N. 282 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 marzo 1992

                                N. 282
 Ordinanza  emessa  il 27 marzo 1992 dal commissario aggiunto agli usi
 civici per il Lazio, Umbria e Toscana nel procedimento demaniale  tra
 Ronzetti Sesto, in proprio e n.q. ed altri e comune di Formello
 Usi civici - Commissario degli usi civici - Organo giurisdizionale -
    Potere  di  promuovere  ex  officio  controversie per le quali sia
    competente a giudicare - Conseguente mancata distinzione tra parte
    e giudice - Irragionevolezza - Compressione del diritto di  difesa
    delle  parti convenute - Violazione del principio di imparzialita'
    del giudice - Lesione dell'autonomia amministrativa delle regioni.
 (Legge 16 giugno 1927, n. 1766, art. 29, primo comma).
 (Cost., artt. 3, 24, 101 e 118).
(GU n.22 del 27-5-1992 )
                IL COMMISSARIO AGGIUNTO AGLI USI CIVICI
   Ha pronunciato la seguente ordinanza a scioglimento  della  riserva
 presa  all'udienza  del  6  marzo 1992 nel procedimento demaniale tra
 Ronzetti Sesto, in proprio e quale presidente della Coop. "Valle  del
 Sorbo", Ronzetti Settiminio, Bonafede Aurelio, Francucci Mario, tutti
 in  qualita'  di originari e utenti delle terre civiche del comune di
 Formello, assistiti e difesi dall'avv. Tommaso De Feo, con studio  in
 via  Pisa  21,  Roma,  contro  il  comune di Formello, in persona del
 sindaco  pro-tempore,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.   Domenico
 Davoli,  con  studio  in  via  di  Santa  Maria  Maggiore, 112, Roma,
 elettivamente domiciliato nello studio del  difensore  per  delega  a
 margine della comparsa di costituzione 19 giugno 1984;
                        MOTIVI DELLA DECISIONE
    1.  - Con provvedimento del 7 maggio 1984, il commissario agli usi
 civici di Roma, dott. Alfredo Chiuccariello, disponeva  il  sequestro
 di  un'area  non  precisamente  determinata  del  demanio  civico  di
 Formello, sita in localita' Valle della Mola.
    Il provvedimento faceva seguito ad un  esposto  presentato  il  18
 ottobre  1983 dall'avv. Tommaso De Feo, per conto di alcuni originari
 di Formello e della  locale  cooperativa  di  allevatori  "Valle  del
 Sorbo",  con  il  quale  si  invocava  la demolizione immediata di un
 manufatto recentemente edificato su suolo  demaniale  e  "il  divieto
 assoluto  di  autorizzazioni  a  riprese cinematografiche e attivita'
 turistiche e ricreative in  genere,  che  (  ..)  arrecano  danni  al
 bestiame che pascola nei boschi del comune".
    L'esposto  era diretto all'assessore agli usi civici della regione
 Lazio, cioe' al funzionario nominato dalla regione Lazio ex art. 28/2
 della  legge   n.   1766/27,   per   coadiuvarla   nelle   operazioni
 amministrative  di  propria  competenza; costui lo aveva trasmesso al
 commissario, con una propria richiesta di sequestro giudiziario (cfr.
 nota 14 aprile 1984).
    Come  risulta  dal  tenore  del  provvedimento cautelare, steso in
 calce alla nota di  trasmissione,  il  commissario  qualificava  come
 parti  ricorrenti  non  l'assessore,  ma  gli  originari esponenti, a
 carico dei quali poneva l'onere di curare la  notifica  e  in  genere
 l'esecuzione del provvedimento cautelare; egli ben sapeva infatti che
 l'assessore,  come semplice funzionario regionale, non avrebbe potuto
 sostituirsi agli organi deliberanti della regione nel  promuovere  un
 giudizio.
    In  effetti,  non  vi  e' dubbio che veri e sostanziali ricorrenti
 fossero gli originari esponenti, in quanto titolari dell'interesse di
 cui veniva disposta la tutela; ma, sotto il profilo formale,  neppure
 la  loro  domanda  obbligava  il commissario a provvedere nel merito,
 essendo essa rivolta ad un ufficio regionale  ed  avendo  ad  oggetto
 provvedimenti     amministrativi,    esclusi    dalle    attribuzioni
 giurisdizionali.
    Di fronte alla proposta di sequestro formulata dall'assessore,  il
 commissario  avrebbe  dunque  dovuto  restituire gli atti alla giunta
 regionale per una formale delibera in proposito; di fronte  alle  di-
 verse  richieste  degli originari, egli avrebbe dovuto restituire gli
 atti alla regione, perche' provvedesse nel merito. Avendo egli invece
 disposto  il  sequestro  giudiziario,  bisogna  concludere   che   il
 commissario  si  e'  attivato  in  forza dei propri poteri d'ufficio,
 raccogliendo il suggerimento formulato  in  proposito  dall'assessore
 usi civici.
    2.  -  A  proposito  del  potere  riconosciuto  al  commissario di
 promuovere ex officio le controversie per le  quali  egli  stesso  ha
 funzione di giudice, previsti dall'art. 29 della legge n. 1766/27, le
 sezioni unite della suprema Corte di cassazione, con ordinanza del 20
 settembre   1991,   hanno   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale.
    Richiamando propri precedenti consolidati, la Corte  ha  osservato
 preliminarmente  che  al  commissario e' stato ( ..) riconosciuto non
 solo il potere di decidere  determinate  controversie,  ma  anche  di
 promuoverle,  ossia  di  formulare  le  specifiche domande giudiziali
 della cui fondatezza egli stesso era chiamato a conoscere e quindi di
 rivestire nel processo sia la parte di attore sia quella di giudice.
    Secondo  la  Corte,  questi  poteri  di  iniziativa  sarebbero  in
 contrasto  con l'art. 3 della Costituzione perche' non appare consono
 ai principi di ragionevolezza e di coerenza attribuire ad  un  organo
 che  ha  funzione  esclusive  di  giudice  il  potere di promuovere i
 giudizi davanti a se stesso;
    Sarebbero in contrasto con  l'art.  24/1  della  Costituzione,  in
 quanto  il  diritto  di  agire  in  giudizio per la tutela dei propri
 diritti e interessi legittimi implica una distinzione necessaria  tra
 giudice  e  parte;  sarebbero  in  contrasto  con  l'art.  24/2 della
 Costituzione, perche' suscettibili di menomare gravemente il  diritto
 di  difesa delle parti; sarebbero soprattutto in contrasto con l'art.
 101 della Costituzione, che, sottoponendo il  giudice  soltanto  alla
 legge,  esclude la possibilita' di farlo contemporaneamente portatore
 di interessi particolari e concreti, anche se di carattere pubblico (
 ..);
    Sarebbero  infine  in  contrasto con gli artt. 118/1 e 118/2 della
 Costituzione dal momento che, una volta trasferito  alle  regioni  il
 potere  gia'  del  Ministero dell'Agricoltura (art. 10 della legge n.
 1078/30)  di  promuovere  giudizi  a   difesa   dei   diritti   delle
 popolazioni,  un  concorrente  potere  in capo al commissario giudice
 sarebbe incompatibile con  l'autonomia  regionale  nell'ambito  della
 propria sfera di amministrazione.
    In sintesi, l'attribuzione al giudice dei poteri di azione sarebbe
 per  se' stessa un'anomalia, giustificata, nel sistema della legge n.
 1766/27, dal fatto che al commissario erano attribuite anche funzioni
 di amministrazione attiva. In altri  termini,  secondo  l'espressione
 suggestiva   della   Corte,  l'anomalia  dell'attore-giudice  sarebbe
 soltanto il riflesso  dell'anomalia  giudice-amministratore;  poiche'
 quest'ultima    e'   stata   cancellata   dall'ordinamento   con   il
 trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative (d.P.R.  nn.
 11/1972  e  616/1977),  anche l'altra ha perso ogni giustificazione e
 l'iniziativa processuale per  la  tutela  dei  demani  civici  e  dei
 diritti collettivi dovrebbe oggi essere rimessa in via esclusiva alle
 parti  interessate e alle regioni ex art. 10 della legge n. 1078/1930
 ( ..), ossia ai  portatori  di  interessi  concreti  e  contrapposti,
 pubblici o privati, nelle singole controversie.
    3.   -   L'opinione   della   suprema  Corte  e'  fondata  su  una
 ricostruzione sommaria e insufficiente della  normativa  impugnata  e
 delle sue ragioni.
    Occorre  osservare  in  primo  luogo,  sotto  il  profilo storico-
 giuridico,  che  nell'attuale   ordinamento   non   e'   previsto   e
 disciplinato  alcun fatto per se' costitutivo dei diritti collettivi,
 siano questi ricostruibili come diritti in re aliena, o come  diritti
 generali  e  tendenzialmente  assoluti  al  godimento di una terra da
 parte della comunita' dei residenti.
    La legge vigente, prevede, infatti, come e' noto, la  liquidazione
 dei  primi  e la sistemazione dei secondi, o meglio, la "sistemazione
 delle  terre"  che  ne   formano   oggetto;   essa   prevede   anche,
 incidentalmente,  "l'accertamento e la valutazione degli usi civici e
 di qualsiasi altro diritto di promiscuo  godimento  (  ..)  spettante
 agli  abitanti di un comune", ma non dice come questi diritti si sian
 potuti costituire, anzi esclude che se ne possano costituire di nuovi
 (art. 25/3).
    La stessa espressione "usi civici" sta  per  se'  ad  indicare  le
 pratiche  di  godimento  della  terra,  proprie di determinati gruppi
 umani, piuttosto che il diritto corrispondente; quanto alle terre del
 demanio universale, il legislatore le caratterizza da un lato in base
 al possesso che di esse abbiano gli enti  locali  o  le  associazioni
 agrarie,  dall'altro  in base all'esercizio degli usi civici cui esse
 siano soggette da parte della popolazione  (art.  1  della  legge  n.
 1766/77).
    Secondo le regole comuni, il possesso prescinde dalla esistenza di
 un  diritto  sulla  cosa  che  ne  e'  oggetto  e  comporta  soltanto
 l'esercizio di fatto dei poteri corrispondenti alla proprieta'  o  ad
 altri  diritti  reali  (art.  1140  del  c.c.);  peraltro,  esso puo'
 determinare,  da  solo  o  con  il  concorso  di  altre   particolari
 condizioni, l'acquisto del diritto corrispondente, cioe' l'acquisto a
 titolo  originario  di  quel  potere  giuridicamente  riconosciuto  e
 tutelato di cui esso e' per l'appunto la manifestazione fattuale.
    Quest'ultima  regola non si applica certamente agli usi civici; ma
 sarebbe sbagliato concludere da cio'  che  il  legislatore  del  1927
 prenda  in  considerazione solo poteri di fatto sulla cosa, piuttosto
 che veri e propri diritti, riconosciuti e definiti  come  tali.  Egli
 infatti  contrappone  espressamente  l'esercizio di fatto dei diritti
 collettivi alla pretesa di  esercitarli  (art.  3/1),  azionabile  in
 giudizio come tale, anche se disgiunta dall'esercizio effettivo (art.
 3/2);  egli  distingue,  in  altro luogo, i diritti d'uso civico, che
 danno luogo a liquidazione, dalle semplici consuetudini, destinate in
 ultima analisi ad estinguersi senza  indennizzo  alcuno  (art.  4/4).
 Egli  prevede  soprattutto  che  i  diritti  sulle  terre  private si
 convertano in un diritto alle terre assegnate in  liquidazione  o  al
 compenso  monetario  (artt. 5, 6 e 7), cioe' in un diritto soggettivo
 incomprensibile e ingiustificato se i diritti liquidati  non  fossero
 della  stessa  natura;  prevede,  per  le  terre  comuni occupate dai
 privati,  la  legittimazione  degli  interessi  di  costoro  solo  in
 presenza  di  particolari condizioni e dopo un'adeguato procedimento,
 prevede,  in  caso  di  mancata   legittimazione,   un   obbligo   di
 restituzione   delle   terre  alla  comunita',  anch'esso  del  tutto
 ingiustificato ove a confliggere con l'interesse del  possessore  non
 fosse  un  vero e proprio diritto reale della popolazione sulla terra
 (art. 9).
    Escluso che il possesso, anche se ab immemorabili o  protratto  ad
 longum  tempus,  comporti  l'acquisto  dei  diritti collettivi per il
 futuro, evidentemente questi sono presi in considerazione dal  nostro
 ordinamento  solo  in  quanto  gia'  costituiti o riconoscibili dagli
 ordinamenti giuridici precedenti, secondo le regole loro proprie. Per
 l'esistenza o la persistenza dei diritti collettivi  e'  decisiva  in
 altri  termini  la determinazione formale proveniente dalla autorita'
 sovrana  anteriore,  mediante  la  quale  le  terre  (o  alcune  loro
 particolari   utilita')   siano   state   in   perpetuo  destinate  o
 riconosciute a beneficio esclusivo di una determinata popolazione;  e
 il  possesso, attuale o pregresso, dei diritti civici - cioe' il loro
 effettivo esercizio - ha solo la  funzione  o  l'effetto  di  rendere
 pubblica e certa tale determinazione formale.
    Ora,  nel  diritto  feudale  e  nei regimi assoluti, non esiste un
 provvedimento tipico e uniforme attributivo o ricognitivo dei diritti
 collettivi.  Ogni  ordinamento  aveva  regole  diverse;   o   meglio,
 all'interno   di  ogni  ordinamento,  ogni  situazione  era  regolata
 diversamente, in rapporto alla sua origine, al  tipo  e  alla  natura
 degli  usi  praticati o dei poteri coinvolti, al peso che ciascuno di
 essi aveva o aveva avuto  nelle  varie  epoche  sulla  determinazione
 della  volonta' sovrana. Questa poteva manifestarsi direttamente come
 attributiva di un diritto singolare alla comunita', ovvero esimere la
 comunita' dagli obblighi dovuti al sovrano o  al  feudatario;  poteva
 riconoscere  e  consolidare  pratiche  di  origine vetusta - romana o
 preromana -, ma anche  modificarle,  in  tutto  o  in  parte;  poteva
 riservarsi  particolari  prestazioni di carattere fiscale o imporle a
 terzi; poteva provvedere con rescritti, bolle,  decreti,  sentenze  o
 con  qualsiasi  altro  genere  di  provvedimento atto a manifestarla,
 anche in deroga alle regole poste in precedenza.
    La  stessa  consuetudine  che  tanto  peso   aveva   prima   delle
 codificazioni  nella  concreta  determinazione  del diritto traeva in
 ultima analisi la sua forza dalla benevola volonta' sovrana,  legibus
 soluta.
    Quale esso sia stata pero' la forma presa e il contenuto normativo
 espresso,  la  volonta'  sovrana  che  ha costituito o riconosciuto i
 diritti collettivi nell'ordinamento precedente non esiste  e  non  e'
 produttiva  di  effetti  nel nostro ordinamento, se non e' raccolta e
 dichiarata in un atto ricognitivo,  emesso,  a  seguito  di  regolare
 procedimento,  dall'organo  a cio' oggi deputato, il commissario agli
 usi civici.
    Diversamente dagli altri diritti sulle cose, che traggono la  loro
 origine  da fatti storici ancora oggi produttivi di effetti giuridici
 riconosciuti o, in mancanza, dal  possesso  attuale,  per  i  diritti
 collettivi  un  tale  provvedimento  ricognitivo non e' in alcun modo
 surrogabile; come s'e' detto, infatti,  non  esistono  fatti  storici
 come tali costitutivi di diritti collettivi nell'ordinamento attuale,
 ne' in materia si applica la regola possesso vale titolo.
    Tanto  piu'  necessario  appare un tale provvedimento, quanto piu'
 incerti sono l'origine,  il  contenuto  e  i  limiti  della  volonta'
 sovrana  che  i diritti collettivi ebbe, nei vari casi, a costituire;
 alla incertezza  di  principio  si  aggiunge  dunque  di  solito  una
 incertezza  probatoria,  alla  incertezza sull' an del diritto quella
 sul quomodo e sul quantum. Ma l'incertezza radicale e  generale  trae
 origine  dal  fatto  che  i  diritti  collettivi non hanno nel nostro
 ordinamento alcun fatto costitutivo legalmente  riconosciuto  e,  per
 converso,   che  il  fatto  non  appartenente  come  tale  al  nostro
 ordinamento, ma da esso semplicemente richiamato  con  una  sorta  di
 generale  rinvio  ricettizio  che  e'  necessario  riempire  nei casi
 concreti del proprio contenuto, storicamente attestato e verificato.
    4. - Il legislatore del 1927 ha avvertito  la  necessita'  di  una
 generale ricognizione costitutiva dei diritti collettivi, ma non l'ha
 tematizzata  come  tale.  Egli ha previsto l'accertamento degli usi e
 della qualita' delle terre, ma solo come premessa  alla  liquidazione
 dei  primi  o  alla rivendica delle seconde (artt. 2 e 29/1); egli ha
 stabilito che liquidazione, rivendica e, in quanto pregiudiziale alle
 stesse, l'accertamento dei diritti  liquidati  o  rivendicati,  siano
 promossi  anche  d'ufficio, ma non si e' accorto che, mentre le prime
 due operazioni han carattere  generale  e  necessario,  la  terza  e'
 puramente  eventuale e riguarda soltanto i diritti o le terre oggetto
 di contestazione.
    Non esiste allo stato nel nostro ordinamento un  obbligo  generale
 di procedere all'accertamento delle proprieta' collettive su tutto il
 territorio,  anche  se  esiste  quello di procedere alla liquidazione
 degli usi e  alla  rivendica  (o  alla  legittimazione)  delle  terre
 occupate.
    In  realta'  il  legislatore  del 1927 ha affidato la ricognizione
 costitutiva dei diritti civili, piuttosto che  al  loro  accertamento
 generalizzato, al consolidamento e al ripristino dei possessi comuni,
 per  via  amministrativa.  Tre  le  direttrici  per giungere a questo
 risultato: a) la liquidazione degli usi civici  su  terre  private  e
 l'assegnazione al Comune, a compenso dei diritti estinti, dell'intero
 fondo (art. 7/2) o di una sua porzione (art. 5), la restituzione agli
 enti  titolari  delle  terre civiche occupate e non legittimate (art.
 9); b) l'esclusione di ogni possesso comune sulle  terre  oggetto  di
 appropriazione  privata  e  di  migliorie produttive (art. 7/1 e 9) o
 suscettibili  di  tale  appropriazione  in  futuro  (art.   13);   c)
 l'imprescrittibilita'  dei  possessi comuni (art. 9), la destinazione
 vincolata e l'inalienabilita' delle  terre  rimaste  alla  comunita',
 l'incomprimibilita'   residuale   dei   diritti  di  godimento  delle
 popolazioni sulle terre (art. 12).
    Nella convinzione del legislatore  del  1927,  il  ripristino  del
 possesso  comune  delle  terre - cioe' l'effettivo godimento da parte
 dei cives della quota  di  terre  loro  conservate  -  doveva  dunque
 garantire  in futuro la visibilita' e l'incontestabilita' dei diritti
 civici - mentre un apposito accertamento era  riservato  soltanto  ai
 casi di effettiva contestazione.
    5. - Indefettibile e necessaria, secondo tal progetto, era solo la
 sistemazione  delle  terre;  ma non si puo' sistemare definitivamente
 cio' che non si conosce, o meglio, cio' che nell'ordinamento  attuale
 ha  solo  una  esistenza  di principio, da verificare ed omologare in
 concreto con riferimento a situazioni e per contenuti particolari.
    Fin dall'origine dunque il progetto legislativo era  destinato  al
 fallimento. Questo e' puntualmente sopravvenuto nel corso degli anni,
 sia  per  ragioni  di  carattere  socio-economico  -  in  sintesi, la
 deliberata valorizzazione di ogni  privata  rendita  fondiaria  e  la
 parallela  marginalizzazione dei residui di collettivismo agrario che
 vi si oppongono -, sia per ragioni di carattere formale,  in  ultimo,
 il trasferimento alle regioni delle attribuzioni amministrative rela-
 tive  alla  liquidazione  dei  diritti e alla sistemazione dei demani
 (art. 66 del d.P.R. n. 616/1977).
    L'avvento delle competenze regionali ha conferito da  un  lato  al
 commissario un ruolo esclusivo nell'accertamento dei diritti civici e
 della  qualitas  soli;  d'altro  lato,  esso  ha  lasciato la Regione
 arbitra sovrana delle  operazioni  di  liquidazione  e  sistemazione,
 sganciandola  di  fatto da ogni previo accertamento ed esponendola al
 rischio di un continuato sviamento di potere.
    Si puo' sostenere - e chi scrive ha sostenuto  -  che  quanto  nel
 sistema  originario  della  legge  veniva  ritenuto  incidentale  (la
 competenza  giurisdizionale  del  commissario),  oggi   e'   divenuto
 pregiudiziale  alle  operazioni  amministrative;  queste  dunque  non
 potrebbero esperirsi se non dopo  il  passaggio  in  giudicato  della
 decisione  commissariale  d'accertamento.  Questa  tesi,  che  in via
 interpretativa va certamente ribadita, non e' in  grado  tuttavia  di
 risolvere   alcun  problema  perche',  di  fatto,  le  operazioni  di
 sistemazione  amministrativa  vengono  di  regola  effettuate   dalle
 Regioni  senza  alcun collegamento con gli accertamenti commissariali
 ovvero dopo accertamenti  provvisori  formalmente  e  sostanzialmente
 inattendibili; ne' il commissario puo' intervenire ad impedirlo.
    In  generale,  data  la  separazione esistente tra le attribuzioni
 regionali  e  quelle  commissariali  -  mascherata  nei  fatti  dalla
 frequente  convivenza  dei  due  uffici  nei  medesimi locali -, oggi
 l'accertamento dei diritti civici, lungi dal comportare una  paziente
 ricostruzione  dei diritti sulla base del metodo storico, e' divenuta
 parte integrante delle operazioni di sistemazione,  strumentale  agli
 obbiettivi   economici   e   finanziari  che  le  regioni  stesse  si
 ripropongono,  in  ragione  degli  utilizzi  prevalentemente   urbani
 assunti dalle terre e dei loro aumentati valori.
    Un  esempio  pregnante  di  questa affermazione e' offerta propria
 dalla vicenda giudiziaria in esame. Non vi e' qui  discussione  sulla
 natura  delle  terre  e  sulla  qualita'  degli  usi in esercizio; ma
 l'ufficio regionale, invece di promuovere  nelle  forme  legittime  e
 possibili  una  limitazione  dei diritti contestati o invece di darvi
 sostegno ed attuazione, ha preferito rimettere tutto  in  discussione
 davanti al commissario, nella precisa convinzione che, quando si dis-
 cute,  il  diritto  piu' antico e consacrato ha la stessa consistenza
 dell'interesse emergente.
    Piu' in generale,  va  ricordata  la  prassi  corrente  presso  la
 regione   Lazio,   la   quale   -   per   evitare  l'impaccio  di  un
 contraddittorio  defatigante  e  imbarazzante  -  certifica  ad  enti
 pubblici  e a privati l'esistenza o l'inesistenza della demanialita',
 a seguito di sommarie indagini camerali, disposte senza alcun  potere
 e fuori di ogni previsione legale da un semplice funzionario (cfr. la
 sentenza  per  Frascati,  in  atti).  Questa  prassi  rappresenta  un
 fenomeno patologico, non suscettibile di offrire argomenti ne' per la
 corretta  interpretazione  della  legge,  ne'  per  la  sua  verifica
 costituzionale;  essa  mostra tuttavia, come in provetta, da un lato,
 il bisogno di certezza che il sistema - nella sua attuale  evoluzione
 - ha insieme trascurato ed esasperato, d'altro lato la subordinazione
 di  ogni  certezza  dei  diritti  alle  esigenze  di una sistemazione
 giuridicamente ben poco garantita.
    Si noti che regione Lazio - come ogni altra regione - potrebbe fin
 d'ora promuovere l'azione di accertamento in contenzioso  davanti  al
 commissario,  in  forza  dell'art.  10  della legge 10 luglio 1930 n.
 1078; essa non l'ha fatto e  non  lo  fara'  in  futuro,  perche'  in
 generale non e' necessario ne' conveniente accertare diritti che sono
 come   tali   assolutamente   invisibili  o  irrilevanti  nel  nostro
 ordinamento, mentre e' comunque possibile "sistemare" gli  interessi,
 che   si   muovono  sul  territorio,  dentro,  sotto  o  contro  quei
 fantomatici diritti; lo ha fatto e lo fara', invece, quando  mediante
 un  defatigante  procedimento  giudiziario  sia possibile revocare in
 dubbio e ridiscutere diritti  consacrati,  ma  contrastanti  con  gli
 interessi che si vogliono promuovere.
    In  generale  va  riconosciuto  che, nell'attuale momento storico,
 l'ente regione si pone di fronte ai diritti collettivi come davanti a
 un  vincolo  da  rimuovere  o  da  monetizzare   per   altri   scopi,
 prescindendo  del tutto dalla loro effettiva ed accertata esistenza o
 dal loro concreto contenuto; confidarle,  come  vorrebbe  la  suprema
 corte, non si dice il compito di accertare l'esistenza e il contenuto
 dei  diritti  collettivi,  ma  quello  piu'  semplice  e  iniziale di
 promuoverne  l'accertamento  davanti  al  Commissario,  significa  in
 sostanza rinunciarvi.
    La  stessa  conclusione  vale  anche per il singolo civis o per la
 comunita' proprietaria. Ben difficilmente costoro  saran  disposti  a
 rivendicare diritti, privi nell'attuale ordinamento di ogni giuridica
 esistenza,  fino  a quando non siano stati definitivamente accertati;
 ben  difficilmente  essi  si  esporranno,  con   una   richiesta   di
 accertamento  o  di tutela, ad operazioni amministrative suscettibili
 in ultima analisi di vanificare la loro domanda. Anche  quando,  come
 nel  caso di specie, essi sian disposti a riconoscere la demanialita'
 delle terre rivendicate pur di  conservarle  nel  proprio  godimento,
 essi  preferiranno  venire a patti con chi glielo contesta, piuttosto
 che affidarsi a una tutela tanto rigida nei principi quanto  precaria
 e revocabile nei fatti.
    E'  del  resto  un fatto incontestabile, nella pratica giudiziaria
 dei commissariati, che l'iniziativa dell'accertamento  nella  maggior
 parte  dei  casi  vien presa non tanto dalle comunita' titolari o dai
 singoli  originari  uti  cives,  ma  al  contrario  dai  privati  che
 rivendicano   l'allodialita'   di   questa   o   quella   terra,  nel
 contraddittorio con l'Ente esponenziale della comunita' e spesso  con
 il consenso, tacito o esplicito, di questa.
    6. - Va sottolineato a questo punto che stiamo parlando di diritti
 assolutamente  indisponibili  e  imprescrittibili,  cioe'  svincolati
 nella loro esistenza dalla volonta' e dalla  esistenza  degli  stessi
 titolari.
    Si  ripete  spesso, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che gli
 usi civici e le proprieta' collettive sono diritti  originari,  cioe'
 risalenti alle origini degli insediamenti umani considerati.
    Dal  punto  di  vista  storico,  l'opinione  non  puo'  essere ne'
 condivisa ne' smentita; se infatti e' possibile talvolta  ricostruire
 le  storie  locali a partire dalle piu' remote antichita', non e' mai
 possibile ricollegare con certezza l'esistenza (o la consistenza o la
 qualita')  di  un  patrimonio  comune  agli  eventi  fondativi  della
 comunita',  non e' possibile eslcudere che esso si sia modificato nel
 corso delle vicende successive.
    Ma l'opinione  riferita  puo'  avere  anche  un  significato  piu'
 analitico;  in  altri  termini,  i  diritti  collettivi possono dirsi
 originari, anche perche' dall'ordinamento collegati nella loro stessa
 esistenza all'esistenza di una determinata comunita'  e  destinati  a
 garantirla per il futuro.
    L'originarieta'   dei   diritti   collettivi   esprime  dunque  la
 destinazione  delle  terre,  che  ne  formano  oggetto,  a  beneficio
 permanente della comunita' titolare; in questo senso, essa ne fonda e
 spiega l'indisponibilita' e l'imprescrittibilita'.
    In particolare, l'imprescrittibilita' dei diritti collettivi ha la
 sua   ragione   nella   indefettibilita'  giuridica  della  comunita'
 destinataria delle terre. Una volta  costituito  nell'ordinamento  un
 patrimonio  collettivo,  la sua esistenza non pu'o essere revocata in
 dubbio senza  revocare  in  dubbio  nel  contempo  l'esistenza  o  il
 benessere  della  comunita'  cui appartiene, cioe' la ragione formale
 dell'ordinamento  nel  quale  i   diritti   collettivi   sono   stati
 riconosciuti e tutelati.
    Cio'  non  significa  che  non  sia possibile modificare il regime
 proprietario di qualche parte del patrimonio collettivo e ricondurla,
 eccezionalmente, all'uso dei singoli secondo il  regime  comune;  non
 significa che, mutando la consistenza interna o l'importanza relativa
 della  comunita',  non  siano  consentite  fusioni di piu' soggetti o
 frazionamenti del soggetto originario e del relativo patrimonio;  non
 significa  in ultima analisi neppure che del patrimonio collettivo la
 comunita' titolare non possa fare  a  meno  per  mutar  di  abitudini
 economiche  e  di  risorse a disposizione. Tanto il patrimonio che il
 gruppo titolare sono storicamente soggetti a variazioni  consistenti;
 perfino  il  nesso  di implicazione reciproca puo' essere spezzato in
 radice. Ma queste vicende successive debbono  essere  riconosciute  o
 disposte,  come  i  diritti originari, dalla stessa autorita' sovrana
 dalla quale  i  primi  emanavano:  e  finche'  cio'  non  avvenga  il
 patrimonio  collettivo rimane indissolubilmentedestinato, nel tutto e
 in ogni sua singola parte, alla comunita' cui appartiene.
    Come  abbiamo  visto,  per quanto attiene alla origine dei diritti
 civici, il nostro ordinamento opera una specie di  rinvio  ricettizio
 agli  ordinamenti  precedenti ed obbliga a tener conto esclusivamente
 delle "appartenenze" da essi
 stabilite o riconosciute. Per quanto riguarda invece la modificazione
 e  l'estinzione,  esso  stabilisce  alcune  nuove  fattispecie  -  la
 liquidazione  degli  usi  su  terre  private, la legittimazione delle
 terre abusivamente occupate, la ripartizione delle terre agrarie,  il
 mutamento  di  destinazione  e  la  sdemanializzazione  seguita dalla
 vendita -, riservando peraltro sempre ogni decisione in proposito  ad
 una propria manifestazione discrezionale di volonta'. In nessun caso,
 l'ordinamento  consente  che  la  modificazione  e  l'estinzione  dei
 diritti collettivi derivi direttamente, come  da  causa  sufficiente,
 dalla  volonta'  dei soggetti titolari, sola o congiunta a quella dei
 controinteressati; al contrario, esso costruisce espressamente questi
 diritti come diritti inalienabili, cioe' assolutamente indisponibili.
    In queste connotazioni di imprescrittibilita'  e  indisponibilita'
 sta  la ragione profonda che ha determinato il legislatore del 1927 a
 confidare ad un organo di giustizia (al commissario agli usi  civici)
 l'iniziativa  per  l'accertamento e la tutela dei diritti collettivi.
 In altri  termini,  per  usare  l'espressione  della  Corte  suprema,
 l'anomalia   del   giudice-parte   non   e'   soltanto   un  riflesso
 dell'anomalia  del  giudice-amministratore,  che  e'  definitivamente
 caduta  con  il  d.P.R.  n.  616/1977;  essa e' invece soprattutto il
 riflesso processuale e lo strumento indispensabile per realizzare  la
 imprescrittibilita' e l'indisponibilita' di questi diritti.
    Solo l'iniziativa di un organo di giustizia e' in grado infatti di
 assicurare  quella indefettibilita' della tutela che e' esigita dalle
 connotazioni pubblicistiche dei diritti tutelati; in particolare, ne'
 l'azione di parte ne', in sostituzione, l'iniziativa regionale di cui
 all'art.  10  della  legge  n.  1078/1930,  appaiono  in   grado   di
 sostituirla allo stato, perche' entrambe potrebbero nel caso concreto
 mancare  fin  dall'origine  ovvero,  una volta esercitate, potrebbero
 venir meno  per  ragioni  estranee  alla  tutela  medesima.  Entrambe
 mancano    in    altri    termini    di    quelle   connotazioni   di
 indefettibilita'che  caratterizzano  il  diritto   da   accertare   e
 tutelare.
    7.  - Sulla base delle considerazioni storico-sistematiche fin qui
 esposte possiamo prendere posizione sulla questione  di  legittimita'
 costituzionale sollevata dalla Corte suprema.
    La  giurisdizione commissariale ha in radice natura ricognitiva di
 statuizioni formali apparenenti come tali ad  ordinamenti  pregressi,
 la  cui  efficacia  e'  stata in generale conservata dall'ordinamento
 attuale, ma che restano  da  verificare  caso  per  caso  nella  loro
 esistenza  e  nel  loro  contenuto.  Essa  e' intesa in via diretta e
 primaria a dare  certezza  e  concretezza  ad  un  precetto  generale
 dell'ordinamento, solo in via secondaria e indiretta ad assicurare la
 necessaria  tutela  degli  interessi  o  dei diritti dall'ordinamento
 riconosciuti.
    Questo carattere oggettivo della  giurisdizione  commissariale  e'
 stato  esaltato  dopo il trasferimento alle regioni delle funzioni di
 sistemazione dei demani, sia nel senso che essa e' l'unica funzione a
 contenuto decisorio rimasta al Commissario, sia nel senso che il  suo
 esercizio  ha  assunto una implicita connotazione di pregiudizialita'
 in rapporto alle funzioni amministrative trasferite.
    Nel  promuovere d'ufficio l'esercizio della propria giurisdizione,
 il commissario si fa dunque portatore non dell'interesse  dell'una  o
 dell'altra  parte,  ma  soltanto  del  diritto  oggettivo e della sua
 attuazione, onde non si ravvisa alcun contrasto tra tali poteri e  il
 principio  costituzionale della esclusiva soggezione del giudice alla
 legge (art. 101 della Costituzione).
    In generale, il nostro ordinamento costuisce la domanda giudiziale
 come un diritto potestativo affidato alla volonta' del titolare (art.
 99 del c.p.c.); per contro, esso costruisce i diritti collettivi come
 diritti imprescrittibili e indisponibili,  la  cui  tutela  non  puo'
 essere lasciata solo alla libera e modificabile volonta' del titolare
 senza  negare  per cio' stesso tali connotazioni pubblicistiche e, in
 prospettiva,  gli  stessi  diritti  da  tutelare.  Sussistono  dunque
 ragioni  sufficienti  per derogare, nella materia, al principio della
 domanda.
    In  astratto,  l'iniziativa  giudiziaria  in  materia  di  diritti
 collettivi  potrebbe  essere  affidata  ad  un  qualunque  organo  di
 giustizia opportunamente identificato. E' da escludere, in ogni caso,
 che essa possa essere  affidata  (esclusivamente)  all'ente  regione,
 competente  oggi  per la liquidazione dei diritti collettivi gravanti
 su  terre  private   e   per   la   sistemazione   dei   demani;   la
 discrezionalita'    inerente    alle   operazioni   di   sistemazione
 amministrativa finirebbe infatti per subordinare e/o negare nei fatti
 l'indefettibilita' della tutela giudiziaria e il valore  sommo  della
 certezza del diritto.
    Nell'attuale  stadio  di evoluzione del sistema, non sembra dunque
 irragionevole  che  l'iniziativa  giudiziaria  sia  esercitata  dallo
 stesso giudice chiamato a decidere nel merito, perche' solo in questo
 modo  essa sara' almeno potenzialmente indefettibile, cioe' orientata
 esclusivamente all'accertamento e alla tutela dei diritti.
    Non vi  e'  in  altri  termini  contrasto  tra  questa  previsione
 normativa  e  l'art. 3 della Costituzione; del resto, analoghi poteri
 ufficiosi  sono  attribuiti   al   giudice   fallimentare,   per   la
 dichiarazione d'insolvenza o di fallimento (artt. 6, 8, 147/2 e 195/7
 legge  fallimentare);  al  tribunale, per i provvedimenti d'urgenza a
 tutela dei minori (art. 336/2 del c.c.); al tribunale  dei  minorenni
 per  la dichiarazione di adottabilita' dei minori abbandonati (art. 8
 della  legge  n.  184/1983).   L'analogia   corre   soprattutto   con
 quest'ultimo  caso,  le  terre  collettive costituendo in pratica una
 sorta di patrimonio in attesa di titolare, che  va  identificato  dal
 giudice quanto prima, per consentire una sua corretta sistemazione.
    Solo   l'indefettibilita'   dell'accertamento   e   della   tutela
 giudiziaria, conseguente al suo esercizio ufficioso  e  obbligatorio,
 puo'  consentire  la  correttezza  delle operazioni di liquidazione e
 sistemazione. Va ribadito a tal proposito che all'ente regione non e'
 stato trasferito alcun potere autonomo di accertamento: che, in altre
 parole,  gli  accertamenti  effettuati  dalle  regioni  sono   sempre
 provvisori  e  destinati a cedere di fronte al giudicato, da chiunque
 promosso. Lo stesso art.  10  della  legge  n.  1078/1930,  il  quale
 attribuisce  alla  regione il potere di promuovere l'azione demaniale
 "a difesa dei diritti delle popolazioni" - cioe', in  sostituzione  o
 in  litisconsorzio con gli originari -, implicitamente esclude che le
 appartenga quello di decidere nel merito in via autonoma. I poteri di
 accertamento e tutela giudiziaria, appartenenti al  Commissario,  non
 possono dunque ledere in alcun modo l'autonomia regionale, che rimane
 piena   nel   suo   ambito   anche  se  subordinata  all'accertamento
 giurisdizionale dei diritti.
    Se conflitto si dovesse invece ravvisare tra l'autonomia regionale
 ed i vari concorrenti poteri di iniziativa  giudiziaria  previsti  in
 materia,  esso  riguarderebbe  non solo il potere del commissario, ma
 anche quello delle comunita' e degli originari; e' palese  per'o  che
 in questo caso il conflitto non potrebbe esser risolto col sacrificio
 del potere dei titolari di difendere in giudizio i loro diritti (art.
 23/1 della Costituzione), ma con il sacrificio del potere sostitutivo
 delle regioni.
    Non  sussiste  dunque  alcun  contrasto  tra  i  poteri  d'ufficio
 mantenuti al commissario in tema di esercizio dell'azione demaniale e
 l'art. 118 della Costituzione.
    Per quanto inteso alla attuazione del diritto oggettivo  e  dunque
 assimilabile  ad  alcuni  procedimenti  di  volontaria giurisdizione,
 qualunque procedimento demaniale ha figura di  processo  di  parti  e
 vede  contrapposti  in  concreto  portatori di interessi diversi, che
 hanno tutti diritto di agire e di difendersi davanti al giudice (art.
 24/1 e 24/2 della Costituzione).
    Cio' implica di regola la  terzieta'  del  giudice  rispetto  alle
 parti;  ma  di  cio'  abbiamo  detto sopra con riferimento all'art. 3
 della Costituzione ne' sembra che il riferimento all'art. 24 aggiunga
 qualcosa a quella prospettazione. Quanto al diritto  di  agire  degli
 interessati,  esso  non  e'  certamente negato dai concorrenti poteri
 ufficiosi  del   giudice;   lo   stesso   dicasi   per   ogni   altra
 estrinsecazione  del  diritto  di  difesa  - che del resto in materia
 penale e' stato ritenuto sufficientemente tutelato - salve  eccezioni
 partitamente  esaminate, anche quando il processo si svolgeva davanti
 al pretore che l'aveva promosso.
    I poteri di iniziativa giudiziaria del commissario non confliggono
 dunque neppure con i principi di cui all'art.  24,  primo  e  secondo
 comma, della Costituzione.
    8. - Se tuttavia i poteri di promuovere il giudizio e di deciderlo
 concorrenti  in  capo  allo stesso giudice apparissero ancora non del
 tutto giustificati e  ragionevoli,  la  Corte  delle  leggi  dovrebbe
 considerare che, negli uffici commissariali dove la mole degli affari
 lo richiede, possono essere nominati accanto al commissario dirigente
 dei  commissari  aggiunti,  con  facolta' anche decisionali (art. 1/2
 legge n. 1078/1930); che inoltre il commissario dirigente ha facolta'
 di assegnare agli aggiunti gli affari  da  trattare  e  dunque  anche
 quella  di  riservare  a  se',  per  ogni  affare  o procedimento, le
 funzioni di iniziativa e di impulso processuale.
    Con una sentenza interpretativa di accoglimento, in altri termini,
 la Corte potrebbe ritenere irragionevole l'esercizio da  parte  dello
 stesso  magistrato  dei poteri di promozione e di quelli di decisione
 nella medesima causa e, per gli effetti,  dichiarare  illegittima  la
 normativa  denunciata nella parte in cui non prevede in proposito una
 speciale causa di incompatibilita'.
    La  mole  del  lavoro  derivante  dalla   nuova   incompatibilita'
 consentirebbe   di   destinare   almeno   due   magistrati   ad  ogni
 commissariato; o, in alternativa,  di  applicarne  periodicamente  un
 secondo, quando se ne ravvisi la concreta necessita'.
    In  tal  modo  l'azione  demaniale  verrebbe mantenuta all'ufficio
 commissariale, ma sarebbero escluse le preoccupazioni  fatte  proprie
 dalle   sezioni   unita'   della  Cassazione  circa  la  legittimita'
 costituzionale dell'art. 29 della legge n. 1766/1927, nella parte  in
 cui  attribuisce  al  commissario agli usi civici poteri ufficiosi di
 promozione dei giudizi davanti a se' medesimo.
    Nonostante le argomentazioni contrarie sopra svolte, la obbiettiva
 eccezionalita' della normativa impugnata e il  fatto  stesso  che  la
 questione  di legittimita' costituzionale sia stata gia' sollevata da
 cosi' autorevole consesso, non consentono di ritenere tale  questione
 manifestamente  infondata;  essa  del resto e' rilevante nel presente
 giudizio, dove - in caso di integrale accoglimento -  dovrebbe  esser
 dichiarata   la  carenza  di  legittimazione  dell'organo  che  prese
 l'iniziativa  di  promuoverlo,  mentre  gli  atti  dovrebbero  essere
 restituiti  allo scrivente per l'ulteriore trattazione e la decisione
 finale, se fosse  accolta  la  subordinata  o  se  l'eccezione  fosse
 respinta.
                                P. Q. M.
    Non definitivamente decidendo nella causa in narrativa:
    Dichiara  non  manifestamente infondata con riferimento agli artt.
 3, 24/1, 24/2, 101, 118/1 e 118/2 della Costituzione la questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  29/1  della  legge 16 giugno
 1927, n. 1766, nella parte in cui consente  ai  commissari  agli  usi
 civici   di   promuovere  anche  di  ufficio  i  giudizi  di  propria
 competenza;
    Sospende il giudizio in corso ed ordina la trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale;
    Dispone che, a cura della segreteria, la  presente  ordinanza  sia
 notificata  alle  parti  e al Presidente del Consiglio dei Ministri e
 sia comunicata  al  Presidente  del  Senato  della  Repubblica  e  al
 Presidente della Camera dei Deputati.
      Roma, addi' 27 marzo 1992
           Il commissario aggiunto agli usi civici: CARLETTI

 92C0608