  n.  18 nell'inciso "eccezion fatta per i reati commessi in
 udienza")
 
 (Cost., art. 3).
(GU n.44 del 6-11-1991 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI,   prof.   Francesco   Paolo   CASAVOLA,   prof.  Antonio
    BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv.  Mauro  FERRI,  prof.
    Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato GRANATA, prof.
    Giuliano VASSALLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  terzo
 comma,  del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa
 il 1› febbraio 1991 dal Pretore di Catania nel procedimento a  carico
 di Alleruzzo Giuseppe, iscritta al n. 232 del registro ordinanze 1991
 e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima
 serie speciale, dell'anno 1991;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 19 giugno 1991 il Giudice
 relatore Francesco Greco;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Nel corso del  procedimento  penale  a  carico  di  Alleruzzo
 Giuseppe, imputato del reato di oltraggio a magistrato in udienza, di
 cui  all'art.  343  del  codice  penale,  il  Pretore di Catania, con
 ordinanza del 1› febbraio 1991 (R.O. n. 232 del 1991),  ha  sollevato
 questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 11, terzo comma,
 del codice  di  procedura  penale,  nella  parte  in  cui  stabilisce
  una  deroga  al  criterio  di   determinazione   della   competenza
  territoriale  per  i procedimenti  penali  aventi come parte offesa
  o danneggiata dal  reato un  magistrato,  nell'ipotesi  in  cui  il
  reato dal quale il magistrato e' offeso o danneggiato sia  commesso
  in udienza.
    Il  giudice  a  quo ha ravvisato in tale disposizione un contrasto
 con l'art. 3 della Costituzione  per  la  irrazionale  disparita'  di
 trattamento   che   si   determinerebbe  tra  cittadini  imputati  in
 procedimenti in cui assume la qualita' di parte offesa o  danneggiata
 del  reato un magistrato, a seconda che il reato sia stato commesso o
 meno in udienza. Mentre, anche in caso di reato commesso in  udienza,
 sarebbe   ugualmente   apprezzabile   quella   esigenza   di  evitare
 l'insorgere di sospetti di parzialita' del giudizio, che  in  via  di
 principio  giustifica la sottrazione dei procedimenti in questione al
 giudice naturale territorialmente competente.
    Ne' la ratio della norma censurata, quale  si  ricava  dai  lavori
 preparatori,  e  cioe'  la "presunta" esigenza di celerita', potrebbe
 prevalere   su   valori   costituzionalmente   tutelati,   quale   e'
 l'imparzialita'.
    2.  -  L'ordinanza  e' stata regolarmente notificata, comunicata e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
    3. - Nel giudizio e' intervenuta l'Avvocatura Generale dello Stato
 in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri,  che  ha
 concluso  per  l'infondatezza  della  questione,  osservando  che  le
 peculiarita' dei reati commessi in udienza  a  danno  dei  magistrati
 nell'esercizio  o  a causa delle loro funzioni hanno rappresentato da
 sempre (v. art. 61, ult. cpv c.p.p. abrogato) ipotesi  specificamente
 caratterizzate  e  meritevoli di particolare considerazione, sotto il
 profilo della immediatezza delle  acquisizioni  probatorie,  tali  da
 giustificare  deroghe  ai  principi  della rimessione. Del resto, per
 espresso disposto dall'art. 11, terzo comma, del codice di  procedura
 penale,   restano   salve  anche  per  i  reati  in  esame  le  norme
 sull'astensione e sulla ricusazione del giudice.
    Aggiunge, poi che non vale l'assunto secondo cui  le  esigenze  di
 celerita'   non  si  concilierebbero  con  il  meccanismo  introdotto
 dall'art. 476 del  codice  di  procedura  penale  che,  per  i  reati
 commessi  in  udienza,  a  differenza del corrispondente art. 435 del
 codice di procedura penale abrogato, esclude la possibilita'  di  una
 contestuale  celebrazione  del  giudizio,  perche'  il  P.M. potrebbe
 instaurare un giudizio direttissimo o  immediato,  caratterizzato  da
 una pronta valutazione.
                        Considerato in diritto
    1.  - La Corte e' chiamata a verificare se l'art. 11, terzo comma,
 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede una deroga
 al criterio dello spostamento della  competenza  territoriale  per  i
 procedimenti  penali  aventi  come  parte  offesa  o  danneggiata  un
 magistrato, allorche' il reato sia commesso in udienza, si  ponga  in
 contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,  per la disparita' di
 trattamento  che  determinerebbe  tra  cittadini   imputati   in   un
 procedimento  in cui assume la qualita' di parte offesa o danneggiata
 dal reato un magistrato, a seconda che il reato sia stato commesso  o
 meno in udienza.
    2. - La questione e' fondata.
    L'art.  11, primo comma, del codice di procedura penale stabilisce
 i criteri di  determinazione  della  competenza  per  territorio  del
 giudice  dei procedimenti nei quali un magistrato riveste la qualita'
 d'imputato o di  persona  offesa  o  di  danneggiato  dal  reato.  La
 competenza  e'  attribuita  all'ufficio  giudiziario  che ha sede nel
 capoluogo del distretto di Corte d'Appello  piu'  vicino  oppure  nel
 capoluogo di altro distretto, sempre tra quelli piu' vicini, nel caso
 in  cui,  successivamente  al  fatto-reato,  il magistrato, imputato,
 parte offesa o danneggiato dal  precedente  distretto  sia  venuto  a
 esercitare le sue funzioni nel primo di tali distretti.
    Il detto articolo, riproducendo sostanzialmente l'art. 41- bis del
 del  codice  di  procedura  penale  del  1930, enuncia un criterio di
 individuazione  automatica  del  giudice   competente   come   regola
 originaria,  posta  a  specificazione  del  regime  attributivo della
 competenza  per  territorio,  nella  realizzazione   della   tendenza
 normativa  che  privilegia  la predeterminazione rigorosa dei criteri
 attributivi della competenza territoriale, abbandonando la scelta  di
 rimettere a un organo sovraordinato, quale la Corte si Cassazione, la
 individuazione di detto giudice, come avveniva prima della riforma di
 cui  alla  legge  n.  879  del 1980 in base all'art. 60 del codice di
 procedura penale.
    Delineandosi ex ante ed in via astratta la regola  disciplinatrice
 della  competenza  territoriale,  valida  per  tutte  le  fattispecie
 previste ed escludendosi in radice qualsiasi effetto remissivo, anche
 se depurato dai margini di discrezionalita',  non  risulta  vulnerato
 l'art. 25 della Costituzione.
    La  ratio  della norma da un lato e' quella di tutelare il diritto
 di difesa del cittadino  imputato  e  gli  interessi  del  magistrato
 danneggiato  o offeso dal reato; e dall'altro, quella di garantire la
 terzieta' e l'imparzialita' del giudice.
    Tuttavia, al foro determinato dal primo e secondo comma del  detto
 art.  11  del codice di procedura penale e' sottratta, dal successivo
 terzo comma, l'ipotesi in cui il reato nel  quale  il  magistrato  e'
 parte offesa o danneggiato sia stato commesso in udienza: per essa la
 competenza  viene  determinata  secondo  le  regole  generali,  ferme
 restando le norme sull'astensione o ricusazione del giudice.
    L'eccezione e' stata introdotta nel corso dei lavori  parlamentari
 con  l'intento  d'impedire  ogni  e  qualunque  ritardo al corretto e
 sollecito corso della giustizia che si sarebbe potuto verificare  per
 effetto di un possibile mezzo usato per ritardare la celebrazione del
 procedimento,  quale puo' essere la consumazione di reati a danno del
 magistrato in udienza; nonche' per  la  necessita'  di  affermare  la
 inammissibilita' di ogni sorta di espediente processuale.
    2.1.  - A proposito l'Avvocatura Generale dello Stato ha ricordato
 che questa Corte, sia pure nella vigenza  dello  abrogato  codice  di
 procedura  penale,  ha  messo  in  rilievo  (sent.  n.  92  del 1967)
 l'esigenza che, per il suo peculiare carattere,  il  procedimento  in
 esame   si  svolga  immediatamente  dopo  la  commissione  del  reato
 affinche', per i particolari effetti che si verificano  nell'ambiente
 e  per  le  circostanze  in cui avviene la consumazione del reato, si
 riaffermi senza indugio il diritto e trovi applicazione la  sanzione:
 esigenza   che   sarebbe   frustrata  se  si  dovesse  sospendere  il
 procedimento e attendere la decisione  del  giudice,  sia  pure  esso
 quello vicino.
    Inoltre,  si e' rilevato che l'eccezione in esame troverebbe anche
 fondamento nella esemplarita' del giudizio per la riaffermazione  del
 diritto  nella  medesima  sede giudiziaria in cui si e' verificata la
 sua lesione, oltre che nella piu' agevole acquisizione degli elementi
 di prova, posto che il  reato  cade,  di  regola,  sotto  la  diretta
 percezione del giudice.
    L'immediatezza  degli elementi probatori renderebbe possibile alla
 stessa difesa e al giudice  di  assolvere  tempestivamente  i  propri
 compiti.
    3. - La Corte osserva che, a seguito e per effetto delle modifiche
 apportate  dal  nuovo  codice  di  procedura  penale,  non  sono piu'
 puntuali  e  rilevanti  le  considerazioni  svolte  nella  precedente
 sentenza,  peraltro  remota, la quale trovava riscontro nel codice di
 rito allora vigente, in ordine alla  celerita'  del  giudizio  e  del
 dibattimento relativi al reato consumato in udienza.
    Ora,  l'art.  476 del codice di procedura penale, a differenza del
 corrispondente art. 435 del codice di  procedura  penale  abrogato  e
 preso  in  esame  dalla  citata  sentenza di questa Corte, esclude la
 possibilita' di una contestuale celebrazione del giudizio per i reati
 consumati  in  udienza  in  quanto  e'   rimesso   alla   valutazione
 discrezionale  del P.M.  di procedere a "norma di legge" e quindi non
 si esclude  un  separato  giudizio  successivo,  sia  pure  con  rito
 direttissimo o immediato.
    L'opportunita' di una immediata riaffermazione del diritto violato
 con  le  altre  possibili  implicanze  non trova piu' possibilita' di
 attuazione.
    Inoltre,  la  inammissibilita'  del  ricorso  ad   un   espediente
 dilatorio,  cosi'  come  l'esigenza di esemplarita', non sono ragioni
 idonee a giustificare il mantenimento della  regola  generale  e  dei
 criteri ordinari di determinazione della competenza.
    Sono,   invece,   prevalenti   la   garanzia   della  serenita'  e
 obiettivita'  dei  giudizi,  la  imparzialita'  e  la  terzieta'  del
 giudice,  la  salvaguardia  del  diritto di difesa e del principio di
 uguaglianza dei cittadini, che, a differenza di ogni altro principio,
 hanno fondamento nella Costituzione (artt. 101, 107,  24  e  3  della
 Costituzione).
    Dette  garanzie  devono  essere  salvaguardate  anche  se  il loro
 pregiudizio  potrebbe   considerarsi   attenuato   dalla   previsione
 dell'astensione  o  della ricusazione del giudice del procedimento ed
 anche  se  si  tratta  di  un  magistrato,   offeso   o   danneggiato
 nell'esercizio della funzione pubblica assegnatagli dall'ordinamento.
    Va,   pertanto,   dichiarata   la   illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 11, terzo comma, del codice di procedura penale.
    4. - La declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 11,  terzo comma, del codice di procedura penale comporta, ex art. 27
 della legge 2 marzo 1953 n.  87,  la  dichiarazione  d'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  2,  direttiva n. 18, della legge delega 16
 febbraio 1987 n. 81, nell'inciso "eccezion fatta per i reati commessi
 in udienza", il cui contenuto e' stato  trasfuso  nella  disposizione
 che ha formato oggetto del giudizio.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  la  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11, terzo
 comma, del codice di procedura penale;
    Dichiara - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953,
 n. 87 - la illegittimita' costituzionale dell'art.  2,  direttiva  n.
 18, della legge 16 febbraio 1987 n. 81 (Delega legislativa al Governo
 della  Repubblica  per  l'emanazione  del  nuovo  codice di procedura
 penale),  nell'inciso  "eccezion  fatta  per  i  reati  commessi   in
 udienza".
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 15 ottobre 1991.
                       Il Presidente: CORASANITI
                          Il redattore: GRECO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 31 ottobre 1991.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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