N. 39 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 novembre 1992
N. 39 Ordinanza emessa il 23 novembre 1992 dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura di Torino nel procedimento penale a carico di Sicurella Pietro Processo penale - Conflitto tra g.i.p. e giudice del dibattimento - Prevista prevalenza della decisione del secondo - Lamentata impossibilita' di ricorrere in Cassazione - Violazione del principio di ragionevolezza e di coerenza - Conseguente ingiustificata disparita' di trattamento in situazioni analoghe. (C.P.P., art. 28, secondo comma, seconda parte). (Cost., art. 3).(GU n.7 del 10-2-1993 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Letti gli atti del procedimento penale sopraindicato nei confronti di Sicurella Pietro, nato a Torino il 24 aprile 1937 e residente in Bruino, via Monti, n. 1, in ordine al reato p. e p. dall'art. 659, secondo comma, del c.p., commesso in Bruino, il 10 marzo 1990; O S S E R V A Sulla scorta della denuncia presentata da Feraudi Bruno, che lamentava l'immissione di forti rumori prodotti dai macchinari utilizzati per la lavorazione dalla General Plastic S.r.l. di Bruino e con il conforto di alcune misurazioni fonometriche eseguite e del sopralluogo effettuato in ore notturne dai carabinieri della stazione di Piossasco, il pubblico ministero chiedeva l'emissione di decreto penale a carico del Sicurella, quale responsabile della General Plas- tic S.r.l., per il reato indicato in epigrafe e questo ufficio accoglieva la richiesta, emettendo decreto di condanna. L'imputato presentava rituale opposizione e, nel corso del conseguente giudizio, il pretore rilevava d'ufficio la nullita' del decreto penale perche' non adeguatamente motivato e, conseguentemente, del decreto che dispone il giudizio in ossequio al criterio delle nullita' derivate. Gli atti, ancorche' restituiti dal pretore al pubblico ministero, ritornavano a questo ufficio, dal momento che l'organo dell'accusa reiterava la richiesta di emissione di decreto penale e questo giudice sollevava conflitto di competenza, essendo totalmente in disaccordo con la decisione assunta dal pretore per le ragioni esposte nel relativo provvedimento in atti. La Corte di cassazione, con la acclusa sentenza, dichiarava l'inammissibilita' del proposto conflitto in applicazione del principio contenuto nel secondo comma dell'art. 28 del c.p.p. Alla luce della menzionata decisione della Corte di cassazione, questo giudice, non potendo disattendere il provvedimento della suprema Corte, e' tenuto, di fatto, ad emettere un nuovo decreto penale, sulla base del provvedimento del pretore, provvedimento che a chi scrive appare errato e non conforme alle regole che disciplinano la competenza. Da qui la rilevanza della questione di legittimia' costituzionale, da proporre al vaglio della Corte costituzionale, che sembra potersi ravvisare nell'attuale situazione processuale. Non pare manifestamente infondato ritenere, infatti, che il principio sancito nel secondo comma dell'art. 28 del c.p.p., applicato dalla suprema Corte nel caso di specie con una valenza addirittura ampliata rispetto alla formulazione letterale, possa essere dichiarato illegittimo per violazione del dettato contenuto nell'art. 3 della Costituzione. La disposizione contenuta nella seconda parte del secondo comma dell'art. 28 del c.p.p. e' stata dettata nell'intento di garantire una maggiore celerita' alla definizione del procedimento. Si legge, a tal riguardo, nella relazione al codice del Ministro guardasigilli: " .. Come si e' gia' accennato, nel comma 2 dell'art. 28 si e' espressamente stabilito che non puo' sussistere conflitto tra giudice dell'udienza preliminare e giudice del dibattimento perche' in caso di contrasto prevale la decisione di quest'ultimo. Con questa esclusione, gia' prefiguarata nell'art. 23, secondo comma, relativa all'incompetenza per materia rilevata dal giudice del dibattimento, si e' voluto sottolineare che la disciplina dei confliti mira a regolare la sfera della giurisdizione e della competena, e non anche i dissensi tra gli uffici in ordine a situazioni diverse; in questi casi l'interesse ad una sollecita definizione del processo e' parso preminente sull'interesse del giudice a non essere vincolato dalla statuizione di un altro giudice, almeno nel caso in cui il giudice 'vincolante' sia quello del dibattimento ..". Ed invero, il criterio della massima semplificazione del procedimento, nell'intento di dare ad esso modalita' e tempi piu' semplici e rapidi, e' esigenza espressa piu' volte dal legislatore delegante e non vi e' dubbio che essa possa essere soddisfatta anche attraverso una disciplina piu' precisa ed agile riguardante le regole sulla competenza, tanto che lo stesso legislatore delegante ha dettato alcune direttive a tal riguardo ed il legislatore delegato vi si e' attenuto, ad esempio proprio con la previsione contenuta nell'art. 23 richiamata dal Ministro nella relazione. In tal caso, pero', con la norma in parola - proprio nell'intento di una maggiore speditatezza - si e' stabilito che il processo vada avanti realizzando tale effetto, attraverso la trasmissione degli atti direttamente al giudice competente, sulla base di una dichiarazione di incompetenza fatta dal giudice del dibattimento, ancorche' pronunciata in contrasto con quanto a tal riguardo ritenuto in precedenza dal giudice dell'udienza preliminare. Per quanto, invece, riguarda il problema che si intende proporre in questa sede e, cioe', il caso in cui sia richiesta l'adozione di un provvedimento ovvero sia necessario lo svolgimento di un'attivita' da parte di un giudice che non ravvisi che il provvedimento o l'attivita' richiesti appartengano alla propria competenza, ritenendo che essi siano assegnati alla competenza di altro giudice, e' proprio attraverso la previsione della possibilita' di sollevare conflitto negativo di competenza che si riesce ad evitare che il procedimento rimanga paralizzato. La decisione della Corte di cassazione, in conseguenza della proposizione di un conflitto di competenza, adottata per giunta con l'autorevolezza e la terzieta' che contraddistinguono il supremo collegio, consente di ridare anche in tempi relativamente brevi nuovo impulso processuale ad un procedimento diversamente destinato a gravi difficolta', se non ad una completa paralisi. Ed infatti, proprio a tale criterio si e' sempre ispirato il legislatore nell'assegnare alla Corte di cassazione il compito di dirimere i conflitti di competenza e non a caso il legislatore delegante, per il quale il problema della semplificazione del procedimento assume primaria importanza, non solo non ha dettato alcuna restrizione a tal riguardo, ma anzi, con la direttiva n. 15, ha previsto un'ampia possibilita' di ricorso allo strumento del conflitto di giurisdizione e di competenza per tutte le parti. Il proposito, in altri termini, di raggiungere l'effetto di una maggiore speditezza processuale attraverso la previsione contenuta nella seconda parte del secondo comma dell'art. 28 del c.p.p. e' riconducibile soltanto all'iniziativa del legislatore delegato e, se si ha riguardo ai casi concreti fin qui verificatisi, non pare che tale intento possa ritenersi realizzato. A tal proposito, al contrario, va rilevato come tale disposizione non abbia goduto di grande favore proprio tra i soggetti cui la stessa e' destinata, con la conseguenza di notevoli appesantimenti dei tempi del processo, se si ha riguardo, ad esempio, ai numerosi casi di proposizione di conflitto ed alle altrettanto numerose questioni di legittimita' costituzionale sollevate in ordine all'art. 28, secondo comma, del c.p.p. dinanzi alla Corte costituzionale, che si e' gia' cinque volte pronunciata con ordinanze di inammissibilita' della questione. Anche il legislatore del 1988, d'altra parte, deve aver avvertito la fondamentale importanza, per il sistema processuale, della previsione di un istituto quale rimedio ai possibili contrasti in materia di competenza, se e' vero che, proprio al fine di consentire al procedimento il suo normale sviluppo, non solo ha previsto i casi "tipici" di conflitto, regolati dal primo comma dell'art. 28, ma ha anche introdotto un generale criterio di ampliamento di applicazione dell'istituto, estendendo la sfera di previsione anche a tutti i casi "analoghi", con la disposizione contenuta nella prima parte del secondo comma dello stesso articolo, in tal modo piu' o meno ricalcando il precedente sistema normativo. Senonche' il nuovo legislatore - cosi' come e' dato rilevare nella relazione - ha avvertito la necessita' di porre un freno all'eccessivo ricorso allo strumento del conflitto, introducendo due sostanziali innovazioni. Da una parte, i casi di conflitto sono stati limitati ai soli organi della giurisdizione, giacche' le disposizioni relative fanno riferimento esclusivamente ai giudici e, dall'altra parte, si e' introdotto appunto il principio della prevalenza della decisione del giudice del dibattimento su quella del giudice dell'udienza preliminare, proprio come eccezione all'allargamento dei casi di conflitto voluto e disciplinato nel medesimo secondo comma dell'art. 28 del c.p.p. Il primo aspetto, e cioe' l'esclusione della configurabilita' dei casi di conflitto tra rappresentanti del pubblico ministero e giudici, esula completamente dall'oggetto della questione che qui si esamina e va, percio', tralasciato. La seconda esclusione, che e' invece rilevante in questa sede, appare discutibile e contraddittoria in relazione alle stesse scelte operate dal legislatore. Si e' gia' messo in rilievo come con la previsione in parola, attraverso l'abolizione dei casi di conflitto di competenza in ordine ad eventuali dissensi tra giudici appartenenti al medesimo ufficio giudiiario, si sia inteso conseguire al fine della maggiore speditezza nella definizione del processo. Tale intento e' stato espressamente dichiarato dal Ministro nella sua relazione ed ha trovato autorevole riconoscimento anche nelle piu' recenti decisioni in materia della Corte costituzionale (ordinanze nn. 13 e 15 del 1992, in quest'ultima si legge: " .. la norma impugnata prevede una specifica forma di soluzione dei dissensi tra giudici dello stesso ufficio giudiziario al fine di rendere spedita la definizione del processo ..". Ebbene, la ragione che ha ispirato il legislatore nel dettare la norma di cui si tratta, da una parte, e' fondata sul presupposto che all'interno degli uffici giudiziari si creino parecchi contrasti e, pero', che essi siano tali da dover rimanere sul piano del semplice dissenso e da non meritare il ricorso allo strumento del conflitto dinanzi alla Corte di cassazione e, dall'altra parte, suppone che con questo rimedio il processo, pur in presenza dei menzionati dissensi, possa raggiungere piu' facilmente e piu' agilmente la sua naturale definizione. Tale impostazione, peraltro, non appare corretta, giacche' il presupposto non sembra corrispondente alla situazione re- ale e lo scopo non pare realizzabile nel modo imposto dalla norma. Il riferimento agli uffici, infatti, appare inutile e non meritevole di autonoma e cosi' rilevante considerazione. I giudici, per espressa previsione sia del legislatore delegante, sia di quello delegato, si distinguono per le funzioni svolte nell'ambito del procedimento e non per l'appartenenza ad uno stesso o ad un diverso ufficio giudiziario. Quest'ultimo aspetto, se mai, assume rilevanza per l'ordinamento giudiziario, ma non certamente sul piano processuale. Si puo', anzi, rilevare a tal riguardo, come il legislatore delegante abbia inteso garantire a ogni giudice, a seconda delle relative funzioni di volta in volta effettivamente svolte, analoga e pari dignita', indipendentemente dall'ufficio di appartenenza e non abbia assolutamente previsto il criterio della prevalenza della decisione dell'uno su quella dell'altro, a parita' di grado di giudizio, mentre sia stato piu' volte ribadito il concetto della distinzione delle funzioni, ai fini della garanzia di massima obiettivita' del giudizio. Per quanto riguarda, poi, i contrasti o dissensi, intanto va rilevato che non corrisponde al vero il presupposto che nell'ambito dello stesso ufficio giudiziario essi sorgano numerosi o in numero maggiore di quanto non avvenga se gli uffici di appartenenza siano diversi, giacche' - se mai - avviene esattamente il contrario, se non altro perche', all'interno dello stesso ufficio, il piu' facile e costante confronto sulle problematiche giuridiche e giudiziarie favorisce l'uniformita' delle opinioni e delle convinzioni. Cio' nonostante, pur in presenza di ineliminabili diversita' di giudizi da parte di giudici appartenenti allo stesso ufficio, il problema sembra posto inesattamente. Come si e' gia' messo in rilievo in precedenza, l'istituto del conflitto e la previsione che a dirimerlo sia il giudice piu' autorevole e di rango piu' elevato dell'ordinamento non sono esigenze che sorgono e servono agli interessi dei giudici, ma del procedimento. Quando, quindi, nella relazione quasi prospetta una contrapposizione tra "l'interesse ad una sollecita definizione del processo" e "l'interesse del giudice a non essere vincolato dalla statuizione di un altro giudice", il Ministro fa un'affermazione che non puo' trovare alcun riconoscimento sul piano giuridico. Nell'ottica processuale non esiste un interesse del giudice diverso da quello del corretto svolgimento del procedimento e, anzi, quest'ultimo e' l'unico interesse che il giudice deve perseguire. Anche quello della sollecita definizione del processo, essendo connesso al corretto svolgimento del procedimento, e' un interesse del giudice e non puo' essere, percio', prospettato come una categoria autonoma e quasi contrapposta a quella dell'interesse del giudice. Ne' il pericolo di un ricorso distorto e in qualche modo provinciale allo strumento del conflitto di competenza, pur sempre possibile da parte di qualcuno, potrebbe convincere della necessita' dell'abrogazione dell'istituto medesimo, sia perche' non e' detto che cio' avvenga solo in caso di contrasti tra giudici dello stesso ufficio, potendosi escludere per gli altri casi di conflitto, regolarmente ammessi dal legislatore, sia perche' il rimedio alle eventuali deviazioni e' costituito dallo stesso giudizio della Corte di cassazione, chiamata a dirimere i conflitti. Ma c'e' di piu'. La necessita' che sia la Corte di cassazione a decidere gli eventuali conflitti tra giudici e' dettata non soltanto dall'interesse di una definitiva e sollecita soluzione della questione, avendo la decisione della suprema Corte valore cogente per i giudici in conflitto e per tutti i giudici che anche successivamente dovessero essere chiamati a svolgere le proprie funzioni in quello stesso procedimento, ma essa risponde anche al piu' generale e ampio interesse all'uniformita' della giurisdizione. Se, in altri termini, il contrasto rimane circoscritto ai rapporti giudice dell'udienza preliminare-giudice del dibattimento, con la prevalenza della decisione di quest'ultimo, piu' elevato e' il rischio che, a seconda dei singoli procedimenti, analoghi problemi e aspetti del processo, trovino di volta in volta diverse e contrastanti soluzioni. Le decisioni del supremo Collegio, infatti, non raggiungono soltanto l'immediato scopo di dare una specifica e vincolante risposta al problema proposto, ma anche quello di dettare l'indirizzo e di fungere da riferimento per la soluzione di futuri casi analoghi. E, anche a tal riguardo, non pare che i rapporti tra giudici dello stesso ufficio, che esercitano, pero', distinte e specifiche funzioni nell'ambito del procedimento, possano essere ritenuti di cosi' secondaria portata, da non meritare la tendenza del legislatore all'uniformita' delle relative decisioni e da essere, invece, assoggettati ad una disciplina diversa da quella prevista nel caso in cui i giudici non appartengano allo stesso ufficio giudiziario. La previsione contenuta nella seconda parte del secondo comma dell'art. 28 del c.p.p., insomma, appare fondata su ragioni non corrispondenti alla realta' processuale, non rilevanti e determina, invece, un'irragionevole disparita' di trattamento in situazioni che appaiono sostanzialmente analoghe. La Corte costituzionale, d'altra parte, gia' piu' volte chiamata a verificare la legittimita' costituzionale della disposizione in parola, come in precedenza ricordato, ha escluso che essa contrasti con il dettato degli artt. 101, secondo comma, 76, 2, 3 e 97 della Costituzione. Ma relativamente all'eventuale contrasto con i principi contenuti nell'art. 3 della Costituzione non risultano proposti al vaglio della Corte specifici profili, cosi' come - del resto - rilevato dallo stesso Organo della Consulta nell'ordinanza n. 254 del 1991. Vale la pena, allora, di sottolineare la manifesta irragionevolezza e la palese incoerenza, sul piano sistematico, creato dalla norma in discussione, per tutto quanto fin qui considerato. Vi e', poi, ancora un altro aspetto di incoerenza ed irragionevolezza che discende dalla concreta e pratica applicazione della norma medesima, che in tal modo, tra l'altro, contraddice proprio lo scopo della speditezza nella definizione del processo voluto conseguire dal legislatore con l'introduzione della disposizione di cui si tratta. L'aver previsto la prevalenza della decisione del giudice del dibattimento, in caso di contrasto con quella del giudice dell'udienza preliminare, non elimina la possibilita' di stallo del processo, a maggior ragione se tale disposizione venga interpretativamente estesa a tutti i casi di contrasto tra la decisione del giudice del dibattimento e quella del giudice per le indagini preliminari, quando quest'ultimo - come nel caso di specie - provveda a disporre il giudizio anche senza il tramite dell'udienza preliminare. Questa, del resto, e' la prevalente interpretazione della Corte di cassazione, ancorche' non univoca, e in tal senso sembra orientata pure la Corte costituzionale, forse perche', se cosi' non fosse, si creerebbe nel sistema per un altro verso un'ingiustificata ed irragionevole disparita' di disciplina. Ebbene, ancora una volta non si ritiene di poter concordare con quanto affermato dal Ministro nella Relazione, giacche' il richiamo all'art. 23 del codice di procedura penale che detta disposizioni in tema di competenza non pare pertinente. Come gia' rilevato, nel caso di dichiarazione di incompetenza da parte del giudice del dibattimento, gli atti vengono direttamente trasmessi al giudice ritenuto competente, per cui il processo prosegue regolarmente, rimanendo, poi, assegnata al giudice destinatario degli atti stessi la libera valutazione in ordine alla opportunita' di condividere la decisione adottata circa la sua dichiarata competenza ovvero di sollevare conflitto - questa volta perfettamente ammissibile - investendo della questione la Corte di cassazione. Nel caso, invece, in cui il giudice del dibattimento dichiari la nullita' di un atto compiuto dal giudice per le indagini preliminari, il procedimento regredisce in forza della disposizione contenuta nel terzo comma dell'art. 185 del c.p.p. e gli atti ritornano nuovamente al giudice per le indagini preliminari, ai fini della rinnovazione dell'atto dichiarato nullo. In tal caso, allora, qual'e' l'effetto del principio di prevalenza della decisione del giudice del dibattimento? Certamente la disposizione in parola impone al giudice per le indagini preliminari la rinnovazione dell'atto, alla luce - appunto - del predetto principio, ma cio' significa anche che l'atto dichiarato nullo deve essere rinnovato seguendo le indicazioni dettate dal giudice del dibattimento? Puo' la norma in parola essere interpretata in maniera cosi' cogente tra giudici di pari grado? E se nel provvedimento dichiarativo della nullita' mancassero le necessarie indicazioni per evitare che l'atto venga rinnovato in modo da apparire nuovamente nullo al giudice del dibattimento? E se, trattandosi di nullita' insanabile, in altri gradi di giudizio venisse nuovamente dichiarata la nullita' del medesimo atto, ma per ragioni opposte a quelle ritenute dal giudice del dibattimento di primo grado, che di certo non puo' vincolare i giudici di grado superiore? Cosa dovrebbe fare, in questo caso, il giudice per le indagini preliminari, al quale ancora una volta andrebbero restituiti gli atti per la rinnovazione dell'atto dichiarato nullo? Potrebbe il giudice per le indagini preliminari, in questo secondo caso, sollevare conflitto di competenza con il giudice di secondo grado - e sembrerebbe di si' - e sulla base di quale logica processuale? E se il giudice per le indagini preliminari dinanzi al quale il procedimento regredisce avesse piu' soluzioni possibili, quale tra esse dovrebbe scegliere in mancanza di specificazione da parte del giudice del dibattimento? E tutto cio' - ovviamente - senza neppure voler considerare che il provvedimento del giudice del dibattimento potrebbe essere palesemente errato. Qualsiasi risposta si voglia dare alle domande proposte, in ogni caso conseguirebbe una costruzione di un sistema processuale del tutto anomalo, con riguardo alle ordinarie regole relative ai rapporti tra giudici e rispettivi provvedimenti e percio' irragionevole e incoerente, soprattutto se si considera che un tale sistema non pare neppure in grado di raggiungere il fine per il quale e' stato previsto e introdotto. La speditezza della definizione del procedimento si raggiunge con l'introduzione di regole semplici, chiare, di agevole applicazione e di sicura e univoca interpretazione, non attraverso l'ingiustificata ed immotivata assegnazione ad un giudice, piuttosto che ad un altro, di poteri di fatto non disciplinati dalla legge, attesa la genericita' della disposizione, e sostanzialmente sottratti al controllo della Corte di cassazione. L'esperienza giudiziaria insegna che in questi casi non si raggiunge una piu' celere definizione del processo, bensi' aumenta solo il rischio di abusi e degenerazioni. Per quanto attiene ai profili della questione, se rapportata al caso concreto, va rilevato come il pretore non avrebbe potuto dichiarare la nullita' del decreto penale, ne' - meno che mai - rilevare tale nullita' d'ufficio, senza che essa fosse dedotta dalle parti. Relativamente al decreto penale, al pretore spetta soltanto il potere di valutazione assegnatogli dal terzo comma dell'art. 464 del c.p.p. e niente di piu'. Proprio in ordine alla motivazione del predetto decreto, anzi, e cioe' con riguardo all'aspetto attinente al merito della decisione, al pretore non spetta alcun sindacato, giacche' in ordine al fatto contestato, la prova dovra' formarsi ex novo nel corso del dibattimento. Il pretore, invece, si e' comportato come un giudice dell'impugnazione, con poteri di merito, per giunta ben piu' ampi di quelli assegnati ai giudici di grado superiore, normalmente limitati dall'effetto devolutivo dell'impugnazione. In secondo luogo, pur a voler concedere che al pretore fosse consentito di rilevare la nullita' del decreto penale, ugualmente non si comprende come mai egli avrebbe potuto dichiarare la nullita' del decreto che dispone il giudizio. Quest'ultimo non e' atto che dipende o si fondi sul decreto penale, anzi concettualmente ad esso si contrappone. Il decreto penale e' una decisione di condanna, mentre con il decreto che dispone il giudizio si da' l'avvio all'accertamento dibattimentale. Anche in caso di dichiarata nullita' del decreto penale, insomma, non avrebbe potuto essere rilevata la nullita' derivata del decreto che dispone il giudizio che, se mai, e' la diretta conseguenza dell'atto di opposizione dell'imputato. Quest'ultimo, inoltre, nel caso di specie, ha chiaramente manifestato la volonta' di difendersi nel merito, non accettando alcun giudizio di condanna e neppure chiedendo di essere ammesso all'oblazione che, quando come in questo caso consentita, e' il rimedio piu' semplice e meno gravoso per chi voglia far chiudere il procedimento pendente a suo carico, con l'estinzione del relativo reato. L'imputato, invece, dopo l'opposizione, non solo non ha fatto alcuna richiesta di procedimenti speciali, ma ha chiesto, anzi, al pretore l'ammissione all'esame del proprio consulente tecnico, indiscutibilmente palesando la sua volonta' di difendersi nel merito nel corso del dibattimento. In applicazione della regola di prevalenza della decisione del giudice del dibattimento, questo giudice, sia pure con una piu' articolata motivazione, dovrebbe - a questo punto - emettere ancora una volta il decreto penale e cio' - francamente - appare del tutto irragionevole, dal momento che e' piu', che prevedibile che l'imputato presentera' sicuramente opposizione, chiedendo la celebrazione del dibattimento, al fine di riportarsi nuovamente nella analoga situazione processuale che si era gia' instaurata nel momento in cui il pretore - di sua iniziativa - provvedva, invece, a determinare la regressione del procedimento. E che da tutto cio' consegua, poi, il risultato della maggiore speditezza nella definizione del processo, appare quanto meno discutibile. Ma il pretore ha commesso ancora un altro errore e, cioe', dopo aver dichiarato la nullita' del decreto penale e del decreto che dispone il giudizio, invece di ordinare la trasmissione degli atti a questo giudice dinanzi al quale si sarebbe verificata la nullita', ai fini della rinnovazione dell'atto dichiarato nullo, ha ingiustificatamente disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero, che ha presentato a questo giudice per le indagini preliminari una nuova richiesta di emissione di decreto penale a carico dell'imputato. Orbene, come va inteso in questo caso il principio di prevalenza della decisione del giudice del dibattimento? Questo giudice, in altri termini, rimane vincolato solo dalla dichiarazione di nullita' ed e', percio', necessariamente tenuto all'emissione del decreto penale oppure, sempre in ossequio alla decisione del giudice del dibattimento di restituzione degli atti al pubblico ministero, potrebbe liberamente valutare la nuova richiesta di emissione di decreto penale, magari decidendo di non accoglierla? Quest'ultima soluzione, tra l'altro, inducendo il pubblico ministero ad emettere il decreto di citazione a giudizio, consentirebbe di eliminare le lungaggini della fase intermedia, sicura - come appare - la volonta' dell'imputato di difendersi nel merito nel corso del dibattimento. Ma essa, oltre ad apparire sistematicamente errata e scorretta, costituirebbe anche una palese violazione alle regole imposte dall'art. 185 del c.p.p., con il quale la regressione del procedimento e' prevista ai soli fini della rinnovazione dell'atto dichiarato nullo e risulterebbe, percio', incoerente con il sistema processuale. Tale situazione, pero, e' il frutto della insindacabilita' della decisione del giudice del dibattimento e consegue dalla diretta applicazione del principio contenuto nella seconda parte del secondo comma dell'art. 28 del c.p.p. Ritenuto, pertanto, che la disposizione in parola contrasti con i criteri di coerenza e ragionevolezza, piu' volte ricondotti dalla Corte costituzionale al dettato dell'art. 3 della Costituzione, determinando ingiustificate disparita' di trattamento in situazioni sostanzialmente analoghe e che, di conseguenza, gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale per il giudizio di legittimita'.
P. Q. M. Visti gli artt. 23 e segg. della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, affinche' la Corte valuti la legittimita' costituzionale dell'art. 28, secondo comma, seconda parte, del codice di procedura penale in relazione all'art. 3 della Costituzione, non essendo consentito al giudice per le indagini preliminari di sollevare conflitto di competenza dinanzi alla Corte di cassazione in caso di disaccordo con il giudice del dibattimento che, dichiarata la nullita' di un atto compiuto dal giudice per le indagini preliminari, abbia determinato la regressione del procedimento appunto dinanzi a tale giudice tenuto a provvedere e sospendere il giudizio in corso; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Torino, addi' 23 novembre 1992 Il giudice: CASALBORE Il collaboratore di cancelleria: OLIVETTI 93C0096