N. 695 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 giugno 1992
N. 695 Ordinanza emessa il 24 giugno 1992 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale militare di Roma nel procedimento penale a carico di Romeo Vincenzo Reati militari - Allontanamento illecito - Ipotesi attenuata consistente nella semplice "ritardata presentazione" - Sottoposizione di tale infrazione, secondo il giudice a quo di carattere essenzialmente disciplinare, a sanzione penale - Irragionevolezza - Asserito contrasto con il principio di proporzionalita', di offensivita' del reato e della funzione rieducativa della pena - Lamentata violazione del principio di stretta legalita' potendo la stessa condotta essere punita con semplice sanzione disciplinare ove il comandante di Corpo non intenda procedere penalmente. (C.P.M.P., art. 147, primo comma). (Cost., artt. 3, 13, 25 e 27).(GU n.46 del 4-11-1992 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha pronunciato nell'udienza preliminare del 24 giugno 1992, la seguente ordinanza nel proc. n. 114/A/1992, a carico del soldato Romeo Vincenzo, nato a Napoli il 14 settembre 1972, imputato del reato di allontamento illecito (art. 147, secondo comma, del c.p.m.p.) "perche', essendo in servizio alle armi presso il primo btg. bers. 'La Marmora' in Aurelia, e trovandosi legittimamente assente per licenza breve scadente il 27 dicembre 1991, non vi si presentava senza giusto motivo, nel giorno prefissogli, perdurando in stato di arbitraria assenza fino al 2 gennaio 1992 quando si ripresentava spontaneamente al reparto". FATTO E DIRITTO 1. - Al termine delle indagini preliminari il p.m. chiedeva l'emissione del decreto che dispone il giudizio nei confronti del soldato Romeo Vincenzo per il reato di allontamento illecito (art. 147, secondo comma del c.p.m.p.). All'udienza l'imputato e il p.m. hanno chiesto l'applicazione, ai sensi dell'art. 444 del c.p.p., della pena di mesi uno di reclusione militare (pena base mesi uno e giorni venti, ridotta a mesi uno e giorni dieci per le attenuanti generiche di cui all'art. 62- bis del c.p. e, infine, ridotta a mesi uno per la diminuente di cui allo stesso art. 444 del c.p.p.). Questo giudice ritiene anzitutto che sussistono in atti elementi a sostegno dell'imputazione, e non puo' comunque essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129 del c.p.p.; corrette si rivelano inoltre la qualificazione giuridica del fatto e l'applicazione delle circostanze prospettate dalle parti. Tuttavia la pena richiesta dalle parti - sia pur corrispondente al minimo edittale previsto per il reato di allontanamento illecito, che coincide, peraltro, con la durata minima stabilita in assoluto dall'art. 26 del c.p.m.p. per la reclusione militare - non puo' essere applicata, in quanto appare, per la sua natura ed entita', del tutto sproporzionata, in eccesso, alla gravita' del fatto contestato. Poiche' la incongruita' della pena (ritenuta per le ragioni di seguito indicate) discende in questo caso non dalla valutazione delle parti, ma dagli stessi limiti edittali fissati dal legislatore, e, prima ancora, dall'aver lo stesso legislatore stabilito per il reato in oggetto una sanzione penale, piuttosto che disciplinare, questo giudice non puo' limitarsi a respingere la richiesta, ma deve sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del c.p.m.p. in relazione agli artt. 2, 13, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione. 2. - Prima di passare ad esaminare il merito dei richiamati profili di costituzionalita', appare utile dedicare qualche cenno alla genesi del citato art. 147. secondo comma, del c.p.m.p. Nei codici penali militari per l'Esercito e per la Marina del 1869 (vigenti fino al 1941) non era previsto un reato corrispondente all'attuale fattispecie di cui all'art. 147, secondo comma. Gli artt. 138 e 139 del cod. pen. es. prevedevano, in tema di reati di assenza dal servizio, soltanto il reato di diserzione, nella duplice tradizionale configurazione della diserzione di pieno diritto (condotta definita attualmente come "allontanamento" e della mancata presentazione dopo un'assenza legittima. Il termine di rilevanza penale dell'assenza era stabilito in entrambi i casi in cinque giorni; tuttavia, ma solo per la diserzione di pieno diritto, era stabilito che il Comandante di corpo potesse "dichiarare disertore" il militare assente dopo ventiquattro ore. Proprio nella "dichiarazione di diserzione" si e' ravvisato da parte della dottrina l'antecedente storico della procedibilita' a richiesta del comandante di corpo del reato di allontanamento illecito, ritenendosi che l'allontamento illecito altro che e' che "la trasformazione nominalistica della diserzione dichiarata dal Comandante secondo gli abrogati codici militari". Ma tale assunto non interessa ai fini del presente giudizio di costituzionalita', dato che esso puo' riferirsi solo alla fattispecie di cui all'art. 147, primo comma, che non e' qui in discussione. La dichiarazione di diserzione non era prevista infatti nel caso di mancato rientro da un'assenza legittima (art. 139 del cod. pen. es.). In definitiva, i fatti adesso compresi nella fattispecie in esame (art. 147, secondo comma) erano secondo i codici penali militari previgenti sempre e soltanto passibili di sanzioni disciplinari (in proposito si veda anche Manzini, diritto penale militare, Padova, 1932, p. 212). Le ragioni per l'introduzione nella legislazione penale militare del reato di allontanamento illecito sono espresse nei lavori preparatori dei codici penali militari del 1941. Cosi', nella relazione al progetto preliminare, pubblicata nel 1938, si precisa anzitutto che l'introduzione del reato di allontamento illecito, non contemplato dai codici (allora) vigenti, appare necessaria, ritenendosi che gia' un'assenza protrattasi per due giorni (indicata come rilevante nel progetto preliminare) fosse "indubbiamente apprezzabile per il danno che puo' derivarne al servizio". Si ricorda poi un progetto senatorio del 1907 (il quale, stabilendo in cinque giorni il tempo minimo per incorrere nel reato di allontanamento illecito "veniva ad allentare i freni") e si esprime l'intendimento "cui e' ispirato il testo attuale, di rendere cioe' in tempo di pace, piu' rigorosa la disciplina delle assenze dal servizio". Il rigore della disciplina prevista nel progetto preliminare poi nel progetto definitivo del codice penale militare di pace (in cui manteneva rilievo penale un'assenza protratta per almeno due giorni) veniva poi ulteriormente e definitivamente aggravato con l'approvazione del codice penale militare di pace del 1941, in cui il periodo di assenza penalmente rilevante era indicato in un giorno. Al termine di questa breve digressione storico-normativa, puo' essere formulata una prima osservazione: la norma della cui legittimita' costituzionale si dubita, punisce non solo condotte penalmente irrilevanti nel regno d'Italia dal 1869 al 1941, ma anche condotte assenze dal corpo di un giorno) che non avrebbero dovuto costituire reato nemmeno secondo i rigorosi intendimenti dei compilatori dei progetti, preliminare e definitivo, del codice penale militare di pace. Ne' puo' essere sostenuto che vi fosse allora scarsa sensibilita' alla esigenza di tutelare l'interesse inerente alla presentazione del servizio militare. Ovviamente le suddette osservazioni avrebbero rilievo solo sul pi- ano della politica legislativa, estraneo a questa sede, se non potessero trovare sviluppo, nella puntale rilevazione di vizi di legittimita' costituzionale. Va peraltro rilevato che l'art. 147 prevede, sotto l'unico nomen iuris di allontamento illecito, sia il fatto del vero e proprio "allontanamento" (primo comma) sia, al secondo comma, il fatto che gia' e' stato individuato e continuera' ad essere definito come "ritardata presentazione" e che costituisce oggetto della presente questione di costituzionalita'. 3. - Il primo e fondamentale principio di rilevanza costituzionale che fa apparire illegittima la previsione di un trattamento sanzionatorio penale per i ritardi di breve durata (da uno a quattro giorni) nella presentazione al corpo e' il principio della necessaria proporzione fra gravita' del fatto e conseguenze sanzionatorie. Sulla rilevanza costituzionale di tale principio, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, non sembrano sussistere dubbi. Cosi', nella circolare 19 dicembre 1983 della Presidenza del Consiglio dei ministri, su "Criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative", si afferma che il principio di proporzione "puo' ritenersi implicitamente costituzionalizzato, per il diritto penale, dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, non potendosi perseguire alcuna azione rieducativa mediante un trattamento sanzionatorio sproporzionato alla gravita' del fatto". In termini ancora piu' espliciti la Corte costituzionale - nella sentenza 26 giugno 1990, n. 313, che ha dichiarato la parziale illegittimita' costituzionale dell'art. 444 del c.p.p. - dopo aver esaminato in modo approfondito il significato dell'art. 27, terzo comma, nel nostro ordinamento costituzionale, ha concluso che "se la finalita' rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogni qualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate ne' in sede normativa ne' in quella applicativa alle necessita' rieducative del soggetto. .. Dev'essere, dunque, esplicitamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma, dell'art. 27, della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche' per le stesse autorita' penitenziarie". Naturalmente, la rilevanza costituzionale del principio di proporzione non puo' essere tale da legittimare la proporzione di questioni di costituzionalita' ogni qualvolta il giudice ritenga che una certa fattispecie dovrebbe essere depenalizzata, ovvero comunque ritenga piu' adeguato alla gravita' del fatto un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto dalla legge. Al riguardo la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che "le valutazioni relative alla proporzione tra le pene previste ed il fatto contemplato rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore"; tuttavia, l'esercizio di tale potere puo' "essere censurato sotto il profilo della legittimita' costituzionale nei casi in cui non sia stato rispettato il criterio di ragionevolezza, di modo che la sanzione comminata risulti irrazionale ed arbitraria" (v. Corte costituzionale, sentenza 9 febbraio 1989, n. 49). Facendo applicazione dei principi ora richiamati al caso di spe- cie, appare certo, a questo giudice, che la gravita' dei fatti di reato sanzionati dall'art. 147, secondo comma del c.p.m.p. sia cosi' esigua ed irrisoria da non giustificare assolutamente l'applicazione di un mese di pena detentiva. Pur se infatti l'interesse tutelato (prestazione del servizio militare obbligatorio) ha un carattere sicuramente "primario", tale da giustificare la previsione di reati come quello di diserzione, e' minima, nel caso di specie, la gravita' dell'offesa: in questo senso depone non sola la tradizione secolare (gia' indicata) sorta subito dopo l'unita' d'Italia e terminata in tempo di guerra nel 1941, ma, soprattutto, una generalizzata valutazione etico-sociale in base alla quale il giudizio di disvalore collegato a brevissimi ritardi nella presentazione al reparto non presenta i connotati di riprovevolezza tipici dell'illecito penale. In particolare non pare che la gravita' del danno o del pericolo per gli interessi tutelati sia tale da giustificare l'applicazione di una sanzione penale: ma di cio' si dira' meglio in relazione al rispetto del principio di offensivita'. La migliore conferma della tesi sostenuta circa l'esiguita' dei fatti di cui all'articolo 147, secondo comma, e' data dall'atteggiamentodei comandanti di corpo, cui e' attribuita, ai sensi dell'art. 260 del c.p.m.p., la facolta' di chiedere il procedimento penale ovvero perseguire il fatto con sanzioni disciplinari. Non si intende certamente qui riproporre, ne' in modo diretto, ne' in modo surrettizio, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 260 del c.p.m.p., gia' piu' volte dichiarata infondata dalla Corte costituzionale (in ultimo con ordinanza 18 dicembre 1991, n. 495). La richiesta di procedimento di cui all'art. 260 del c.p.m.p. appare direttamente collegata alla originaria configurazione della giurisdizione militare, come giustizia dei comandanti militari, in cui confluivano sia l'aspetto disciplinare che quello penale: un istituto che, quindi, ha fatto il suo tempo e dovrebbe essere eliminato dall'ordinamento penale. Ma cio' non e' in questione in questa sede. Ebbene, risulta che, nel periodo dal 1ยบ gennaio al 31 marzo 1992, il p.m. presso il tribunale militare di Roma ha adottato 146 provvedimenti conclusivi delle indafini preliminari in ordine al reato di cui all'art. 147. Di questi 136 sono stati richieste di archiviazione (in tutti i casi, tranne eventuali eccezioni, per mancanza di richiesta) e 10 richieste di rinvio a giudizio. Questo dato oggettivo, pur riferito a un campione ben delimitato, appare comunque significativo. Se gli stessi comandanti di corpo, nella stragrande maggioranza dei casi, addirittura nella quasi totalita', ritengono ingiustificata la sanzione penale per il reato in oggetto e con riguardo all'esigenza di mantenere il buon andamento e la disciplina nei reparti militari, cio' dimostra il riconoscimento di una valutazione sociale che non corrisponde alla previsione legislativa di rilevanza penale dei fatti in questione. In tempo di pace il comportamento del militare che, gia' legittimamente assente, ritarda per non piu' di quattro giorni la presentazione al reparto integra quindi sicuramente una violazione dei doveri inerenti allo stato militare, ma non ha un carattere di antisocialita' tale da richiedere la rieducazione del colpevole attraverso la pena. Appare cioe' improponibile, in quanto del tutto superflua, la rieducazione, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, del soggetto che abbia violato il precetto di cui all'art. 147, del secondo comma citato. La realizzazione della finalita' rieducativa presuppone infatti il compimento di una condotta tale da dimostrare una significativa difformita' rispetto a modelli di comportamento conformi alle esigenze dell'ordinamento. Cio' che nel caso di specie non si verifica. 4. - La scelta del legislatore tra sanzioni penali e amministrative deve rispettare, oltre al criterio di proporzione, il criterio di sussidiarieta', in base al quale il ricorso alla sanzione penale, come ultima ratio, si giustifica solo in mancanza di tecniche di controllo sociale provviste di un analogo grado di efficacia. In tema di sussidiarita' non sembrano sussistere vincoli costituzionali, cosi' come con riguardo al criterio di proporzione; tuttavia la razionalita' delle scelte del legislatore, quando gia' la sanzione penale appare sproporzionata alla gravita' del fatto, puo' essere apprezzata anche con riferimento alla natura ed efficacia delle sanzioni extrapenali che risultano applicabili. Nel caso di specie la dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 147, secondo comma, non renderebbe lecito il comportamento di chi rimane assente dal servizio militare per non oltre quattro giorni. Sarebbero infatti applicabili le sanzioni disciplinari indicate dalla legge 11 luglio 1978, n. 382 e dal regolamento di disciplina militare approvato con d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, che hanno introdotto garanzie sia in ordine al procedimento di applicazione sia, per la piu' grave di tali sanzioni, la consegna di rigore, in ordine alla tassativa predeterminazione degli illeciti disciplinarmente rilevanti. Si tratta di sanzioni la cui incisivita', immediatezza ed indefettibilita'e' tale da farle sicuramente ritenere, per molti aspetti, piu' efficaci della stessa sanzione penale, come, d'altro canto, e' confermato dal fatto che i comandanti militari ritengono quasi sempre che per sanzionare le condotte di ritardata presentazione siano piu' adeguate le sanzioni disciplinari. La determinazione dei comandanti di perseguire quasi sempre in via disciplinare la "ritardata presentazione" puo' mostrarsi inoltre incompatibile con l'esigenza di conoscibilita' del precetto penale (ineludibile corollario del principio di legalita' di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione): al di la' della possibilita' di poter configurare un caso di "ignoranza inevitabile", ai sensi dell'art. 5 del c.p., non pare rispondente alla ratio dell'art. 25 della Costituzione che un militare possa essere perseguito penalmente quando abbia agito nella convinzione di compiere solo una trasgressione disciplinare, avendo visto in precedenza puniti con sanzione disciplinare altri militari per fatti analoghi a quello da lui commesso. 5. - La previsione come reato delle condotte indicate all'art. 147, secondo comma, e' in contrasto non solo con il principio di proporzione, ma anche con il principio costituzionale di offensivita'. Non si tratta in realta' di profili del tutto distinti, dato che comminare una sanzione penale ad un fatto inoffensivo, o non sufficientemente offensivo, significa, senza dubbio, venir meno alla esigenza di proporzione. Tuttavia, anche per la parziale diversita' di riferimenti costituzionali, e' opportuno dedicare a questo profilo qualche cenno specifico. Anzitutto, la Corte costituzionale ha gia' riconosciuto la possibilita' per il giudice di accertare la concreta offensivita' di condotte tipiche, al fine di determinare la soglia del penalmente rilevante (v. sent. 19 marzo 1986, n. 62, nonche' sent. 11 gennaio 1989, n. 24). Piu' in generale, si e' ritenuto, in base al collegamento fra gli artt. 13, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione, che la sanzione penale, che incide (direttamente o indirettamente) sul bene primario della liberta' personale, possa essere utilizzata solo per la tutela di beni costituzionalmente significativi e solo quando sussista una concreta lesione o messa in pericolo dei beni protetti. Nel caso della ritardata presentazione non pare che sussista una significativa lesione al bene giuridico protetto, che si e' gia' indicato nella prestazione del servizio militare obbligatorio. La breve durata dell'assenza dimostra infatti che non vi e' una vera e propria omissione di prestazione (come nel reato di diserzione) ma un semplice ritardo di assunzione del servizio, che non produce un danno significativo al buon andamento del servizio militare (ne' tantomeno alla sua obbligatorieta', e ancora meno al bene finale della difesa della Patria); ci puo' essere qualche ripercussione sulla regolarita' dell'attivita' amministrativa militare - rendendosi ad esempio necessaria la sostituzione del militare assente, ove gia' assegnato a turni di servizio - ma nulla di piu': in proposito l'applicazione di una sanzione disciplinare appare piu' che sufficiente. Al riguardo gia' appare notevolmente differente l'offensivita' dell'"allontanamento illecito" (art. 147, primo comma), rispetto alla "ritardata presentazione" (art. 147, secondo comma). Mentre infatti l'allontanamento arbitrario di un militare presente al reparto, o di un numero indeterminato di militari, potrebbe in certi casi pregiudicare l'operativita' di un reparto militare (cio' che spiega perche' per tali fatti i codici del 1869 prevedevano la possibilita' di una "dichiarazione di diserzione"), tale effetto lesivo mai puo' verificarsi nel caso di breve ritardo nella presentazione, da parte di militare gia' legittimamente assente. E' chiaro infatti che i comandanti militari, nel programmare la concessione di licenze e permessi al personale dipendente, devono tenere in considerazione la necessita' di assicurare il buon andamento del servizio. Cosi' che, se la quota di militari legittimamente assenti, rispetto a quelli che prestano servizio presso un determinato ente militare, non puo' mai essere tale da impedire il regolare svolgimento dei compiti assegnati e quell'ente, anche il ritardo di uno, o di qualcuno, o sia pure di tutti i militari che in certo momento siano assenti, non puo' seriamente pregiudicare il servizio militare. D'altro canto, in casi in cui, per circostanze particolari, l'assenza del militare, anche se di minima durata, ha una rilevante offensivita' (per esempio nel caso di militare che si trova assente al momento della partenza del corpo, della nave o dell'aeromobile cui e' assegnato) sono applicabili le norme di cui all'art. 149 del c.p.m.p. (diserzione immediata). 6. - L'incostituzionalita' dell'art. 147, secondo comma, nel c.p.m.p., finora sostenuta con riferimento agli artt. 13, 25 e 27, terzo comma della Costituzione, dev'essere specificata con riferimento al principio di razionalita' delle scelte legislative, desumibile dall'art. 3 della Costituzione. La violazione dei principi di proporzione ed offensivita' non puo' infatti condurre a declaratorie di incostituzionalita' se non in presenza di una incriminazione palesemente e macroscopicamente arbitraria, quando si dimostri che siano assoggettati a sanzione penale fatti palesemente inoffensivi, ovvero comunque sia stabilita una pena del tutto sproporzionata alla gravita' del fatto. Gia' sono stati evidenziati elementi che confortano la tesi circa l'assoluta abitrarieta' della previsione come reato dei brevi ritardi di presentazione al corpo. Occorre tuttavia anche rilevare specifici profili di disparita' di trattamento che si verificano a danno di chi viene imputato per il reato di cui all'art. 147, secondo comma, del c.p.m.p. In primo luogo va ricordato che per altre categorie di soggetti che, in tempo di pace, svolgono compiti non meno essenziali e rischiosi di quelli svolti dai militari (cosi' il personale della polizia di Stato o della polizia penitenziaria, i vigili del fuoco) non esistono norme corrispondenti all'art. 147, secondo comma. La legge 12 giugno 1990, n. 146, ha poi soppresso gli artt. 330 e 333 del c.p. (abbandono di pubblico ufficio). L'art. 331 (interruzione di pubblico servizio) presuppone invece un dolo specifico (il fine di turbare la regolarita' del servizio) ed e' comunque comparabile con altre incriminazioni del cod. pen. mil., come l'abbandono di posto (art. 118 e segg. del c.p.m.p.). In secondo luogo, la durata del ritardo penalmente rilevante per il militare chiamato alle armi e' di cinque giorni art. 151 del c.p.m.p.: mancanza alla chiamata). Se anche si possa ritenere che la situazione di chi non sia ancora incorporato in un reparto militare sia leggermente diversa rispetto a quella del militare gia' incorporato, non sembra comunque ragionevole una cosi' marcata disparita' nella valutazione di rilevanza penale della ritardata presentazione. Infine, e' da osservare che la previsione di una pena detentiva per il fatto in oggetto comporta una irragionevole equiparazione rispetto a condotte previste dagli stessi codici penali militari, la cui gravita' e' di gran lunga maggiore: a titolo di esempio, sono puniti con la pena minima di un mese di reclusione militare, oltre all'allontanamento illecito proprio (art. 147, primo comma), le lesioni personali o l'omessa presentazione in servizio, reati cioe' la cui idoneita' lesiva ha ben altro carattere di significativita'. 7. - Si e' cercato finora di dimostrare: la minima lesivita', in tempo di pace, dei brevi ritardi nella riassunzione del servizio militare; l'irragionevole severita' e, quindi, l'assoluta incongruita', ai fini della rieducazione del condannato, della pena minima, stabilita dalla legge, di un mese di reclusione militare. Al fine di sottolineare la fondatezza (o, quantomeno, la non manifesta infondatezza) della questione, due elementi sono apparsi di particolare rilievo: il fatto che nei codici militari del 1869 la condotta in esame non fosse sanzionata penalmente e quindi, nonostante le indicazioni costituzionali a favore di una limitazione nell'uso dello strumento penale, la normativa attuale risulta per questo aspetto assai piu' rigorosa di quella vigente anche sotto il regime fascista, fino al 1941; il fatto che, oggi, la ritardata presentazione sia perseguita penalmente solo in modo sporadico, nei rari casi in cui i comandanti, ai sensi dell'art. 260, deliberano, insindacabilmente e senza obbligo di motivazione, di richiedere il procedimento penale. Nessun dubbio sussiste sulla rilevanza della presente questione di costituzionalita', dato che il suo accoglimento comporterebbe il rigetto della richiesta di applicazione di pena formulata dalle parti e l'assoluzione dell'imputato, ai sensi dell'art. 129 del c.p.p. In conclusione, questo giudice osserva che sarebbe certo auspicabile che il legislatore proceda finalmente alla riforma del codice penale militare di pace, adeguando ai principi costituzionali una normativa che contiene norme antiquate e spesso di dubbia legittimita' costituzionale. E' noto come un progetto di legge delega per la riforma del codice penale militare di pace venga regolarmente e vanamente presentato alle Camere da diverse legislature. Di fatto gli interventi legislativi piu' importanti in tema di legislazione penale militare sono stati operati, negli ultimi decenni, solo in conseguenza di decisioni della Corte costituzionale (la legge 26 novembre 1985, n. 689, e' conseguente alla sent. 5 maggio 1979, n. 26 e 20 maggio 1982, n. 103; la legge 30 dicembre 1988, n. 561 alla sentenza 8 marzo 1988, n. 266). Inoltre, in diversi casi in cui la Corte costituzionale ha inizialmente respinto la questione di legittimita' costituzionale sollecitando il legislatore ad intervenire, per adeguare alla Costituzione determinate norme in tema di legislazione penale militare, nulla e' accaduto finche' la stessa Corte, di nuovo chiamata a pronunciarsi per l'inerzia del legislatore, non ha dichiarato l'incostituzionalita' di tali norme (cosi' alla sent. 14 marzo 1984, n. 67, ha fatto seguito la sentenza 8 marzo 1988, n. 266; alla sentenza n. 473/1990 ha fatto seguito la sentenza 4 dicembre 1991, n. 448). Ritiene pertanto questo giudice che, al fine di eliminare norme, come quella in esame, che sembrano in chiaro e diretto contrasto con i principi costituzionali, non sia percorribile altra strada che quella della proposizione di questione di legittimita' costituzionale.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147, secondo comma, del codice penale militare di pace, in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione, ritenendo tale questione rilevante e non manifestamente infondata; Dispone la sospensione del procedimento in corso e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Roma, addi' 24 giugno 1992 Il giudice dell'udienza preliminare: MAZZI Il collaboratore di cancelleria: DE SIMONE 92C1180