N. 75 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 dicembre 1991

                                 N. 75
 Ordinanza emessa il 3 dicembre 1991 dal tribunale  di  Lamezia  Terme
 nelle  procedure fallimentari a carico di "Organizzazione Paradiso di
 Paradiso Tranquillo"
 Fallimento e procedure concorsuali - Procedimento - Proposizione di
    reclamo avverso il decreto con cui il  tribunale  ha  respinto  la
    domanda di dichiarazione di fallimento avanzata da un ricorrente -
    Competenza a decidere attribuita alla corte d'appello che, in caso
    di accoglimento, manda al competente tribunale per la dichirazione
    di  fallimento  -  Sussistenza  per  il  tribunale dell'obbligo di
    dichiararlo   -   Prospettata   violazione   del  principio  della
    indipendenza del giudice con incidenza sull'obbligo di motivazione
    dei provvedimenti giurisdizionali.
 (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 22, terzo comma).
 (Cost., artt. 101, 107 e 111).
(GU n.9 del 26-2-1992 )
                             IL TRIBUNALE
    Visti gli atti relativi alle istruttorie prefallimentari  iscritte
 al  n. 31/1988 r.r., a carico di "Organizzazione Paradiso di Paradiso
 Tranquillo", ed al n. 242/1988 a carico di Paradiso Fernando;
    Visto il decreto in data 25 ottobre 1991 della corte d'appello  di
 Catanzaro;
    Ritenuto   di   dovere   sollevare   d'ufficio   la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  delle  norme  di   legge   di   seguito
 specificate, ha emesso la seguente ordinanza;
                       SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
    Con  un  primo  decreto  del  18  novembre  1988  questo tribunale
 respingeva  i  ricorsi  per  la  dichiarazione  di  fallimento  della
 "Organizzazione  Paradiso  di  Paradiso Tranquillo", presentati dalla
 Banca nazionale del lavoro, filiale di Catanzaro, e  dalla  Cassa  di
 risparmio di Calabria e di Lucania, per decorrenza del termine di cui
 all'art. 10, del r.d.  16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare).
    Con  un  successivo  decreto del 20 aprile 1991 il medesimo organo
 giudicante respingeva i ricorsi per la dichiarazione di fallimento di
 Paradiso Fernando, presentati  dalla  societa'  per  azioni  "Seat  -
 Divisione  Stat",  e  dalla  Banca  nazionale  del lavoro, filiale di
 Catanzaro, anche in questo caso per decorrenza  del  termine  di  cui
 all'art. 10 della legge fallimentare.
    Avverso  i  provvedimenti reiettivi proponevano reclamo alla corte
 d'appello di Catanzaro, ai sensi dell'art. 22, r.d. 16 marzo 1942, n.
 267, le predette Banca nazionale del lavoro e Cassa di  risparmio  di
 Calabria  e Lucania nei confronti del decreto del 18 novembre 1988, e
 la sola Banca nazionale del lavoro nei confronti del decreto  del  20
 aprile 1991.
    La  Corte,  previa  riunione  in  un'unico procedimento degli atti
 relativi ai vari reclami, con decreto del 25 ottobre 1991  accoglieva
 gli  stessi e, ritenuta l'esistenza di una societa' di fatto corrente
 tra  Paradiso  Fernando,  Paradiso  Tranquillo,  Vescio  Filomena   e
 Cacciola  Caterina, rimetteva gli atti a questo tribunale perche', ai
 sensi dell'art. 22,  ultimo  comma,  r.d.  16  marzo  1942,  n.  267,
 dichiarasse il fallimento della predetta societa' unitamente a quello
 personale dei singoli soci.
                     MOTIVI DI INCOSTITUZIONALITA'
    Questo   tribunale   deve  procedere  con  sentenza  propria  alla
 dichiarazione di fallimento della societa' di fatto intercorrente tra
 Paradiso Tranquillo, Paradiso Fernando, Vescio  Filomena  e  Cacciola
 Caterina,  nonche'  dei  soci  in proprio, a seguito del procedimento
 svoltosi innanzi alla corte d'appello  di  Catanzaro.  All'esito  del
 procedimento  la  Corte,  ritenendo  la  sussistenza  dei presupposti
 oggettivi e soggettivi per la dichiarazione di fallimento come  sopra
 specificata,  ha  trasmesso gli atti a questo tribunale in osservanza
 dell'art. 22, terzo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267.
    La norma citata, infatti, cosi' dispone: "Se  la  corte  d'appello
 accoglie  il  ricorso, rimette d'ufficio gli atti al tribunale per la
 dichiarazione di fallimento".
    Il  tribunale, dovendo procedere alla dichiarazione di fallimento,
 dubita della legittimita' costituzionale della norma da applicarsi  e
 denuncia  i  profili di contrasto con la Costituzione come di seguito
 individuati.
    I) Illegittimita' dell'art. 22, ultimo comma, del  r.d.  16  marzo
 1942,  n. 267, per contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 107,
 terzo comma, della Costituzione.
    Prevede l'art. 101, secondo  comma,  della  Costituzione,  che  "I
 giudici sono soggetti soltanto alla legge".
    Appare  al  tribunale esatta e condivisibile l'interpretazione che
 autorevolmente in dottrina e' stata data  alla  norma  in  esame,  la
 quale  mirerebbe  a  garantire  l'autonomia del giudice, nel senso di
 sottrarlo a qualsiasi esterno condizionamento che potrebbe impedirgli
 di decidere secondo la propria scienza e la propria coscienza il caso
 sottoposto al suo esame. Si e'  precisato  che  tale  autonomia  deve
 concretizzarsi  nella  sottrazione del giudice da ogni subordinazione
 non  solo  all'esterno   dell'ordinamento   giudiziario,   ma   anche
 all'interno di questo.
    In tal senso appare corretto e condivisibile anche il collegamento
 che  la  dottrina ha operato tra la norma in esame e quella contenuta
 nell'art. 107, terzo comma, della Costituzione, in base alla quale "I
 magistrati si distinguono soltanto per funzioni".
    Sembra, allora, che l'art. 101, secondo comma, della Costituzione,
 preveda e garantisca sotto  un  duplice  profilo  l'indipendenza  del
 giudice, delineando anzitutto un tipo di autonomia, che efficacemente
 e'  stata definita "organizzativa", che ha riguardo alla collocazione
 dell'ordine giudiziario nel  sistema  degli  altri  organi  e  poteri
 previsti  dalla  Costituzione (ed in tal senso strettamente collegato
 con l'art. 104, primo comma, della Costituzione, laddove  si  prevede
 che "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da
 ogni altro potere"); in secondo luogo, ed e' questo il profilo che in
 questa sede viene in evidenza, delineando un tipo di autonomia che e'
 stata   qualificata   come  "funzionale",  mirante  a  salvaguardare,
 all'interno dell'ordine giudiziario e nei rapporti tra gli organi che
 ne  fanno  parte,  la  piena  ed  assoluta  autonomia  di   giudizio.
 Quest'ultima  potrebbe,  infatti,  essere intaccata dall'esistenza di
 rapporti di tipo gerarchico tra organi, con influenze  potenzialmente
 idonee  ad  inserire  nella  formazione del convincimento del giudice
 elementi diversi dalla sua scienza e coscienza.
    Di tanto ne e' testimonianza il fatto, segnalato  dalla  dottrina,
 che  il  progetto di costituzione prevedeva, per l'articolo in esame,
 l'inciso "che interpretano ed applicano  secondo  coscienza",  e  che
 detto  inciso  e'  stato  poi  soppresso  perche' ritenuto superfluo,
 sull'assunto che gia' l'assoggettamento alla legge garantiva  di  per
 se'  l'autonomia  della  normale  formazione  del  convincimento  del
 giudice.
    Il costituente  ha  quindi  voluto  impedire  qualsiasi  forma  di
 condizionamento   del   processo   decisionale  nell'esercizio  della
 giurisdizione,  escludendo  che  all'interno  dello   stesso   ordine
 giudiziario  possano  crearsi  rapporti di gerarchia e subordinazione
 tra  organi  che  possano  influire  sulla  decisione  del   giudice,
 decisione  che  dovra'  essere sempre il frutto della scienza e della
 coscienza di quest'ultimo.
    Non   sembra,  allora,  al  tribunale,  che  la  disciplina  della
 dichiarazione di fallimento prevista dall'art. 22, terzo  comma,  del
 r.d.  16  marzo  1942,  n.  267,  sia  compatibile  con  il principio
 costituzionale della soggezione alla legge, come sopra delineato.
    In base a tale disciplina, infatti, la Corte  d'appello  investita
 del  reclamo di un ricorrente avverso il decreto con cui il tribunale
 ha respinto la sua domanda di dichiarazione di  fallimento,  instaura
 un  procedimento  camerale  nel quale convoca le parti, acquisisce se
 necessario nuove informazioni e dispone nuove indagini; all'esito, se
 ravvisa la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi voluti
 dalla legge, manda al competente tribunale per  la  dichiarazione  di
 fallimento.
    Il  tribunale,  cosi',  pronuncera'  sentenza  di fallimento senza
 alcuna possibilita' di valutazione o di rivalutazione degli  elementi
 istruttori,   al   fine  di  stabilire  se,  nel  caso  concreto,  le
 fattispecie delineate dalla legge fallimentare possano trovare o meno
 applicazione.
    Nel silenzio della legge, la dottrina con notevole  sforzo  e  non
 senza  contrasti  ha  proposto  di riservare al tribunale un limitato
 potere cognitivo, ove, tra la rimessione degli atti e la sentenza  di
 fallimento,  dovessero  sopravvenire nuovi elementi di fatto (esempio
 di scuola: la vincita alla lotteria, che farebbe venir meno lo  stato
 di  insolvenza)  o  di diritto (nuove disposizioni di legge influenti
 sulla assoggettabilita' alle procedure concorsuali); in questo  caso,
 sempre  secondo  questa  dottrina,  il tribunale potrebbe, valutati i
 nuovi elementi, non procedere alla dichiarazione di fallimento.
    Il sistema della legge  fallimentare,  comunque,  esclude  in  via
 assoluta  un  potere  cognitivo  e  valutativo  del  tribunale  sugli
 elementi su cui la decisione della corte d'appello si e' fondata.
    Quest'ultima decisione, peraltro, per orientamento  consolidato  e
 conforme  della  suprema  Corte,  e'  priva  di  qualsiasi  rilevanza
 esterna,  poiche'  e'  contenuta  in  un  provvedimento   che   viene
 qualificato  ordinatorio e ad effetti meramente processuali, inidoneo
 ad assumere portata decisoria sui diritti delle parti ed efficacia di
 giudicato, che si inserisce  in  un  procedimento  complesso  il  cui
 momento  conclusivo  e'  rappresentato dalla sentenza dichiarativa di
 fallimento (v. Cass., 8 agosto 1990, n. 8008; Cass., 5  aprile  1990,
 n.  2848;  Cass.,  14 ottobre 1988, n. 5597; Cass., 26 marzo 1984, n.
 1985; Cass., 15 aprile 1980, n. 2443; Cass., 4 luglio 1979, n.  3783;
 Cass.,  29  novembre  1979,  n. 6270). Logica conseguenza di siffatte
 regole e' che il provvedimento in questione non  e'  impugnabile  con
 ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione (v.,
 tra  le altre, le citate sentenze del supremo Collegio nn. 2848/1990,
 n. 5597/1988, n. 1985/1984).
    Per razionalizzare i rapporti tra il  decreto  con  cui  la  Corte
 dispone  la  rimessione degli atti e la sentenza con cui il tribunale
 dichiara il fallimento, si e' dovuto far ricorso a  diversi  criteri;
 in  base  a  quello  che  appare maggiormente seguito, la sentenza di
 fallimento, in simile caso, scaturirebbe all'esito di un procedimento
 complesso, in cui, in pratica, il  decreto  della  Corte  avrebbe  la
 funzione  di  accertare  e  dichiarare la sussistenza dei presupposti
 richiesti dalla legge per la dichiarazione di fallimento,  mentre  la
 successiva   sentenza   avrebbe  la  funzione  di  far  concretamente
 scaturire  gli  effetti  tipici  della  dichiarazione  medesima,  con
 efficacia  costitutiva,  in  particolare,  in  ordine  allo status di
 fallito.
    E'   questa,   peraltro,   l'impostazione   adottata  dalla  Corte
 costituzionale nella remota sentenza n. 142 del 22 giugno  1971,  con
 la  quale  e'  stata dichiarata manifestamente infondata questione di
 costituzionalita' analoga a quella  che  oggi  viene  sollevata  (v.,
 inoltre,  le  successive  ordinanze  conformi,  nn. 108 del 15 giugno
 1972, 180 del 12 dicembre 1972, 197 del 30 novembre 1971).
    Ritiene il tribunale, pur nel  rispetto  dell'autorevolezza  della
 decisione  del  giudice costituzionale, di dover fare rilevare che il
 giudice, nell'ipotesi in questione, nel pronunciare sentenza, atto di
 massima espressione della giurisdizione, non e' tenuto a ricercare se
 sia  possibile  sussumere  il  caso  concreto  posto  al  suo   esame
 all'interno  di  una  fattispecie  astratta  prevista in una norma di
 legge; trattandosi di sentenza di fallimento, non e' tenuto  cioe'  a
 verificare  la  sussistenza  delle  condizioni  formali e sostanziali
 previste dalla legge fallimentare. Egli  deve,  invece,  limitarsi  a
 "prendere  atto" degli atti rimessigli dalla Corte, ed in particolare
 del decreto di accompagnamento, per poi emettere sentenza che,  nella
 sostanza,  altro  non  e'  che  un atto di esecuzione rispetto ad una
 statuizione di fatto irrevocabile emessa da un diverso organo  (salvo
 le sopravvenienze di cui sopra si e' detto).
    Nella  sostanza, per quanto ci si sforzi di inquadrare il fenomeno
 in  esame  all'interno  delle  c.d.  "fattispecie  complesse",  cosi'
 dovendosi  intendere  sia  il  particolare  procedimento previsto dal
 terzo comma dell'art. 22 della legge fallimentare,  sia  la  sentenza
 che ne e' il momento finale, e' innegabile che la modificazione della
 realta'  giuridica  avviene per effetto della sentenza del tribunale,
 che e' l'unico  atto  esternamente  produttivo  di  effetti,  l'unico
 idoneo a passare in giudicato, l'unico impugnabile.
    Pur   potendosi   condividere,   a   parere   del   tribunale,  la
 qualificazione  di  fattispecie  complessa  al  procedimento  per  la
 dichiarazione   di  fallimento  previsto  dall'art.  22  della  legge
 fallimentare,  non  appare  condivisibile  tale   qualificazione   se
 applicata  alla sentenza che ne costituisce il momento conclusivo. La
 sentenza, quale momento finale dell'accertamento e delle  valutazioni
 di  un  giudice,  risente direttamente del sistema di garanzie che il
 costituente ha voluto predisporre in
 funzione dell'assoluta autonomia del giudizio; non appare compatibile
 con tale sistema la previsione di un tipo di sentenza ove il  momento
 essenziale  della  sua  stessa  esistenza,  cioe'  la valutazione dei
 presupposti  di  un  fallimento,  sia  riconducibile  ad  un   organo
 giudicante, e la consequenziale pronuncia ad un altro.
    E'  noto  che tale sistema trova una sua giustificazione nel fatto
 che il legislatore non ha voluto porre  deroghe  al  principio  della
 competenza   funzionale,  e  quindi  assoluta  ed  inderogabile,  del
 tribunale fallimentare per la dichiarazione di fallimento,  principio
 sancito dall'art. 9 della legge fallimentare.
    Tuttavia,  il  sistema  non appare giustificabile sotto il profilo
 costituzionale, posto che determina un processo di  formazione  della
 decisione  del  giudice,  da  cui  promana  l'atto  costitutivo degli
 effetti del fallimento, in cui la scienza e la coscienza del  giudice
 stesso  nell'interpretare  e  nell'applicare la legge non hanno alcun
 rilievo.
    La  produzione  dell'atto, in questo caso, sembra avere quali suoi
 presupposti soli dei fatti  storici,  come  gia'  si  accennava:  una
 semplice  presa  d'atto da parte dell'organo decidente dell'esistenza
 di una precedente decisione della Corte, rispetto  alla  quale  altro
 non  puo'  fare  che  riproporne  ineluttabilmente  il dispositivo ed
 indicare gli articoli di legge applicati.
    Il  giudice  si  trova  allora  a  dover  dare  applicazione  alla
 decisione  assunta  da  un altro organo giudicante, come se tra i due
 organi - la Corte e il tribunale - sussistesse un vincolo  gerarchico
 di subordinazione. Cio', com'e' evidente, e' in palese violazione del
 principio  costituzionale  della semplice distinzione di funzioni tra
 organi giudiziari.
    Nella  materia  fallimentare,  dove,   com'e'   noto,   il   ruolo
 dell'interpretazione  giudiziale  e'  di fondamentale importanza e le
 regole della prassi costituiscono forse un sistema normativo ben piu'
 esteso di quello scaturente dagli articoli della  legge,  l'autonomia
 del  giudizio  in  sede  di  dichiarazione di fallimento e' quantomai
 fondamentale. Si pensi solo ai possibili modi di  valutare,  ai  fini
 della  assoggettabilita'  alla procedura concorsuale, gli elementi di
 fatto per qualificare un imprenditore come  piccolo  imprenditore,  o
 come  artigiano,  e le diverse possibili soluzioni che possono essere
 date  alle   questioni   inerenti   alla   fallibilita'   del   socio
 illimitatamente  responsabile  receduto  prima della dichiarazione di
 fallimento, o all'applicabilita' del termine di cui all'art. 10 della
 legge fallimentare anche alle societa', tanto per citare i casi  piu'
 ricorrenti.
    Appare, quindi, verosimile che tra un Tribunale ed una Corte possa
 determinarsi   una   difformita'   di  orientamenti  sui  criteri  di
 interpretazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, e
 non si vede la ragione del far ricondurre ad un organo giudicante gli
 effetti e la responsabilita'  di  una  pronuncia  giudiziale  che  e'
 frutto  di una interpretazione della legge che e' propria di un altro
 organo.
    E' senz'altro piu' logico un sistema  che  preveda  che  la  Corte
 d'appello, se accoglie il reclamo, dichiari essa stessa il fallimento
 con sentenza propria.
    Ne'  varrebbe  a  giustificare il sistema attualmente applicato il
 richiamo dell'istituto della enunciazione del  principio  di  diritto
 della   Corte  di  cassazione,  a  cui  il  giudice  di  rinvio  deve
 uniformarsi. In primo luogo, vale la dichiarazione  che  esula  dalla
 disciplina  dell'istituto  delineata  nell'art.  384  del  codice  di
 procedura civile, la formula "rimette d'ufficio gli atti per ..",  la
 quale    inequivocabilmente    postula   una   successiva   attivita'
 sostanzialmente  esecutiva  rispetto  alla  precedente   statuizione,
 mentre  prevede  un  nuovo "giudizio" da parte del giudice di rinvio,
 con una nuova valutazione degli elementi processuali, pur sempre alla
 luce del criterio indicato dalla suprema Corte. In secondo luogo,  ma
 con  maggiore  rilievo,  vale  la  considerazione  che  l'isituto  in
 questione e' espressione non gia' di un potere  gerarchico  che  alla
 Corte  di cassazione il legislatore ha inteso assegnare, bensi' della
 funzione di nomofilachia che  la  Corte  stessa  ricopre  all'interno
 dell'ordinamento, per disposto dell'art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941,
 n. 12, funzione che mira a garantire l'esatta osservanza e l'uniforme
 interpretazione della legge.
     b)  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 22, terzo comma, del
 r.d. 16 marzo 1942, n. 267,  per  contrasto  con  l'art.  111,  primo
 comma, della Costituzione.
    Dispone  il primo comma dell'art. 111 della Costituzione: "Tutti i
 provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati".
    Il codice di procedura civile disciplina e distingue l'obbligo  di
 motivazione  a  seconda del tipo di atto: per la sentenza, l'art. 132
 prevede che la motivazione rientra nel suo contenuto necessario;  per
 l'ordinanza,   l'art.   134   prevede   l'obbligo   di  una  succinta
 motivazione; per il decreto, l'art. 135 fissa la regola  dell'assenza
 di  motivazione,  facendo  salvi  i  casi  in  cui la motivazione sia
 prescritta espressamente dalla legge.
    Analogamente dispone il (nuovo) c.p.p.: l'art. 125,  terzo  comma,
 prevede  che  le  sentenze  e  le  ordinanze  sono motivate a pena di
 nullita'; per i decreti la motivazione viene richiesta solo nei  casi
 in cui e' espressamente prescritta dalla legge.
    Nulla  dispone  la  norma  denunciata  in  ordine  alla  forma del
 provvedimento con cui la corte d'appello accerta la  sussistenza  dei
 presupposti per la dichiarazione di fallimento.
    Dottrina   e   giurisprudenza  appaiono  concordi,  comunque,  nel
 qualificare (con alcuni correttivi) il procedimento in questione come
 un procedimento camerale che, quindi,  in  forza  dell'art.  737  del
 c.p.c., deve concludersi con decreto motivato.
    Si   ha  allora  un  doppio  obbligo  di  motivazione:  il  primo,
 incombente sulla Corte in virtu' della combinazione degli  artt.  22,
 terzo  comma, della legge fallimentare, e 737 del c.p.c.; il secondo,
 incombente sul tribunale in virtu' della combinazione degli artt.  16
 della legge fallimentare e 132 del c.p.c.
    Non  si  vede,  tuttavia, come il tribunale possa adempiere a tale
 obbligo di  motivazione,  posto  che  il  positivo  accertamento  dei
 presupposti per la dichiarazione di fallimento e' stato operato dalla
 Corte  remittente, la quale ne dovra' dare atto nella motivazione del
 proprio decreto.
    Non si puo' dire, infatti, che la sentenza di  fallimento  assorbe
 necessariamente  il  contenuto  della  motivazione  del decreto della
 corte d'appello, poiche' nella gran parte dei casi  la  Corte,  quale
 organo   di   impugnazione,  esamina  gli  elementi  dell'istruttoria
 prefallimentare  gia'  presi  in  considerazione  nella  prima  fase,
 potendo ben adottare parametri di valutazione anche diversi da quelli
 utilizzati  dal  tribunale  che  ha rigettato il ricorso. Ne consegue
 che, almeno potenzialmente, la sentenza  dichiarativa  di  fallimento
 (che,  si  ripete,  e'  l'unico  atto  giurisdizionale  produttivo di
 effetti giuridici) nel caso previsto dalla norma denunciata, potrebbe
 essere data da un giudice che non puo'  esprimere  nella  motivazione
 l'iter  logico  giuridico  del  proprio  convincimento,  giacche'  il
 proprio convincimento potrebbe essere di segno contrario al contenuto
 della sentenza che egli stesso  deve  pronunciare,  quando  la  corte
 d'appello   abbia   valutato  gli  elementi  istruttori  con  criteri
 interpretativi differenti da quelli adottati dal tribunale.
    Nel  sistema  costituzionale  l'obbligo  di   motivazione   appare
 funzionale  a che la collettivita', in nome della quale si amministra
 la giustizia, possa controllare l'iter logico giuridico  seguito  dal
 giudice che emette un atto giurisdizionale.
    La norma denunciata prevede, invece, un sistema in cui la sentenza
 puo' anche non essere frutto di un iter logico giuridico dello stesso
 giudice   che  la  pronuncia,  per  cui  quest'ultimo  si  troverebbe
 nell'impossibilita' di adempiere all'obbligo in questione.
    La motivazione della sentenza, deve precisarsi, costituisce  nella
 materia che ci occupa l'esposizione (seppur sintetica) degli elementi
 processuali  e  dei  criteri  interpretativi  che  hanno  condotto il
 giudice al positivo accertamento dei presupposti per la  costituzione
 in  capo  ad  un  soggetto dello status di fallito. Sennonche', come,
 piu' volte evidenziato, ai sensi dell'art.  22,  terzo  comma,  della
 legge  fallimentare, tale accertamento non compete piu' al tribunale,
 poiche' rientra nelle attribuzioni esclusive della  Corte.  Ne'  puo'
 dirsi   che   il  tribunale,  in  tal  caso,  potrebbe  motivare  per
 relationem, poiche' tale forma di motivazione significa pur sempre la
 piena condivisione di un  accertamento  e  di  una  valutazione  gia'
 operati  da  un  altro  giudice;  nella materia in questione, invece,
 profilandosi un potenziale disaccordo  tra  Corte  e  tribunale,  non
 potrebbe  quest'ultimo  rifarsi  per relationem a valutazioni che non
 condivide.
    E' di palmare evidenza che non puo'  considerarsi  motivazione  il
 semplice  riferimento, nella sentenza di fallimento, al decreto della
 corte d'appello, poiche' cio' non e' ricostruzione di un iter  logico
 giuridico.  Del  resto,  se quel decreto, per costante giurisprudenza
 (sopra  citata),  non  dispiega  effetti  al   di   fuori   dell'iter
 processuale  e  non puo' essere oggetto di impugnazione autonoma, non
 si vede come potrebbe poi assumere il  valore  di  motivazione  della
 sentenza  finale,  inserendosi  come  parte integrante e fondamentale
 all'interno di un atto giurisdizionale emanato da un altro giudice.
    Sembra allora insuperabile, al tribunale, il contrasto di siffatto
 sistema  con  l'obbligo  costituzionale  di   motivazione   dell'atto
 giurisdizionale,  poiche' il giudice da cui promana l'atto, in questo
 caso, non puo' dar conto dell'iter logico giuridico applicato per  la
 decisione;  detto  iter,  infatti, potenzialmente potrebbe essere del
 tutto diverso rispetto a quello che ha condotto la corte d'appello  a
 ritenere  la  sussistenza  dei  presupposti  per  la dichiarazione di
 fallimento.
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge  11  marzo
 1953, n. 87;
    Ritenuta  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 22, terzo comma,  del  r.d.  16
 marzo  1942,  n.  267,  nella  parte  in  cui  prevede  che  la corte
 d'appello, se accoglie il ricorso,  rimette  d'ufficio  gli  atti  al
 tribunale  per  la  dichiarazione di fallimento, con riferimento agli
 artt. 101, secondo comma, 107, terzo comma, e 111, primo comma, della
 Costituzione;
    Sospende la procedura in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del
 Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente  della  Camera  dei
 deputati ed al Presidente del Senato;
    Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  alle  parti
 originariamente ricorrenti nonche' a  Paradiso  Tranquillo,  Paradiso
 Fernando,   Vescio   Filomena,   Cacciola   Caterina,  come  in  atti
 generalizzati.
    Lamezia Terme, camera di consiglio del 3 dicembre 1991.
                        Il presidente: FRONTERA
    Depositata nella cancelleria del tribunale di Lamezia Terme oggi 4
 dicembre 1991.
             Il collaboratore di cancelleria: SCICCHITANO

 92C0188