N. 290 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 marzo 1992

                                N. 290
 Ordinanza emessa il 17 marzo 1992 dal tribunale  di  sorveglianza  di
 Brescia  nel  procedimento di sorveglianza, su istanza di affidamento
 in prova al S.S. proposta da Braga Francesco
 Ordinamento penitenziario - Affidamento in prova al servizio sociale
    - Concessione - Criteri - Determinazione del limite di tre anni di
    pena "inflitta" - Riferimento, per la giurisprudenza  della  Corte
    di  cassazione  sulla base della sentenza n. 386/1989, della Corte
    costituzionale,  alla  pena  residua  da  espiare  in  concreto  -
    Conseguente  ammissibilita'  del beneficio anche nell'ipotesi, non
    esaminata dalla Corte costituzionale nelle precedenti pronunce, di
    pena superiore al limite dei tre anni irrogata per un unico reato,
    il cui residuo da espiare  sia  inferiore  al  suddetto  limite  -
    Irragionevole   equiparazione,   ai  fini  della  concessione  del
    beneficio, di diverse situazioni  (soggetti  condannati  per  piu'
    reati  il cui cumulo superi il limite e soggetti condannati per un
    solo reato per cui e' stata inflitta una  pena  superiore  ai  tre
    anni)  -  Prospettata  incidenza sul principio di imparzialita', e
    buon andamento della pubblica amministrazione.
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 47, primo comma, e successive
    modificazioni).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.22 del 27-5-1992 )
                     IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento  relativo  a
 Braga  Francesco,  nato  a S. Colombano al Lambro il 28 gennaio 1945,
 residente  a  Prato,  via  Montagnola  n.  76,  detenuto  nella  casa
 circondariale  di Bergamo, avente per oggetto: istanza di affidamento
 in prova al S.S., in  relazione  alla  sentenza  emessa  dalla  Corte
 d'appello  di  Torino  in  data 29 novembre 1984 che lo condannava ad
 anni 15 di reclusione per il reato  di  cui  all'art.  630  del  c.p.
 (ordine   di   carcerazione   emesso  dalla  procura  generale  della
 Repubblica di Torino n. 320/1986 r. es. dd. 18 luglio 1987).
    1.  -  Decidendo su una questione sollevata da questo tribunale la
 Corte costituzionale, con sentenza  n.  386  del  4-11  luglio  1989,
 (ribadita  con  l'ordinanza  n. 509 del 15 ottobre 1990) ha statuito,
 che nel computo delle pene, al fine della determinazione  del  limite
 di  tre anni (di cui all'art. 47, legge pen.) non si deve tener conto
 "anche delle pene espiate".
    La Corte  di  cassazione,  prima  con  la  sentenza  sez.  fer.  8
 settembre  1989 (in cass. pen. 1990, 320) e poi con la sentenza delle
 sezioni unite (caso Turelli) del 16  novembre  1989  (in  cass.  pen.
 1990,   591),   preso   atto  della  sentenza  suddetta  della  Corte
 costituzionale, ha ritenuto di interpretare la norma  nel  senso  che
 per  pena  "inflitta"  deve  ora intendersi quella ancora da espiare,
 vale a dire la pena residua.
    Tale  autorevole  interpretazione,  finisce  per  stravolgere   il
 significato   dell'aggettivo   "inflitta"  usato  dal  legislatore  e
 confonde la pena "inflitta" con quella "espiata".
    Innegabili infatti sono i problemi  di  interpretazione  letterale
 della decisione che innova profondamente nel sistema e modifica nella
 sostanza  l'istituto  dell'affidamento,  operazione questa che sembra
 spettare soltanto al legislatore ordinario.
    La cassazione, a sezioni  unite,  con  la  sent.  26  aprile  1989
 (Russo,   in   cass.  pen.  1989,  1443),  aveva  sostenuto  l'esatto
 contrario, affermando  addirittura  che  sulla  pena  "inflitta"  non
 incide  neppure la parte di pena estinta per condono (vale a dire per
 una causa estintiva generale, diversa dalla espiazione).
    L'esame della sentenza della  Corte  costituzionale  non  porta  a
 concludere   che   non   vi   sono  spazi  di  ulteriori  discussioni
 sull'argomento.
    Ne' che la Corte stessa abbia affermato che  della  pena  inflitta
 deve  essere  tolta,  sempre  ed  in ogni caso, la parte di pena gia'
 espiata.
    Il caso che era stato sottoposto alla Corte, riguardava un  cumulo
 materiale  di  pene, derivante da varie condanne, di modesta entita',
 dipendenti da reati commessi in tempi e luoghi diversi.
    E la Corte  ha  puntualmente  risposto,  laddove  ha  parlato  nel
 dispositivo al plurale di "pene espiate".
    L'uso  del  plurale  nel  dispositivo,  non sembra casuale perche'
 legato a piu' condonne  ed  a  piu'  reati  e  non  ad  una  condanna
 soltanto.
    Se  la Corte avesse voluto giungere alle conclusioni fatte proprie
 dalla cassazione, avrebbe dovuto usare anche nel dispositivo  termini
 diversi e piu' chiari.
    Nella motivazione non si rinvengono passi determinanti ed univoci:
 tutt'altro.
    La  Corte  ha  infatti  precisato  (par.  2,  terzo  comma) che il
 problema sorge allorquando il condannato ha piu' pene concorrenti,  a
 seguito  di  piu'  sentenze  di  condanna, e ne sia stato disposto il
 cumulo .. oppure quando  ..  il  condannato  si  trovi  in  corso  di
 espiazione di varie pene inflitte, senza soluzione di continuita'.
   Tali  frasi delimitano esattamente l'area del thema decidendi e non
 lasciano dubbi  sul  fatto  che  la  Corte  ha  preso  in  esame  una
 fattispecie  ben  precisa  e  soltanto  quella,  senza  allargare  la
 decisione a fattispecie analoghe o diverse.
    La  Corte,  peraltro,  in seguito sembra ampliare il discorso alla
 fattispecie delle pena unica, perche' afferma: "se al contrario .. si
 ritiene che e' proprio la pena  espianda  che  il  legislatore  abbia
 inteso  riferirsi  con  quel  limite  di anni tre, resta allora senza
 razionale giustificazione che non  si  debba  escludere  dal  computo
 proprio   la   causa   principale   di   consunzione  della  pena  ..
 l'espiazione".
    Il fatto e' che manca, nel discorso complessivo della motivazione,
 qualsiasi dimostrazione della suddetta affermazione, che viene  posta
 come un postulato non dimostrato ne' dimostrabile.
    Il punto sta proprio nella non condivisibile affermazione, secondo
 cui  il  legislatore  del  1975  abbia  voluto  riferirsi  alla "pena
 espianda", anziche' a quella "inflitta".
    Il significato letterale dell'aggettivazione non lascia  spazi  al
 dubbio  dell'interprete;  la  ratio  della  norma era poi chiaramente
 intesa a riservare la misura alternativa soltanto alle  condanne  per
 reati di non grave allarme sociale.
    D'altra  parte,  nulla  vieta  in linea teorica che il legislatore
 ordinario possa anche accedere alla tesi; ma occorre al riguardo  una
 approfondita   valutazione  delle  condizioni  socio-politiche  della
 nostra societa' ed una favorevole situazione dell'ordine pubblico  (e
 quindi  dal controllo della criminalita' da parte degli organi a cio'
 preposti), situazione oggi certamente insussistente e quindi tale  da
 suggerire  la  massima  cautela,  ad  avviso  di  molti  tribunali di
 sorveglianza la cui giurisprudenza non e' certo sospetta al riguardo.
    Continua la Corte: " .. essendo  l'affidamento  uno  dei  modi  di
 esecuzione della pena .. e' sembrato correttamente al legislatore che
 l'adozione  di  una  siffatta  forma  alternativa  ..  dovesse essere
 contenuta  entro  limiti  di  una  certa  relativa   brevita'   della
 detenzione  effettivamente  da  scontare  .. d'altra parte proprio in
 presenza di una lunga pena da espiare, una adeguata prognosi relativa
 agli  effetti  rieducativi  ..  non  potrebbe  essere  espressa   con
 sufficiente    tranquillita'    senza    l'osservazione   anche   del
 comportamento tenuto nel corso della espiazione detentiva della parte
 di pena che supera i tre anni".
    Al par. 3) la decisione  ritorna  invece  a  parlare  al  plurale:
 "orbene,  se  tutto  cio'  corrisponde  alla ratio .. per la quale si
 rinunzia a tener conto di pene che .. non potrebbero  mai  consentire
 alcuna  osservazione.  Ma  se  cosi'  e' .., allora non si deve tener
 conto .. di pene che essendo state espiate, hanno consentito una piu'
 lunga osservazione del comportamento ..". "Ancora piu' imperativa  e'
 la  necessita'  che .. la norma offra all'interprete una formulazione
 .. ossequiamente  alla  funzione  costituzionale  della  pena  ed  al
 principio  di  eguaglianza.  In  tali  ipotesi,  quasi sempre i reati
 commessi sono determinati dalla necessita' di procacciarsi droga  .."
 (con riferimeno all'affidamento particolare di tossicodipendenti).
    2.  -  Dalla  lettura  della  sentenza  n. 20/1989 (Turelli) delle
 sezioni unite della cassazione non emergono elementi nuovi.
    Innanzi tutto, anche il caso sottosposto al giudizio delle sezioni
 era  analogo  a  quello  (Fassi)  di  cui  al  giudizio  della  Corte
 costituzionale.  Il  Turelli,  infatti,  stava scontando un cumulo di
 condanne per un totale di 8 anni ed 8 mesi di reclusione, ma  nessuna
 delle  condanne  duperava  i tre anni e la pena residua da espiare al
 momento della istanza non superava tale limite.
    Le  sezioni  unite,  inoltre,  cosi'  come in precedenza la Corte,
 hanno esteso il principio (secondo cui "pena inflitta" e' la "pena da
 espiare in concreto", ai fini dell'art.  47),  senza  operare  alcuna
 distinzione tra le varie cause di estinzione (in particolare per atto
 di  generale clemenza e per espiazione effettiva) e senza distinguere
 tra "le pene" e la "pena", vale a dire tra il  condannato  per  unico
 reato  e  quello  con  varie  sentenze e per diversi reati di bassa o
 modesta rilevanza.
    Le sezioni unite hanno preso soltanto atto  della  interpretazione
 data  dalla  Corte  e  l'hanno  accolta,  limitandosi  a dire che "e'
 intervenuta una precisa declaratoria di illegittimita' costituzionale
 che non lascia spazio ad ulteriori discussioni sull'argomento".
    Le sezioni hanno sottolineato che  la  Corte  nel  dispositivo  ha
 dichiarato  l'incostituzionalita' dell'art. 47 nella parte in cui non
 prevede che .. "non si debba tener conto anche delle  pene  espiate",
 ma  ne  hanno  poi tratto la convinzione che i giudici costituzionali
 abbiano "dedotto una ulteriore estensione dell'ambito di applicazione
 dell'art. 47, primo comma, escludendo dalla pena  inflitta  anche  la
 parte di pena gia' espiata".
    Dalle  "pene  espiate"  si  passa  cosi'  alla "parte di pena gia'
 espiata", senza alcuna disamina  critica  dei  gravi  problemi  anche
 politico-sociali  che  simile affermazione sottende e che non possono
 che essere affrontati dal legislatore.
    Le sezioni ammettono, anche, che l'art. 47, primo comma, e' "norma
 laconica" che consente "soluzioni diverse" e  non  sempre  rispettose
 dei  principi  costituzionali.  Finiscono  poi per riconoscere che la
 Corte costituzionale "ha implicitamente confermato" che la  parte  di
 pena  condonata  andava esclusa dal computo (e su tale punto ormai vi
 e' un accordo generale).
    Alla  fine,  ritenuto  "precluso  ogni   ulteriore   esame   della
 questione",  le  sezione  unite ritornano all'uso del plurale (non si
 deve tener conto sia delle pene condonate che "di quelle espiate").
    Ricalcano cioe' la terminologia usata dalla  Corte  costituzionale
 che, nel caso esaminato e' puntuale e condivisibile, pero' dopo avere
 usato espressioni che si riferiscono a fattispecie diversa.
    3. - Non vi e' dubbio che l'espiazione e' il modo "fisiologico" di
 estinzione  della pena; anzi e' il modo "naturale", tanto e' vero che
 la pena "eseguita", secondo il nostro sistema penale,  secondo  certe
 regole  (artt.  141  e 149 del c.p. e legge 26 luglio 1975, n. 354, e
 successive modifiche). Cio' e' tanto vero che il codice non  annovera
 l'espiazione  tra  le  cause  di  estinzione:  basti  leggere il capo
 secondo, del titolo sesto del primo  libro  del  c.p.  (artt.  171  e
 segg.) per convincersi di questa realta'.
    Le   norme   suddette   regolano   all'evidenza  soltanto  i  modi
 "patologici" di estinzione della pena,  tutti  modi  che  prescindono
 dalla  espiazione  e  come  tali  sono  in netta contrapposizione con
 l'espiazione stessa (morte del reo dopo la condanna;  decorso  di  un
 certo   tempo  dopo  il  giorno  in  cui  la  condanna  sia  divenuta
 irrevocabile senza che l'espiazione abbia inizio; decorso di un certo
 tempo quando sia stato concesso il  beneficio  della  non  iscrizione
 della   condanna   stessa   nel   certificato   penale;   liberazione
 condizionale, decorso  tutto  il  tempo  della  "pena  inflitta",  in
 espiazione  in  carcere  e  fuori  dal  carcere in liberta' vigilata;
 condono od amnistia  a  seguito  di  un  provvedimento  straordinario
 scaturente dalla decisione del Parlamento).
    I  modi suddetti di estinzione non possono giocare lo stesso ruolo
 dell'espiazione,  ne'  essere  equiparati  alla  stessa,  perche'  lo
 vietano  le  norme  del  nostro  ordinamento  positivo,  oltre che il
 principio della ragionevolezza, che deve sempre presiedere a tutte le
 azioni umane.
    Lo vieta, inoltre, la realta' dei fatti perche' in  tutti  i  casi
 stessi, lo Stato rinuncia - a certe condizioni - proprio a richiedere
 l'espiazione  della  pena,  con  la conseguenza che la pena "espiata"
 rimane sempre "inflitta" e puo'  essere  "alternata"  con  le  misure
 specifiche  previste  dalla  legge (fra cui l'affidamento), mentre la
 pena "estinta" per cause diverse da quelle dell'espiazione e' oggetto
 di rinuncia da parte dello Stato e, anche  se  rimane  "storicamente"
 inflitta,  non  puo'  essere  eseguita.  Come  tale, piu' non essendo
 rilevante ai fini delle misure alternative, non ne puo' essere tenuto
 conto nella interpretazione ed applicazione dell'art.  47  ord.  pen.
 Anche sul piano criminologico, non e' vero che a parita' di quantita'
 di  pena corrisponde pari pericolosita' sociale. Numerosissimi sono i
 pluricondannati per reati contro il patrimonio che  espiano  pene  la
 cui   somma   aritmetica   supera   la  misura  della  pena  inflitta
 all'omicida, delinquente primario. Eppure e' difficile affermare  che
 nel primo caso il soggetto sia da considerare meno pericoloso, almeno
 al  momento  in cui e' emessa la condanna, perche' sono la natura del
 reato, l'allarme sociale, la riprovazione collettiva che  vengono  in
 considerazione  sul  piano della comminatoria legislativa e su quello
 dell'applicazione giudiziaria.
    Ferma la quantita' di "pena inflitta", la pena da espiare  dipende
 da una serie di variabili successive, che incidono esclusivamente sul
 momento  esecutivo ma che sfuggono al momento decisionale del giudice
 di merito, l'unica autorita' competente ad emettere la sentenza ed  a
 fissare  la  quantita' di pena, tenuto conto dei minimi e dei massimi
 edittali, dei criteri dettati dall'art.  133  del  cod.  pen.,  delle
 circostanze attenuanti ed aggravanti.
    Porre  sullo  stesso  piano  tutte  le cause estintive della pena,
 quelle fisiologiche e quelle patologiche, ai fini  che  ne  occupano,
 allo Stato non sembra consentito.
    4.  -  Il  caso  in esame rientra tra quelli ricordati dalla Corte
 costituzionale al punto 7 della sentenza  n.  17  del  22-24  gennaio
 1992,  emessa  su  sollecitazione  del  tribunale  di sorveglianza di
 Torino (ordinanza 26 ottobre 1990).
    Si tratta, precisamente, di un soggetto condannato per unico reato
 (quello di sequestro di persona) a  pene  superiori  a  tre  anni  (e
 precisamente  ad  anni  15),  mentre  la  pena  residua da espiare e'
 inferiore a 3 anni.
    La Corte, nella sentenza sopra indicata, osserva  esattamente  che
 il  punto  non  e' stato esaminato ne' nella sentenza n. 386/1989 ne'
 nella ordinanza n. 509/1990. Cio' e' molto importante,  smentisce  le
 sezioni unite della cassazione e conferma le tesi qui sostenute.
    Meno  precisa e' l'affermazione secondo cui i giudici ordinari non
 avrebbero mai esaminato il punto stesso.
    Infatti,  risulta  dal  sondaggio  effettuato  dalla   commissione
 consultiva  istituita dal Ministro di grazia e giustizia, per lo stu-
 dio  dei  problemi  e  l'applicazione  delle  norme  dell'ordinamento
 penitenziario,   che   n.   9  tribunali  di  sorveglianza  ritengono
 ammissibile la domanda di affidamento  qualora  la  pena  residua  in
 effetti  da  espiarsi  non  sia  superiore  a 3 anni, mentre altri 17
 affermano l'esatto contrario.
    La Corte di cassazione, d'altra parte  piu'  volte  investita  dal
 problema  mediante i ricorsi degli interessati, si e' pronunciata nel
 senso della ammissibilita'.
    Si vedano le sentenze della prima sezione: nn. 1853 del 18  luglio
 1990,  657  del  22  marzo 1990, 798 del 13 aprile 1990, 1174 dell'11
 maggio 1990, 725 e 1177 del 16  maggio  1990,  4398  e  4016  del  16
 gennaio 1991, 630 del 15 marzo 1991, 331 del 19 marzo 1991, 960 del 2
 aprile 1991.
    Secondo  le  suddette  decisioni,  e' ammissibile l'affidamento in
 prova  quando   la   pena   detentiva   inflitta,   detratta   quella
 eventualmente  gia'  espiata  (e quella condonata) "residui in misura
 non superiore a tre anni". E tale principio  trova  applicazione  nel
 caso  di  esecuzione  di  pene  irrogate  sia  con  una pluralita' di
 sentenze di condanna che con unica decisione. E  la  Cassazione,  con
 altra  recente  sentenza (n. 790 del 19 agosto 1991) ha precisato che
 il tribunale di sorveglianza, pur non essendo giudice di rinvio,  non
 puo'   discostarsi  dalla  interpretazione  della  nozione  di  "pena
 inflitta" resa dalla cassazione stessa in materia di  affidamento  in
 prova al servizio sociale.
    Il  "braccio  di  ferro"  tra  la  maggioranza  dei  tribunali  di
 sorveglianza e la Corte di cassazione, pertanto, e' ormai un dato  di
 fatto chiaro ed incontrovertibile.
    5.   -   La  questione  di  incostituzionalita'  di  una  siffatta
 interpretazione dell'art. 47, primo comma, ord. penit. operata  dalla
 Corte  di  cassazione, con giurisprudenza ormai consolidata, nel caso
 di unico reato e di unica pena "inflitta", in misure superiori a  tre
 anni,  (gia'  dedotto  anche l'eventuale condono), sembra al collegio
 non manifestamente infondata e pertanto viene rimessa all'esame della
 Corte, perche' dica una parola  definitiva  che  metta  ordine  nella
 giurisprudenza,   e  ridia  certezza  e  prestigio  alla  pena,  oggi
 profondamente in crisi, in tal modo  accogliendo  l'implicito  invito
 contenuto  nel  secondo comma del punto 7 della sentenza succitata n.
 17 del 22-24 gennaio 1992, che recita testualmente: "Il punto ..  non
 e'  stato esaminato dalla ricordata sentenza n. 386/1989 ne' a quanto
 risulta dalla successiva  giurisprudenza  dei  giudici  ordinari:  in
 proposito,  quindi,  il  Tribunale a quo e' pienamente libero nel suo
 potere interpretativo".
    Sulla affermazione non si puo' che concordare,  ma  tale  liberta'
 non  ha  senso  se  la  Corte  di  cassazione,  in  sede  di  suprema
 regolazione del diritto, perviene a conclusioni diverse.
    Deve essere chiaro che nella specie non si verte nella ipotesi  di
 una  inammissibile "rivolta" di giudici di merito nei confronti della
 Corte di cassazione, la cui funzione  fondamentale  ed  autorevolezza
 sono fuori discussione.
    Il   punto  e'  che  la  giurisprudenza  ormai  consolidata  dalla
 cassazione sul punto, non e' fondata sulla interpretazione  dell'art.
 47,  primo  comma,  ord.  penit. effettuata autonomamente dalla Corte
 suprema secondo i canoni ordinari, ma sulla  interpretazione  di  una
 sentenza-cardine, quella n. 386/1989 della Corte costituzionale.
    Ritiene  il collegio che soltanto la Corte costituzionale medesima
 abbia titolo  per  interpretare,  chiarire,  rendere  applicabili  le
 proprie   decisioni,   ponendo   fine   all'attuale,  conflittuale  e
 pericolosa situazione.
    Cio'  e' tanto piu' certo, dopo che la stessa Corte costituzionale
 ha esplicitamente, affermato nella sentenza n. 17/1992, che il  punto
 "non e' stato esaminato dalla ricordata sentenza n. 386/1989".
    Pertanto, la Corte dira' se nello specifico caso qui esaminato, lo
 stato  della  giurisprudenza  sia tale da violare i seguenti principi
 costituzionali:
      1) quello della pari dignita' sociale  e  della  eguaglianza  di
 tutti di fronte alla legge (art. 3, primo comma), perche' assicura lo
 stesso trattamento alternativo al carcere, ai condannati per reati di
 alto  allarme  sociale  cosi' come a quelli che invece hanno commesso
 reati di minore gravita':
      2)  quello  del  buon  andamento  e  della  imparzialita'  della
 amministrazione  (art. 97, primo comma), perche' l'attuale situazione
 pone in serio imbarazzo  l'amministrazione  penitenziaria,  le  forze
 dell'ordine  ed  i  magistrati,  fornisce  motivi di incertezza nella
 azione di repressione dei reati piu' gravi, delegittima  le  funzioni
 di  prevenzione generale e di deterrenza che sono proprie della pena;
 scredita agli occhi dei cittadini l'azione  dello  Stato  tendente  a
 contrastare l'aumento della criminalita';
      3)  quello  di  ragionevolezza,  cui  piu'  volte la Corte si e'
 giustamente richiamata, perche' l'attuale situazione confligge con  i
 canoni  basilari  del  comune  sentire,  non comprendendo la pubblica
 opinione soprattutto nel momento difficile che stiamo  vivendo,  come
 possa ottenere un trattamento di estremo favore (sia pure nella parte
 finale  della  espiazione),  colui  che  ha commesso un reato grave o
 gravissimo, tanto piu' che altri strumenti sono previsti dalla legge,
 (come la grazia o la  liberazione  condizionale)  per  soddisfare  le
 esigenze  dei  soggetti  che si sono macchiati di gravi delitti ma si
 sono ravveduti ed emendati.
                               P. Q. M.
    Dichiara pregiudiziale, rilevante e non  manifestamente  infondata
 la  questione  di  costituzionalita' dell'art. 47, primo comma, della
 legge 26 luglio 1975 e succ.  mod.,  cosi'  come  interpretato  dalla
 giurisprudenza  consolidata della Corte di cassazione, nella parte in
 cui ritiene che per la "pena inflitta", in relazione ad unico  reato,
 si  debba  intendere  quella  residua  da  espiare  in  concreto, per
 contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, con  il  principio
 di  ragionevolezza  e  con  la sentenza della Corte costituzionale n.
 386/1989;
    Sospende il giudizio in corso;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina che la presente ordinanza venga  notificata  al  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri e comunicata ai Presidenti della Camera
 dei deputati e del Senato della Repubblica.
    Cosi' deciso in Brescia il 17 marzo 1992.
                         Il presidente: ZAPPA
    Il magistrato di sorveglianza: FACCHIN
                                         Gli esperti: DOLCINI - ROMANO
    Depositata il 20 marzo 1992
               Il collaboratore di cancelleria: BERTOLI

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