N. 75 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 dicembre 1991
N. 75 Ordinanza emessa il 3 dicembre 1991 dal tribunale di Lamezia Terme nelle procedure fallimentari a carico di "Organizzazione Paradiso di Paradiso Tranquillo" Fallimento e procedure concorsuali - Procedimento - Proposizione di reclamo avverso il decreto con cui il tribunale ha respinto la domanda di dichiarazione di fallimento avanzata da un ricorrente - Competenza a decidere attribuita alla corte d'appello che, in caso di accoglimento, manda al competente tribunale per la dichirazione di fallimento - Sussistenza per il tribunale dell'obbligo di dichiararlo - Prospettata violazione del principio della indipendenza del giudice con incidenza sull'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 22, terzo comma). (Cost., artt. 101, 107 e 111).(GU n.9 del 26-2-1992 )
IL TRIBUNALE Visti gli atti relativi alle istruttorie prefallimentari iscritte al n. 31/1988 r.r., a carico di "Organizzazione Paradiso di Paradiso Tranquillo", ed al n. 242/1988 a carico di Paradiso Fernando; Visto il decreto in data 25 ottobre 1991 della corte d'appello di Catanzaro; Ritenuto di dovere sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale delle norme di legge di seguito specificate, ha emesso la seguente ordinanza; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con un primo decreto del 18 novembre 1988 questo tribunale respingeva i ricorsi per la dichiarazione di fallimento della "Organizzazione Paradiso di Paradiso Tranquillo", presentati dalla Banca nazionale del lavoro, filiale di Catanzaro, e dalla Cassa di risparmio di Calabria e di Lucania, per decorrenza del termine di cui all'art. 10, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare). Con un successivo decreto del 20 aprile 1991 il medesimo organo giudicante respingeva i ricorsi per la dichiarazione di fallimento di Paradiso Fernando, presentati dalla societa' per azioni "Seat - Divisione Stat", e dalla Banca nazionale del lavoro, filiale di Catanzaro, anche in questo caso per decorrenza del termine di cui all'art. 10 della legge fallimentare. Avverso i provvedimenti reiettivi proponevano reclamo alla corte d'appello di Catanzaro, ai sensi dell'art. 22, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, le predette Banca nazionale del lavoro e Cassa di risparmio di Calabria e Lucania nei confronti del decreto del 18 novembre 1988, e la sola Banca nazionale del lavoro nei confronti del decreto del 20 aprile 1991. La Corte, previa riunione in un'unico procedimento degli atti relativi ai vari reclami, con decreto del 25 ottobre 1991 accoglieva gli stessi e, ritenuta l'esistenza di una societa' di fatto corrente tra Paradiso Fernando, Paradiso Tranquillo, Vescio Filomena e Cacciola Caterina, rimetteva gli atti a questo tribunale perche', ai sensi dell'art. 22, ultimo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, dichiarasse il fallimento della predetta societa' unitamente a quello personale dei singoli soci. MOTIVI DI INCOSTITUZIONALITA' Questo tribunale deve procedere con sentenza propria alla dichiarazione di fallimento della societa' di fatto intercorrente tra Paradiso Tranquillo, Paradiso Fernando, Vescio Filomena e Cacciola Caterina, nonche' dei soci in proprio, a seguito del procedimento svoltosi innanzi alla corte d'appello di Catanzaro. All'esito del procedimento la Corte, ritenendo la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi per la dichiarazione di fallimento come sopra specificata, ha trasmesso gli atti a questo tribunale in osservanza dell'art. 22, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. La norma citata, infatti, cosi' dispone: "Se la corte d'appello accoglie il ricorso, rimette d'ufficio gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento". Il tribunale, dovendo procedere alla dichiarazione di fallimento, dubita della legittimita' costituzionale della norma da applicarsi e denuncia i profili di contrasto con la Costituzione come di seguito individuati. I) Illegittimita' dell'art. 22, ultimo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, per contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 107, terzo comma, della Costituzione. Prevede l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, che "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Appare al tribunale esatta e condivisibile l'interpretazione che autorevolmente in dottrina e' stata data alla norma in esame, la quale mirerebbe a garantire l'autonomia del giudice, nel senso di sottrarlo a qualsiasi esterno condizionamento che potrebbe impedirgli di decidere secondo la propria scienza e la propria coscienza il caso sottoposto al suo esame. Si e' precisato che tale autonomia deve concretizzarsi nella sottrazione del giudice da ogni subordinazione non solo all'esterno dell'ordinamento giudiziario, ma anche all'interno di questo. In tal senso appare corretto e condivisibile anche il collegamento che la dottrina ha operato tra la norma in esame e quella contenuta nell'art. 107, terzo comma, della Costituzione, in base alla quale "I magistrati si distinguono soltanto per funzioni". Sembra, allora, che l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, preveda e garantisca sotto un duplice profilo l'indipendenza del giudice, delineando anzitutto un tipo di autonomia, che efficacemente e' stata definita "organizzativa", che ha riguardo alla collocazione dell'ordine giudiziario nel sistema degli altri organi e poteri previsti dalla Costituzione (ed in tal senso strettamente collegato con l'art. 104, primo comma, della Costituzione, laddove si prevede che "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"); in secondo luogo, ed e' questo il profilo che in questa sede viene in evidenza, delineando un tipo di autonomia che e' stata qualificata come "funzionale", mirante a salvaguardare, all'interno dell'ordine giudiziario e nei rapporti tra gli organi che ne fanno parte, la piena ed assoluta autonomia di giudizio. Quest'ultima potrebbe, infatti, essere intaccata dall'esistenza di rapporti di tipo gerarchico tra organi, con influenze potenzialmente idonee ad inserire nella formazione del convincimento del giudice elementi diversi dalla sua scienza e coscienza. Di tanto ne e' testimonianza il fatto, segnalato dalla dottrina, che il progetto di costituzione prevedeva, per l'articolo in esame, l'inciso "che interpretano ed applicano secondo coscienza", e che detto inciso e' stato poi soppresso perche' ritenuto superfluo, sull'assunto che gia' l'assoggettamento alla legge garantiva di per se' l'autonomia della normale formazione del convincimento del giudice. Il costituente ha quindi voluto impedire qualsiasi forma di condizionamento del processo decisionale nell'esercizio della giurisdizione, escludendo che all'interno dello stesso ordine giudiziario possano crearsi rapporti di gerarchia e subordinazione tra organi che possano influire sulla decisione del giudice, decisione che dovra' essere sempre il frutto della scienza e della coscienza di quest'ultimo. Non sembra, allora, al tribunale, che la disciplina della dichiarazione di fallimento prevista dall'art. 22, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sia compatibile con il principio costituzionale della soggezione alla legge, come sopra delineato. In base a tale disciplina, infatti, la Corte d'appello investita del reclamo di un ricorrente avverso il decreto con cui il tribunale ha respinto la sua domanda di dichiarazione di fallimento, instaura un procedimento camerale nel quale convoca le parti, acquisisce se necessario nuove informazioni e dispone nuove indagini; all'esito, se ravvisa la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi voluti dalla legge, manda al competente tribunale per la dichiarazione di fallimento. Il tribunale, cosi', pronuncera' sentenza di fallimento senza alcuna possibilita' di valutazione o di rivalutazione degli elementi istruttori, al fine di stabilire se, nel caso concreto, le fattispecie delineate dalla legge fallimentare possano trovare o meno applicazione. Nel silenzio della legge, la dottrina con notevole sforzo e non senza contrasti ha proposto di riservare al tribunale un limitato potere cognitivo, ove, tra la rimessione degli atti e la sentenza di fallimento, dovessero sopravvenire nuovi elementi di fatto (esempio di scuola: la vincita alla lotteria, che farebbe venir meno lo stato di insolvenza) o di diritto (nuove disposizioni di legge influenti sulla assoggettabilita' alle procedure concorsuali); in questo caso, sempre secondo questa dottrina, il tribunale potrebbe, valutati i nuovi elementi, non procedere alla dichiarazione di fallimento. Il sistema della legge fallimentare, comunque, esclude in via assoluta un potere cognitivo e valutativo del tribunale sugli elementi su cui la decisione della corte d'appello si e' fondata. Quest'ultima decisione, peraltro, per orientamento consolidato e conforme della suprema Corte, e' priva di qualsiasi rilevanza esterna, poiche' e' contenuta in un provvedimento che viene qualificato ordinatorio e ad effetti meramente processuali, inidoneo ad assumere portata decisoria sui diritti delle parti ed efficacia di giudicato, che si inserisce in un procedimento complesso il cui momento conclusivo e' rappresentato dalla sentenza dichiarativa di fallimento (v. Cass., 8 agosto 1990, n. 8008; Cass., 5 aprile 1990, n. 2848; Cass., 14 ottobre 1988, n. 5597; Cass., 26 marzo 1984, n. 1985; Cass., 15 aprile 1980, n. 2443; Cass., 4 luglio 1979, n. 3783; Cass., 29 novembre 1979, n. 6270). Logica conseguenza di siffatte regole e' che il provvedimento in questione non e' impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione (v., tra le altre, le citate sentenze del supremo Collegio nn. 2848/1990, n. 5597/1988, n. 1985/1984). Per razionalizzare i rapporti tra il decreto con cui la Corte dispone la rimessione degli atti e la sentenza con cui il tribunale dichiara il fallimento, si e' dovuto far ricorso a diversi criteri; in base a quello che appare maggiormente seguito, la sentenza di fallimento, in simile caso, scaturirebbe all'esito di un procedimento complesso, in cui, in pratica, il decreto della Corte avrebbe la funzione di accertare e dichiarare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per la dichiarazione di fallimento, mentre la successiva sentenza avrebbe la funzione di far concretamente scaturire gli effetti tipici della dichiarazione medesima, con efficacia costitutiva, in particolare, in ordine allo status di fallito. E' questa, peraltro, l'impostazione adottata dalla Corte costituzionale nella remota sentenza n. 142 del 22 giugno 1971, con la quale e' stata dichiarata manifestamente infondata questione di costituzionalita' analoga a quella che oggi viene sollevata (v., inoltre, le successive ordinanze conformi, nn. 108 del 15 giugno 1972, 180 del 12 dicembre 1972, 197 del 30 novembre 1971). Ritiene il tribunale, pur nel rispetto dell'autorevolezza della decisione del giudice costituzionale, di dover fare rilevare che il giudice, nell'ipotesi in questione, nel pronunciare sentenza, atto di massima espressione della giurisdizione, non e' tenuto a ricercare se sia possibile sussumere il caso concreto posto al suo esame all'interno di una fattispecie astratta prevista in una norma di legge; trattandosi di sentenza di fallimento, non e' tenuto cioe' a verificare la sussistenza delle condizioni formali e sostanziali previste dalla legge fallimentare. Egli deve, invece, limitarsi a "prendere atto" degli atti rimessigli dalla Corte, ed in particolare del decreto di accompagnamento, per poi emettere sentenza che, nella sostanza, altro non e' che un atto di esecuzione rispetto ad una statuizione di fatto irrevocabile emessa da un diverso organo (salvo le sopravvenienze di cui sopra si e' detto). Nella sostanza, per quanto ci si sforzi di inquadrare il fenomeno in esame all'interno delle c.d. "fattispecie complesse", cosi' dovendosi intendere sia il particolare procedimento previsto dal terzo comma dell'art. 22 della legge fallimentare, sia la sentenza che ne e' il momento finale, e' innegabile che la modificazione della realta' giuridica avviene per effetto della sentenza del tribunale, che e' l'unico atto esternamente produttivo di effetti, l'unico idoneo a passare in giudicato, l'unico impugnabile. Pur potendosi condividere, a parere del tribunale, la qualificazione di fattispecie complessa al procedimento per la dichiarazione di fallimento previsto dall'art. 22 della legge fallimentare, non appare condivisibile tale qualificazione se applicata alla sentenza che ne costituisce il momento conclusivo. La sentenza, quale momento finale dell'accertamento e delle valutazioni di un giudice, risente direttamente del sistema di garanzie che il costituente ha voluto predisporre in funzione dell'assoluta autonomia del giudizio; non appare compatibile con tale sistema la previsione di un tipo di sentenza ove il momento essenziale della sua stessa esistenza, cioe' la valutazione dei presupposti di un fallimento, sia riconducibile ad un organo giudicante, e la consequenziale pronuncia ad un altro. E' noto che tale sistema trova una sua giustificazione nel fatto che il legislatore non ha voluto porre deroghe al principio della competenza funzionale, e quindi assoluta ed inderogabile, del tribunale fallimentare per la dichiarazione di fallimento, principio sancito dall'art. 9 della legge fallimentare. Tuttavia, il sistema non appare giustificabile sotto il profilo costituzionale, posto che determina un processo di formazione della decisione del giudice, da cui promana l'atto costitutivo degli effetti del fallimento, in cui la scienza e la coscienza del giudice stesso nell'interpretare e nell'applicare la legge non hanno alcun rilievo. La produzione dell'atto, in questo caso, sembra avere quali suoi presupposti soli dei fatti storici, come gia' si accennava: una semplice presa d'atto da parte dell'organo decidente dell'esistenza di una precedente decisione della Corte, rispetto alla quale altro non puo' fare che riproporne ineluttabilmente il dispositivo ed indicare gli articoli di legge applicati. Il giudice si trova allora a dover dare applicazione alla decisione assunta da un altro organo giudicante, come se tra i due organi - la Corte e il tribunale - sussistesse un vincolo gerarchico di subordinazione. Cio', com'e' evidente, e' in palese violazione del principio costituzionale della semplice distinzione di funzioni tra organi giudiziari. Nella materia fallimentare, dove, com'e' noto, il ruolo dell'interpretazione giudiziale e' di fondamentale importanza e le regole della prassi costituiscono forse un sistema normativo ben piu' esteso di quello scaturente dagli articoli della legge, l'autonomia del giudizio in sede di dichiarazione di fallimento e' quantomai fondamentale. Si pensi solo ai possibili modi di valutare, ai fini della assoggettabilita' alla procedura concorsuale, gli elementi di fatto per qualificare un imprenditore come piccolo imprenditore, o come artigiano, e le diverse possibili soluzioni che possono essere date alle questioni inerenti alla fallibilita' del socio illimitatamente responsabile receduto prima della dichiarazione di fallimento, o all'applicabilita' del termine di cui all'art. 10 della legge fallimentare anche alle societa', tanto per citare i casi piu' ricorrenti. Appare, quindi, verosimile che tra un Tribunale ed una Corte possa determinarsi una difformita' di orientamenti sui criteri di interpretazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, e non si vede la ragione del far ricondurre ad un organo giudicante gli effetti e la responsabilita' di una pronuncia giudiziale che e' frutto di una interpretazione della legge che e' propria di un altro organo. E' senz'altro piu' logico un sistema che preveda che la Corte d'appello, se accoglie il reclamo, dichiari essa stessa il fallimento con sentenza propria. Ne' varrebbe a giustificare il sistema attualmente applicato il richiamo dell'istituto della enunciazione del principio di diritto della Corte di cassazione, a cui il giudice di rinvio deve uniformarsi. In primo luogo, vale la dichiarazione che esula dalla disciplina dell'istituto delineata nell'art. 384 del codice di procedura civile, la formula "rimette d'ufficio gli atti per ..", la quale inequivocabilmente postula una successiva attivita' sostanzialmente esecutiva rispetto alla precedente statuizione, mentre prevede un nuovo "giudizio" da parte del giudice di rinvio, con una nuova valutazione degli elementi processuali, pur sempre alla luce del criterio indicato dalla suprema Corte. In secondo luogo, ma con maggiore rilievo, vale la considerazione che l'isituto in questione e' espressione non gia' di un potere gerarchico che alla Corte di cassazione il legislatore ha inteso assegnare, bensi' della funzione di nomofilachia che la Corte stessa ricopre all'interno dell'ordinamento, per disposto dell'art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, funzione che mira a garantire l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge. b) Illegittimita' costituzionale dell'art. 22, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, per contrasto con l'art. 111, primo comma, della Costituzione. Dispone il primo comma dell'art. 111 della Costituzione: "Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati". Il codice di procedura civile disciplina e distingue l'obbligo di motivazione a seconda del tipo di atto: per la sentenza, l'art. 132 prevede che la motivazione rientra nel suo contenuto necessario; per l'ordinanza, l'art. 134 prevede l'obbligo di una succinta motivazione; per il decreto, l'art. 135 fissa la regola dell'assenza di motivazione, facendo salvi i casi in cui la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge. Analogamente dispone il (nuovo) c.p.p.: l'art. 125, terzo comma, prevede che le sentenze e le ordinanze sono motivate a pena di nullita'; per i decreti la motivazione viene richiesta solo nei casi in cui e' espressamente prescritta dalla legge. Nulla dispone la norma denunciata in ordine alla forma del provvedimento con cui la corte d'appello accerta la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Dottrina e giurisprudenza appaiono concordi, comunque, nel qualificare (con alcuni correttivi) il procedimento in questione come un procedimento camerale che, quindi, in forza dell'art. 737 del c.p.c., deve concludersi con decreto motivato. Si ha allora un doppio obbligo di motivazione: il primo, incombente sulla Corte in virtu' della combinazione degli artt. 22, terzo comma, della legge fallimentare, e 737 del c.p.c.; il secondo, incombente sul tribunale in virtu' della combinazione degli artt. 16 della legge fallimentare e 132 del c.p.c. Non si vede, tuttavia, come il tribunale possa adempiere a tale obbligo di motivazione, posto che il positivo accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e' stato operato dalla Corte remittente, la quale ne dovra' dare atto nella motivazione del proprio decreto. Non si puo' dire, infatti, che la sentenza di fallimento assorbe necessariamente il contenuto della motivazione del decreto della corte d'appello, poiche' nella gran parte dei casi la Corte, quale organo di impugnazione, esamina gli elementi dell'istruttoria prefallimentare gia' presi in considerazione nella prima fase, potendo ben adottare parametri di valutazione anche diversi da quelli utilizzati dal tribunale che ha rigettato il ricorso. Ne consegue che, almeno potenzialmente, la sentenza dichiarativa di fallimento (che, si ripete, e' l'unico atto giurisdizionale produttivo di effetti giuridici) nel caso previsto dalla norma denunciata, potrebbe essere data da un giudice che non puo' esprimere nella motivazione l'iter logico giuridico del proprio convincimento, giacche' il proprio convincimento potrebbe essere di segno contrario al contenuto della sentenza che egli stesso deve pronunciare, quando la corte d'appello abbia valutato gli elementi istruttori con criteri interpretativi differenti da quelli adottati dal tribunale. Nel sistema costituzionale l'obbligo di motivazione appare funzionale a che la collettivita', in nome della quale si amministra la giustizia, possa controllare l'iter logico giuridico seguito dal giudice che emette un atto giurisdizionale. La norma denunciata prevede, invece, un sistema in cui la sentenza puo' anche non essere frutto di un iter logico giuridico dello stesso giudice che la pronuncia, per cui quest'ultimo si troverebbe nell'impossibilita' di adempiere all'obbligo in questione. La motivazione della sentenza, deve precisarsi, costituisce nella materia che ci occupa l'esposizione (seppur sintetica) degli elementi processuali e dei criteri interpretativi che hanno condotto il giudice al positivo accertamento dei presupposti per la costituzione in capo ad un soggetto dello status di fallito. Sennonche', come, piu' volte evidenziato, ai sensi dell'art. 22, terzo comma, della legge fallimentare, tale accertamento non compete piu' al tribunale, poiche' rientra nelle attribuzioni esclusive della Corte. Ne' puo' dirsi che il tribunale, in tal caso, potrebbe motivare per relationem, poiche' tale forma di motivazione significa pur sempre la piena condivisione di un accertamento e di una valutazione gia' operati da un altro giudice; nella materia in questione, invece, profilandosi un potenziale disaccordo tra Corte e tribunale, non potrebbe quest'ultimo rifarsi per relationem a valutazioni che non condivide. E' di palmare evidenza che non puo' considerarsi motivazione il semplice riferimento, nella sentenza di fallimento, al decreto della corte d'appello, poiche' cio' non e' ricostruzione di un iter logico giuridico. Del resto, se quel decreto, per costante giurisprudenza (sopra citata), non dispiega effetti al di fuori dell'iter processuale e non puo' essere oggetto di impugnazione autonoma, non si vede come potrebbe poi assumere il valore di motivazione della sentenza finale, inserendosi come parte integrante e fondamentale all'interno di un atto giurisdizionale emanato da un altro giudice. Sembra allora insuperabile, al tribunale, il contrasto di siffatto sistema con l'obbligo costituzionale di motivazione dell'atto giurisdizionale, poiche' il giudice da cui promana l'atto, in questo caso, non puo' dar conto dell'iter logico giuridico applicato per la decisione; detto iter, infatti, potenzialmente potrebbe essere del tutto diverso rispetto a quello che ha condotto la corte d'appello a ritenere la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui prevede che la corte d'appello, se accoglie il ricorso, rimette d'ufficio gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento, con riferimento agli artt. 101, secondo comma, 107, terzo comma, e 111, primo comma, della Costituzione; Sospende la procedura in corso; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente della Camera dei deputati ed al Presidente del Senato; Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti originariamente ricorrenti nonche' a Paradiso Tranquillo, Paradiso Fernando, Vescio Filomena, Cacciola Caterina, come in atti generalizzati. Lamezia Terme, camera di consiglio del 3 dicembre 1991. Il presidente: FRONTERA Depositata nella cancelleria del tribunale di Lamezia Terme oggi 4 dicembre 1991. Il collaboratore di cancelleria: SCICCHITANO 92C0188