N. 282 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 marzo 1992
N. 282 Ordinanza emessa il 27 marzo 1992 dal commissario aggiunto agli usi civici per il Lazio, Umbria e Toscana nel procedimento demaniale tra Ronzetti Sesto, in proprio e n.q. ed altri e comune di Formello Usi civici - Commissario degli usi civici - Organo giurisdizionale - Potere di promuovere ex officio controversie per le quali sia competente a giudicare - Conseguente mancata distinzione tra parte e giudice - Irragionevolezza - Compressione del diritto di difesa delle parti convenute - Violazione del principio di imparzialita' del giudice - Lesione dell'autonomia amministrativa delle regioni. (Legge 16 giugno 1927, n. 1766, art. 29, primo comma). (Cost., artt. 3, 24, 101 e 118).(GU n.22 del 27-5-1992 )
IL COMMISSARIO AGGIUNTO AGLI USI CIVICI Ha pronunciato la seguente ordinanza a scioglimento della riserva presa all'udienza del 6 marzo 1992 nel procedimento demaniale tra Ronzetti Sesto, in proprio e quale presidente della Coop. "Valle del Sorbo", Ronzetti Settiminio, Bonafede Aurelio, Francucci Mario, tutti in qualita' di originari e utenti delle terre civiche del comune di Formello, assistiti e difesi dall'avv. Tommaso De Feo, con studio in via Pisa 21, Roma, contro il comune di Formello, in persona del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Davoli, con studio in via di Santa Maria Maggiore, 112, Roma, elettivamente domiciliato nello studio del difensore per delega a margine della comparsa di costituzione 19 giugno 1984; MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Con provvedimento del 7 maggio 1984, il commissario agli usi civici di Roma, dott. Alfredo Chiuccariello, disponeva il sequestro di un'area non precisamente determinata del demanio civico di Formello, sita in localita' Valle della Mola. Il provvedimento faceva seguito ad un esposto presentato il 18 ottobre 1983 dall'avv. Tommaso De Feo, per conto di alcuni originari di Formello e della locale cooperativa di allevatori "Valle del Sorbo", con il quale si invocava la demolizione immediata di un manufatto recentemente edificato su suolo demaniale e "il divieto assoluto di autorizzazioni a riprese cinematografiche e attivita' turistiche e ricreative in genere, che ( ..) arrecano danni al bestiame che pascola nei boschi del comune". L'esposto era diretto all'assessore agli usi civici della regione Lazio, cioe' al funzionario nominato dalla regione Lazio ex art. 28/2 della legge n. 1766/27, per coadiuvarla nelle operazioni amministrative di propria competenza; costui lo aveva trasmesso al commissario, con una propria richiesta di sequestro giudiziario (cfr. nota 14 aprile 1984). Come risulta dal tenore del provvedimento cautelare, steso in calce alla nota di trasmissione, il commissario qualificava come parti ricorrenti non l'assessore, ma gli originari esponenti, a carico dei quali poneva l'onere di curare la notifica e in genere l'esecuzione del provvedimento cautelare; egli ben sapeva infatti che l'assessore, come semplice funzionario regionale, non avrebbe potuto sostituirsi agli organi deliberanti della regione nel promuovere un giudizio. In effetti, non vi e' dubbio che veri e sostanziali ricorrenti fossero gli originari esponenti, in quanto titolari dell'interesse di cui veniva disposta la tutela; ma, sotto il profilo formale, neppure la loro domanda obbligava il commissario a provvedere nel merito, essendo essa rivolta ad un ufficio regionale ed avendo ad oggetto provvedimenti amministrativi, esclusi dalle attribuzioni giurisdizionali. Di fronte alla proposta di sequestro formulata dall'assessore, il commissario avrebbe dunque dovuto restituire gli atti alla giunta regionale per una formale delibera in proposito; di fronte alle di- verse richieste degli originari, egli avrebbe dovuto restituire gli atti alla regione, perche' provvedesse nel merito. Avendo egli invece disposto il sequestro giudiziario, bisogna concludere che il commissario si e' attivato in forza dei propri poteri d'ufficio, raccogliendo il suggerimento formulato in proposito dall'assessore usi civici. 2. - A proposito del potere riconosciuto al commissario di promuovere ex officio le controversie per le quali egli stesso ha funzione di giudice, previsti dall'art. 29 della legge n. 1766/27, le sezioni unite della suprema Corte di cassazione, con ordinanza del 20 settembre 1991, hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale. Richiamando propri precedenti consolidati, la Corte ha osservato preliminarmente che al commissario e' stato ( ..) riconosciuto non solo il potere di decidere determinate controversie, ma anche di promuoverle, ossia di formulare le specifiche domande giudiziali della cui fondatezza egli stesso era chiamato a conoscere e quindi di rivestire nel processo sia la parte di attore sia quella di giudice. Secondo la Corte, questi poteri di iniziativa sarebbero in contrasto con l'art. 3 della Costituzione perche' non appare consono ai principi di ragionevolezza e di coerenza attribuire ad un organo che ha funzione esclusive di giudice il potere di promuovere i giudizi davanti a se stesso; Sarebbero in contrasto con l'art. 24/1 della Costituzione, in quanto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi implica una distinzione necessaria tra giudice e parte; sarebbero in contrasto con l'art. 24/2 della Costituzione, perche' suscettibili di menomare gravemente il diritto di difesa delle parti; sarebbero soprattutto in contrasto con l'art. 101 della Costituzione, che, sottoponendo il giudice soltanto alla legge, esclude la possibilita' di farlo contemporaneamente portatore di interessi particolari e concreti, anche se di carattere pubblico ( ..); Sarebbero infine in contrasto con gli artt. 118/1 e 118/2 della Costituzione dal momento che, una volta trasferito alle regioni il potere gia' del Ministero dell'Agricoltura (art. 10 della legge n. 1078/30) di promuovere giudizi a difesa dei diritti delle popolazioni, un concorrente potere in capo al commissario giudice sarebbe incompatibile con l'autonomia regionale nell'ambito della propria sfera di amministrazione. In sintesi, l'attribuzione al giudice dei poteri di azione sarebbe per se' stessa un'anomalia, giustificata, nel sistema della legge n. 1766/27, dal fatto che al commissario erano attribuite anche funzioni di amministrazione attiva. In altri termini, secondo l'espressione suggestiva della Corte, l'anomalia dell'attore-giudice sarebbe soltanto il riflesso dell'anomalia giudice-amministratore; poiche' quest'ultima e' stata cancellata dall'ordinamento con il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative (d.P.R. nn. 11/1972 e 616/1977), anche l'altra ha perso ogni giustificazione e l'iniziativa processuale per la tutela dei demani civici e dei diritti collettivi dovrebbe oggi essere rimessa in via esclusiva alle parti interessate e alle regioni ex art. 10 della legge n. 1078/1930 ( ..), ossia ai portatori di interessi concreti e contrapposti, pubblici o privati, nelle singole controversie. 3. - L'opinione della suprema Corte e' fondata su una ricostruzione sommaria e insufficiente della normativa impugnata e delle sue ragioni. Occorre osservare in primo luogo, sotto il profilo storico- giuridico, che nell'attuale ordinamento non e' previsto e disciplinato alcun fatto per se' costitutivo dei diritti collettivi, siano questi ricostruibili come diritti in re aliena, o come diritti generali e tendenzialmente assoluti al godimento di una terra da parte della comunita' dei residenti. La legge vigente, prevede, infatti, come e' noto, la liquidazione dei primi e la sistemazione dei secondi, o meglio, la "sistemazione delle terre" che ne formano oggetto; essa prevede anche, incidentalmente, "l'accertamento e la valutazione degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento ( ..) spettante agli abitanti di un comune", ma non dice come questi diritti si sian potuti costituire, anzi esclude che se ne possano costituire di nuovi (art. 25/3). La stessa espressione "usi civici" sta per se' ad indicare le pratiche di godimento della terra, proprie di determinati gruppi umani, piuttosto che il diritto corrispondente; quanto alle terre del demanio universale, il legislatore le caratterizza da un lato in base al possesso che di esse abbiano gli enti locali o le associazioni agrarie, dall'altro in base all'esercizio degli usi civici cui esse siano soggette da parte della popolazione (art. 1 della legge n. 1766/77). Secondo le regole comuni, il possesso prescinde dalla esistenza di un diritto sulla cosa che ne e' oggetto e comporta soltanto l'esercizio di fatto dei poteri corrispondenti alla proprieta' o ad altri diritti reali (art. 1140 del c.c.); peraltro, esso puo' determinare, da solo o con il concorso di altre particolari condizioni, l'acquisto del diritto corrispondente, cioe' l'acquisto a titolo originario di quel potere giuridicamente riconosciuto e tutelato di cui esso e' per l'appunto la manifestazione fattuale. Quest'ultima regola non si applica certamente agli usi civici; ma sarebbe sbagliato concludere da cio' che il legislatore del 1927 prenda in considerazione solo poteri di fatto sulla cosa, piuttosto che veri e propri diritti, riconosciuti e definiti come tali. Egli infatti contrappone espressamente l'esercizio di fatto dei diritti collettivi alla pretesa di esercitarli (art. 3/1), azionabile in giudizio come tale, anche se disgiunta dall'esercizio effettivo (art. 3/2); egli distingue, in altro luogo, i diritti d'uso civico, che danno luogo a liquidazione, dalle semplici consuetudini, destinate in ultima analisi ad estinguersi senza indennizzo alcuno (art. 4/4). Egli prevede soprattutto che i diritti sulle terre private si convertano in un diritto alle terre assegnate in liquidazione o al compenso monetario (artt. 5, 6 e 7), cioe' in un diritto soggettivo incomprensibile e ingiustificato se i diritti liquidati non fossero della stessa natura; prevede, per le terre comuni occupate dai privati, la legittimazione degli interessi di costoro solo in presenza di particolari condizioni e dopo un'adeguato procedimento, prevede, in caso di mancata legittimazione, un obbligo di restituzione delle terre alla comunita', anch'esso del tutto ingiustificato ove a confliggere con l'interesse del possessore non fosse un vero e proprio diritto reale della popolazione sulla terra (art. 9). Escluso che il possesso, anche se ab immemorabili o protratto ad longum tempus, comporti l'acquisto dei diritti collettivi per il futuro, evidentemente questi sono presi in considerazione dal nostro ordinamento solo in quanto gia' costituiti o riconoscibili dagli ordinamenti giuridici precedenti, secondo le regole loro proprie. Per l'esistenza o la persistenza dei diritti collettivi e' decisiva in altri termini la determinazione formale proveniente dalla autorita' sovrana anteriore, mediante la quale le terre (o alcune loro particolari utilita') siano state in perpetuo destinate o riconosciute a beneficio esclusivo di una determinata popolazione; e il possesso, attuale o pregresso, dei diritti civici - cioe' il loro effettivo esercizio - ha solo la funzione o l'effetto di rendere pubblica e certa tale determinazione formale. Ora, nel diritto feudale e nei regimi assoluti, non esiste un provvedimento tipico e uniforme attributivo o ricognitivo dei diritti collettivi. Ogni ordinamento aveva regole diverse; o meglio, all'interno di ogni ordinamento, ogni situazione era regolata diversamente, in rapporto alla sua origine, al tipo e alla natura degli usi praticati o dei poteri coinvolti, al peso che ciascuno di essi aveva o aveva avuto nelle varie epoche sulla determinazione della volonta' sovrana. Questa poteva manifestarsi direttamente come attributiva di un diritto singolare alla comunita', ovvero esimere la comunita' dagli obblighi dovuti al sovrano o al feudatario; poteva riconoscere e consolidare pratiche di origine vetusta - romana o preromana -, ma anche modificarle, in tutto o in parte; poteva riservarsi particolari prestazioni di carattere fiscale o imporle a terzi; poteva provvedere con rescritti, bolle, decreti, sentenze o con qualsiasi altro genere di provvedimento atto a manifestarla, anche in deroga alle regole poste in precedenza. La stessa consuetudine che tanto peso aveva prima delle codificazioni nella concreta determinazione del diritto traeva in ultima analisi la sua forza dalla benevola volonta' sovrana, legibus soluta. Quale esso sia stata pero' la forma presa e il contenuto normativo espresso, la volonta' sovrana che ha costituito o riconosciuto i diritti collettivi nell'ordinamento precedente non esiste e non e' produttiva di effetti nel nostro ordinamento, se non e' raccolta e dichiarata in un atto ricognitivo, emesso, a seguito di regolare procedimento, dall'organo a cio' oggi deputato, il commissario agli usi civici. Diversamente dagli altri diritti sulle cose, che traggono la loro origine da fatti storici ancora oggi produttivi di effetti giuridici riconosciuti o, in mancanza, dal possesso attuale, per i diritti collettivi un tale provvedimento ricognitivo non e' in alcun modo surrogabile; come s'e' detto, infatti, non esistono fatti storici come tali costitutivi di diritti collettivi nell'ordinamento attuale, ne' in materia si applica la regola possesso vale titolo. Tanto piu' necessario appare un tale provvedimento, quanto piu' incerti sono l'origine, il contenuto e i limiti della volonta' sovrana che i diritti collettivi ebbe, nei vari casi, a costituire; alla incertezza di principio si aggiunge dunque di solito una incertezza probatoria, alla incertezza sull' an del diritto quella sul quomodo e sul quantum. Ma l'incertezza radicale e generale trae origine dal fatto che i diritti collettivi non hanno nel nostro ordinamento alcun fatto costitutivo legalmente riconosciuto e, per converso, che il fatto non appartenente come tale al nostro ordinamento, ma da esso semplicemente richiamato con una sorta di generale rinvio ricettizio che e' necessario riempire nei casi concreti del proprio contenuto, storicamente attestato e verificato. 4. - Il legislatore del 1927 ha avvertito la necessita' di una generale ricognizione costitutiva dei diritti collettivi, ma non l'ha tematizzata come tale. Egli ha previsto l'accertamento degli usi e della qualita' delle terre, ma solo come premessa alla liquidazione dei primi o alla rivendica delle seconde (artt. 2 e 29/1); egli ha stabilito che liquidazione, rivendica e, in quanto pregiudiziale alle stesse, l'accertamento dei diritti liquidati o rivendicati, siano promossi anche d'ufficio, ma non si e' accorto che, mentre le prime due operazioni han carattere generale e necessario, la terza e' puramente eventuale e riguarda soltanto i diritti o le terre oggetto di contestazione. Non esiste allo stato nel nostro ordinamento un obbligo generale di procedere all'accertamento delle proprieta' collettive su tutto il territorio, anche se esiste quello di procedere alla liquidazione degli usi e alla rivendica (o alla legittimazione) delle terre occupate. In realta' il legislatore del 1927 ha affidato la ricognizione costitutiva dei diritti civili, piuttosto che al loro accertamento generalizzato, al consolidamento e al ripristino dei possessi comuni, per via amministrativa. Tre le direttrici per giungere a questo risultato: a) la liquidazione degli usi civici su terre private e l'assegnazione al Comune, a compenso dei diritti estinti, dell'intero fondo (art. 7/2) o di una sua porzione (art. 5), la restituzione agli enti titolari delle terre civiche occupate e non legittimate (art. 9); b) l'esclusione di ogni possesso comune sulle terre oggetto di appropriazione privata e di migliorie produttive (art. 7/1 e 9) o suscettibili di tale appropriazione in futuro (art. 13); c) l'imprescrittibilita' dei possessi comuni (art. 9), la destinazione vincolata e l'inalienabilita' delle terre rimaste alla comunita', l'incomprimibilita' residuale dei diritti di godimento delle popolazioni sulle terre (art. 12). Nella convinzione del legislatore del 1927, il ripristino del possesso comune delle terre - cioe' l'effettivo godimento da parte dei cives della quota di terre loro conservate - doveva dunque garantire in futuro la visibilita' e l'incontestabilita' dei diritti civici - mentre un apposito accertamento era riservato soltanto ai casi di effettiva contestazione. 5. - Indefettibile e necessaria, secondo tal progetto, era solo la sistemazione delle terre; ma non si puo' sistemare definitivamente cio' che non si conosce, o meglio, cio' che nell'ordinamento attuale ha solo una esistenza di principio, da verificare ed omologare in concreto con riferimento a situazioni e per contenuti particolari. Fin dall'origine dunque il progetto legislativo era destinato al fallimento. Questo e' puntualmente sopravvenuto nel corso degli anni, sia per ragioni di carattere socio-economico - in sintesi, la deliberata valorizzazione di ogni privata rendita fondiaria e la parallela marginalizzazione dei residui di collettivismo agrario che vi si oppongono -, sia per ragioni di carattere formale, in ultimo, il trasferimento alle regioni delle attribuzioni amministrative rela- tive alla liquidazione dei diritti e alla sistemazione dei demani (art. 66 del d.P.R. n. 616/1977). L'avvento delle competenze regionali ha conferito da un lato al commissario un ruolo esclusivo nell'accertamento dei diritti civici e della qualitas soli; d'altro lato, esso ha lasciato la Regione arbitra sovrana delle operazioni di liquidazione e sistemazione, sganciandola di fatto da ogni previo accertamento ed esponendola al rischio di un continuato sviamento di potere. Si puo' sostenere - e chi scrive ha sostenuto - che quanto nel sistema originario della legge veniva ritenuto incidentale (la competenza giurisdizionale del commissario), oggi e' divenuto pregiudiziale alle operazioni amministrative; queste dunque non potrebbero esperirsi se non dopo il passaggio in giudicato della decisione commissariale d'accertamento. Questa tesi, che in via interpretativa va certamente ribadita, non e' in grado tuttavia di risolvere alcun problema perche', di fatto, le operazioni di sistemazione amministrativa vengono di regola effettuate dalle Regioni senza alcun collegamento con gli accertamenti commissariali ovvero dopo accertamenti provvisori formalmente e sostanzialmente inattendibili; ne' il commissario puo' intervenire ad impedirlo. In generale, data la separazione esistente tra le attribuzioni regionali e quelle commissariali - mascherata nei fatti dalla frequente convivenza dei due uffici nei medesimi locali -, oggi l'accertamento dei diritti civici, lungi dal comportare una paziente ricostruzione dei diritti sulla base del metodo storico, e' divenuta parte integrante delle operazioni di sistemazione, strumentale agli obbiettivi economici e finanziari che le regioni stesse si ripropongono, in ragione degli utilizzi prevalentemente urbani assunti dalle terre e dei loro aumentati valori. Un esempio pregnante di questa affermazione e' offerta propria dalla vicenda giudiziaria in esame. Non vi e' qui discussione sulla natura delle terre e sulla qualita' degli usi in esercizio; ma l'ufficio regionale, invece di promuovere nelle forme legittime e possibili una limitazione dei diritti contestati o invece di darvi sostegno ed attuazione, ha preferito rimettere tutto in discussione davanti al commissario, nella precisa convinzione che, quando si dis- cute, il diritto piu' antico e consacrato ha la stessa consistenza dell'interesse emergente. Piu' in generale, va ricordata la prassi corrente presso la regione Lazio, la quale - per evitare l'impaccio di un contraddittorio defatigante e imbarazzante - certifica ad enti pubblici e a privati l'esistenza o l'inesistenza della demanialita', a seguito di sommarie indagini camerali, disposte senza alcun potere e fuori di ogni previsione legale da un semplice funzionario (cfr. la sentenza per Frascati, in atti). Questa prassi rappresenta un fenomeno patologico, non suscettibile di offrire argomenti ne' per la corretta interpretazione della legge, ne' per la sua verifica costituzionale; essa mostra tuttavia, come in provetta, da un lato, il bisogno di certezza che il sistema - nella sua attuale evoluzione - ha insieme trascurato ed esasperato, d'altro lato la subordinazione di ogni certezza dei diritti alle esigenze di una sistemazione giuridicamente ben poco garantita. Si noti che regione Lazio - come ogni altra regione - potrebbe fin d'ora promuovere l'azione di accertamento in contenzioso davanti al commissario, in forza dell'art. 10 della legge 10 luglio 1930 n. 1078; essa non l'ha fatto e non lo fara' in futuro, perche' in generale non e' necessario ne' conveniente accertare diritti che sono come tali assolutamente invisibili o irrilevanti nel nostro ordinamento, mentre e' comunque possibile "sistemare" gli interessi, che si muovono sul territorio, dentro, sotto o contro quei fantomatici diritti; lo ha fatto e lo fara', invece, quando mediante un defatigante procedimento giudiziario sia possibile revocare in dubbio e ridiscutere diritti consacrati, ma contrastanti con gli interessi che si vogliono promuovere. In generale va riconosciuto che, nell'attuale momento storico, l'ente regione si pone di fronte ai diritti collettivi come davanti a un vincolo da rimuovere o da monetizzare per altri scopi, prescindendo del tutto dalla loro effettiva ed accertata esistenza o dal loro concreto contenuto; confidarle, come vorrebbe la suprema corte, non si dice il compito di accertare l'esistenza e il contenuto dei diritti collettivi, ma quello piu' semplice e iniziale di promuoverne l'accertamento davanti al Commissario, significa in sostanza rinunciarvi. La stessa conclusione vale anche per il singolo civis o per la comunita' proprietaria. Ben difficilmente costoro saran disposti a rivendicare diritti, privi nell'attuale ordinamento di ogni giuridica esistenza, fino a quando non siano stati definitivamente accertati; ben difficilmente essi si esporranno, con una richiesta di accertamento o di tutela, ad operazioni amministrative suscettibili in ultima analisi di vanificare la loro domanda. Anche quando, come nel caso di specie, essi sian disposti a riconoscere la demanialita' delle terre rivendicate pur di conservarle nel proprio godimento, essi preferiranno venire a patti con chi glielo contesta, piuttosto che affidarsi a una tutela tanto rigida nei principi quanto precaria e revocabile nei fatti. E' del resto un fatto incontestabile, nella pratica giudiziaria dei commissariati, che l'iniziativa dell'accertamento nella maggior parte dei casi vien presa non tanto dalle comunita' titolari o dai singoli originari uti cives, ma al contrario dai privati che rivendicano l'allodialita' di questa o quella terra, nel contraddittorio con l'Ente esponenziale della comunita' e spesso con il consenso, tacito o esplicito, di questa. 6. - Va sottolineato a questo punto che stiamo parlando di diritti assolutamente indisponibili e imprescrittibili, cioe' svincolati nella loro esistenza dalla volonta' e dalla esistenza degli stessi titolari. Si ripete spesso, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che gli usi civici e le proprieta' collettive sono diritti originari, cioe' risalenti alle origini degli insediamenti umani considerati. Dal punto di vista storico, l'opinione non puo' essere ne' condivisa ne' smentita; se infatti e' possibile talvolta ricostruire le storie locali a partire dalle piu' remote antichita', non e' mai possibile ricollegare con certezza l'esistenza (o la consistenza o la qualita') di un patrimonio comune agli eventi fondativi della comunita', non e' possibile eslcudere che esso si sia modificato nel corso delle vicende successive. Ma l'opinione riferita puo' avere anche un significato piu' analitico; in altri termini, i diritti collettivi possono dirsi originari, anche perche' dall'ordinamento collegati nella loro stessa esistenza all'esistenza di una determinata comunita' e destinati a garantirla per il futuro. L'originarieta' dei diritti collettivi esprime dunque la destinazione delle terre, che ne formano oggetto, a beneficio permanente della comunita' titolare; in questo senso, essa ne fonda e spiega l'indisponibilita' e l'imprescrittibilita'. In particolare, l'imprescrittibilita' dei diritti collettivi ha la sua ragione nella indefettibilita' giuridica della comunita' destinataria delle terre. Una volta costituito nell'ordinamento un patrimonio collettivo, la sua esistenza non pu'o essere revocata in dubbio senza revocare in dubbio nel contempo l'esistenza o il benessere della comunita' cui appartiene, cioe' la ragione formale dell'ordinamento nel quale i diritti collettivi sono stati riconosciuti e tutelati. Cio' non significa che non sia possibile modificare il regime proprietario di qualche parte del patrimonio collettivo e ricondurla, eccezionalmente, all'uso dei singoli secondo il regime comune; non significa che, mutando la consistenza interna o l'importanza relativa della comunita', non siano consentite fusioni di piu' soggetti o frazionamenti del soggetto originario e del relativo patrimonio; non significa in ultima analisi neppure che del patrimonio collettivo la comunita' titolare non possa fare a meno per mutar di abitudini economiche e di risorse a disposizione. Tanto il patrimonio che il gruppo titolare sono storicamente soggetti a variazioni consistenti; perfino il nesso di implicazione reciproca puo' essere spezzato in radice. Ma queste vicende successive debbono essere riconosciute o disposte, come i diritti originari, dalla stessa autorita' sovrana dalla quale i primi emanavano: e finche' cio' non avvenga il patrimonio collettivo rimane indissolubilmentedestinato, nel tutto e in ogni sua singola parte, alla comunita' cui appartiene. Come abbiamo visto, per quanto attiene alla origine dei diritti civici, il nostro ordinamento opera una specie di rinvio ricettizio agli ordinamenti precedenti ed obbliga a tener conto esclusivamente delle "appartenenze" da essi stabilite o riconosciute. Per quanto riguarda invece la modificazione e l'estinzione, esso stabilisce alcune nuove fattispecie - la liquidazione degli usi su terre private, la legittimazione delle terre abusivamente occupate, la ripartizione delle terre agrarie, il mutamento di destinazione e la sdemanializzazione seguita dalla vendita -, riservando peraltro sempre ogni decisione in proposito ad una propria manifestazione discrezionale di volonta'. In nessun caso, l'ordinamento consente che la modificazione e l'estinzione dei diritti collettivi derivi direttamente, come da causa sufficiente, dalla volonta' dei soggetti titolari, sola o congiunta a quella dei controinteressati; al contrario, esso costruisce espressamente questi diritti come diritti inalienabili, cioe' assolutamente indisponibili. In queste connotazioni di imprescrittibilita' e indisponibilita' sta la ragione profonda che ha determinato il legislatore del 1927 a confidare ad un organo di giustizia (al commissario agli usi civici) l'iniziativa per l'accertamento e la tutela dei diritti collettivi. In altri termini, per usare l'espressione della Corte suprema, l'anomalia del giudice-parte non e' soltanto un riflesso dell'anomalia del giudice-amministratore, che e' definitivamente caduta con il d.P.R. n. 616/1977; essa e' invece soprattutto il riflesso processuale e lo strumento indispensabile per realizzare la imprescrittibilita' e l'indisponibilita' di questi diritti. Solo l'iniziativa di un organo di giustizia e' in grado infatti di assicurare quella indefettibilita' della tutela che e' esigita dalle connotazioni pubblicistiche dei diritti tutelati; in particolare, ne' l'azione di parte ne', in sostituzione, l'iniziativa regionale di cui all'art. 10 della legge n. 1078/1930, appaiono in grado di sostituirla allo stato, perche' entrambe potrebbero nel caso concreto mancare fin dall'origine ovvero, una volta esercitate, potrebbero venir meno per ragioni estranee alla tutela medesima. Entrambe mancano in altri termini di quelle connotazioni di indefettibilita'che caratterizzano il diritto da accertare e tutelare. 7. - Sulla base delle considerazioni storico-sistematiche fin qui esposte possiamo prendere posizione sulla questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla Corte suprema. La giurisdizione commissariale ha in radice natura ricognitiva di statuizioni formali apparenenti come tali ad ordinamenti pregressi, la cui efficacia e' stata in generale conservata dall'ordinamento attuale, ma che restano da verificare caso per caso nella loro esistenza e nel loro contenuto. Essa e' intesa in via diretta e primaria a dare certezza e concretezza ad un precetto generale dell'ordinamento, solo in via secondaria e indiretta ad assicurare la necessaria tutela degli interessi o dei diritti dall'ordinamento riconosciuti. Questo carattere oggettivo della giurisdizione commissariale e' stato esaltato dopo il trasferimento alle regioni delle funzioni di sistemazione dei demani, sia nel senso che essa e' l'unica funzione a contenuto decisorio rimasta al Commissario, sia nel senso che il suo esercizio ha assunto una implicita connotazione di pregiudizialita' in rapporto alle funzioni amministrative trasferite. Nel promuovere d'ufficio l'esercizio della propria giurisdizione, il commissario si fa dunque portatore non dell'interesse dell'una o dell'altra parte, ma soltanto del diritto oggettivo e della sua attuazione, onde non si ravvisa alcun contrasto tra tali poteri e il principio costituzionale della esclusiva soggezione del giudice alla legge (art. 101 della Costituzione). In generale, il nostro ordinamento costuisce la domanda giudiziale come un diritto potestativo affidato alla volonta' del titolare (art. 99 del c.p.c.); per contro, esso costruisce i diritti collettivi come diritti imprescrittibili e indisponibili, la cui tutela non puo' essere lasciata solo alla libera e modificabile volonta' del titolare senza negare per cio' stesso tali connotazioni pubblicistiche e, in prospettiva, gli stessi diritti da tutelare. Sussistono dunque ragioni sufficienti per derogare, nella materia, al principio della domanda. In astratto, l'iniziativa giudiziaria in materia di diritti collettivi potrebbe essere affidata ad un qualunque organo di giustizia opportunamente identificato. E' da escludere, in ogni caso, che essa possa essere affidata (esclusivamente) all'ente regione, competente oggi per la liquidazione dei diritti collettivi gravanti su terre private e per la sistemazione dei demani; la discrezionalita' inerente alle operazioni di sistemazione amministrativa finirebbe infatti per subordinare e/o negare nei fatti l'indefettibilita' della tutela giudiziaria e il valore sommo della certezza del diritto. Nell'attuale stadio di evoluzione del sistema, non sembra dunque irragionevole che l'iniziativa giudiziaria sia esercitata dallo stesso giudice chiamato a decidere nel merito, perche' solo in questo modo essa sara' almeno potenzialmente indefettibile, cioe' orientata esclusivamente all'accertamento e alla tutela dei diritti. Non vi e' in altri termini contrasto tra questa previsione normativa e l'art. 3 della Costituzione; del resto, analoghi poteri ufficiosi sono attribuiti al giudice fallimentare, per la dichiarazione d'insolvenza o di fallimento (artt. 6, 8, 147/2 e 195/7 legge fallimentare); al tribunale, per i provvedimenti d'urgenza a tutela dei minori (art. 336/2 del c.c.); al tribunale dei minorenni per la dichiarazione di adottabilita' dei minori abbandonati (art. 8 della legge n. 184/1983). L'analogia corre soprattutto con quest'ultimo caso, le terre collettive costituendo in pratica una sorta di patrimonio in attesa di titolare, che va identificato dal giudice quanto prima, per consentire una sua corretta sistemazione. Solo l'indefettibilita' dell'accertamento e della tutela giudiziaria, conseguente al suo esercizio ufficioso e obbligatorio, puo' consentire la correttezza delle operazioni di liquidazione e sistemazione. Va ribadito a tal proposito che all'ente regione non e' stato trasferito alcun potere autonomo di accertamento: che, in altre parole, gli accertamenti effettuati dalle regioni sono sempre provvisori e destinati a cedere di fronte al giudicato, da chiunque promosso. Lo stesso art. 10 della legge n. 1078/1930, il quale attribuisce alla regione il potere di promuovere l'azione demaniale "a difesa dei diritti delle popolazioni" - cioe', in sostituzione o in litisconsorzio con gli originari -, implicitamente esclude che le appartenga quello di decidere nel merito in via autonoma. I poteri di accertamento e tutela giudiziaria, appartenenti al Commissario, non possono dunque ledere in alcun modo l'autonomia regionale, che rimane piena nel suo ambito anche se subordinata all'accertamento giurisdizionale dei diritti. Se conflitto si dovesse invece ravvisare tra l'autonomia regionale ed i vari concorrenti poteri di iniziativa giudiziaria previsti in materia, esso riguarderebbe non solo il potere del commissario, ma anche quello delle comunita' e degli originari; e' palese per'o che in questo caso il conflitto non potrebbe esser risolto col sacrificio del potere dei titolari di difendere in giudizio i loro diritti (art. 23/1 della Costituzione), ma con il sacrificio del potere sostitutivo delle regioni. Non sussiste dunque alcun contrasto tra i poteri d'ufficio mantenuti al commissario in tema di esercizio dell'azione demaniale e l'art. 118 della Costituzione. Per quanto inteso alla attuazione del diritto oggettivo e dunque assimilabile ad alcuni procedimenti di volontaria giurisdizione, qualunque procedimento demaniale ha figura di processo di parti e vede contrapposti in concreto portatori di interessi diversi, che hanno tutti diritto di agire e di difendersi davanti al giudice (art. 24/1 e 24/2 della Costituzione). Cio' implica di regola la terzieta' del giudice rispetto alle parti; ma di cio' abbiamo detto sopra con riferimento all'art. 3 della Costituzione ne' sembra che il riferimento all'art. 24 aggiunga qualcosa a quella prospettazione. Quanto al diritto di agire degli interessati, esso non e' certamente negato dai concorrenti poteri ufficiosi del giudice; lo stesso dicasi per ogni altra estrinsecazione del diritto di difesa - che del resto in materia penale e' stato ritenuto sufficientemente tutelato - salve eccezioni partitamente esaminate, anche quando il processo si svolgeva davanti al pretore che l'aveva promosso. I poteri di iniziativa giudiziaria del commissario non confliggono dunque neppure con i principi di cui all'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione. 8. - Se tuttavia i poteri di promuovere il giudizio e di deciderlo concorrenti in capo allo stesso giudice apparissero ancora non del tutto giustificati e ragionevoli, la Corte delle leggi dovrebbe considerare che, negli uffici commissariali dove la mole degli affari lo richiede, possono essere nominati accanto al commissario dirigente dei commissari aggiunti, con facolta' anche decisionali (art. 1/2 legge n. 1078/1930); che inoltre il commissario dirigente ha facolta' di assegnare agli aggiunti gli affari da trattare e dunque anche quella di riservare a se', per ogni affare o procedimento, le funzioni di iniziativa e di impulso processuale. Con una sentenza interpretativa di accoglimento, in altri termini, la Corte potrebbe ritenere irragionevole l'esercizio da parte dello stesso magistrato dei poteri di promozione e di quelli di decisione nella medesima causa e, per gli effetti, dichiarare illegittima la normativa denunciata nella parte in cui non prevede in proposito una speciale causa di incompatibilita'. La mole del lavoro derivante dalla nuova incompatibilita' consentirebbe di destinare almeno due magistrati ad ogni commissariato; o, in alternativa, di applicarne periodicamente un secondo, quando se ne ravvisi la concreta necessita'. In tal modo l'azione demaniale verrebbe mantenuta all'ufficio commissariale, ma sarebbero escluse le preoccupazioni fatte proprie dalle sezioni unita' della Cassazione circa la legittimita' costituzionale dell'art. 29 della legge n. 1766/1927, nella parte in cui attribuisce al commissario agli usi civici poteri ufficiosi di promozione dei giudizi davanti a se' medesimo. Nonostante le argomentazioni contrarie sopra svolte, la obbiettiva eccezionalita' della normativa impugnata e il fatto stesso che la questione di legittimita' costituzionale sia stata gia' sollevata da cosi' autorevole consesso, non consentono di ritenere tale questione manifestamente infondata; essa del resto e' rilevante nel presente giudizio, dove - in caso di integrale accoglimento - dovrebbe esser dichiarata la carenza di legittimazione dell'organo che prese l'iniziativa di promuoverlo, mentre gli atti dovrebbero essere restituiti allo scrivente per l'ulteriore trattazione e la decisione finale, se fosse accolta la subordinata o se l'eccezione fosse respinta.
P. Q. M. Non definitivamente decidendo nella causa in narrativa: Dichiara non manifestamente infondata con riferimento agli artt. 3, 24/1, 24/2, 101, 118/1 e 118/2 della Costituzione la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 29/1 della legge 16 giugno 1927, n. 1766, nella parte in cui consente ai commissari agli usi civici di promuovere anche di ufficio i giudizi di propria competenza; Sospende il giudizio in corso ed ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei Deputati. Roma, addi' 27 marzo 1992 Il commissario aggiunto agli usi civici: CARLETTI 92C0608