N. 92 SENTENZA 21 febbraio - 9 marzo 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale - Tribunale - G.I.P. - Giudizio abbreviato - Dissenso
 del  p.m.  -  Motivazione  con  l'impossibilita'  di  definizione del
 processo allo stato degli  atti  -  Limiti  al  giudice  dell'udienza
 preliminare  -  Richiamo  alle sentenze della Corte nn. 81/1991, 66 e
 183 del 1990 e 23/1992 - Previsione della integrazione probatoria  di
 cui  all'art.  422  del  c.p.p.  -  Richiesta  di sentenza additiva -
 Discrezionalita' legislativa - Inammissibilita'.
 
 (c.d. artt. 438, 439 e 440 del c.p.p.).
 
 (Cost., artt. 3 e 25).
(GU n.12 del 18-3-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele PESCATORE,  avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco  Paolo
    CASAVOLA,  prof.  Antonio  BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,
    avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.
    Renato  GRANATA,  prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale  del  combinato  disposto
 degli  artt.  438, 439 e 440 del codice di procedura penale, promosso
 con ordinanza emessa il 15 aprile 1991 dal Giudice  per  le  indagini
 preliminari  presso  il Tribunale di Torino nel procedimento penale a
 carico di Scattaretica Salvatore ed altri, iscritta  al  n.  447  del
 registro  ordinanze  1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1991;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel   corso   di   un'udienza   preliminare   nella   quale
 l'instaurazione  del  giudizio  abbreviato chiesta dagli imputati era
 stata preclusa dal dissenso  del  pubblico  ministero,  motivato  con
 l'indecidibilita'  allo stato degli atti (per l'esigenza di acquisire
 al dibattimento le deposizioni testimoniali del personale di  polizia
 giudiziaria che aveva proceduto all'arresto ed al sequestro del corpo
 di reato), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
 di  Torino,  con  ordinanza  del  15  aprile  1991,  ha sollevato, su
 eccezione della difesa, in riferimento agli artt.  3  e  25,  secondo
 comma,  Cost.,  una  questione  di  legittimita'  costituzionale  del
 "combinato disposto  degli  artt.  438,  439  e  440  del  codice  di
 procedura  penale,  nella  parte  in  cui non prevede che, in caso di
 dissenso del pubblico ministero, motivato con l'impossibilita' che il
 processo sia definito allo stato degli atti, il giudice  dell'udienza
 preliminare che ritiene che l'impossibilita' addotta dipende da fatto
 rimediabile  dello stesso pubblico ministero, non possa indicare alle
 parti i temi incompleti  sui  quali  si  rende  necessario  acquisire
 ulteriori  informazioni  ai  fini  della  decisione  in  ordine  alla
 possibilita' di definire il processo allo stato degli atti".
    Il giudice rimettente osserva innanzitutto, in punto di rilevanza,
 che il dissenso del pubblico  ministero  motivato  dall'insufficienza
 delle  indagini  preliminari  non  potrebbe,  ove questa fosse reale,
 ritenersi ingiustificato, sicche' in  tal  caso  non  potrebbe  farsi
 luogo  all'applicazione, in esito al dibattimento, della riduzione di
 pena di cui all'art. 442, secondo comma, cod.  proc.  pen.,  prevista
 nella sentenza di questa Corte n. 81 del 1991.
    Rileva,  poi, che le indagini preliminari sono finalizzate solo ad
 una delibazione della notitia criminis onde  configurarla  entro  una
 precisa  imputazione  a  scegliere  il tipo di domanda da proporre al
 giudice competente (art. 326 cod. proc. pen. e direttiva n. 37  della
 legge  delega);  con  la  conseguenza  che dall'obbligo di imparziale
 applicazione della legge e dai principi di cui agli artt. 104  e  107
 Cost.  non  puo'  farsi  discendere  il  potere-dovere  del  pubblico
 ministero di svolgere tutte le ulteriori indagini utili a  consentire
 la definizione anticipata del processo mediante il rito abbreviato.
    Tuttavia, poiche' il compimento di indagini non sufficienti a tale
 fine  puo'  -  come nella specie - dipendere da una scelta volontaria
 del pubblico ministero e ricollegarsi ad  una  strategia  processuale
 non   sindacabile   dai   giudici   dell'udienza  preliminare  o  del
 dibattimento, e' in tal caso ravvisabile, secondo il giudice  a  quo,
 una violazione del principio di uguaglianza: sia per la disparita' di
 trattamento che - in termini di privazione della riduzione di pena di
 cui  all'art. 442 cod. proc. pen. - consegue alla scelta del pubblico
 ministero  di  svolgere  o  non  svolgere,  in  casi  sostanzialmente
 identici,   indagini   sufficienti  al  predetto  fine;  sia  per  la
 correlativa lesione del principio di parita' tra accusa e difesa, non
 sanabile con le investigazioni difensive di  cui  all'art.  38  disp.
 att.  cod.  proc.  pen., in quanto i poteri del difensore al riguardo
 sono piu' limitati di quelli del pubblico ministero.
    Nella medesima ipotesi, sarebbe violato, inoltre, il principio  di
 legalita'  della  pena  (art. 25, secondo comma, Cost.), in quanto la
 scelta del pubblico ministero di non  svolgere  indagini  sufficienti
 alla  definizione  del  processo  allo  stato  degli  atti vincola il
 giudice a non concedere, in caso di condanna, la  predetta  riduzione
 di  pena.  Ne'  tale  soggezione  alle  scelte del pubblico ministero
 potrebbe  dirsi  esclusa  dalla  facolta'  del  giudice  dell'udienza
 preliminare  di  dare  ingresso  all'integrazione probatoria prevista
 dall'art.  422  cod.  proc.  pen.,  dato  che  questa   facolta'   e'
 rigorosamente  limitata  a quanto sia manifestamente decisivo ai fini
 del rinvio a giudizio o del non luogo a procedere e non  puo'  quindi
 estendersi  alle attivita' di integrazione dello stato degli atti che
 appaiano  necessarie  per  definire  il processo. Donde l'esigenza di
 introdurre, sulla  falsariga  del  citato  art.  422  -  in  caso  di
 insufficienza  rimediabile  delle  indagini  preliminari - un potere-
 dovere del giudice di indicare  alle  parti,  ed  in  particolare  al
 pubblico ministero, i temi da questi lasciati incompleti sui quali e'
 necessario acquisire ulteriori informazioni al fine di poter definire
 il processo allo stato degli atti.
    2.  -  Il  Presidente  del Consiglio dei ministri, rappresentato e
 difeso dall'Avvocatura  Generale  dello  Stato,  ha  chiesto  che  la
 questione sia dichiarata infondata.
    L'Avvocatura  ricorda  che,  nella sentenza n. 81 del 1991, questa
 Corte ha espressamente affermato che il controllo  sul  dissenso  del
 pubblico  ministero  al  giudizio  abbreviato  "non puo' trovar posto
 all'interno  dell'udienza  preliminare  e,  quindi,  non  puo'  venir
 affidato  al  giudice  preposto ad essa, perche' cio' significherebbe
 adottare un rito  speciale  contro  le  determinazioni  del  pubblico
 ministero";  ed  ha,  inoltre,  precisato i limiti entro i quali deve
 esercitarsi il controllo suddetto, individuandone  la  funzione  "nel
 dare  al  giudice  del dibattimento la possibilita' di far luogo alla
 riduzione della pena allorquando il dissenso del  pubblico  ministero
 gli  risulti  ingiustificato"  e  indicando  il  parametro per il suo
 concreto esercizio nella valutazione della  "effettiva  utilita'  del
 passaggio  al  dibattimento"  secondo il criterio della decidibilita'
 allo stato degli atti.
    La tesi  del  giudice  rimettente  e',  secondo  l'Avvocatura,  in
 contrasto con tali enunciazioni, perche' comporterebbe l'attribuzione
 ad  un giudice non investito di plena iurisdictio del sindacato sulle
 scelte investigative del pubblico ministero ai fini  della  decisione
 di merito anziche' del rinvio a giudizio e si risolverebbe percio' in
 un'ingiustificata  ingerenza  nella  sfera  di  autonomia dell'organo
 dell'accusa  inerente  la  scelta  del   rito   e   della   strategia
 processuale.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Con  l'ordinanza  indicata  in  epigrafe, il Giudice per le
 indagini  preliminari  presso  il  Tribunale  di  Torino  dubita,  in
 riferimento   agli   artt.   3   e   25   Cost.,  della  legittimita'
 costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 cod.
 proc. pen. Tali disposizioni sono impugnate nella parte  in  cui  non
 prevedono   che   -   qualora  il  dissenso  del  pubblico  ministero
 all'introduzione del giudizio abbreviato  chiesto  dall'imputato  sia
 motivato con l'impossibilita' che il processo sia definito allo stato
 degli  atti  -  il  giudice  dell'udienza  preliminare,  che  ritenga
 l'impossibilita' addotta dipendente da fatto rimediabile dello stesso
 pubblico  ministero,  possa  indicare  alle  parti  i  temi  lasciati
 incompleti,   sui  quali  si  rende  necessario  acquisire  ulteriori
 informazioni ai fini della decisione in ordine alla  possibilita'  di
 definire  il  processo allo stato degli atti; e cio', sulla falsariga
 del meccanismo di integrazione probatoria previsto dall'art. 422 cod.
 proc. pen.
    Il pubblico ministero  -  osserva  il  giudice  a  quo  -  non  e'
 istituzionalmente  tenuto a compiere indagini sufficienti al suddetto
 fine (cfr. art. 326 cod. proc. pen.), ed il  compierle  o  meno  puo'
 dipendere  da una sua scelta volontaria e ricollegarsi alla strategia
 processuale  da  lui  perseguita.  Questa,  d'altra  parte,  non   e'
 sindacabile  dai giudici del dibattimento o dell'udienza preliminare;
 ne'  questi   puo'   porre   rimedio   all'insufficienza   disponendo
 l'integrazione  probatoria  di cui all'art. 422 cod. proc. pen., dato
 che essa  e'  rigorosamente  limitata  a  quanto  sia  manifestamente
 decisivo ai fini del rinvio a giudizio o del proscioglimento.
    Percio',  sotto  il  profilo  della riduzione di pena che consegue
 all'esperimento del giudizio abbreviato (art. 442 cod.  proc.  pen.),
 ne  deriverebbe  una violazione, sia del principio d'uguaglianza, per
 la disparita' di trattamento di situazioni identiche dipendente dalle
 scelte del pubblico  ministero  e  per  la  correlativa  lesione  del
 principio  di  parita'  tra  accusa  e  difesa;  sia del principio di
 legalita'  della  pena  (art.  25  Cost.),  perche'  da  tali  scelte
 dipenderebbe  la possibilita' per il giudice di concedere la predetta
 riduzione di pena.
    2. - L'Avvocatura dello Stato sostiene che la prospettiva indicata
 dal giudice  a  quo  non  dovrebbe  trovare  accoglimento  perche'  -
 comportando  un'ingerenza  del giudice dell'udienza preliminare nelle
 determinazioni del pubblico ministero concernenti la scelta del  rito
 e  la  strategia  processuale  -  si  porrebbe  in  contrasto  con le
 enunciazioni della sentenza di  questa  Corte  n.  81  del  1991;  in
 particolare,  con  quella  secondo  cui il controllo sul dissenso del
 pubblico ministero non puo' essere affidato a tale  giudice  "perche'
 cio'   significherebbe   adottare   un   rito   speciale   contro  le
 determinazioni del pubblico ministero" e va, invece,  effettuato  dal
 giudice  del  dibattimento  - secondo il criterio della decidibilita'
 allo stato degli atti - in quanto e' funzionale solo a consentire  la
 riduzione di pena ove il dissenso risulti ingiustificato.
    Tali  rilievi  non  persuadono,  perche' sono insufficienti a dare
 soluzione al quesito centrale posto dall'ordinanza di rimessione.
    Nella citata sentenza n. 81  del  1991,  cosi'  come  nelle  altre
 precedenti  sentenze sull'argomento (nn. 66 e 183 del 1990), occorre,
 invero,   distinguere   la   ragione   fondante   della    dichiarata
 incostituzionalita'   delle   norme  sull'introduzione  del  giudizio
 abbreviato, da quelle statuizioni additive che - essendo  fondate  su
 valutazioni  condotte alla stregua del principio di uguaglianza - non
 potevano che ispirarsi a criteri di armonizzazione con la  disciplina
 assunta  a  parametro ed essere, quindi, inevitabilmente condizionate
 dai dati emergenti dal sistema positivo. Donde il valore relativo  di
 tali statuizioni, che non possono definirsi vincolanti in un contesto
 normativo  diverso  ne',  tanto  meno,  precludere  il  raffronto coi
 principi  costituzionali   di   disposizioni   cui   esse   risultino
 inapplicabili.
    Il  nucleo  essenziale  di  tali  decisioni sta nel riconoscimento
 dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale  fondato  sui
 principi  di uguaglianza e di legalita' della pena, di una disciplina
 che  affida(va)  a  scelte  discrezionali  -  immotivate  e,  quindi,
 insindacabili  - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un
 rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti  effetti  sulla
 determinazione della pena.
    Piu'  di  recente,  poi,  l'interesse  dell'imputato  ed, insieme,
 dell'ordinamento a che le determinazioni incidenti sulla misura della
 pena siano soggette a controllo giurisdizionale e' stato riconosciuto
 - a garanzia anche del diritto di difesa -  pure  rispetto  a  quelle
 adottate  dallo  stesso  giudice dell'udienza preliminare in punto di
 decidibilita'  "allo  stato  degli  atti"  (sentenza n. 23 del 1992).
 Analogamente, la necessita' che non sia rimessa a scelte delle parti,
 ma riservata al giudice la decisione sulla congruita' della  pena  e'
 stata  sancita  -  ai  fini del rispetto dell'art. 27, secondo comma,
 Cost. - anche nei confronti del consimile rito  dell'applicazione  di
 pena su richiesta (sentenza n. 313 del 1990).
    Dall'incostituzionalita'    di    una    disciplina   fondata   su
 determinazioni insindacabili del pubblico ministero e'  scaturita  la
 necessita'  di  introdurre su di esse un controllo giurisdizionale e,
 conseguentemente, di individuare i  criteri  oggettivi  su  cui  esse
 potevano  fondarsi  e la sede del controllo: cio' che e' avvenuto non
 in  diretta  applicazione  degli  specifici  principi  costituzionali
 attinenti alla materia considerata, ma secondo criteri di adeguamento
 desunti dall'interpretazione del sistema positivo.
    Cosi' e' a dire, innanzitutto, per il criterio (decidibilita' allo
 stato  degli  atti)  cui  si  e'  ancorato  il  dissenso del pubblico
 ministero: che e' stato individuato - "al momento", e senza escludere
 che da parte del legislatore "siano enucleabili criteri ulteriori"  -
 attraverso  il "confronto con i poteri conferiti al giudice dall'art.
 440, primo comma" (sentenza n. 81 del 1991, par. 6).
    Altrettanto vale per l'individuazione nel giudice del dibattimento
 del soggetto abilitato a controllare il dissenso. Nella  sentenza  n.
 66  del  1990 (par. 8), cio' e' avvenuto per uniformare la disciplina
 transitoria del rito abbreviato a quella dell'analogo rito -  dedotto
 a  termine di raffronto - dell'applicazione di pena su richiesta, ove
 detto potere e' appunto attribuito al  giudice  dibattimentale  (art.
 448,  primo  comma).  Nella  sentenza n. 81 del 1991, poi, l'identica
 soluzione e' stata fondata sulla considerazione che,  affidando  tale
 potere  al  giudice dell'udienza preliminare, si sarebbe pervenuti ad
 "adottare un rito speciale  contro  le  determinazioni  del  pubblico
 ministero",  mentre  e'  "in  armonia  con le normali prerogative del
 pubblico ministero" disegnate dal nuovo codice  che  la  "scelta  del
 rito  processuale"  sia  a  lui riservata (parr. 5 e 6). Anche in tal
 caso, quindi, si e' operata non una ricognizione astratta dei  poteri
 costituzionalmente  riservati  al pubblico ministero, ma una doverosa
 armonizzazione ai principi del concreto sistema processuale vigente.
    3. - Tanto premesso, si deve osservare che,  rispetto  ai  quesiti
 risolti  con le precedenti decisioni in materia, quello su cui va qui
 condotta l'indagine presenta un decisivo carattere differenziale:  di
 non   potere,   cioe',   trovare  risposta  attraverso  le  soluzioni
 adeguatrici in esse precisate.
    Resta evidentemente fermo, e va anzi ribadito, che l'introduzione,
 o meno, di un rito avente  automatici  effetti  sulla  determinazione
 della  pena  non  puo'  farsi  dipendere  da scelte discrezionali del
 pubblico ministero. Tali sono, indubbiamente,  quelle  con  le  quali
 costui  decide  quali,  e  quante, indagini esperire per porle a base
 della richiesta di rinvio a giudizio  e,  piu'  in  generale,  quelle
 connesse  alla  sua  strategia  processuale:  la  quale  puo'  fargli
 preferire - in quanto li ritenga  non  necessari  a  tal  fine  -  di
 rinviare   al   dibattimento   l'esperimento   di   certi   mezzi   o
 l'acquisizione di determinate prove.
    Rispetto al giudizio  abbreviato,  cio'  comporta  l'inaccettabile
 paradosso   per   cui   il  pubblico  ministero  puo'  legittimamente
 precluderne l'instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso
 discrezionalmente determinate. Sicche', una volta  affermato  che  un
 mero  atto  di  volonta' del pubblico ministero non puo' condizionare
 l'interesse dell'ordinamento alla semplificazione del rito  e  quello
 dell'imputato  alla  riduzione  della pena, deve trarsi il corollario
 che tale condizionamento non puo' farsi derivare neanche da  un  atto
 di  volonta'  (implicita)  concretatisi nello svolgimento di indagini
 insufficienti alla decidibilita' con giudizio abbreviato.
    Rispetto alle suddette  scelte  del  pubblico  ministero,  d'altra
 parte, un sindacato giurisdizionale del tipo di quello introdotto con
 le precedenti decisioni non e' concretamente possibile.
    Innanzitutto,  la  natura eminentemente soggettiva e discrezionale
 di  tali  scelte  comporta  che  analoghe  caratteristiche  finirebbe
 fatalmente  per  avere  il  sindacato  del  giudice.  Inoltre, questo
 sarebbe privo di fondamento normativo nel sistema vigente,  dato  che
 le  indagini  preliminari  sono  finalizzate,  non ad un accertamento
 pieno, ma all'acquisizione  di  quanto  e'  necessario  all'esercizio
 dell'azione  penale (art. 326) e che la loro (relativa) "completezza"
 (cfr. sentenza n. 88 del 1991) va misurata su  quest'ultimo  metro  e
 non sul primo.
    Per  altro verso, l'insufficienza dell'investigazione del pubblico
 ministero rispetto al fine in discorso non e' colmabile attraverso il
 potere di integrazione attribuito al giudice dell'udienza preliminare
 dall'art. 422 cod. proc. pen., dato che il suo  esercizio  -  pur  se
 puo'   indirettamente   contribuire  all'acquisizione  di  un  quadro
 probatorio sufficiente alla decisione "allo stato degli  atti"  -  e'
 rigorosamente  delimitato  dal  ben  diverso ed esclusivo scopo della
 raccolta, con un numero circoscritto di mezzi, di quelle  sole  prove
 che  siano  "manifestamente decisive" ai fini del rinvio a giudizio o
 del proscioglimento e che percio' possono non coincidere  con  quelle
 necessarie per una decisione allo stato degli atti.
    4.  -  Escluso,  quindi,  che si possano ricavare dall'ordinamento
 vigente correttivi idonei a sanare la situazione qui evidenziata,  e'
 percio' necessario, al fine di ricondurre l'istituto a piena sintonia
 con  i principi costituzionali, che il vincolo derivante dalle scelte
 del pubblico ministero sia reso superabile con l'introduzione  di  un
 meccanismo di integrazione probatoria.
    Al  riguardo,  e'  innanzitutto da osservare che, nel quadro della
 generale  finalita'  di   semplificare   il   processo   ed   evitare
 dibattimenti   non  necessari,  un'integrazione  probatoria  e'  gia'
 prevista, dall'art. 422, al  piu'  limitato  fine  di  consentire  la
 decisione  circa  il  rinvio a giudizio o il proscioglimento; sicche'
 non appare coerente che essa sia esclusa quando le medesime finalita'
 sono perseguite introducendo un procedimento che si conclude con  una
 decisione di merito.
    In  secondo  luogo,  si  deve  rilevare  che la configurazione del
 giudizio abbreviato come giudizio  "a  prova  contratta",  -  basato,
 cioe',  su  uno  scambio  in  cui  la  riduzione  di pena non ha come
 contropartita il solo interesse dell'ordinamento alla semplificazione
 attraverso  la  rinuncia  dell'imputato   al   dibattimento   ed   il
 riconoscimento  del  valore  di  prova  agli  elementi  acquisiti dal
 pubblico ministero, ma richiede, in piu', la rinuncia al  diritto  ad
 eventuali  allegazioni  difensive  -  non  e'  affatto  un  connotato
 ineliminabile di tale giudizio.
    Si   deve,  infatti,  sottolineare  che  un  modello  di  giudizio
 abbreviato che consente un'integrazione probatoria  e'  positivamente
 previsto,  nello  stesso  codice,  per  il caso di trasformazione del
 giudizio direttissimo  in  giudizio  abbreviato  (art.  452,  secondo
 comma):  integrazione che per di piu', in tale ipotesi non soggiace -
 almeno  secondo  l'interpretazione   prevalente   -   a   particolari
 limitazioni,  dato  che  tale  disposizione  richiama l'art. 422 solo
 quanto alle forme, e non anche ai  limiti  concernenti  la  tipologia
 degli atti esperibili.
    Puo'  aggiungersi che, secondo autorevole dottrina, la prospettiva
 dell'integrazione probatoria consentirebbe, sia di salvaguardare quel
 nesso di  inscindibilita'  tra  riduzione  della  pena  ed  effettiva
 celebrazione   del   giudizio   abbreviato,   che   questa  Corte  ha
 riconosciuto essere nota caratterizzante il nuovo istituto  (sentenze
 nn.  277  del  1990 e 176 del 1991); sia di superare le problematiche
 che la configurazione data dal legislatore al consenso  del  pubblico
 ministero ha evidenziato sul piano costituzionale.
    5. - Dalle considerazioni sinora svolte emerge chiaramente, pero',
 che  la  problematica  sottesa  alla  questione  in  esame  non  puo'
 risolversi con una pronunzia additiva di questa Corte, ma richiede un
 intervento legislativo.
   Innanzi  tutto  la  soluzione  indicata  dal  giudice  a  quo,   di
 consentire   cioe'   -  in  caso  di  insufficienza  dovuta  a  fatto
 rimediabile  del  pubblico  ministero  -  un'integrazione  probatoria
 nell'ambito dell'udienza preliminare, richiede l'effettuazione di una
 pluralita'  di  scelte sulle modalita' di prospettazione delle prove,
 sui poteri da conferire al giudice, sull'eventuale delimitazione  dei
 mezzi  di  prova  esperibili;  e  per di piu', se contenuta - come il
 medesimo giudice  prospetta  -  nei  limiti  fissati  dall'art.  422,
 richiederebbe  una regolamentazione del regime di utilizzazione degli
 atti compiuti in caso di mancato esperimento del giudizio abbreviato.
    Si tratta, quindi,  anche  indipendentemente  da  una  piu'  ampia
 revisione  dell'istituto,  che collochi tale integrazione all'interno
 del   giudizio   abbreviato,   di   scelte   che   rientrano    nella
 discrezionalita'  del  legislatore,  la  cui urgenza e' resa evidente
 dall'esigenza di ricondurre la normativa impugnata a  piena  coerenza
 con i principi costituzionali.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara   l'inammissibilita'   della   questione  di  legittimita'
 costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440  del
 codice  di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e
 25 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso
 il Tribunale di Torino con ordinanza del 15 aprile 1991.
    Cosi' deciso in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 1992.
                       Il Presidente: CORASANITI
                        Il redattore: SPAGNOLI
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
    Depositata in cancelleria il 9 marzo 1992.
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
 92C0290