N. 290 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 marzo 1992
N. 290 Ordinanza emessa il 17 marzo 1992 dal tribunale di sorveglianza di Brescia nel procedimento di sorveglianza, su istanza di affidamento in prova al S.S. proposta da Braga Francesco Ordinamento penitenziario - Affidamento in prova al servizio sociale - Concessione - Criteri - Determinazione del limite di tre anni di pena "inflitta" - Riferimento, per la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla base della sentenza n. 386/1989, della Corte costituzionale, alla pena residua da espiare in concreto - Conseguente ammissibilita' del beneficio anche nell'ipotesi, non esaminata dalla Corte costituzionale nelle precedenti pronunce, di pena superiore al limite dei tre anni irrogata per un unico reato, il cui residuo da espiare sia inferiore al suddetto limite - Irragionevole equiparazione, ai fini della concessione del beneficio, di diverse situazioni (soggetti condannati per piu' reati il cui cumulo superi il limite e soggetti condannati per un solo reato per cui e' stata inflitta una pena superiore ai tre anni) - Prospettata incidenza sul principio di imparzialita', e buon andamento della pubblica amministrazione. (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, primo comma, e successive modificazioni). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.22 del 27-5-1992 )
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento relativo a Braga Francesco, nato a S. Colombano al Lambro il 28 gennaio 1945, residente a Prato, via Montagnola n. 76, detenuto nella casa circondariale di Bergamo, avente per oggetto: istanza di affidamento in prova al S.S., in relazione alla sentenza emessa dalla Corte d'appello di Torino in data 29 novembre 1984 che lo condannava ad anni 15 di reclusione per il reato di cui all'art. 630 del c.p. (ordine di carcerazione emesso dalla procura generale della Repubblica di Torino n. 320/1986 r. es. dd. 18 luglio 1987). 1. - Decidendo su una questione sollevata da questo tribunale la Corte costituzionale, con sentenza n. 386 del 4-11 luglio 1989, (ribadita con l'ordinanza n. 509 del 15 ottobre 1990) ha statuito, che nel computo delle pene, al fine della determinazione del limite di tre anni (di cui all'art. 47, legge pen.) non si deve tener conto "anche delle pene espiate". La Corte di cassazione, prima con la sentenza sez. fer. 8 settembre 1989 (in cass. pen. 1990, 320) e poi con la sentenza delle sezioni unite (caso Turelli) del 16 novembre 1989 (in cass. pen. 1990, 591), preso atto della sentenza suddetta della Corte costituzionale, ha ritenuto di interpretare la norma nel senso che per pena "inflitta" deve ora intendersi quella ancora da espiare, vale a dire la pena residua. Tale autorevole interpretazione, finisce per stravolgere il significato dell'aggettivo "inflitta" usato dal legislatore e confonde la pena "inflitta" con quella "espiata". Innegabili infatti sono i problemi di interpretazione letterale della decisione che innova profondamente nel sistema e modifica nella sostanza l'istituto dell'affidamento, operazione questa che sembra spettare soltanto al legislatore ordinario. La cassazione, a sezioni unite, con la sent. 26 aprile 1989 (Russo, in cass. pen. 1989, 1443), aveva sostenuto l'esatto contrario, affermando addirittura che sulla pena "inflitta" non incide neppure la parte di pena estinta per condono (vale a dire per una causa estintiva generale, diversa dalla espiazione). L'esame della sentenza della Corte costituzionale non porta a concludere che non vi sono spazi di ulteriori discussioni sull'argomento. Ne' che la Corte stessa abbia affermato che della pena inflitta deve essere tolta, sempre ed in ogni caso, la parte di pena gia' espiata. Il caso che era stato sottoposto alla Corte, riguardava un cumulo materiale di pene, derivante da varie condanne, di modesta entita', dipendenti da reati commessi in tempi e luoghi diversi. E la Corte ha puntualmente risposto, laddove ha parlato nel dispositivo al plurale di "pene espiate". L'uso del plurale nel dispositivo, non sembra casuale perche' legato a piu' condonne ed a piu' reati e non ad una condanna soltanto. Se la Corte avesse voluto giungere alle conclusioni fatte proprie dalla cassazione, avrebbe dovuto usare anche nel dispositivo termini diversi e piu' chiari. Nella motivazione non si rinvengono passi determinanti ed univoci: tutt'altro. La Corte ha infatti precisato (par. 2, terzo comma) che il problema sorge allorquando il condannato ha piu' pene concorrenti, a seguito di piu' sentenze di condanna, e ne sia stato disposto il cumulo .. oppure quando .. il condannato si trovi in corso di espiazione di varie pene inflitte, senza soluzione di continuita'. Tali frasi delimitano esattamente l'area del thema decidendi e non lasciano dubbi sul fatto che la Corte ha preso in esame una fattispecie ben precisa e soltanto quella, senza allargare la decisione a fattispecie analoghe o diverse. La Corte, peraltro, in seguito sembra ampliare il discorso alla fattispecie delle pena unica, perche' afferma: "se al contrario .. si ritiene che e' proprio la pena espianda che il legislatore abbia inteso riferirsi con quel limite di anni tre, resta allora senza razionale giustificazione che non si debba escludere dal computo proprio la causa principale di consunzione della pena .. l'espiazione". Il fatto e' che manca, nel discorso complessivo della motivazione, qualsiasi dimostrazione della suddetta affermazione, che viene posta come un postulato non dimostrato ne' dimostrabile. Il punto sta proprio nella non condivisibile affermazione, secondo cui il legislatore del 1975 abbia voluto riferirsi alla "pena espianda", anziche' a quella "inflitta". Il significato letterale dell'aggettivazione non lascia spazi al dubbio dell'interprete; la ratio della norma era poi chiaramente intesa a riservare la misura alternativa soltanto alle condanne per reati di non grave allarme sociale. D'altra parte, nulla vieta in linea teorica che il legislatore ordinario possa anche accedere alla tesi; ma occorre al riguardo una approfondita valutazione delle condizioni socio-politiche della nostra societa' ed una favorevole situazione dell'ordine pubblico (e quindi dal controllo della criminalita' da parte degli organi a cio' preposti), situazione oggi certamente insussistente e quindi tale da suggerire la massima cautela, ad avviso di molti tribunali di sorveglianza la cui giurisprudenza non e' certo sospetta al riguardo. Continua la Corte: " .. essendo l'affidamento uno dei modi di esecuzione della pena .. e' sembrato correttamente al legislatore che l'adozione di una siffatta forma alternativa .. dovesse essere contenuta entro limiti di una certa relativa brevita' della detenzione effettivamente da scontare .. d'altra parte proprio in presenza di una lunga pena da espiare, una adeguata prognosi relativa agli effetti rieducativi .. non potrebbe essere espressa con sufficiente tranquillita' senza l'osservazione anche del comportamento tenuto nel corso della espiazione detentiva della parte di pena che supera i tre anni". Al par. 3) la decisione ritorna invece a parlare al plurale: "orbene, se tutto cio' corrisponde alla ratio .. per la quale si rinunzia a tener conto di pene che .. non potrebbero mai consentire alcuna osservazione. Ma se cosi' e' .., allora non si deve tener conto .. di pene che essendo state espiate, hanno consentito una piu' lunga osservazione del comportamento ..". "Ancora piu' imperativa e' la necessita' che .. la norma offra all'interprete una formulazione .. ossequiamente alla funzione costituzionale della pena ed al principio di eguaglianza. In tali ipotesi, quasi sempre i reati commessi sono determinati dalla necessita' di procacciarsi droga .." (con riferimeno all'affidamento particolare di tossicodipendenti). 2. - Dalla lettura della sentenza n. 20/1989 (Turelli) delle sezioni unite della cassazione non emergono elementi nuovi. Innanzi tutto, anche il caso sottosposto al giudizio delle sezioni era analogo a quello (Fassi) di cui al giudizio della Corte costituzionale. Il Turelli, infatti, stava scontando un cumulo di condanne per un totale di 8 anni ed 8 mesi di reclusione, ma nessuna delle condanne duperava i tre anni e la pena residua da espiare al momento della istanza non superava tale limite. Le sezioni unite, inoltre, cosi' come in precedenza la Corte, hanno esteso il principio (secondo cui "pena inflitta" e' la "pena da espiare in concreto", ai fini dell'art. 47), senza operare alcuna distinzione tra le varie cause di estinzione (in particolare per atto di generale clemenza e per espiazione effettiva) e senza distinguere tra "le pene" e la "pena", vale a dire tra il condannato per unico reato e quello con varie sentenze e per diversi reati di bassa o modesta rilevanza. Le sezioni unite hanno preso soltanto atto della interpretazione data dalla Corte e l'hanno accolta, limitandosi a dire che "e' intervenuta una precisa declaratoria di illegittimita' costituzionale che non lascia spazio ad ulteriori discussioni sull'argomento". Le sezioni hanno sottolineato che la Corte nel dispositivo ha dichiarato l'incostituzionalita' dell'art. 47 nella parte in cui non prevede che .. "non si debba tener conto anche delle pene espiate", ma ne hanno poi tratto la convinzione che i giudici costituzionali abbiano "dedotto una ulteriore estensione dell'ambito di applicazione dell'art. 47, primo comma, escludendo dalla pena inflitta anche la parte di pena gia' espiata". Dalle "pene espiate" si passa cosi' alla "parte di pena gia' espiata", senza alcuna disamina critica dei gravi problemi anche politico-sociali che simile affermazione sottende e che non possono che essere affrontati dal legislatore. Le sezioni ammettono, anche, che l'art. 47, primo comma, e' "norma laconica" che consente "soluzioni diverse" e non sempre rispettose dei principi costituzionali. Finiscono poi per riconoscere che la Corte costituzionale "ha implicitamente confermato" che la parte di pena condonata andava esclusa dal computo (e su tale punto ormai vi e' un accordo generale). Alla fine, ritenuto "precluso ogni ulteriore esame della questione", le sezione unite ritornano all'uso del plurale (non si deve tener conto sia delle pene condonate che "di quelle espiate"). Ricalcano cioe' la terminologia usata dalla Corte costituzionale che, nel caso esaminato e' puntuale e condivisibile, pero' dopo avere usato espressioni che si riferiscono a fattispecie diversa. 3. - Non vi e' dubbio che l'espiazione e' il modo "fisiologico" di estinzione della pena; anzi e' il modo "naturale", tanto e' vero che la pena "eseguita", secondo il nostro sistema penale, secondo certe regole (artt. 141 e 149 del c.p. e legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modifiche). Cio' e' tanto vero che il codice non annovera l'espiazione tra le cause di estinzione: basti leggere il capo secondo, del titolo sesto del primo libro del c.p. (artt. 171 e segg.) per convincersi di questa realta'. Le norme suddette regolano all'evidenza soltanto i modi "patologici" di estinzione della pena, tutti modi che prescindono dalla espiazione e come tali sono in netta contrapposizione con l'espiazione stessa (morte del reo dopo la condanna; decorso di un certo tempo dopo il giorno in cui la condanna sia divenuta irrevocabile senza che l'espiazione abbia inizio; decorso di un certo tempo quando sia stato concesso il beneficio della non iscrizione della condanna stessa nel certificato penale; liberazione condizionale, decorso tutto il tempo della "pena inflitta", in espiazione in carcere e fuori dal carcere in liberta' vigilata; condono od amnistia a seguito di un provvedimento straordinario scaturente dalla decisione del Parlamento). I modi suddetti di estinzione non possono giocare lo stesso ruolo dell'espiazione, ne' essere equiparati alla stessa, perche' lo vietano le norme del nostro ordinamento positivo, oltre che il principio della ragionevolezza, che deve sempre presiedere a tutte le azioni umane. Lo vieta, inoltre, la realta' dei fatti perche' in tutti i casi stessi, lo Stato rinuncia - a certe condizioni - proprio a richiedere l'espiazione della pena, con la conseguenza che la pena "espiata" rimane sempre "inflitta" e puo' essere "alternata" con le misure specifiche previste dalla legge (fra cui l'affidamento), mentre la pena "estinta" per cause diverse da quelle dell'espiazione e' oggetto di rinuncia da parte dello Stato e, anche se rimane "storicamente" inflitta, non puo' essere eseguita. Come tale, piu' non essendo rilevante ai fini delle misure alternative, non ne puo' essere tenuto conto nella interpretazione ed applicazione dell'art. 47 ord. pen. Anche sul piano criminologico, non e' vero che a parita' di quantita' di pena corrisponde pari pericolosita' sociale. Numerosissimi sono i pluricondannati per reati contro il patrimonio che espiano pene la cui somma aritmetica supera la misura della pena inflitta all'omicida, delinquente primario. Eppure e' difficile affermare che nel primo caso il soggetto sia da considerare meno pericoloso, almeno al momento in cui e' emessa la condanna, perche' sono la natura del reato, l'allarme sociale, la riprovazione collettiva che vengono in considerazione sul piano della comminatoria legislativa e su quello dell'applicazione giudiziaria. Ferma la quantita' di "pena inflitta", la pena da espiare dipende da una serie di variabili successive, che incidono esclusivamente sul momento esecutivo ma che sfuggono al momento decisionale del giudice di merito, l'unica autorita' competente ad emettere la sentenza ed a fissare la quantita' di pena, tenuto conto dei minimi e dei massimi edittali, dei criteri dettati dall'art. 133 del cod. pen., delle circostanze attenuanti ed aggravanti. Porre sullo stesso piano tutte le cause estintive della pena, quelle fisiologiche e quelle patologiche, ai fini che ne occupano, allo Stato non sembra consentito. 4. - Il caso in esame rientra tra quelli ricordati dalla Corte costituzionale al punto 7 della sentenza n. 17 del 22-24 gennaio 1992, emessa su sollecitazione del tribunale di sorveglianza di Torino (ordinanza 26 ottobre 1990). Si tratta, precisamente, di un soggetto condannato per unico reato (quello di sequestro di persona) a pene superiori a tre anni (e precisamente ad anni 15), mentre la pena residua da espiare e' inferiore a 3 anni. La Corte, nella sentenza sopra indicata, osserva esattamente che il punto non e' stato esaminato ne' nella sentenza n. 386/1989 ne' nella ordinanza n. 509/1990. Cio' e' molto importante, smentisce le sezioni unite della cassazione e conferma le tesi qui sostenute. Meno precisa e' l'affermazione secondo cui i giudici ordinari non avrebbero mai esaminato il punto stesso. Infatti, risulta dal sondaggio effettuato dalla commissione consultiva istituita dal Ministro di grazia e giustizia, per lo stu- dio dei problemi e l'applicazione delle norme dell'ordinamento penitenziario, che n. 9 tribunali di sorveglianza ritengono ammissibile la domanda di affidamento qualora la pena residua in effetti da espiarsi non sia superiore a 3 anni, mentre altri 17 affermano l'esatto contrario. La Corte di cassazione, d'altra parte piu' volte investita dal problema mediante i ricorsi degli interessati, si e' pronunciata nel senso della ammissibilita'. Si vedano le sentenze della prima sezione: nn. 1853 del 18 luglio 1990, 657 del 22 marzo 1990, 798 del 13 aprile 1990, 1174 dell'11 maggio 1990, 725 e 1177 del 16 maggio 1990, 4398 e 4016 del 16 gennaio 1991, 630 del 15 marzo 1991, 331 del 19 marzo 1991, 960 del 2 aprile 1991. Secondo le suddette decisioni, e' ammissibile l'affidamento in prova quando la pena detentiva inflitta, detratta quella eventualmente gia' espiata (e quella condonata) "residui in misura non superiore a tre anni". E tale principio trova applicazione nel caso di esecuzione di pene irrogate sia con una pluralita' di sentenze di condanna che con unica decisione. E la Cassazione, con altra recente sentenza (n. 790 del 19 agosto 1991) ha precisato che il tribunale di sorveglianza, pur non essendo giudice di rinvio, non puo' discostarsi dalla interpretazione della nozione di "pena inflitta" resa dalla cassazione stessa in materia di affidamento in prova al servizio sociale. Il "braccio di ferro" tra la maggioranza dei tribunali di sorveglianza e la Corte di cassazione, pertanto, e' ormai un dato di fatto chiaro ed incontrovertibile. 5. - La questione di incostituzionalita' di una siffatta interpretazione dell'art. 47, primo comma, ord. penit. operata dalla Corte di cassazione, con giurisprudenza ormai consolidata, nel caso di unico reato e di unica pena "inflitta", in misure superiori a tre anni, (gia' dedotto anche l'eventuale condono), sembra al collegio non manifestamente infondata e pertanto viene rimessa all'esame della Corte, perche' dica una parola definitiva che metta ordine nella giurisprudenza, e ridia certezza e prestigio alla pena, oggi profondamente in crisi, in tal modo accogliendo l'implicito invito contenuto nel secondo comma del punto 7 della sentenza succitata n. 17 del 22-24 gennaio 1992, che recita testualmente: "Il punto .. non e' stato esaminato dalla ricordata sentenza n. 386/1989 ne' a quanto risulta dalla successiva giurisprudenza dei giudici ordinari: in proposito, quindi, il Tribunale a quo e' pienamente libero nel suo potere interpretativo". Sulla affermazione non si puo' che concordare, ma tale liberta' non ha senso se la Corte di cassazione, in sede di suprema regolazione del diritto, perviene a conclusioni diverse. Deve essere chiaro che nella specie non si verte nella ipotesi di una inammissibile "rivolta" di giudici di merito nei confronti della Corte di cassazione, la cui funzione fondamentale ed autorevolezza sono fuori discussione. Il punto e' che la giurisprudenza ormai consolidata dalla cassazione sul punto, non e' fondata sulla interpretazione dell'art. 47, primo comma, ord. penit. effettuata autonomamente dalla Corte suprema secondo i canoni ordinari, ma sulla interpretazione di una sentenza-cardine, quella n. 386/1989 della Corte costituzionale. Ritiene il collegio che soltanto la Corte costituzionale medesima abbia titolo per interpretare, chiarire, rendere applicabili le proprie decisioni, ponendo fine all'attuale, conflittuale e pericolosa situazione. Cio' e' tanto piu' certo, dopo che la stessa Corte costituzionale ha esplicitamente, affermato nella sentenza n. 17/1992, che il punto "non e' stato esaminato dalla ricordata sentenza n. 386/1989". Pertanto, la Corte dira' se nello specifico caso qui esaminato, lo stato della giurisprudenza sia tale da violare i seguenti principi costituzionali: 1) quello della pari dignita' sociale e della eguaglianza di tutti di fronte alla legge (art. 3, primo comma), perche' assicura lo stesso trattamento alternativo al carcere, ai condannati per reati di alto allarme sociale cosi' come a quelli che invece hanno commesso reati di minore gravita': 2) quello del buon andamento e della imparzialita' della amministrazione (art. 97, primo comma), perche' l'attuale situazione pone in serio imbarazzo l'amministrazione penitenziaria, le forze dell'ordine ed i magistrati, fornisce motivi di incertezza nella azione di repressione dei reati piu' gravi, delegittima le funzioni di prevenzione generale e di deterrenza che sono proprie della pena; scredita agli occhi dei cittadini l'azione dello Stato tendente a contrastare l'aumento della criminalita'; 3) quello di ragionevolezza, cui piu' volte la Corte si e' giustamente richiamata, perche' l'attuale situazione confligge con i canoni basilari del comune sentire, non comprendendo la pubblica opinione soprattutto nel momento difficile che stiamo vivendo, come possa ottenere un trattamento di estremo favore (sia pure nella parte finale della espiazione), colui che ha commesso un reato grave o gravissimo, tanto piu' che altri strumenti sono previsti dalla legge, (come la grazia o la liberazione condizionale) per soddisfare le esigenze dei soggetti che si sono macchiati di gravi delitti ma si sono ravveduti ed emendati.
P. Q. M. Dichiara pregiudiziale, rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 47, primo comma, della legge 26 luglio 1975 e succ. mod., cosi' come interpretato dalla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, nella parte in cui ritiene che per la "pena inflitta", in relazione ad unico reato, si debba intendere quella residua da espiare in concreto, per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, con il principio di ragionevolezza e con la sentenza della Corte costituzionale n. 386/1989; Sospende il giudizio in corso; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che la presente ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Brescia il 17 marzo 1992. Il presidente: ZAPPA Il magistrato di sorveglianza: FACCHIN Gli esperti: DOLCINI - ROMANO Depositata il 20 marzo 1992 Il collaboratore di cancelleria: BERTOLI 92C0618