N. 695 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 giugno 1992

                                N. 695
 Ordinanza  emessa  il  24  giugno  1992  dal  giudice per le indagini
 preliminari presso il tribunale militare  di  Roma  nel  procedimento
 penale a carico di Romeo Vincenzo
 Reati militari - Allontanamento illecito - Ipotesi attenuata
    consistente    nella    semplice   "ritardata   presentazione"   -
    Sottoposizione di tale infrazione, secondo il  giudice  a  quo  di
    carattere   essenzialmente   disciplinare,  a  sanzione  penale  -
    Irragionevolezza  -  Asserito  contrasto  con  il   principio   di
    proporzionalita',  di  offensivita'  del  reato  e  della funzione
    rieducativa della pena - Lamentata  violazione  del  principio  di
    stretta  legalita'  potendo  la  stessa condotta essere punita con
    semplice sanzione disciplinare ove  il  comandante  di  Corpo  non
    intenda procedere penalmente.
 (C.P.M.P., art. 147, primo comma).
 (Cost., artt. 3, 13, 25 e 27).
(GU n.46 del 4-11-1992 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Ha  pronunciato  nell'udienza  preliminare  del 24 giugno 1992, la
 seguente ordinanza nel proc. n.  114/A/1992,  a  carico  del  soldato
 Romeo  Vincenzo,  nato  a  Napoli  il 14 settembre 1972, imputato del
 reato  di  allontamento  illecito  (art.  147,  secondo  comma,   del
 c.p.m.p.)  "perche',  essendo  in  servizio alle armi presso il primo
 btg. bers.   'La Marmora' in  Aurelia,  e  trovandosi  legittimamente
 assente  per  licenza  breve  scadente il 27 dicembre 1991, non vi si
 presentava senza giusto motivo, nel giorno prefissogli, perdurando in
 stato di  arbitraria  assenza  fino  al  2  gennaio  1992  quando  si
 ripresentava spontaneamente al reparto".
                            FATTO E DIRITTO
    1.  -  Al  termine  delle  indagini  preliminari  il p.m. chiedeva
 l'emissione del decreto che dispone il  giudizio  nei  confronti  del
 soldato  Romeo  Vincenzo  per il reato di allontamento illecito (art.
 147, secondo comma del c.p.m.p.).
    All'udienza l'imputato e il p.m. hanno chiesto l'applicazione,  ai
 sensi  dell'art. 444 del c.p.p., della pena di mesi uno di reclusione
 militare (pena base mesi uno e giorni venti, ridotta  a  mesi  uno  e
 giorni  dieci per le attenuanti generiche di cui all'art. 62- bis del
 c.p. e, infine, ridotta a mesi uno per  la  diminuente  di  cui  allo
 stesso art. 444 del c.p.p.).
    Questo giudice ritiene anzitutto che sussistono in atti elementi a
 sostegno  dell'imputazione,  e  non  puo' comunque essere pronunciata
 sentenza  di  proscioglimento  a  norma  dell'art.  129  del  c.p.p.;
 corrette  si rivelano inoltre la qualificazione giuridica del fatto e
 l'applicazione delle circostanze prospettate dalle parti.
    Tuttavia la pena richiesta dalle parti - sia pur corrispondente al
 minimo edittale previsto per il reato di allontanamento illecito, che
 coincide, peraltro,  con  la  durata  minima  stabilita  in  assoluto
 dall'art.  26  del  c.p.m.p.  per  la  reclusione militare - non puo'
 essere applicata, in quanto appare, per la sua natura ed entita', del
 tutto sproporzionata, in eccesso, alla gravita' del fatto contestato.
    Poiche' la incongruita' della pena (ritenuta  per  le  ragioni  di
 seguito indicate) discende in questo caso non dalla valutazione delle
 parti,  ma  dagli  stessi limiti edittali fissati dal legislatore, e,
 prima ancora, dall'aver lo stesso legislatore stabilito per il  reato
 in  oggetto  una  sanzione penale, piuttosto che disciplinare, questo
 giudice non  puo'  limitarsi  a  respingere  la  richiesta,  ma  deve
 sollevare  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147,
 secondo comma, del c.p.m.p. in relazione agli artt. 2, 13, 25  e  27,
 terzo comma, della Costituzione.
    2.  -  Prima  di  passare  ad  esaminare  il merito dei richiamati
 profili di costituzionalita', appare  utile  dedicare  qualche  cenno
 alla genesi del citato art. 147. secondo comma, del c.p.m.p.
    Nei codici penali militari per l'Esercito e per la Marina del 1869
 (vigenti  fino  al  1941)  non  era  previsto un reato corrispondente
 all'attuale fattispecie di cui all'art. 147, secondo comma. Gli artt.
 138 e 139 del cod. pen. es. prevedevano, in tema di reati di  assenza
 dal   servizio,  soltanto  il  reato  di  diserzione,  nella  duplice
 tradizionale  configurazione  della  diserzione  di   pieno   diritto
 (condotta  definita attualmente come "allontanamento" e della mancata
 presentazione  dopo  un'assenza  legittima.  Il  termine di rilevanza
 penale dell'assenza era  stabilito  in  entrambi  i  casi  in  cinque
 giorni;  tuttavia,  ma  solo  per la diserzione di pieno diritto, era
 stabilito che il Comandante di corpo potesse  "dichiarare  disertore"
 il   militare   assente   dopo   ventiquattro   ore.   Proprio  nella
 "dichiarazione di diserzione" si e' ravvisato da parte della dottrina
 l'antecedente storico della procedibilita' a richiesta del comandante
 di corpo  del  reato  di  allontanamento  illecito,  ritenendosi  che
 l'allontamento   illecito   altro   che  e'  che  "la  trasformazione
 nominalistica della diserzione dichiarata dal Comandante secondo  gli
 abrogati  codici militari". Ma tale assunto non interessa ai fini del
 presente giudizio di costituzionalita', dato che esso puo'  riferirsi
 solo  alla  fattispecie  di cui all'art. 147, primo comma, che non e'
 qui in discussione. La dichiarazione di diserzione non  era  prevista
 infatti nel caso di mancato rientro da un'assenza legittima (art. 139
 del cod. pen. es.).
    In  definitiva, i fatti adesso compresi nella fattispecie in esame
 (art. 147, secondo comma) erano  secondo  i  codici  penali  militari
 previgenti  sempre  e soltanto passibili di sanzioni disciplinari (in
 proposito si veda anche Manzini,  diritto  penale  militare,  Padova,
 1932, p. 212).
    Le  ragioni  per l'introduzione nella legislazione penale militare
 del  reato  di  allontanamento  illecito  sono  espresse  nei  lavori
 preparatori  dei  codici  penali  militari  del  1941.  Cosi',  nella
 relazione al progetto preliminare, pubblicata nel  1938,  si  precisa
 anzitutto  che l'introduzione del reato di allontamento illecito, non
 contemplato  dai  codici   (allora)   vigenti,   appare   necessaria,
 ritenendosi  che gia' un'assenza protrattasi per due giorni (indicata
 come  rilevante  nel  progetto  preliminare)   fosse   "indubbiamente
 apprezzabile per il danno che puo' derivarne al servizio".
    Si   ricorda  poi  un  progetto  senatorio  del  1907  (il  quale,
 stabilendo in cinque giorni il tempo minimo per incorrere  nel  reato
 di  allontanamento  illecito  "veniva  ad  allentare  i  freni") e si
 esprime l'intendimento "cui e' ispirato il testo attuale, di  rendere
 cioe' in tempo di pace, piu' rigorosa la disciplina delle assenze dal
 servizio".
    Il  rigore  della disciplina prevista nel progetto preliminare poi
 nel progetto definitivo del codice penale militare di  pace  (in  cui
 manteneva  rilievo penale un'assenza protratta per almeno due giorni)
 veniva   poi   ulteriormente   e   definitivamente   aggravato    con
 l'approvazione del codice penale militare di pace del 1941, in cui il
 periodo di assenza penalmente rilevante era indicato in un giorno.
    Al  termine  di  questa  breve digressione storico-normativa, puo'
 essere  formulata  una  prima  osservazione:  la  norma   della   cui
 legittimita'  costituzionale  si  dubita,  punisce  non solo condotte
 penalmente irrilevanti nel regno d'Italia dal 1869 al 1941, ma  anche
 condotte  assenze  dal  corpo  di un giorno) che non avrebbero dovuto
 costituire  reato  nemmeno  secondo  i  rigorosi   intendimenti   dei
 compilatori dei progetti, preliminare e definitivo, del codice penale
 militare di pace.
    Ne'  puo' essere sostenuto che vi fosse allora scarsa sensibilita'
 alla esigenza di tutelare l'interesse inerente alla presentazione del
 servizio militare.
    Ovviamente le suddette osservazioni avrebbero rilievo solo sul pi-
 ano  della  politica  legislativa,  estraneo  a  questa  sede, se non
 potessero trovare sviluppo, nella  puntale  rilevazione  di  vizi  di
 legittimita'  costituzionale.  Va  peraltro  rilevato  che l'art. 147
 prevede, sotto l'unico nomen iuris di allontamento illecito,  sia  il
 fatto  del  vero  e  proprio  "allontanamento"  (primo comma) sia, al
 secondo comma, il fatto che gia' e' stato individuato  e  continuera'
 ad  essere  definito come "ritardata presentazione" e che costituisce
 oggetto della presente questione di costituzionalita'.
    3. - Il primo e fondamentale principio di rilevanza costituzionale
 che  fa  apparire  illegittima  la  previsione  di   un   trattamento
 sanzionatorio  penale per i ritardi di breve durata (da uno a quattro
 giorni) nella presentazione al corpo e' il principio della necessaria
 proporzione fra gravita' del fatto e conseguenze sanzionatorie. Sulla
 rilevanza costituzionale di tale principio, ai  sensi  dell'art.  27,
 terzo comma, della Costituzione, non sembrano sussistere dubbi.
    Cosi',  nella  circolare  19  dicembre  1983  della Presidenza del
 Consiglio dei ministri, su "Criteri orientativi  per  la  scelta  tra
 sanzioni  penali  e  sanzioni  amministrative",  si  afferma  che  il
 principio   di    proporzione    "puo'    ritenersi    implicitamente
 costituzionalizzato,  per  il  diritto  penale,  dall'art.  27, terzo
 comma, della Costituzione, non  potendosi  perseguire  alcuna  azione
 rieducativa mediante un trattamento sanzionatorio sproporzionato alla
 gravita' del fatto".
    In  termini  ancora piu' espliciti la Corte costituzionale - nella
 sentenza 26 giugno 1990,  n.  313,  che  ha  dichiarato  la  parziale
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  444 del c.p.p. - dopo aver
 esaminato in modo approfondito il  significato  dell'art.  27,  terzo
 comma,  nel nostro ordinamento costituzionale, ha concluso che "se la
 finalita'  rieducativa  venisse   limitata   alla   fase   esecutiva,
 rischierebbe  grave  compromissione  ogni  qualvolta  specie e durata
 della sanzione non fossero state calibrate ne' in sede normativa  ne'
 in  quella  applicativa alle necessita' rieducative del soggetto.  ..
 Dev'essere, dunque, esplicitamente ribadito che il precetto di cui al
 terzo comma, dell'art. 27,  della  Costituzione  vale  tanto  per  il
 legislatore  quanto  per  i  giudici  della cognizione, oltre che per
 quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonche'  per  le  stesse
 autorita' penitenziarie".
    Naturalmente,   la   rilevanza  costituzionale  del  principio  di
 proporzione non puo' essere tale da  legittimare  la  proporzione  di
 questioni  di costituzionalita' ogni qualvolta il giudice ritenga che
 una certa fattispecie dovrebbe essere depenalizzata, ovvero  comunque
 ritenga   piu'  adeguato  alla  gravita'  del  fatto  un  trattamento
 sanzionatorio diverso da quello previsto dalla legge.
    Al riguardo la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che
 "le valutazioni relative alla proporzione tra le pene previste ed  il
 fatto  contemplato rientrano nell'ambito del potere discrezionale del
 legislatore"; tuttavia,  l'esercizio  di  tale  potere  puo'  "essere
 censurato sotto il profilo della legittimita' costituzionale nei casi
 in  cui  non  sia  stato rispettato il criterio di ragionevolezza, di
 modo che la sanzione comminata risulti irrazionale ed arbitraria" (v.
 Corte costituzionale, sentenza 9 febbraio 1989, n. 49).
    Facendo  applicazione  dei principi ora richiamati al caso di spe-
 cie, appare certo, a questo giudice, che la  gravita'  dei  fatti  di
 reato  sanzionati dall'art. 147, secondo comma del c.p.m.p. sia cosi'
 esigua ed irrisoria da non giustificare assolutamente  l'applicazione
 di un mese di pena detentiva.
    Pur  se  infatti  l'interesse  tutelato  (prestazione del servizio
 militare obbligatorio) ha un carattere sicuramente  "primario",  tale
 da  giustificare la previsione di reati come quello di diserzione, e'
 minima, nel caso di specie, la gravita' dell'offesa: in questo  senso
 depone  non  sola la tradizione secolare (gia' indicata) sorta subito
 dopo l'unita' d'Italia e terminata in tempo di guerra nel  1941,  ma,
 soprattutto, una generalizzata valutazione etico-sociale in base alla
 quale  il  giudizio di disvalore collegato a brevissimi ritardi nella
 presentazione al reparto non presenta i connotati  di  riprovevolezza
 tipici dell'illecito penale.
    In  particolare  non pare che la gravita' del danno o del pericolo
 per gli interessi tutelati sia tale da giustificare l'applicazione di
 una sanzione penale: ma di cio'  si  dira'  meglio  in  relazione  al
 rispetto del principio di offensivita'.
    La  migliore  conferma  della tesi sostenuta circa l'esiguita' dei
 fatti   di   cui   all'articolo   147,   secondo   comma,   e'   data
 dall'atteggiamentodei  comandanti  di  corpo,  cui  e' attribuita, ai
 sensi  dell'art.  260  del  c.p.m.p.,  la  facolta'  di  chiedere  il
 procedimento   penale   ovvero   perseguire  il  fatto  con  sanzioni
 disciplinari.
    Non si intende certamente qui riproporre, ne' in modo diretto, ne'
 in modo surrettizio,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  260  del  c.p.m.p.,  gia'  piu' volte dichiarata infondata
 dalla Corte costituzionale (in ultimo con ordinanza 18 dicembre 1991,
 n. 495). La  richiesta  di  procedimento  di  cui  all'art.  260  del
 c.p.m.p. appare direttamente collegata alla originaria configurazione
 della giurisdizione militare, come giustizia dei comandanti militari,
 in  cui  confluivano sia l'aspetto disciplinare che quello penale: un
 istituto che, quindi,  ha  fatto  il  suo  tempo  e  dovrebbe  essere
 eliminato dall'ordinamento penale.
    Ma  cio'  non e' in questione in questa sede. Ebbene, risulta che,
 nel periodo dal 1ยบ gennaio al  31  marzo  1992,  il  p.m.  presso  il
 tribunale  militare  di Roma ha adottato 146 provvedimenti conclusivi
 delle indafini preliminari in ordine al reato di cui all'art. 147. Di
 questi 136 sono stati richieste di archiviazione (in  tutti  i  casi,
 tranne eventuali eccezioni, per mancanza di richiesta) e 10 richieste
 di rinvio a giudizio.
    Questo  dato oggettivo, pur riferito a un campione ben delimitato,
 appare comunque significativo. Se gli  stessi  comandanti  di  corpo,
 nella  stragrande  maggioranza  dei  casi,  addirittura  nella  quasi
 totalita', ritengono ingiustificata la sanzione penale per  il  reato
 in oggetto e con riguardo all'esigenza di mantenere il buon andamento
 e la disciplina nei reparti militari, cio' dimostra il riconoscimento
 di  una  valutazione  sociale  che  non  corrisponde  alla previsione
 legislativa di rilevanza penale dei fatti in questione.
    In  tempo  di  pace  il  comportamento  del  militare  che,   gia'
 legittimamente  assente,  ritarda  per  non piu' di quattro giorni la
 presentazione al reparto integra quindi  sicuramente  una  violazione
 dei  doveri  inerenti  allo stato militare, ma non ha un carattere di
 antisocialita' tale  da  richiedere  la  rieducazione  del  colpevole
 attraverso la pena.
    Appare  cioe'  improponibile,  in  quanto  del tutto superflua, la
 rieducazione, ai sensi dell'art. 27, terzo comma,  del  soggetto  che
 abbia  violato  il  precetto  di  cui all'art. 147, del secondo comma
 citato.
    La realizzazione della finalita' rieducativa presuppone infatti il
 compimento di una  condotta  tale  da  dimostrare  una  significativa
 difformita'   rispetto  a  modelli  di  comportamento  conformi  alle
 esigenze dell'ordinamento.  Cio'  che  nel  caso  di  specie  non  si
 verifica.
    4.   -   La   scelta   del   legislatore  tra  sanzioni  penali  e
 amministrative deve rispettare, oltre al criterio di proporzione,  il
 criterio di sussidiarieta', in base al quale il ricorso alla sanzione
 penale, come ultima ratio, si giustifica solo in mancanza di tecniche
 di controllo sociale provviste di un analogo grado di efficacia.
    In   tema   di   sussidiarita'  non  sembrano  sussistere  vincoli
 costituzionali, cosi' come con riguardo al criterio  di  proporzione;
 tuttavia la razionalita' delle scelte del legislatore, quando gia' la
 sanzione  penale  appare sproporzionata alla gravita' del fatto, puo'
 essere apprezzata anche con  riferimento  alla  natura  ed  efficacia
 delle sanzioni extrapenali che risultano applicabili.
    Nel   caso  di  specie  la  dichiarazione  di  incostituzionalita'
 dell'art. 147, secondo comma, non renderebbe lecito il  comportamento
 di  chi  rimane  assente  dal servizio militare per non oltre quattro
 giorni.
    Sarebbero infatti applicabili le  sanzioni  disciplinari  indicate
 dalla  legge  11  luglio 1978, n. 382 e dal regolamento di disciplina
 militare approvato con d.P.R. 18  luglio  1986,  n.  545,  che  hanno
 introdotto  garanzie  sia  in  ordine al procedimento di applicazione
 sia, per la piu' grave di tali sanzioni, la consegna  di  rigore,  in
 ordine    alla    tassativa    predeterminazione    degli    illeciti
 disciplinarmente rilevanti.
    Si  tratta  di  sanzioni  la  cui  incisivita',  immediatezza   ed
 indefettibilita'e'  tale  da  farle  sicuramente  ritenere, per molti
 aspetti, piu' efficaci della stessa sanzione  penale,  come,  d'altro
 canto,  e'  confermato  dal fatto che i comandanti militari ritengono
 quasi  sempre  che  per   sanzionare   le   condotte   di   ritardata
 presentazione siano piu' adeguate le sanzioni disciplinari.
    La determinazione dei comandanti di perseguire quasi sempre in via
 disciplinare  la  "ritardata  presentazione"  puo'  mostrarsi inoltre
 incompatibile con l'esigenza di conoscibilita'  del  precetto  penale
 (ineludibile  corollario  del  principio di legalita' di cui all'art.
 25, secondo comma, della Costituzione): al di la' della  possibilita'
 di  poter  configurare  un  caso di "ignoranza inevitabile", ai sensi
 dell'art. 5 del c.p., non pare rispondente alla  ratio  dell'art.  25
 della Costituzione che un militare possa essere perseguito penalmente
 quando   abbia   agito   nella   convinzione  di  compiere  solo  una
 trasgressione disciplinare, avendo visto  in  precedenza  puniti  con
 sanzione  disciplinare  altri militari per fatti analoghi a quello da
 lui commesso.
    5. - La previsione come reato  delle  condotte  indicate  all'art.
 147,  secondo  comma,  e'  in  contrasto non solo con il principio di
 proporzione,  ma   anche   con   il   principio   costituzionale   di
 offensivita'.
    Non  si  tratta in realta' di profili del tutto distinti, dato che
 comminare  una  sanzione  penale  ad  un  fatto  inoffensivo,  o  non
 sufficientemente  offensivo, significa, senza dubbio, venir meno alla
 esigenza di proporzione.
    Tuttavia,  anche  per  la  parziale  diversita'   di   riferimenti
 costituzionali,  e' opportuno dedicare a questo profilo qualche cenno
 specifico.
    Anzitutto,  la  Corte  costituzionale  ha  gia'  riconosciuto   la
 possibilita'  per il giudice di accertare la concreta offensivita' di
 condotte tipiche, al fine di determinare  la  soglia  del  penalmente
 rilevante  (v.  sent.  19 marzo 1986, n. 62, nonche' sent. 11 gennaio
 1989, n. 24).
    Piu' in generale, si e' ritenuto, in base al collegamento fra  gli
 artt.  13,  25 e 27, terzo comma, della Costituzione, che la sanzione
 penale, che incide (direttamente o indirettamente) sul bene  primario
 della  liberta' personale, possa essere utilizzata solo per la tutela
 di beni costituzionalmente significativi e solo quando  sussista  una
 concreta lesione o messa in pericolo dei beni protetti.
    Nel  caso  della ritardata presentazione non pare che sussista una
 significativa lesione al bene giuridico  protetto,  che  si  e'  gia'
 indicato nella prestazione del servizio militare obbligatorio.
    La  breve  durata  dell'assenza dimostra infatti che non vi e' una
 vera  e  propria  omissione  di  prestazione  (come  nel   reato   di
 diserzione)  ma  un  semplice ritardo di assunzione del servizio, che
 non produce un danno significativo al  buon  andamento  del  servizio
 militare  (ne'  tantomeno  alla sua obbligatorieta', e ancora meno al
 bene finale della  difesa  della  Patria);  ci  puo'  essere  qualche
 ripercussione   sulla   regolarita'   dell'attivita'   amministrativa
 militare - rendendosi  ad  esempio  necessaria  la  sostituzione  del
 militare  assente,  ove gia' assegnato a turni di servizio - ma nulla
 di piu': in proposito l'applicazione  di  una  sanzione  disciplinare
 appare piu' che sufficiente.
    Al  riguardo  gia'  appare  notevolmente differente l'offensivita'
 dell'"allontanamento illecito" (art. 147, primo comma), rispetto alla
 "ritardata presentazione" (art. 147, secondo comma).  Mentre  infatti
 l'allontanamento  arbitrario di un militare presente al reparto, o di
 un  numero  indeterminato  di  militari,  potrebbe  in   certi   casi
 pregiudicare  l'operativita'  di un reparto militare (cio' che spiega
 perche' per tali fatti i codici del 1869 prevedevano la  possibilita'
 di  una  "dichiarazione di diserzione"), tale effetto lesivo mai puo'
 verificarsi nel caso di breve ritardo nella presentazione,  da  parte
 di  militare  gia'  legittimamente  assente.  E' chiaro infatti che i
 comandanti militari, nel programmare  la  concessione  di  licenze  e
 permessi  al personale dipendente, devono tenere in considerazione la
 necessita' di assicurare il buon andamento del servizio.  Cosi'  che,
 se la quota di militari legittimamente assenti, rispetto a quelli che
 prestano  servizio  presso un determinato ente militare, non puo' mai
 essere tale da impedire il regolare svolgimento dei compiti assegnati
 e quell'ente, anche il ritardo di uno, o di qualcuno, o sia  pure  di
 tutti  i  militari  che  in  certo  momento  siano  assenti, non puo'
 seriamente pregiudicare il servizio militare.
    D'altro  canto,  in  casi  in  cui,  per  circostanze particolari,
 l'assenza del militare, anche se di minima durata, ha  una  rilevante
 offensivita'  (per  esempio nel caso di militare che si trova assente
 al momento della partenza del corpo, della nave o dell'aeromobile cui
 e' assegnato) sono applicabili le  norme  di  cui  all'art.  149  del
 c.p.m.p. (diserzione immediata).
    6.  -  L'incostituzionalita'  dell'art.  147,  secondo  comma, nel
 c.p.m.p., finora sostenuta con riferimento agli artt. 13,  25  e  27,
 terzo   comma   della   Costituzione,   dev'essere   specificata  con
 riferimento al principio di razionalita'  delle  scelte  legislative,
 desumibile dall'art. 3 della Costituzione.
    La violazione dei principi di proporzione ed offensivita' non puo'
 infatti  condurre  a  declaratorie  di  incostituzionalita' se non in
 presenza  di  una  incriminazione  palesemente  e   macroscopicamente
 arbitraria,  quando  si  dimostri  che  siano assoggettati a sanzione
 penale fatti palesemente inoffensivi, ovvero comunque  sia  stabilita
 una pena del tutto sproporzionata alla gravita' del fatto.
    Gia'  sono stati evidenziati elementi che confortano la tesi circa
 l'assoluta abitrarieta' della previsione come reato dei brevi ritardi
 di presentazione al corpo.
    Occorre tuttavia anche rilevare specifici profili di disparita' di
 trattamento che si verificano a danno di chi viene  imputato  per  il
 reato di cui all'art. 147, secondo comma, del c.p.m.p.
    In  primo  luogo  va ricordato che per altre categorie di soggetti
 che, in tempo  di  pace,  svolgono  compiti  non  meno  essenziali  e
 rischiosi  di  quelli  svolti  dai militari (cosi' il personale della
 polizia di Stato o della polizia penitenziaria, i vigili  del  fuoco)
 non  esistono  norme  corrispondenti  all'art. 147, secondo comma. La
 legge 12 giugno 1990, n. 146, ha poi soppresso gli artt.  330  e  333
 del c.p. (abbandono di pubblico ufficio). L'art. 331 (interruzione di
 pubblico  servizio)  presuppone  invece un dolo specifico (il fine di
 turbare la regolarita' del servizio) ed e' comunque  comparabile  con
 altre  incriminazioni  del  cod. pen. mil., come l'abbandono di posto
 (art. 118 e segg. del c.p.m.p.).
    In secondo luogo, la durata del ritardo penalmente  rilevante  per
 il  militare  chiamato  alle  armi  e'  di cinque giorni art. 151 del
 c.p.m.p.: mancanza alla chiamata). Se anche si possa ritenere che  la
 situazione  di  chi non sia ancora incorporato in un reparto militare
 sia  leggermente  diversa  rispetto  a  quella  del   militare   gia'
 incorporato,  non  sembra  comunque  ragionevole  una  cosi'  marcata
 disparita' nella valutazione  di  rilevanza  penale  della  ritardata
 presentazione.
    Infine,  e'  da  osservare che la previsione di una pena detentiva
 per il fatto in  oggetto  comporta  una  irragionevole  equiparazione
 rispetto  a condotte previste dagli stessi codici penali militari, la
 cui gravita' e' di gran lunga maggiore: a  titolo  di  esempio,  sono
 puniti  con  la  pena minima di un mese di reclusione militare, oltre
 all'allontanamento illecito  proprio  (art.  147,  primo  comma),  le
 lesioni  personali  o l'omessa presentazione in servizio, reati cioe'
 la cui idoneita' lesiva ha ben altro carattere di significativita'.
    7. - Si e' cercato finora di dimostrare: la minima  lesivita',  in
 tempo  di  pace,  dei  brevi  ritardi nella riassunzione del servizio
 militare;   l'irragionevole   severita'   e,    quindi,    l'assoluta
 incongruita',  ai  fini della rieducazione del condannato, della pena
 minima, stabilita dalla legge, di un mese di reclusione militare.
    Al  fine  di  sottolineare  la  fondatezza  (o, quantomeno, la non
 manifesta infondatezza) della questione, due elementi sono apparsi di
 particolare rilievo: il fatto che nei codici  militari  del  1869  la
 condotta   in   esame  non  fosse  sanzionata  penalmente  e  quindi,
 nonostante le indicazioni costituzionali a favore di una  limitazione
 nell'uso  dello  strumento  penale,  la normativa attuale risulta per
 questo aspetto assai piu' rigorosa di quella vigente anche  sotto  il
 regime  fascista,  fino  al  1941;  il  fatto che, oggi, la ritardata
 presentazione sia perseguita penalmente solo in modo  sporadico,  nei
 rari  casi  in  cui i comandanti, ai sensi dell'art. 260, deliberano,
 insindacabilmente e senza obbligo di motivazione,  di  richiedere  il
 procedimento penale.
    Nessun dubbio sussiste sulla rilevanza della presente questione di
 costituzionalita',  dato  che  il  suo  accoglimento comporterebbe il
 rigetto della richiesta di applicazione di pena formulata dalle parti
 e l'assoluzione dell'imputato, ai sensi dell'art. 129 del c.p.p.
    In  conclusione,  questo  giudice  osserva   che   sarebbe   certo
 auspicabile  che  il  legislatore proceda finalmente alla riforma del
 codice penale militare di pace, adeguando ai principi  costituzionali
 una  normativa  che  contiene  norme  antiquate  e  spesso  di dubbia
 legittimita' costituzionale. E' noto come un progetto di legge delega
 per la riforma del codice penale militare di pace venga  regolarmente
 e vanamente presentato alle Camere da diverse legislature.
    Di  fatto  gli  interventi  legislativi piu' importanti in tema di
 legislazione  penale  militare  sono  stati  operati,  negli   ultimi
 decenni,  solo in conseguenza di decisioni della Corte costituzionale
 (la legge 26 novembre 1985, n.  689,  e'  conseguente  alla  sent.  5
 maggio  1979,  n.  26  e 20 maggio 1982, n. 103; la legge 30 dicembre
 1988, n. 561 alla sentenza 8 marzo 1988, n. 266).
    Inoltre, in  diversi  casi  in  cui  la  Corte  costituzionale  ha
 inizialmente  respinto  la  questione  di legittimita' costituzionale
 sollecitando  il  legislatore  ad  intervenire,  per  adeguare   alla
 Costituzione   determinate  norme  in  tema  di  legislazione  penale
 militare, nulla  e'  accaduto  finche'  la  stessa  Corte,  di  nuovo
 chiamata  a  pronunciarsi  per  l'inerzia  del  legislatore,  non  ha
 dichiarato l'incostituzionalita' di tali norme (cosi' alla  sent.  14
 marzo 1984, n. 67, ha fatto seguito la sentenza 8 marzo 1988, n. 266;
 alla  sentenza  n.  473/1990  ha fatto seguito la sentenza 4 dicembre
 1991, n. 448).
    Ritiene pertanto questo giudice che, al fine di  eliminare  norme,
 come  quella in esame, che sembrano in chiaro e diretto contrasto con
 i principi costituzionali, non  sia  percorribile  altra  strada  che
 quella    della    proposizione    di   questione   di   legittimita'
 costituzionale.
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147,
 secondo comma, del codice penale militare di pace, in relazione  agli
 artt. 3, 13, 25 e 27, terzo comma, della Costituzione, ritenendo tale
 questione rilevante e non manifestamente infondata;
    Dispone la sospensione del procedimento in corso e la trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che  la  presente ordinanza sia notificata alle parti e al
 Presidente del Consiglio dei  Ministri  e  comunicata  ai  Presidenti
 delle due Camere del Parlamento.
      Roma, addi' 24 giugno 1992
              Il giudice dell'udienza preliminare: MAZZI
                            Il collaboratore di cancelleria: DE SIMONE
 92C1180