N. 250 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 aprile 1992

                                N. 250
    Ordinanza emessa il 1 aprile 1992 dal giudice per le indagini
           preliminari presso il tribunale militare di Roma
            nel procedimento penale a carico di Troya Ciro
 Reati militari - Allontanamento illecito - Ipotesi attenuata
    consistente    nella    semplice   "ritardata   presentazione"   -
    Sottoposizione di tale infrazione, secondo il  giudice  a  quo  di
    carattere   essenzialmente   disciplinare,  a  sanzione  penale  -
    Irragionevolezza  -  Asserito  contrasto  con  il   principio   di
    proporzionalita',  di  offensivita'  del  reato  e  della funzione
    rieducativa della pena - Lamentata  violazione  del  principio  di
    stretta  legalita'  potendo  la  stessa condotta essere punita con
    semplice sanzione disciplinare ove  il  comandante  di  Corpo  non
    intenda procedere penalmente.
 (C.P.M.P., art. 147, secondo comma).
 (Cost., artt. 3, 13, 25 e 27).
(GU n.20 del 13-5-1992 )
                  IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE
    Ha  pronunciato  nell'udienza  preliminare  del 1› aprile 1992, la
 seguente ordinanza nel procedimento n. 56/92, a  carico  del  soldato
 Troja  Ciro,  nato  a  Napoli l'11 maggio 1972, imputato del reato di
 all'ontanamento illecito  (art.  147  del  secondo  comma,  c.p.m.p.)
 "perche',  essendo  in  servizio  alle  armi  presso il 3› btg. Gran.
 'Guardie' in Orvieto, al termine di un periodo di  legittima  assenza
 scadente  il  1› gennaio 1992, ometteva, senza giusto motivo, di fare
 rientro al corpo entro  le  ore  24  dello  stesso  1›  gennaio  1992
 rimanendo  assente  nel  giorno  successivo  e sino al 7 gennaio 1992
 quando si ripresentava al Corpo".
                            FATTO E DIRITTO
    1. - Al  termine  delle  indagini  preliminari  il  p.m.  chiedeva
 l'emissione  del  decreto  che  dispone il giudizio nei confronti del
 soldato Troja Ciro per il reato di allontanamento illecito (art. 147,
 secondo comma, del c.p.m.p.).
    All'udienza l'imputato  e  il  pubblico  ministero  hanno  chiesto
 l'applicazione, ai sensi dell'art. 444 del c.p.p., della pena di mesi
 uno  di reclusione militare (pena base mesi due, ridotta a mesi uno e
 giorni quindici per le attenuanti generiche e, infine, a mesi uno per
 la diminuente di cui allo stesso art. 444 del c.p.p.).
    Questo giudice ritiene anzitutto che sussistono in atti elementi a
 sostegno dell'imputazione, e non  puo'  comunque  essere  pronunciata
 sentenza  di  proscioglimento  a  norma  dell'art.  129  del  c.p.p.;
 corrette si rivelano inoltre la qualificazione giuridica del fatto  e
 l'applicazione delle circostanze prospettate dalle parti.
    Tuttavia la pena richiesta dalle parti - sia pur corrispondente al
 minimo  edittale  previsto per il reato di allontanemento illecito, e
 coincidente, peraltro, con la durata  minima  stabilita  in  assoluto
 dall'art.  26  del  c.p.m.p.  per  la  reclusione militare - non puo'
 essere applicata, in quanto appare, per la sua natura ed entita', del
 tutto sproporzionata, in eccesso, alla gravita' del fatto contestato.
    Poiche' la incongruita' della pena (ritenuta  per  le  ragioni  di
 seguito indicate) discende in questo caso non dalla valutazione delle
 parti,  ma  dagli  stessi limiti edittali fissati dal legislatore, e,
 prima ancora, dall'aver lo stesso legislatore stabilito per il  reato
 in  oggetto  una  sanzione penale, piuttosto che disciplinare, questo
 giudice non  puo'  limitarsi  a  respingere  la  richiesta,  ma  deve
 sollevare  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147,
 secondo comma, del c.p.m.p. in relazione agli artt. 2, 13, 25  e  27,
 terzo comma, della Costituzione.
    2.  -  Prima  di  passare  ad  esaminare  il merito dei richiamati
 profili di costituzionalita', appare  utile  dedicare  qualche  cenno
 alla genesi del citato art. 147, secondo comma, del c.p.m.p.
    Nei codici penali militari per l'Esercito e per la Marina del 1869
 (vigenti  fino  al  1941)  non  era  previsto un reato corrispondente
 all'attuale fattispecie di cui all'art. 147, secondo comma. Gli  art.
 138  e 139 del cod. pen. es. prevedevano, in tema di reati di assenza
 dal  servizio,  soltanto  il  reato  di  diserzione,  nella   duplice
 tradizionale   configurazione   della  diserzione  di  pieno  diritto
 (condotta definita attualmente come "allontanamento") e della mancata
 presentazione dopo un'assenza  legittima.  Il  termine  di  rilevanza
 penale  dell'assenza  era  stabilito  in  entrambi  i  casi in cinque
 giorni; tuttavia, ma solo per la diserzione  di  pieno  diritto,  era
 stabilito  che  il comandante di corpo potesse "dichiarare disertore"
 il  militare   assente   dopo   ventiquattro   ore.   Proprio   nella
 "dichiarazione di diserzione" si e' ravvisato da parte della dottrina
 l'antecedente storico della procedibilita' a richiesta del Comandante
 di  corpo  del  reato  di  allontanamento  illecito,  ritenendosi che
 l'allontanamento  illecito  altro  non  e'  che  "la   trasformazione
 nominalistica  della diserzione dichiarata dal Comandante secondo gli
 abrogati codici militari". Ma tale assunto non interessa ai fini  del
 presente  giudizio di costituzionalita', dato che esso puo' riferirsi
 solo alla fattispecie di cui all'art. 147, primo comma,  che  non  e'
 qui  in  discussione. La dichiarazione di diserzione non era prevista
 infatti nel caso di mancato rientro da un'assenza legittima (art. 139
 del cod. pen. es.).
    In definitiva, i fatti adesso compresi nella fattispecie in  esame
 (art.  147,  secondo  comma)  erano  secondo i codici penali militari
 previgenti sempre e soltanto passibili di sanzioni  disciplinari  (in
 proposito  si  veda  anche  Manzini, Diritto penale militare, Padova,
 1932, p. 212).
    Le ragioni per l'introduzione nella legislazione  penale  militare
 del  reato  di  allontanamento  illecito  sono  espresse  nei  lavori
 preparatori  dei  codici  penali  militari  del  1941.  Cosi',  nella
 relazione  al  progetto  preliminare, pubblicata nel 1938, si precisa
 anzitutto che l'introduzione del reato  di  allontanamento  illecito,
 non  contemplato  dai  codici  (allora)  vigenti,  appare necessaria,
 ritenendosi che gia' un'assenza protrattasi per due giorni  (indicata
 come   rilevante   nel  progetto  preliminare)  fosse  "indubbiamente
 apprezzabile per il danno che puo' derivarne al servizio".
    Si  ricorda  poi  un  progetto  senatorio  del  1907  (il   quale,
 stabilendo  in  cinque  giorni  il  tempo  per incorrere nel reato di
 allontanamento illecito "veniva ad allentare i freni") e  si  esprime
 l'intendimento  "cui  e' ispirato il testo attuale, di rendere cioe',
 in tempo di pace, piu'  rigorosa  la  disciplina  delle  assenze  dal
 servizio".   Il   rigore   della  disciplina  prevista  nel  progetto
 preliminare e poi nel progetto definitivo del codice penale  militare
 di  pace  (in  cui  manteneva rilievo penale un'assenza protratta per
 almeno  due  giorni)  veniva  poi  ulteriormente  e   definitivamente
 aggravato  con  l'approvazione del codice penale militare di pace del
 1941, in cui il periodo di assenza penalmente rilevante era  indicato
 in un giorno.
    Al  termine  di  questa  breve digressione storico-normativa, puo'
 essere  formulata  una  prima  osservazione:  la  norma   della   cui
 legittimita'  costituzionale  si  dubita,  punisce  non solo condotte
 penalmente irrilevanti nel Regno d'Italia dal 1869 al 1941, ma  anche
 condotte  (assenze  dal  corpo di un giorno) che non avrebbero dovuto
 costituire   reato   nemmeno  secondo  i  rigorosi  intendimenti  dei
 compilatori dei progetti, preliminare e definitivo, del codice penale
 militare di pace.
    Ne' puo' essere sostenuto che vi fosse allora scarsa  sensibilita'
 alla  esigenza  di  tutelare l'interese inerente alla prestazione del
 servizio militare.
    Ovviamente le suddette osservazioni avrebbero rilievo solo sul pi-
 ano della politica  legislativa,  estraneo  a  questa  sede,  se  non
 potessero  trovare  sviluppo  nella  puntuale  rilevazione di vizi di
 legittimita' costituzionale. Va  peraltro  rilevato  che  l'art.  147
 prevede, sotto l'unico nomen iuris di allontanamento illecito, sia il
 fatto  del  vero  e  proprio  "allontanamento"  (primo comma) sia, al
 secondo comma, il fatto che gia' e' stato individuato  e  continuera'
 ad  essere  definito come "ritardata presentazione" e che costituisce
 oggetto della presente questione di costituzionalita'.
    3. - Il primo e fondamentale principio di rilevanza costituzionale
 che  fa  apparire  illegittima  la  previsione  di   un   trattamento
 sanzionatorio  penale per i ritardi di breve durata (da uno a quattro
 giorni) nella presentazione al corpo e' il principio della necessaria
 proporzione fra gravita' del fatto e conseguenze sanzionatorie. Sulla
 rilevanza costituzionale di tale principio, ai  sensi  dell'art.  27,
 terzo comma della Costituzione non sembrano sussistere dubbi.
    Cosi',  nella  circolare  19  dicembre  1983  della Presidenza del
 Consiglio dei ministri, su "Criteri orientativi  per  la  scelta  tra
 sanzioni  penali  e  sanzioni  amministrative",  si  afferma  che  il
 principio   di    proporzione    "puo'    ritenersi    implicitamente
 costituzionalizzato,  per  il  diritto  penale,  dall'art.  27, terzo
 comma, della Costituzione, non  potendosi  perseguire  alcuna  azione
 rieducativa mediante un trattamento sanzionatorio sproporzionato alla
 gravita' del fatto".
    In  termini  ancora piu' espliciti la Corte costituzionale - nella
 sentenza 26 giugno 1990,  n.  313,  che  ha  dichiarato  la  parziale
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  444 del c.p.p. - dopo aver
 esaminato in modo approfondito il  significato  dell'art.  27,  terzo
 comma,  nel nostro ordinamento costituzionale, ha concluso che "se la
 finalita'  rieducativa  venisse   limitata   alla   fase   esecutiva,
 rischierebbe  grave  compromissione  ogni  qualvolta  specie e durata
 della sanzione non fossero state calibrate ne' in sede normativa  ne'
 in  quella  applicativa alle necessita' rieducative del soggetto.  ..
 Dev'essere, dunque, esplicitamente ribadito che il precetto di cui al
 terzo comma  dell'art.  27  della  Costituzione  vale  tanto  per  il
 legislatore  quanto  per  i  giudici  della cognizione, oltre che per
 quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche'  per  le  stesse
 autorita' penitenziarie".
    Naturalmente,   la   rilevanza  costituzionale  del  principio  di
 proporzione non puo' essere tale da legittimare  la  proposizione  di
 questioni  di costituzionalita' ogni qualvolta il giudice ritenga che
 una certa fattispecie dovrebbe essere depenalizzata, ovvero  comunque
 ritenga   piu'  adeguato  alla  gravita'  del  fatto  un  trattamento
 sanzionatorio diverso da quello previsto dalla legge.
    Al riguardo la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che
 "le valutazioni relative alla proporzione tra le pene previste ed  il
 fatto  contemplato rientrano nell'ambito del potere discrezionale del
 legislatore"; tuttavia,  l'esercizio  di  tale  potere  puo'  "essere
 censurato sotto il profilo della legittimita' costituzionale nei casi
 in  cui  non  sia  stato rispettato il criterio di ragionevolezza, di
 modo che la sanzione comminata risulti irrazionale ed arbitraria" (v.
 Corte costituzionale, sent. 9 febbraio 1989, n. 49).
    Facendo applicazione dei principi ora richiamati al caso  di  spe-
 cie,  appare  certo,  a  questo giudice, che la gravita' dei fatti di
 reato sanzionati dall'art. 147, secondo comma, del c.p.m.p. sia cosi'
 esigua ed irrisoria da non giustificare assolutamente  l'applicazione
 di un mese di pena detentiva.
    Pur  se  infatti  l'interesse  tutelato  (prestazione del servizio
 militare obbligatorio) ha un carattere sicuramente  "primario",  tale
 da  giustificare la previsione di reati come quello di diserzione, e'
 minima, nel caso di specie, la gravita' dell'offesa: in questo  senso
 depone  non  solo la tradizione secolare (gia' indicata) sorta subito
 dopo l'unita' d'Italia e terminata in tempo di guerra nel  1941,  ma,
 soprattutto, una generalizzata valutazione etico-sociale in base alla
 quale  il  giudizio di disvalore collegato a brevissimi ritardi nella
 presentazione al reparto non presenta i connotati  di  riprovevolezza
 tipici dell'illecito penale.
    In  particolare  non pare che la gravita' del danno o del pericolo
 per gli interessi tutelati sia tale da giustificare l'applicazione di
 una sanzione penale: ma di cio'  si  dira'  meglio  in  relazione  al
 rispetto del principio di offensivita'.
    La  migliore  conferma  della tesi sostenuta circa l'esiguita' dei
 fatti di cui all'art. 147, secondo comma, e' data  dall'atteggiamento
 dei  comandanti  di  corpo, cui e' attribuita, ai sensi dell'art. 260
 del c.p.m.p., la facolta' di chiedere il procedimento  penale  ovvero
 perseguire il fatto con sanzioni disciplinari.
    Non si intende certamente qui riproporre, ne' in modo diretto, ne'
 in  modo  surrettizio,  la  questione  di legittimita' costituzionale
 dell'art. 260 del c.p.m.p.,  gia'  piu'  volte  dichiarata  infondata
 dalla Corte costituzionale (in ultimo con ordinanza 18 dicembre 1991,
 n.  495).  La  richiesta  di  procedimento  di  cui  all'art. 260 del
 c.p.m.p. appare direttamente collegata alla originaria configurazione
 della giurisdizione militare, come giustizia dei comandanti militari,
 in cui confluivano sia l'aspetto disciplinare che quello  penale:  un
 istituto  che,  quindi,  ha  fatto  il  suo  tempo  e dovrebbe essere
 eliminato dall'ordinamento penale.
    Ma cio' non e' in questione in questa sede.
    Ebbene, risulta che, nel periodo dal 1› gennaio al 31 marzo  1992,
 il  p.m.  presso  il  tribunale  militare  di  Roma  ha  adottato 146
 provvedimenti conclusivi delle  indagini  preliminari  in  ordine  al
 reato  di  cui  all'art.  147.  Di questi 136 sono stati richieste di
 archiviazione (in tutti  i  casi,  tranne  eventuali  eccezioni,  per
 mancanza di richiesta) e 10 richieste di rinvio a giudizio.
    Questo  dato oggettivo, pur riferito a un campione ben delimitato,
 appare comunque significativo. Se gli  stessi  comandanti  di  corpo,
 nella  stragrande  maggioranza  dei  casi,  addirittura  nella  quasi
 totalita', ritengono ingiustificata la sanzione penale per  il  reato
 in oggetto e con riguardo all'esigenza di mantenere il buon andamento
 e la disciplina nei reparti militari, cio' dimostra il riconoscimento
 di  una  valutazione  sociale  che  non  corrisponde  alla previsione
 legislativa di rilevanza penale dei fatti in questione.
    In   tempo  di  pace  il  comportamento  del  militare  che,  gia'
 legittimamente assente, ritarda per non piu'  di  quattro  giorni  la
 presenza  al  reparto  integra  quindi sicuramente una violazione dei
 doveri inerenti allo stato  militare,  ma  non  ha  un  carattere  di
 antisocialita'  tale  da  richiedere  la  rieducazione  del colpevole
 attraverso la pena. Appare cioe' improponibile, in quanto  del  tutto
 superflua,  la  rieducazione, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, del
 soggetto che abbia violato il precetto di cui all'art.  147,  secondo
 comma, cit.
    La realizzazione della finalita' rieducativa presuppone infatti il
 compimento  di  una  condotta  tale  da  dimostrare una significativa
 difformita'  rispetto  a  modelli  di  comportamento  conformi   alle
 esigenze  dell'ordinamento.  Cio'  che  nel  caso  di  specie  non si
 verifica.
    4.  -  La  scelta  del   legislatore   tra   sanzioni   penali   e
 amministrative  deve rispettare, oltre al criterio di proporzione, il
 criterio di sussidiarieta', in base al quale il ricorso alla sanzione
 penale, come ultima ratio, si giustifica solo in mancanza di tecniche
 di controllo sociale provviste di un analogo grado di efficacia.
    In  tema  di  sussidiarita'  non   sembrano   sussistere   vincoli
 costituzionali,  cosi'  come con riguardo al criterio di proporzione;
 tuttavia la razionalita' delle scelte del legislatore, quando gia' la
 sanzione penale appare sproporzionata alla gravita' del  fatto,  puo'
 essere  apprezzata  anche  con  riferimento  alla natura ed efficacia
 delle sanzioni extrapenali che risultano applicabili.
    Nel  caso  di  specie  la  dichiarazione  di   incostituzionalita'
 dell'art.  147, secondo comma, non renderebbe lecito il comportamento
 di chi rimane assente dal servizio militare  per  non  oltre  quattro
 giorni.
    Sarebbero  infatti  applicabili  le sanzioni disciplinari indicate
 dalla legge 11 luglio 1978, n. 382, e dal Regolamento  di  disciplina
 militare  approvato  con  d.P.R.  18  luglio  1986, n. 545, che hanno
 introdotto garanzie sia in ordine  al  procedimento  di  applicazione
 sia,  per  la  piu' grave di tali sanzioni, la consegna di rigore, in
 ordine    alla    tassativa    predeterminazione    degli    illeciti
 disciplinarmente rilevanti. Si tratta di sanzioni la cui incisivita',
 immediatezza   ed  indefettibilita'  e'  tale  da  farle  sicuramente
 ritenere, per molti aspetti,  piu'  efficaci  della  stessa  sanzione
 penale, come, d'altro canto, e' confermato dal fatto che i comandanti
 militari  ritengono  quasi  sempre  che per sanzionare le condotte di
 ritardata presentazione siano piu' adeguate le sanzioni disciplinari.
    La determinazione dei comandanti di perseguire quasi sempre in via
 disciplinare la  "ritardata  presentazione"  puo'  mostrarsi  inoltre
 incompatibile  con  l'esigenza  di conoscibilita' del precetto penale
 (ineludibile corollario del principio di legalita'  di  cui  all'art.
 25,  secondo  comma,  della  Cost.):  al di la' della possibilita' di
 poter configurare  un  caso  di  "ignoranza  inevitabile",  ai  sensi
 dell'art.  5  del  c.p., non pare rispondente alla ratio dell'art. 25
 della Costituzione che un militare possa essere perseguito penalmente
 quando  abbia  agito  nella  convinzione   di   compiere   solo   una
 trasgressione  disciplinare,  avendo  visto  in precedenza puniti con
 sanzione disciplinare altri militari per fatti analoghi a  quello  da
 lui commesso.
    5.  -  La  previsione  come reato delle condotte indicate all'art.
 147, secondo comma, e' in contrasto non  solo  con  il  principio  di
 proporzione,   ma   anche   con   il   principio   costituzionale  di
 offensivita'.
    Non si tratta in realta' di profili del tutto distinti,  dato  che
 comminare  una  sanzione  penale  ad  un  fatto  inoffensivo,  o  non
 sufficientemente offensivo, significa, senza dubbio, venir meno  alla
 esigenza di proporzione.
    Tuttavia,   anche   per  la  parziale  diversita'  di  riferimenti
 costituzionali, e' opportuno dedicare a questo profilo qualche  cenno
 specifico.
    Anzitutto,   la  Corte  costituzionale  ha  gia'  riconosciuto  la
 possibilita' per il giudice di accertare la concreta offensivita'  di
 condotte  tipiche,  al  fine  di determinare la soglia del penalmente
 rilevante (v. sent. 19 marzo 1986, n. 62, nonche'  sent.  11  gennaio
 1989, n. 24).
    Piu'  in generale, si e' ritenuto, in base al collegamento fra gli
 artt. 13, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione, che  la  sanzione
 penale,  che incide (direttamente o indirettamente) sul bene primario
 della liberta' personale, possa essere utilizzata solo per la  tutela
 di  beni  costituzionalmente significativi e solo quando sussista una
 concreta lesione o messa in pericolo dei beni protetti.
    Nel caso della ritardata presentazione non pare che  sussista  una
 significativa  lesione  al  bene  giuridico  protetto, che si e' gia'
 indicato nella prestazione del servizio militare obbligatorio.
    La breve durata dell'assenza dimostra infatti che non  vi  e'  una
 vera   e   propria  omissione  di  prestazione  (come  nel  reato  di
 diserzione) ma un semplice ritardo di assunzione  del  servizio,  che
 non  produce  un  danno  significativo al buon andamento del servizio
 militare (ne' tantomeno alla sua obbligatorieta', e  ancora  meno  al
 bene  finale  della  difesa  della  Patria);  ci  puo' essere qualche
 ripercussione   sulla   regolarita'   dell'attivita'   amministrativa
 militare  -  rendendosi  ad  esempio  necessaria  la sostituzione del
 militare assente, ove gia' assegnato a turni di servizio -  ma  nulla
 di  piu':  in  proposito  l'applicazione di una sanzione disciplinare
 appare piu' che sufficiente.
    Al  riguardo  gia'  appare  notevolmente  differente   l'offensiva
 dell'"allontanamento illecito" (art. 147, primo comma), rispetto alla
 "ritardata  presentazione"  (art. 147, secondo comma). Mentre infatti
 l'allontanamento arbitrario di un militare presente al reparto, o  di
 un   numero   indeterminato  di  militari,  potrebbe  in  certi  casi
 pregiudicare l'operativita' di un reparto militare (cio'  che  spiega
 perche'  per tali fatti i codici del 1869 prevedevano la possibilita'
 di una "dichiarazione di diserzione", tale effetto  lesivo  mai  puo'
 verificarsi  nel  caso di breve ritardo nella presentazione, da parte
 di militare gia' legittimamente assente.  E'  chiaro  infatti  che  i
 comandanti  militari,  nel  programmare  la  concessione di licenze e
 permessi al personale dipendente, devono tenere in considerazione  la
 necessita'  di  assicurare il buon andamento del servizio. Cosi' che,
 se la quota di militari legittimamente assenti, rispetto a quelli che
 prestano servizio presso un determinato ente militare, non  puo'  mai
 essere tale da impedire il regolare svolgimento dei compiti assegnati
 e  quell'ente,  anche il ritardo di uno, o di qualcuno, o sia pure di
 tutti i militari  che  in  certo  momento  siano  assenti,  non  puo'
 seriamente pregiudicare il servizio militare.
    D'altro  canto,  in  casi  in  cui,  per  circostanze particolari,
 l'assenza del militare, anche se di minima durata, ha  una  rilevante
 offensivita'  (per  esempio nel caso di militare che si trova assente
 al momento della partenza del corpo, della nave o dell'aeromobile cui
 e' assegnato) sono applicabili le  norme  di  cui  all'art.  149  del
 c.p.m.p. (diserzione immediata).
    6.  -  L'incostituzionalita'  dell'art.  147,  secondo  comma, del
 c.p.m.p., finora sostenuta con riferimento agli artt. 13,  25  e  27,
 terzo   comma,   della   Costituzione,   dev'essere  specificata  con
 riferimento al principio di razionalita'  delle  scelte  legislative,
 desumibile dall'art. 3 della Costituzione.
    La violazione dei principi di proporzione ed offensivita' non puo'
 infatti  condurre  a  declaratorie  di  incostituzionalita' se non in
 presenza  di  una  incriminazione  palesemente  e   macroscopicamente
 arbitraria,  quando  si  dimostri  che  siano assoggettati a sanzione
 penale fatti palesemente inoffensivi, ovvero comunque  sia  stabilita
 una pena del tutto sproporzionata alla gravita' del fatto.
    Gia'  sono stati evidenziati elementi che confortano la tesi circa
 l'assoluta  arbitrarieta'  della  previsione  come  reato  dei  brevi
 ritardi di presentazione al Corpo.
    Occorre tuttavia anche rilevare specifici profili di disparita' di
 trattamento  che  si  verificano a danno di chi viene imputato per il
 reato di cui all'art. 147, secondo comma, del c.p.m.p.
    In primo luogo va ricordato che per altre  categorie  di  soggetti
 che,  in  tempo  di  pace,  svolgono  compiti  non  meno essenziali e
 rischiosi di quelli svolti dai militari  (cosi'  il  personale  della
 Polizia  di  Stato o della Polizia penitenziaria; i Vigili del Fuoco)
 non esistono norme corrispondenti all'art.  147,  secondo  comma.  La
 legge  12  giugno  1990, n. 146, ha poi soppresso gli artt. 330 e 333
 del c.p. (abbandono di pubblico ufficio). L'art. 331 (interruzione di
 pubblico servizio) presuppone invece un dolo specifico  (il  fine  di
 turbare  la  regolarita' del servizio) ed e' comunque comparabile con
 altre incriminazioni del cod. pen. mil., come  l'abbandono  di  posto
 (art. 118 ss. del c.p.m.p.).
    In  secondo  luogo, la durata del ritardo penalmente rilevante per
 il militare chiamato alle armi e' di  cinque  giorni  (art.  151  del
 c.p.m.p.:  mancanza alla chiamata). Se anche si possa ritenere che la
 situazione di chi non sia ancora incorporato in un  reparto  militare
 sia   leggermente   diversa  rispetto  a  quella  del  militare  gia'
 incorporato,  non  sembra  comunque  ragionevole  una  cosi'  marcata
 disparita'  nella  valutazione  di  rilevanza  penale della ritardata
 presentazione.
    Infine, e' da osservare che la previsione di  una  pena  detentiva
 per  il  fatto  in  oggetto  comporta una irragionevole equiparazione
 rispetto a condotte, previste dagli stessi codici penali militari, la
 cui gravita' e' di gran lunga maggiore: a  titolo  di  esempio,  sono
 puniti  con  la  pena minima di un mese di reclusione militare, oltre
 all'allontanamento illecito  proprio  (art.  147,  primo  comma),  le
 lesioni  personali  o l'omessa presentazione in servizio, reati cioe'
 la cui idoneita' lesiva ha ben altro carattere di significativita'.
    7. - Si e' cercato finora di dimostrare: la minima  lesivita',  in
 tempo  di  pace,  dei  brevi  ritardi nella riassunzione del servizio
 militare;   l'irragionevole   severita'   e,    quindi,    l'assoluta
 incongruita',  ai  fini della rieducazione del condannato, della pena
 minima, stabilita dalla legge, di un mese di reclusione militare.
    Al  fine  di  sottolineare  la  fondatezza  (o, quantomeno, la non
 manifesta infondatezza) della questione, due elementi sono apparsi di
 particolare rilievo: il fatto che nei codici  militari  del  1869  la
 condotta   in   esame  non  fosse  sanzionata  penalmente  e  quindi,
 nonostante le indicazioni costituzionali a favore di una  limitazione
 nell'uso  dello  strumento  penale,  la normativa attuale risulta per
 questo aspetto assai piu' rigorosa di quella vigente anche  sotto  il
 regime  fascista,  fino  al  1941;  il  fatto che, oggi, la ritardata
 presentazione sia perseguita penalmente solo in modo  sporadico,  nei
 rari  casi  in  cui i comandanti, ai sensi dell'art. 260, deliberano,
 insindacabilmente e senza obbligo di motivazione,  di  richiedere  il
 procedimento penale.
    Nessun dubbio sussiste sulla rilevanza della presente questione di
 costituzionalita',  dato  che  il  suo  accoglimento comporterebbe il
 rigetto della richiesta di applicazione di pena formulata dalle parti
 e l'assoluzione dell'impatto, ai sensi dell'art. 129 del c.p.p.
    In  conclusione,  questo  giudice  osserva   che   sarebbe   certo
 auspicabile  che  il  legislatore proceda finalmente alla riforma del
 codice penale militare di pace, adeguando ai principi  costituzionali
 una  normativa  che  contiene  norme  antiquate  e  spesso  di dubbia
 legittimita' costituzionale. E' noto come un progetto di legge delega
 per la riforma del codice penale militare di pace venga  regolarmente
 e vanamente presentato alle Camere da diverse legislature.
    Di  fatto  gli  interventi  legislativi piu' importanti in tema di
 legislazione  penale  militare  sono  stati  operati,  negli   ultimi
 decenni,  solo in conseguenza di decisioni della Corte costituzionale
 (la legge 26 novembre 1985, n. 689 e'  conseguente  alla  sentenza  5
 maggio  1979,  n.  26  e 20 maggio 1982, n. 103; la legge 30 dicembre
 1988, n. 561 alla sentenza 8 marzo 1988, n. 266).
    Inoltre, in  diversi  casi  in  cui  la  Corte  costituzionale  ha
 inizialmente  respinto  la  questine  di  legittimita'  costituzinale
 sollecitando  il  legislatore  ad  intervenire,  per  adeguare   alla
 Costituzione   determinate  norme  in  tema  di  legislazione  penale
 militare, nulla  e'  accaduto  finche'  la  stessa  Corte,  di  nuovo
 chiamata  a  pronunciarsi  per  l'inerzia  del  legislatore,  non  ha
 dichiarato l'incostituzionalita' di tali norme (cosi'  alla  sentenza
 14  marzo  1984,  n. 67 ha fatto seguito la sentenza 8 marzo 1988, n.
 266; alla sentenza 473 del  1990  ha  fatto  seguito  la  sentenza  4
 dicembre 1991, n. 448).
    Ritiene  pertanto  questo giudice che, al fine di eliminare norme,
 come quella in esame, che sembrano in chiaro e diretto contrasto  con
 i  principi  costituzionali,  non  sia  percorribile altra strada che
 quella   della   proposizione   di    questione    di    legittimita'
 costituzionale.
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147,
 secondo  comma, del c.p.m.p., in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27,
 terzo comma, della Costituzione, ritenendo tale questione rilevante e
 non manifestamente infondata;
    Dispone la sospensione del procedimento in corso e la trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che  la  presente ordinanza sia notificata alle parti e al
 Presidente del Consiglio dei  Ministri  e  comunicata  ai  Presidenti
 delle due Camere del Parlamento.
      Roma, addi' 1› aprile 1992
              Il giudice dell'udienza preliminare: MAZZI
                            Il collaboratore di cancelleria: DE SIMONE
    Depositata in cancelleria il 6 aprile 1992.
              Il collaboratore di cancelleria: DE SIMONE

 92C0562