N. 701 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 ottobre 1991
N. 701 Ordinanza emessa il 2 ottobre 1991 dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura di Torino nel procedimento penale a carico di Cogerino Italo ed altri Processo penale - Procedimento innanzi al tribunale - Indagini preliminari - Avocazione del p.g. per mancato esercizio dell'azione penale da parte del p.m. nei termini di legge - Successiva richiesta di archiviazione dello stesso - Mancata condivisione da parte del g.i.p. - Ritenuta impossibilita' di chiedere ulteriori indagini all'organo avocante - Lamentata carenza normativa - Contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale - Limitazione della funzione giurisdizionale del giudice - Richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 445/1990. (C.P.P. 1988, artt. 409, quarto comma, e 554, secondo comma). (Cost., artt. 3, 102 e 112).(GU n.47 del 27-11-1991 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha pronunciato la seguente ordinanza n. 10624/1990 r.g. p.m., n. 5392/1991 r.g. g.i.p.; Letti gli atti del procedimento penale sopraindicato nei confronti di: Cogerino Italo, nato a Torino il 6 maggio 1968, residente a Torino, via De Sanctis n. 84; De Bono Gaetano, nato a Cerignola il 6 gennaio 1965, residente a Torino, via Giachino, n. 53, difesi dall'avv. Dolando del foro di Torino; Fusco Carmine, nato a Torino il 20 agosto 1962, residente a Torino, via Saorgio n. 61-bis, difeso dal dott. proc. Insabato del foro di Torino, in ordine al reato p. e p. dagli artt. 110, 648 e 640 del c.p., commessi in Torino, fino al 1º giugno 1990; O S S E R V A Il 1º giugno 1990, due persone effettuavano acquisti di liquori presso il supermercato Mega, pagando il prezzo relativo con un assegno bancario che uno dei due acquirenti, che esibiva la patente di guida per farsi riconoscere, sottoscriveva con il nome di Debono Gaetano. La dipendente addetta al controllo degli assegni rilevava che tale nome compariva in un elenco redatto dai servizi di sicurezza della societa' proprietaria del supermercato, in ordine a nominativi di persone che altre volte avevano consegnato in pagamento assegni risultati rubati e si dirigeva, allora, verso la cassa ove si trovavano i due acquirenti. A quel punto, colui che si era presentato come Debono si dava alla fuga, portando con se' le bottiglie di liquore, mentre l'altro giovane che era con lui, successivamente identificato per Cogerino Italo, veniva prontamente fermato da una guardia giurata, Martone Vincenzo, immediatamente intervenuta. Tale addetto alla sorveglianza, che aveva avuto modo di vedere bene anche il sedicente Debono prima che si allontanasse, aveva riconosciuto in lui la persona che circa due mesi prima, il 7 marzo, aveva cercato di impadronirsi di altra merce del supermercato ed era stato individuato, fermato e identificato attraverso l'esibizione di una patente di guida della quale il Martone aveva conservato una fotocopia trasmessa ai servizi di sicurezza interni insieme ad una breve relazione sull'accaduto. Si poteva cosi' rilevare che la medesima persona, nelle due riferite circostanze, aveva presentato due diverse patenti di guida intestate a Debono Gaetano, quella presentata nella seconda occasione e a Fusco Carmine, quella esibita al Martone nella prima circostanza. Dal raffronto delle due relative fotocopie, inoltre, appariva verosimile che la foto apposta su tali patenti fosse la stessa, riproducente la medesima persona. Il procuratore della Repubblica disponeva i necessari accertamenti per verificare la provenienza dell'assegno dato in pagamento il 1º giugno e per accertare se la patente intestata al Fusco, esibita il 7 marzo, risultasse denunciata rubata o smarrita. L'esito di tali accertamenti non perveniva nei termini di durata delle indagini preliminari ed il procuratore generale avocava le indagini per mancato esercizio dell'azione penale, a norma dell'art. 412 del c.p.p. in data 8 febbraio 1991. Acquisiti gli accertamenti che il procuratore della Repubblica aveva disposto, il procuratore generale emetteva decreto di citazione a giudizio nei confronti del Debono e del Cogerino per ricettazione dell'assegno dai due dato in pagamento, che era risultato rubato, e per l'emissione di tale assegno senza l'autorizzazione del trattario e chiedeva, invece, a questo ufficio l'archiviazione del procedimento in ordine alla posizione di Fusco Carmine, la cui patente di guida non risultava ne' sottratta, ne' smarrita, per il reato previsto dall'art. 640 del c.p. A questo giudice i fatti oggetto del procedimento non apparivano chiari e ben accertati. Intanto, nessuno aveva compiutamente identificato il sedicente Debono, il quale si era dato alla fuga nella seconda circostanza, prima dell'arrivo dei carabinieri e, nella prima occasione, era stato, invece, fermato dal sorvegliante al quale aveva esibito la patente intestata a Fusco Carmine, che al Martone doveva presumibilmente essere apparsa valida e autentica ed anche corrispondente, nella foto, alla persona che la presentava. Colui che era stato rinviato a giudizio come Debono, in altri termini, avrebbe potuto anche essere proprio Fusco Carmine (anche il documento intestato a Debono Gaetano non risultava essere stato sottoposto a controlli di alcun genere). A tal riguardo, si rilevava che anche la firma apposta sull'assegno a nome Debono non appariva corrispondente alla firma apposta sulla patente di guida intestata a Debono Gaetano, almeno a quel che era dato desumere dalla sola fotocopia in atti. Nel decreto di citazione, inoltre, non veniva fatta alcuna contestazione in ordine al furto delle bottiglie di liquore commesso dal Debono (o Fusco) che le aveva portate con se' prima dell'intervento del sorvegliante. Neppure risultavano contestati i fatti commessi il 7 marzo, anche perche' al riguardo nessuna indagine era stata svolta. Ma soprattutto, per quanto piu' direttamente interessava questo ufficio chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione, veniva ipotizzato a carico del Fusco un delitto di truffa e non appariva chiaro su quali elementi fondasse tale configurazione di reato, ne' si riusciva a comprendere come il Fusco potesse essere stato ritenuto estraneo ad ogni altro eventuale reato, proprio sulla base dell'accertamento secondo il quale la sua patente di guida non risultava essere stata denunciata rubata o smarrita. Appariva evidente, a tal riguardo, la necessita' di altre indagini, al fine di accertare se il sedicente Fusco fosse riuscito (come sembrava) ad impadronirsi di merce dei magazzini, attraverso quali modalita', se fossero stati usati altri assegni, se essi risultassero rubati e, soprattutto, se l'autore dei fatti fosse il vero Fusco o il Debono e, in qust'ultimo caso, se egli avesse usato il documento del Fusco, cosi' commettendo anche il reato di sostituzione di persona, all'insaputa del Fusco medesimo ovvero con la sua collaborazione. La richiesta di archiviazione, insomma, non veniva accolta e, con l'ordinanza in atti dell'8 aprile 1991, veniva fissato il termine di due mesi per il compimento delle indagini indicate nel provvedimento citato. Il procuratore generale restituiva, pero', gli atti a questo giudice, sostenendo l'impossibilita' del compimento di altre indagini oltre il termine di sei mesi, previsto dall'ultimo comma dell'art. 407 del c.p.p. Con l'ordinanza del 15 aprile 1991, questo giudice, dopo aver affrontato il problema procedurale sollevato, ribadiva la necessita' delle indagini da svolgere nel termine fissato. Il procuratore generale, in data 18 aprile 1991, restituiva ancora gli atti del procedimento a questo ufficio, rilevando, questa volta, anche l'inopportunita' e, per certi aspetti, l'impossibilita materiale di svolgere le indagini indicate e confermava, cosi', la sua iniziale richiesta di archiviazione. La situazione che si era venuta a creare non consentiva piu' alcuno sbocco al procedimento, per cui questo giudice, con l'ordinanza in atti del 29 aprile 1991, proponeva conflitto di competenza alla Corte di cassazione, pur prefigurandosi la relativa inammissibilita' non riguardando esso due organi giudicanti, allo scopo, soprattutto, di ottenere dalla suprema Corte l'interpretazione delle disposizioni del codice di procedura da applicare al caso concreto, con l'indicazione della via da seguire per la prosecuzione del procedimento stesso. Il supremo collegio, con sentenza n. 3217 del 12 luglio 1991 (sezione prima, pres. Molinari), mentre dichiarava l'inammissibilita' del proposto conflitto, esaminava pure la situazione processuale che ne aveva costituito il fondamento e, interpretando le relative disposizioni, indicava a questo giudice le possibili soluzioni con- crete per la necessaria conclusione del procedimento. Ebbene, l'interpretazione delle norme prese in esame dalla suprema Corte e' quella alla quale occorre attenersi, sia per l'autorevolezza del collegio da cui essa proviene, organo cui e' assegnato, appunto, il compito di assicurare uniformita' interpretativa alle decisioni giurisprudenziali, sia perche' - in ogni caso - non si potrebbe imporre, da parte di questo giudice, una diversa interpretazione ad un altro ufficio giudiziario. Proprio per questo, pero', pare di poter cogliere nelle norme in discussione un profilo di illegittimita' costituzionale, per cui si ritiene di dover sollevare la questione alla Corte costituzionale, giacche' essa e' sicuramente rilevante, dal momento che questo giudice e' chiamato proprio ad applicare tali norme e, per quanto si osservera', la questione da proporre al vaglio della Corte non pare manifestamente infondata. Le disposizioni di cui si tratta sono quelle contenute nell'art. 554 del codice di procedura penale e nell'art. 409 dello stesso codice, dal momento che la disciplina in quest'ultima norma prevista trova applicazione anche al procedimento di competenza del pretore a seguito della sentenza n. 445/1990 della Corte costituzionale. Con tale decisione, l'istituto dell'archiviazione ha subito una notevole modifica rispetto alle precedenti struttura e disciplina ad esso assegnate dal legislatore. La Corte costituzionale, invero, ha interamente abrogato l'art. 157 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, perche' dichiarato illegittimo, ed ha esteso anche ai procedimenti di competenza del pretore l'applicabilita' della disposizione contenuta nel quarto comma dell'art. 409 del codice. Tale ultimo intervento e' stato ritenuto dalla Corte necessario, una volta dichiarata l'illegittimita' costituzionale del citato art. 157 delle norme di attuazione, per ragioni di "ragionevolezza" e di "coerenza", giacche', altrimenti, nel procedimento pretorile non vi sarebbe stata piu' alcuna disciplina normativa di casi in cui il giudice per le indagini preliminari, di fronte ad una richiesta di archiviazione del pubblico ministero, avesse ritenuto necessarie altre indagini. Cio' nonostante, nel caso di specie, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, ugualmente ci si trova in presenza di una situazione priva di disciplina normativa. Il procuratore generale, invero, affermando in sostanza che l'organo avocante rimane distinto dal pubblico ministero per il quale, invece, e' stata dettata la normativa in materia di archiviazione, ha rifiutato di compiere le altre indagini ritenute necessarie ed indicate da questo giudice e per ben due volte ha restituito gli atti a questo ufficio, pretendendo l'accoglimento della richiesta di archiviazione. La Corte di cassazione, nella menzionata sentenza, anche se apparentemente e peraltro solo in parte sembra respingere la premessa della tesi del procuratore generale, non ne elimina tutti gli effetti pratici, sia pure attraverso un diverso tipo di ragionamento giuridico. Nella motivazione del citato provvedimento, infatti, il supremo collegio accomuna le posizioni di pubblico ministero e di procuratore generale dinanzi alla normativa contenuta negli artt. 554 e 409 del c.p.p. e, in tal modo, mentre sembra contraddire la tesi del procuratore generale, in effetti finisce proprio col distinguere, ancorche' allo scopo di accomunarne le posizioni, il pubblico ministero dal procuratore generale. Tale distinzione, francamente, non pare possa trovare alcuna valida giustificazione normativa, soprattutto alla luce di quanto dispone l'art. 51 del codice di procedura penale, con il quale testualmente l'ufficio della procura generale presso la corte d'appello viene definito e considerato un ufficio del pubblico ministero, al pari di quelli della procura della Repubblica presso il tribunale o presso la pretura, da cui si distingue soltanto per le diverse funzioni a tali uffici assegnati dalla legge. Ne' la citata distinzione fatta dalla suprema Corte puo' essere considerata casuale, giacche' la rimanente parte della decisione conferma la diversa posizione assegnata dal legislatore all'autorita' avocante. Ed infatti, argomenta in sentenza la Corte di cassazione " .. ad assicurare la completezza delle indagini ed a garanzia contro l'inerzia del p.m., e' stato previsto il potere di avocazione ad opera del p.g. .. Non poteva il legislatore prevedere l'ipotesi dell'inerzia addebitabile anche in seconda battuta all'autorita' avocante perche' la fattispecie, assolutamente estranea al sistema, appariva per la sua anomalia praticamente non proponibile .." e, sulla base di tali argomentazioni, la Corte conclude: "Inammissibile il conflitto, al g.i.p. non resta che avvalersi delle facolta' previste dalla legge: e cioe' aderire alla richiesta di archiviazione ovvero ex art. 554, secondo comma, disporre che gli atti siano restituiti al p.g. per la formulazione dell'imputazione". La riportata decisione della suprema Corte suscita in chi scrive notevoli perplessita'. Da una parte, come si e' gia' osservato, non si ritiene affatto che il legisltore abbia inteso distinguere il pubblico ministero dal procuratore generale, al punto che, se si tratta di pubblico ministero di prima battuta, debba trovare applicazione la disciplina normativa che si riferisce al pubblico ministero, mentre, nel caso sia intervenuto l'organo avocante, la predetta disciplina debba ritenersi inapplicabile, con conseguenti vuoti normativi. Non si ritiene neppure, d'altra parte, che il legislatore, attraverso l'istituto dell'avocazione, previsto dal primo comma dell'art. 412 del c.p.p. abbia inteso rimediare solo ai casi di inerzia del pubblico ministero, per cui non si condivide il conseguente assunto e, cioe', che non puo' essere stata prevista anche l'inerzia di chi aveva il dovere di rimediare all'inerzia altrui. Il mancato esercizio dell'azione penale ovvero la mancata richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero nel termine di sei mesi non sempre e' il frutto di un'inerzia dell'organo inquirente, anche perche', se cosi' non fosse, il termine di trenta giorni per le indagini assegnato all'autorita' avocante con lo stesso art. 412 del codice risulterebbe, gia' nella stessa previsione, del tutto inidoneo a rimediare alla completa carenza di indagini addebitabile al pubblico ministero inerte. Maggiori perplessita', poi, suscita proprio la conclusione che il supremo collegio trae dalle esposte premesse. Se, in buona sostanza, si fa distinzione tra pubblico ministero e pubblico ministero, a seconda dell'ufficio che ne svolga le funzioni e si afferma che, nella previsione del legislatore, la disposizione contenuta nel quarto comma dell'art. 409 del c.p.p. non puo' essere applicata anche al procuratore generale, giacche' tale norma e' stata dettata soltanto per il pubblico ministero in prima battuta, come si puo', allora, tra le possibili soluzioni al caso concreto, indicare anche quella della cosiddetta imputazione coatta, prevista dal secondo comma dell'art. 554 del codice di procedura penale? Proprio dal tenore testuale delle disposizioni contenute nel secondo comma dell'art. 554 del codice e nell'art. 158 delle norme di attuazione, introdotto a completamento della relativa disciplina, si evince con assoluta chiarezza che tali disposizioni sono state previste dal legislatore solo per il pubblico ministero in prima battuta e, cioe', perche' esse potessero essere applicate nella fase precedente all'eventuale avocazione del procuratore generale. Quando, infatti, si stabilisce che l'ordinanza con la quale il giudice dispone che il pubblico ministero formuli l'imputazione deve essere comunicata al procuratore generale per l'eventuale esercizio del potere di avocazione e, conseguentemente, si assegna al procuratore generale il termine di cinque giorni per avvalersi di tale facolta', non pare vi possa essere alcun dubbio sul fatto che il legislatore abbia escluso che l'organo destinatario di tale ordinanza del giudice potesse essere lo stesso procuratore generale che, per giunta, si fosse gia' avvalso del suo potere di avocazione. Se, pertanto, l'interpretazione della disciplina normativa in parola offerta dalla suprema Corte di cassazione con la sentenza in atti e' quella alla quale occorre attenersi - e, per le suesposte ragioni, questo giudice in alcun modo potrebbe disattendere quanto stabilito dalla Corte di cassazione nel presente procedimento - forse si potrebbe persino pervenire alla conclusione che al procuratore generale non puo' essere imposta nemmeno la formulazione dell'imputazione da parte del giudice per le indagini preliminari; certamente non possono essere richieste dal giudice le ulteriori indagini ritenute necessarie. La conseguenza che si puo' trarre dalle esposte considerazioni e' di assoluta evidenza. Il procuratore generale, dopo l'avocazione del procedimento, diviene arbitro assoluto ed insindacabile delle sorti del procedimento stesso e, dinanzi ad una sua eventuale richiesta di archiviazione, il giudice per le indagini preliminari e' tenuto ad emettere decreto di archiviazione. Ne', a tal riguardo, varrebbe rilevare che il rimedio alla descritta situazione e' quello indicato nella sentenza della Corte di cassazione e, cioe', quello di imporre la formulazione dell'imputazione, giacche', da una parte, come gia' osservato, proprio sulla base della motivazione contenuta nella stessa sentenza della Corte non pare affatto certo che possa essere imposta al procuratore generale la formulazione dell'imputazione e, dall'altra parte, perche' tale strumento processuale ugualmente, nella maggior parte dei casi, non costituirebbe affatto la soluzione del problema. Se, infatti, al procuratore generale non possono essere indicate le ulteriori indagini da svolgere e, soprattutto, se all'organo avocante non puo' essere fissato un nuovo termine per il compimento delle indagini ritenute necessarie, la conseguenza evidente e' che nei trenta giorni previsti dall'art. 412 del c.p.p. l'ufficio della procura generale, soprattutto, poi, se si tiene conto della complessita' di alcune indagini, del rilevante numero delle avocazioni e del fatto che al procuratore generale non e' assegnata alcuna facolta' di richiedere la proroga dei termini di durata delle indagini preliminari, se anche volesse, non sarebbe assolutamente in grado di svolgere indagini idonee e necessarie all'esercizio dell'azione penale, con la conseguenza che il termine previsto dall'art. 412 del codice contrasterebbe con il principio dell'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale previsto dall'art. 112 della Costituzione e tutta la descritta disciplina contrasterebbe con i principi costituzionali sanciti dagli artt. 101 e 102 della Costituzione, giacche' al giudice sarebbe, di fatto, sottratta la funzione giurisdizionale ed egli diventerebbe organo esecutivo di una richiesta vincolante del pubblico ministero. Se, invece, si vuole restringere il campo alla questione che in questa sede appare rilevante, ugualmente si perviene alla medesima conclusione. Nel caso di specie, infatti, come gia' messo in evidenza quando si e' descritto il fatto oggetto del procedimento, allo stato, non sussistono obiettivi e concreti elementi per esercitare l'azione penale nei confronti del Fusco, dal momento che non e' assolutamente chiaro se egli abbia commesso dei reati e quali e nemmeno se il Fusco fosse proprio il Fusco o altra persona. Poiche', pero', le altre indagini ritenute necessarie e indicate nei relativi provvedimenti in atti non possono essere imposte da questo giudice al procuratore generale, secondo quanto stabilito dalla Corte di cassazione, l'unica alternativa percorribile, non essendovi gli elementi per l'imputazione coatta, sarebbe quella dell'accoglimento della richiesta di archiviazione. Cio' ugualmente comporta una straordinaria limitazione ai poteri giurisdizionali di questo ufficio, corrispondemente ad un'insindacabile discrezionalita' del pubblico ministero. Il procuratore generale, infatti, a suo insindacabile giudizio, avrebbe potuto autonomamente svolgere le indagini necessarie ovvero egli, una volta emesso decreto di archiviazione da parte di questo giudice, potrebbe ancora richiedere la riapertura delle indagini, mentre nessun tipo di strumento e' assegnato a questo ufficio per poter far luce su alcuni aspetti essenziali del procedimento, necessari a stabilire se sussistano o meno i presupposti per l'esercizio dell'azione penale. Altre considerazioni, poi, sono necessarie in ordine all'aspetto gia' preso in considerazione dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 445/1990 e, cioe', a quello relativo alle eventuali differenze di disciplina tra procedimento pretorile e procedimento di competenza di tribunale, giacche' anche a tal riguardo la sentenza della Corte di cassazione da' adito ad altri, notevoli dubbi. La Corte costituzionale, infatti, nella piu' volte menzionata decisione, si e' gia' espressa nel senso dell'illegittimita', sul piano della ragionevolezza e della coerenza, di ogni sostanziale ed ingiustificata difformita' di normativa a seconda che si tratti di procedimento di competenza del pretore ovvero del tribunale. Con la disposizione contenuta nel secondo comma dell'art. 412 del codice di procedura penale, peraltro, e' espressamente previsto che il procuratore generale possa esercitare il potere di avocazione quando il giudice, non avendo accolto la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, abbia fissato la prevista udienza in camera di consiglio. Per testuale ed espressa previsione normativa, non si ritiene vi possano essere dubbi che i poteri del giudice nella consegurnte udienza relativi all'indicazione di nuove indagini ovvero all'imposizione della formulazione dell'imputazione rimangano invariati indipendentemente dal fatto che il procuratore generale si sia avvalso o meno della predetta facolta' di avocare il procedimento. Anche perche', se cosi' non fosse, si arriverebbe davvero all'assurda conseguenza che l'esercizio dei poteri e delle facolta' assegnati dalla legge al giudice, dipenderebbe, di fatto, da una scelta discrezionale del procuratore generale. Fermo restando, allora, che nel procedimento di competenza del tribunale il giudice per le indagini preliminari puo' esercitare le facolta' previste dal quarto e quinto comma dell'art. 409 del codice anche nei confronti del procuratore generale, le possibilita' inter- pretative sembrano soltanto due. O l'interpretazione data dalla Corte di cassazione si riferisce solo ai casi in cui la richiesta di archiviazione provenga gia' dal procuratore generale che abbia esercitato i suoi poteri di avocazione, quindi, a norma del primo comma dell'art. 412 del codice e, cioe', quando il pubblico ministero di prima battuta non abbia ancora fatto alcuna richiesta di archiviazione al giudice ovvero ci si trova nuovamente in presenza di un caso di ingiustificata difformita' di disciplina a seconda dell'ufficio giudiziario competente per materia. Se fosse vera la prima ipotesi, pero', occorrerebbe anche stabilire cosa avviene nei procedimenti di competenza del tribunale quando, dopo aver avocato il procedimento a norma del primo comma dell'art. 412, il procuratore generale presenti al giudice richiesta di archiviazione e questi non ritenga di poterla accogliere. A chi scrive, infatti, appare evidente che, non essendo prevista alcuna diversa disciplina, anche in questi casi debbano trovare applicazione le disposizioni contenute negli artt. 409 e 410 del c.p.p., anche perche', in caso contrario, pure i poteri di opposizione alla richiesta di archiviazione previsti per la persona offesa potrebbero essere esercitati o meno a seconda che il procedimento penale sia stato avocato o no dal procuratore generale. E come potrebbe, inoltre, il giudice imporre al procuratore generale anche la sola formulazione dell'imputazione fuori dall'udienza prevista dall'art. 409 del codice, se tali disposizioni non potessero piu' applicarsi perche', avocato il procedimento, il pubblico ministero richiedente sarebbe diventato il procuratore generale, per il quale il legislatore non poteva considerare e disciplinare i casi di inerzia? Se fosse vera, insomma, la prospettata ipotesi, occorrerebbe improvvisare ex novo tutta una disciplina che il legislatore, in effetti, non ha previsto. Per questo si ritiene che questa ipotesi interpretativa non possa essere concretamente prospettata. Non rimane, allora, che la seconda possibilita' e, cioe', che nei procedimenti di competenza del tribunale, a differenza di quelli pretorili, il giudice che ritenga di indicare altre indagini al procuratore generale che abbia fatto richiesta di archiviazione puo' disporlo e cio' fa sorgere dubbi circa la legittimita' costituzionale di una simile interpretazione in relazione all'art. 5 della Costituzione per ragioni analoghe proprio a quelle gia' prese in considerazione dalla Corte costituzionale nella sua sentenza n. 445/1990. E tutto cio', senza neppure volersi soffermare sull'ipotesi che, in una siffatta disciplina, gia' il pubblico ministero di prima battutta potrebbe con consapevolezza omettere di svolgere le indagini, sicuro che esse, soprattutto se lunghe e complicate, non potrebbero essere piu' svolte dopo l'avocazione del procedimento e senza voler considerare che il nostro sistema processuale conosce anche altri casi di avocazione, quali quelli previsti dall'art. 372 del codice, da ultimo modificato ed ampliato dal d.-l. 9 settembre 1991, n. 292, in relazione ai quali gli effetti della descritta disciplina sarebbero ancora piu' pericolosamente rilevanti. Per le esposte ragioni, si ritiene che gli artt. 554, secondo comma, e 409, quarto comma, del codice di procedura penale, non consentendo al giudice per le indagini preliminari di indicare le ulteriori indagini ritenute necessarie al procuratore generale che abbia fatto richiesta di archiviazione possano essere ritenuti illegittimi per contrasto con gli artt. 3, 102 e 112 della Costituzione, per cui gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale per il giudizio di legittimita'.
P. Q. M. Visti gli artt. 23 e segg. della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, affinche' la Corte valuti la legittimita' costituzionale degli artt. 554, secondo comma e 409, quarto comma, del codice di procedura penale in relazione agli artt. 3, 102 e 112 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti della due Camere del Parlamento. Torino, addi' 2 ottobre 1991 Il giudice: CASALBORE 91C1237