N. 82 SENTENZA 19 febbraio - 4 marzo 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Lavoro  -  Licenziamento  individuale  -  Tentativo  obbligatorio  di
 conciliazione  - Condizione di procedibilita' per l'azione - Richiamo
 alla giurisprudenza della Corte (sentenze nn. 47/1964, 56, 83  e  113
 del  1963 e 40/1962) - Oneri e modalita' giustificate - Previsione di
 rimedi processuali specifici - Esigenza di evitare abusi od eccessi e
 di salvaguardare interessi  generali  (sentenza  n.  57/1972)  -  Non
 fondatezza.
 
 (Legge 11 maggio 1990, n. 108, art. 5).
 
 (Cost., artt. 3 e 24).
(GU n.11 del 11-3-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele  PESCATORE,  avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco Paolo
    CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,
    avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
    Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 5, della legge
 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina  dei  licenziamenti  individuali),
 promosso  con  ordinanza  emessa  il  16  gennaio 1991 dal Pretore di
 Milano nel procedimento civile vertente tra  De  Zordo  Matteo  e  la
 s.r.l.  Cenacolo  professionale,  iscritta  al  n.  605  del registro
 ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1991;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice
 relatore Francesco Guizzi;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ricorso depositato il 13 luglio  1990  Matteo  De  Zordo,
 cameriere,  esponeva  di  essere  stato licenziato, dopo soli quattro
 giorni di lavoro, dal suo datore di lavoro  (una  societa'  con  nove
 dipendenti)  e  senza  che ricorresse un'ipotesi di giusta causa o di
 giustificato motivo.
    La  societa'  resistente  (Cenacolo   professionale   s.r.l.)   si
 costituiva  con  memoria  depositata  il  28  dicembre 1990 eccependo
 preliminarmente  l'improcedibilita'   della   domanda   per   mancato
 esperimento  del  tentativo  obbligatorio  di  conciliazione ai sensi
 dell'art. 5 della legge 11 maggio 1990, n. 108.
    Con ordinanza del 16 gennaio 1991, il Pretore di Milano,  rilevato
 che  la procedura conciliativa non era stata esperita, sollevava, per
 violazione degli artt.  3  e  24  della  Costituzione,  eccezione  di
 incostituzionalita'  dell'art.  5 della legge 11 maggio 1990, n. 108,
 nella parte in cui prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione
 (secondo le procedure stabilite dai contratti  e  accordi  collettivi
 ovvero  dagli  artt.  410  e  411  codice  di  procedura civile) come
 condizione di procedibilita' dell'azione.
    2. - Osserva il giudice remittente che il  rito  del  lavoro  gia'
 prevede,  all'art.  420  codice  di  procedura  civile,  il tentativo
 obbligatorio  di  conciliazione  ad  opera  del  giudice  del  lavoro
 (conciliazione obbligatoria giudiziaria).
    Con  l'art.  5  della  legge 11 maggio 1990, n. 108, invece, si e'
 reso  obbligatorio  anche  il  tentativo  di  conciliazione   davanti
 all'ufficio  provinciale  del  lavoro e della massima occupazione (ma
 non solo) gia' facoltativo secondo la previsione degli  artt.  410  e
 411   codice   di   procedura   civile   (conciliazione  obbligatoria
 extragiudiziaria).
    Secondo  il  Pretore  di  Milano  tale  procedimento  conciliativo
 sarebbe  un  "inutile  doppione" del tentativo giudiziale ex art. 420
 codice di procedura civile. Come tale il meccanismo introdotto, lungi
 dallo snellire il contenzioso, lo ritarderebbe e lo aggraverebbe.  Ne
 risulterebbe  una "violazione del diritto di difesa ex art. 24 (sotto
 il profilo del ritardo)" della Costituzione che non potrebbe  trovare
 la giustificazione della pretesa di riduzione del contenzioso.
    La  fattispecie  sarebbe  diversa da quella prevista dall'art. 443
 codice di procedura  civile,  dettato  in  tema  di  controversie  in
 materia  di  previdenza  ed  assistenza  obbligatoria,  che pure, nel
 preventivo esaurimento della procedura amministrativa, individuerebbe
 una condizione di procedibilita' della domanda, perche' "nel caso  di
 specie  l'interlocutore del ricorrente e' sempre lo stesso ..e quindi
 la fase amministrativa non puo' offrire alcuna eventualita'  in  piu'
 rispetto  a  quelle che possono emergere in fase conciliativa davanti
 al pretore del lavoro".
    La norma inoltre violerebbe anche  il  principio  di  uguaglianza,
 poiche'  non potrebbe trovarsi alcuna giustificazione alla disparita'
 di trattamento tra il ricorrente in una causa di lavoro (che  sarebbe
 penalizzato  dalla  detta condizione di procedibilita') e l'attore in
 una   causa   ordinaria   (che   cosi'   risulterebbe   avvantaggiato
 dall'assenza di simili ostacoli procedurali).
    3.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei ministri a
 mezzo dell'Avvocatura dello Stato ed ha chiesto  la  declaratoria  di
 non fondatezza della questione con ordinanza.
    L'Avvocatura    ha   sostanzialmente   argomentato   soltanto   in
 riferimento al profilo relativo all'art. 24 della Costituzione. E  ha
 sostenuto  che  la legge n. 108 del 1990, mentre pone le premesse per
 un aumento delle controversie, ha,  di  contro,  costruito  anche  un
 filtro  volto  ad  evitare  un eccessivo sovraccarico della giustizia
 civile, in crisi di  efficienza,  con  il  pregiudizio  delle  stesse
 posizioni tutelate. In questa direzione il tentativo di conciliazione
 giudiziale  ex  art.  420  codice di procedura civile non e' idoneo a
 soddisfare  le  esigenze  di  celerita'  processuale,   presupponendo
 l'incardinamento  del  processo  e,  quindi,  lo  svolgimento  di una
 faticosa attivita' a cura del giudice.
    L'Avvocatura ha cosi' ricordato la giurisprudenza della Corte  che
 ha piu' volte affermato la legittimita' di quella legge che subordina
 "l'esercizio  dei  diritti  a  controlli  o  condizioni,  purche' non
 vengano imposti oneri o  modalita'  tali  da  rendere  impossibile  o
 estremamente  difficile  l'esercizio  del  diritto  di  difesa  o  lo
 svolgimento  dell'attivita'  processuale".  E   in   particolare   ha
 richiamato  l'ordinanza  n.  73  del  1988  con  la quale la Corte ha
 stabilito che il  tentativo  di  conciliazione  riguardo  alle  cause
 agrarie   non   costituisce   "adempimento  vessatorio  di  difficile
 osservanza ne' un'insidiosa complicazione processuale tale da  ledere
 il diritto di difesa dell'attore".
                        Considerato in diritto
    1.  -  E'  stata  sollevata,  in relazione agli artt. 3 e 24 della
 Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5
 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nella parte  in  cui  prevede  il
 tentativo   obbligatorio   di  conciliazione  (secondo  le  procedure
 stabilite dai contratti e accordi collettivi ovvero dagli artt. 410 e
 411 codice di procedura civile)  come  condizione  di  procedibilita'
 dell'azione.
    2. - La questione non e' fondata.
    La  giurisprudenza  di questa Corte e' costante nell'affermare che
 il rigore con cui e'  tutelato  il  diritto  di  azione,  secondo  la
 previsione  dell'art.  24 della Costituzione, non comporta l'assoluta
 immediatezza del suo esperimento (si vedano le  sentenze  n.  47  del
 1964, nn. 56, 83 e 113 del 1963, n. 40 del 1962).
    Se  alcune  limitazioni  tendono,  infatti, ad evitare l'abuso del
 diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno  l'adempimento  di  un
 onere,  lungi  dal  costituire  uno  svantaggio per il titolare della
 pretesa sostanziale,  rappresenta  il  modo  di  soddisfazione  della
 posizione  sostanziale piu' pronto e meno dispendioso (sentenza n. 46
 del  1974).  Evitare  l'abuso,  o  ancor   meglio   l'eccesso   della
 giurisdizione,  in  vista  di  un  interesse  della  stessa  funzione
 giurisdizionale,  e'  stato   sovente   la   ratio   espressa   della
 "giurisdizione  condizionata".  Il principio di economia processuale,
 inteso come piu'  efficace  e  pronta  soluzione  dei  conflitti,  ha
 solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla
 previsione costituzionale del diritto di azione.
    In altri casi, e particolarmente nell'esame degli oneri imposti ai
 lavoratori  nell'esperimento dei rimedi giurisdizionali nei confronti
 di enti pubblici, questa Corte ha piu' volte giustificato  gli  oneri
 previsti dalle norme impugnate ove posti a salvaguardia di "interessi
 generali"  non  contrastanti con i diritti costituzionali di azione e
 di difesa ( cfr. le sentenze n. 57 del 1972, n. 47 del 1964,  n.  113
 del 1963, n. 83 del 1963).
    3.  -  In dottrina si e' negato, per vero, che mere tecniche endo-
 processuali, ispirate a principi d'economia, possano fornire adeguato
 fondamento  alle  limitazioni  ed  ai  condizionamenti  del   diritto
 d'azione.  L'amministrazione  della  giustizia,  infatti, non avrebbe
 carattere  costituzionale  o,  comunque,  ai   suoi   interessi   non
 potrebbero  essere  sacrificate  altre  esigenze  di pari o superiore
 rilevanza.   In   tal   modo   si    ridurrebbero    fortemente    ed
 ingiustificatamente le garanzie del cittadino, specie dove il ricorso
 a   forme  rudimentali  di  procedimenti  contenziosi,  simulanti  il
 processo "giustiziale", renderebbe il ruolo  del  giudice  del  tutto
 subordinato  o  sussidiario.  Ma  cosi'  si  rischia  di  svilire  la
 soluzione tecnica da tempo proposta da  questa  Corte  in  ordine  al
 concreto  punto  di equilibrio tra l'effettiva garanzia dell'azione e
 il limite al suo condizionamento. E non si  tiene  nel  dovuto  conto
 l'inversione  di tendenza operata dal legislatore, che con la riforma
 del processo del lavoro ha abrogato il vecchio  art.  460  codice  di
 procedura  civile,  e ha sostituito l'improcedibilita' all'originaria
 improponibilita'   della   domanda,   conciliando   "l'inviolabilita'
 dell'accesso  alle  Corti"  con  le  finalita'  della  "giurisdizione
 condizionata".
    4.  -  Gia'  la  sentenza n. 57 del 23 marzo 1972 aveva dichiarato
 l'illegittimita' costituzionale della norma impugnata  (nella  specie
 l'art.  10  del  regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148) nella parte in
 cui sanciva l'improponibilita' dell'azione  giudiziaria  in  caso  di
 mancata  o  tardiva  presentazione  del  reclamo  gerarchico  per  le
 controversie di lavoro aventi per  oggetto  diritti  patrimoniali.  E
 nella  stessa  linea si era iscritta la pronuncia n. 93 del 12 luglio
 1979 (dichiarando l'illegittimita' costituzionale dello  stesso  art.
 10  del  regio  decreto 8 gennaio 1931, n. 148, come modificato dalla
 legge n. 633 del 1957, "nella parte in cui dispone l'improponibilita'
 e non la improcedibilita' dell'azione giudiziaria in caso di  mancata
 o  tardiva  presentazione  del  reclamo gerarchico nelle controversie
 aventi  ad  oggetto  il  riconoscimento  della  qualifica"  e  "nelle
 controversie  aventi  ad oggetto l'accertamento di ogni altro diritto
 "non esclusivamente patrimoniale" diverso da" quelli sopra indicati).
    Cio' che caratterizza queste pronuncie e' il fatto che gli oneri e
 le modalita' che condizionano  l'esercizio  dell'azione  non  debbono
 tradursi   in   una   secca   subordinazione  dell'azione  al  previo
 esperimento di una diversa tutela non  giurisdizionale,  costringendo
 il  singolo,  in  un  primo  tempo,  a  rivolgersi  ad  un organo non
 giudiziale.
    5. - La strada seguita dal legislatore con la legge n.  108  dell'
 11  maggio 1990 ha fatto tesoro di queste indicazioni (come si evince
 dalla relazione ad una delle proposte di legge e da alcuni interventi
 nel corso dei lavori parlamentari). Infatti, la mancata richiesta  di
 conciliazione, avanzata secondo le procedure previste dai contratti e
 accordi  collettivi  di  lavoro o dagli artt. 410 e 411 del codice di
 procedura civile, non impedisce la proposizione dell'azione che cosi'
 rischia  soltanto  la  sanzione  dell'improcedibilita',  praticamente
 equivalente  alla  sospensione  del giudizio ed alla fissazione di un
 termine perentorio (non superiore a 60 giorni)  per  la  proposizione
 della  richiesta del tentativo di conciliazione e di un altro termine
 (del pari perentorio) per la  riassunzione  entro  180  giorni  dalla
 cessazione della causa di sospensione.
    Ne'  appare  suscettibile  di  censure  la mancata previsione d'un
 termine entro il quale deve esaurirsi il  procedimento  conciliativo.
 Perche'  la  domanda  sia  procedibile  e' infatti sufficiente che la
 richiesta sia stata inoltrata, qualunque sia il suo  destino.  E  non
 v'e'  dubbio  che  la mera richiesta di conciliazione non comporta un
 tempo seriamente apprezzabile.
    La mancanza d'un riferimento temporale (esaurimento del  tentativo
 di  conciliazione,  inutile  decorso  d'un  termine  massimo di legge
 prefissato, ecc.) puo'  ben  essere  risolto  in  via  interpretativa
 ritenendo  l'evento  integrato dalla semplice richiesta del tentativo
 di conciliazione. Spettera' poi al giudice definire  la  controversia
 tenendo  conto  di  un  accordo  intervenuto  medio tempore (sia esso
 munito o meno del decreto di esecutivita') oppure senza di esso.
    In  questo  senso  appare  del  tutto  priva  di   fondamento   la
 preoccupazione   espressa  nell'ordinanza  di  remissione  circa  una
 duplicazione   di   tempi   fra   il   tentativo   di   conciliazione
 stragiudiziale  e  quello  giudiziale,  fra loro pur diversissimi per
 funzione e significato.
    6. - La ragione giustificatrice  del  condizionamento  dell'azione
 negli  indicati  termini,  secondo  l'orientamento  consolidato della
 Corte, puo' ben essere ravvisata nell'esigenza di " evitare abusi  od
 eccessi,  o  salvaguardare  interessi  generali"  (sentenza n. 57 del
 1972).   Ma   non   puo',   tale   motivo,   essere  disgiunto  dalla
 considerazione   di   specifiche   ragioni   giustificatrici    della
 limitazione  del  diritto  di azione nell'alternativa che, in armonia
 con  altro  principio   costituzionale,   la   legge   n.   108   da'
 all'imprenditore   consentendogli   la   scelta  fra  riassunzione  e
 monetizzazione.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  5  della  legge  11  maggio  1990,  n. 108 (Disciplina dei
 licenziamenti individuali) in riferimento agli artt.  3  e  24  della
 Costituzione,  sollevata  dal  Pretore  di  Milano con l'ordinanza in
 epigrafe.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 19 febbraio 1992.
                       Il Presidente: CORASANITI
                         Il redattore: GUIZZI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 4 marzo 1992.
                       Il cancelliere: DI PAOLA
 92C0278