N. 54 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 dicembre 1992
N. 54 Ordinanza emessa il 2 dicembre 1992 dal tribunale di sorveglianza di Campobasso nel procedimento di sorveglianza relativo alla revoca della semiliberta' nei confronti di La Rocca Fedele Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici (nella specie: semiliberta') per gli appartenenti alla criminalita' organizzata o per i condannati di determinati delitti - Revoca degli stessi a seguito di comunicazione dell'autorita' di polizia in assenza delle condizioni previste dall'art. 58-ter della legge n. 354/1975 (collaborazione con la giustizia) - Irragionevole equiparazione di situazioni differenziate (soggetti che possono collaborare e soggetti che non possono collaborare per cause a loro non ascrivibili) - Prospettata violazione del principio di irretroattivita' della legge penale sfavorevole con incidenza sulla funzione rieducativa della pena. (D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 15, secondo comma, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356). (Cost., artt. 3, 25 e 27).(GU n.8 del 17-2-1993 )
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Nel procedimento di sorveglianza relativo alla revoca della semiliberta' (art. 15, secondo comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356) iniziato d'ufficio nei confronti di La Rocca Fedele, nato a Larino (Campobasso) il 18 maggio 1948, detenuto nella Casa circondariale di Larino, ha emesso, sciogliendo la riserva formulata nell'udienza svoltasi in camera di consiglio il di' 2 dicembre 1992, la seguente ordinanza; Esaminati gli atti del procedimento; P R E M E S S O Con ordinanza in data 11 dicembre 1991 questo tribunale di sorveglianza concedeva al detenuto La Rocca Fedele, condannato alla pena di anni 23 e giorni 12 di reclusione e L. 300.000 di multa per reati vari tra i quali il sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 del c.p.), la misura alternativa della semiliberta' come previsto dagli artt. 48 e 50 della legge n. 354/1975 e successive modificazioni. Nel provvedimento il tribunale sottolineava che per il La Rocca si erano realizzate tutte le condizioni per la concessione del beneficio in quanto il soggetto: 1) nel corso della lunga detenzione sofferta aveva compiuto significativi progressi trattamentali tanto da mostrare una decisa modificazione della sua personalita'; 2) aveva troncato qualsiasi contatto con la criminalita' organizzata; 3) dimostrava la palese intenzione di cambiare stile di vita scegliendo un piccolo paese del Molise (S. Martino in Pensilis) per svolgere la sua attivita' lavorativa e per provvedere al nucleo familiare. A seguito dell'entrata in vigore del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, che all'art. 15, secondo comma, prevedeva la revoca dei benefici in corso a persone condannate per specifici gravi reati e non definibili come "collaboratori" a norma dell'art. 54- ter della legge n. 354/1975 e successive modificazioni, questo tribunale - su segnalazione dei competenti organi di polizia - apriva il relativo procedimento contro il La Rocca Fedele e iniziava gli accertamenti di rito sulla eventuale qualifica "collaboratore" rivestita dal detenuto dipendendo da questa, ovviamente, il destino della misura alternativa gia' concessa. Nelle more del procedimento veniva promulgata la legge 7 agosto 1992, n. 356, che, convertendo con modifiche il decreto-legge n. 306, disponeva all'art. 15, secondo comma: "Nei confronti delle persone detenute o internate per taluno dei delitti indicati nel primo periodo del primo comma che fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla detenzione o di permessi premio, o siano assegnate al lavoro all'esterno, l'autorita' di polizia comunica al giudice di sorveglianza competente che le persone medesime non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso, accertata l'insussistenza della suddetta condizione, il tribunale di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa alla detenzione o del permesso premio. Analogo provvedimento e' adottato dalla competente autorita' in riferimento all'assegnazione al lavoro all'esterno". Le persone detenute o internate che non possono usufruire - a meno che non siano collaboratori - dei benefici della legge penitenziaria e che incaso di pregressa concessione dei benefici stessi devono sottostare alla revoca, sono quelle condannate per i gravi delitti di cui all'art. 4-bis, primo comma, della legge penitenziaria. In base, quindi, a tali emergenze legislative, questo ufficio - acquisiti elementi utili sulla posizione che ebbe ad assumere il La Rocca Fedele nei processi instaurati a suo carico - ha provveduto a fissare l'udienza per le decisioni definitive in ordine alla revoca del beneficio della semiliberta'. O S S E R V A Il La Rocca Fedele e' stato condannato a congrue pene anche per due delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione commessi in Milano negli anni 1979 e 1981 (il primo si risolve in pochissime ore con la liberazione dell'ostaggio da parte della polizia). Entrambe le vittime furono trattate, per cosi' dire, umanamente nel senso che nessuno dei sequestratori aggravo', con sevizie o maltrattamenti, le tristi condizioni dei rapiti; anzi nel primo episodio delittuoso fu proprio il La Rocca Fedele che procuro' alcune medicine di cui la vittima aveva bisogno. Gia' nel corso della custodia cautelare il La Rocca comincio' a dare segni di stanchezza per la vita condotta fino a quel momento (i giudici della corte d'appello di Milano diedero atto, nella sentenza in data 7 marzo 1985, della sua volonta' di rinascita morale) e avvio' un processo di cambiamento della sua personalita' consolidato fermamente nel corso della reclusione. Ancora oggi (vedi informativa in data 25 giugno 1992 dei carabinieri di S. Martino in Pensilis) il La Rocca Fedele e' ligio ai suoi doveri di detenuto semilibero e ne rispetta pienamente lo status tanto e' vero che appare integrato nella comunita' del piccolo paese in cui vive, e' dedito al suo lavoro di gestore di un negozio di generi alimentari, si conforma alle prescrizioni del programma di trattamento. Nel corso dei due processi per sequestro di persona il La Rocca non assunse atteggiamenti ostili nei confronti della giustizia: ed infatti ammise la sua responsabilita', badando comunque a non coinvolgere altri. Pur tuttavia non rivesti' affatto la qualifica di collaboratore cosi' come prevede l'art. 58- ter della legge penitenziaria (inserito dall'art. 1, quinto comma, del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203) in quanto non si adopero' per evitare che l'attivita' delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori ne' aiuto' concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione e la cattura degli autori dei reati. Tanto accertato, quindi, il tribunale dovrebbe ora revocare il beneficio della semiliberta' concesso al La Rocca Fedele antecedentemente all'entrata in vigore della legge 7 agosto 1992, n. 356, sulla base del disposto accennato di cui all'art. 15, secondo comma. Il detenuto, inoltre, non avrebbe piu' diritto per il futuro a tutte le altre misure premiali previste dall'ordinamento penitenziario, fatta eccezione per la liberazione anticipata, e dovrebbe percio' espiare la pena senza soluzioni di continuita' fino alla scadenza naturale della sanzione. A questo punto non e' possibile nascondere un senso di disagio che si e' impadronito dei componenti del tribunale nell'affrontare i problemi giuridici e umani conseguenti alla nuova normativa. Una prima riflessione si impone: a fronte di un detenuto il quale ha fatto tutto quanto era in suo potere per rispettare le norme dell'ordinamento penitenziario al fine di autorieducarsi e di ottenere misure alternative alla detenzione, vi e' una volonta' legislativa intesa ad un ripensamento generalizzato sulla concessione dei benefici socio-riabilitativi previsti dall'ordinamento stesso. Il senso di disagio si accresce pensando alla condanna riportata dal La Rocca Fedele per un delitto abietto, quale il sequestro di persona a scopo di estorsione, giustamente esecrato dalla pubblica opinione, delitto che di recente ha assunto caratteri di mostruosa atrocita' con privazioni di liberta' sofferte dalle vittime per mesi o per anni e con sevizie e mutilazioni crudeli inflitte anche a bambini. E appare percio' non conforme alla coscienza popolare di questo momento storico dover discutere asetticamente di un tipo di delinquenza per la quale lo Stato sta attuando una "politica" tesa alla ricerca di ogni espediente per debellarne le radici. Nonostante tutto, comunque, il tribunale ritiene suo dovere, quale organismo di giustizia di uno Sato democratico, dare spazio alla ragione e affrontare il tema di riflessione meramente giuridico che impone l'art. 15, secondo comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356. E' fuori di dubbio, invero, che la liberta' individuale e' tra i diritti civili quello piu' gelosamente custodito dalla Costituzione e che il rispetto rigoroso dei relativi principi e' affidata ai giudici i quali devono preliminarmente accertarsi che non vengano calpestati, al riguardo, le prerogative fondamentali della persona e che le norme restrittive siano comunque in armonia con l'ordinamento costituzionale. E, affrontata la questione sotto tale aspetto, questo tribunale ritiene che la norma di cui all'accennato art. 15, secondo comma, della legge n. 356/1992 appaia non conforme allo spirito di tre disposizioni del dettato costituzionale e precisamente l'art. 27, terzo comma, l'art. 25, secondo comma, e l'art. 3. L'art. 27, terzo comma della Costituzione ha avuto attuazione nel suo aspetto programmatico con la legge 25 luglio 1975, n. 354, meglio nota come legge penitenziaria. Questa ha creato una serie di princi'pi destinati al miglioramento della vita dei detenuti in vista del loro recupero sociale e ha previsto - per la prima volta nell'ordinamento giuridico italiano e sulla esperienza di altri Paesi - le misure alternative alla detenzione. La legge e' stata via via corretta fino all'approvazione del corpo di norme integrative previste dalla cosiddetta "Legge Gozzini" (la n. 663/1986) che, approvata quasi all'unanimita' dai componenti del Parlamento, fece parlare di ordinamento penitenziario da collocare tra i piu' civili del mondo. Sono note poi le serrate restrizioni che la legge penitenziaria ha subi'to nel corso degli ultimi anni (si veda la serie di decreti- legge emanati dal 13 novembre 1990) sull'onda dello sdegno della pubblica opinione allarmata da casi sempre piu' frequenti di evasione o di commissione di nuovi e gravi reati da parte di detenuti in permesso o in regime di misure alternative alla detenzione. Le leggi modificatrici arrivano ora al punto di far ritenere che alcuni soggetti, e cioe' quelli condannati per i delitti di cui alla prima parte dell'art. 4- bis della legge, sono per presunzione "non rieducabili" e quindi non piu' inseribili in un circuito di misure alternative a meno che non dimostrino un rifiuto del passato criminoso attraverso la collaborazione con la giustizia. Non e' questa la sede per discutere la scelta legislativa che, a quanto emerge dai mezzi di informazione, sta comunque dando i suoi frutti. Il problema riguarda quei soggetti che, ammessi alle misure alter- native prima dell'approvazione della legge n. 356/1992, non potevano assolutamente sapere che tra le condizioni imposte per vedere consolidato il loro recupero sociale vi potesse essere un giorno la "collaborazione" con gli organi di giustizia. E per le situazioni acquisite, quindi, il Tribunale ritiene verosimile e fondato un discorso di contrasto tra la norma restrittiva e l'art. 27, terzo comma, della Costituzione. E cio' in quanto la norma impugnata, cosi' come e' scritta, costringe i magistrati a interrompere l'esperimento di risocializzazione senza alcun motivo di demerito da parte dell'interessato. Indubbiamente alcuni soggetti potrebbero ancora collaborare pur di continuare ad usufruire del beneficio (l'art. 58- ter dispone che la collaborazione puo' verificarsi anche dopo la sentenza di condanna) in tutte quelle situazioni nelle quali gli autori di reati - soprattutto associativi - non abbiano ancora un volto; ma altri non avrebbero alcuna possibilita' di far realizzare il presupposto per la prosecuzione dell'esperimento perche' una eventuale collaborazione sarebbe impossibile essendo stati tutti gli autori dell'episodio criminoso identificati ed eventualmente processati e condannati. E per tali soggetti - anche con lunghe pene da scontare - il discorso sulla rieducazione dovrebbe essere dichiarato chiuso in palese contrasto con il principio accennato che, secondo quanto ha piu' volte ribadito la Corte costituzionale, crea un vero diritto del condannato a vedere riesaminata la sua posizione nel corso della reclusione per la verifica in concreto se la quantita' di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine rieducativo. Verifica che, si ripete, e' gia' stata attuata sotto la vigenza della precedente legislazione e con gli strumenti idonei ad accertare un completo abbandono delle scelte devianti di vita, il ripudio del passato e una nuova visione esistenziale con punti di riferimento utili quali il lavoro e la famiglia. Il ragionamento che precede ha gia' "in nuce" un altro aspetto di contrasto della norma con la disposizione di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Questa stabilisce che nessuno puo' essere punito in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso; il principio che se ne desume e' quello della assoluta irretroattivita' della norma penale che consente al cittadino di conoscere preventivamente il precetto di legge al quale ispirare responsabilmente la propria condotta con le relative conseguenze in termini sanzionatori nel caso di violazione del precetto stesso. Non sembra dubbio che, sulla base dell'ordinamento penitenziario, il soggetto apprende anche, nel momento in cui viene condannato, che la sanzione a lui inflitta potra' avere un aspetto evolutivo con possibilita' di sue variazioni nel tempo e con veri e propri diritti maturati anche in relazione alla condanna: cosi', ad esempio, il condannato a pena inferiore a tre anni di reclusione puo', a sua domanda, ottenere dal pubblico ministero la sospensione dell'esecuzione fino a quando il tribunale di sorveglianza non statuira' se sia o meno meritevole dell'affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, quarto comma, della legge n. 374/1975 e succ. mod.); ed egualmente il tossicodipendente avra' un altro analogo diritto, con immediata scarcerazione se gia' detenuto, nei casi in cui voglia sottoporsi ad un programma di recupero (v. art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309); e la donna che sia incinta o abbia partorito da meno di sei mesi potra' ottenere il differimento della pena (v. art. 146, primo comma e 2 del c.p.); e la casistica e' suscettibile di numerosissimi altri esempi. Nessuno puo' contestare la possibilita' per il legislatore di abolire tali benefici; ma l'abrogazione puo' essere ammessa solo per casi verificatisi dopo l'entrata in vigore della nuova legge e giammai retroattivamente per coloro che hanno gia' maturato l'aspettativa in base a precedenti disposizioni; e' in gioco, al riguardo, la certezza del diritto penale sostanziale. Ed e' opportuno ricordare che in tale ottica il principio venne salvaguardato dal legislatore che nell'anno 1991, ridisegnando tutto il sistema di ammissibilita' delle misure alternative alla detenzione (v. legge 12 luglio 1991, n. 203, di conversione del d.l. 13 maggio 1991, n. 152) ebbe a stabilire che le norme peggiorative in materia di ordinamento penitenziario dovessero applicarsi solo a condannati per delitti commessi dopo la pubblicazione del decreto (art. 4 della legge). In definitiva, secondo il tribunale, tutto il regime che attiene alla pena nel suo aspetto sostanziale ed evolutivo puo' essere solo migliorato ma non peggiorato retroattivamente. E, sotto tale aspetto, sembra che l'art. 15, secondo comma, della legge n. 356/1992 non possa sfuggire, per il profilo accennato, a forti sospetti di incostituzionalita'. Ed infine - osserva ancora il tribunale - la norma indicata appare in contrasto con il principio di cui all'art. 3 della Costituzione sulla eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. L'art. 15, secondo comma, della legge n. 356/1992 impone la revoca delle misure alternative nei confronti indiscriminatamente di tutti quei soggetti che le abbiano da tempo ottenute; ma dimentica, cosi' operando, che sono sottoposte alla stessa disciplina situazioni in concreto diverse tra loro. Ed invero il presupposto per la revoca della misura alternativa non e' l'indegnita' sopravvenuta del soggetto, ne' la sua inidoneita' al trattamento e l'essere evaso o l'avere commesso nuovi delitti, cosi' come prevede l'art. 51 della legge penitenziaria. Il presupposto e' un altro e cioe' la "non collaborazione" con gli organi di giustizia. Senonche' la legge sembra dimenticare - come gia' accennato in precedenza - che non sempre il soggetto puo' prestare la sua collaborazione soprattutto dopo la condanna. Sussistono senz'altro situazioni in cui la collaborazione e' possibile; allorche', ad esempio, tutti i partecipanti ad un sequestro o i complici di un sodalizio criminoso non siano stati assicurati alla giustizia anche dopo le sentenze emesse dall'autorita' giudiziaria. In tali casi sara' l'interessato a decidere di collaborare per dimostrare l'avvenuta nuova scelta esistenziale e porre la premessa fondamentale della concessione dei benefici previsti dalla legge penitenziaria. Ma vi sono tantissimi altri casi in cui il condannato non puo' prestare alcuna collaborazione: a) perche' i complici sono stati gia' tutti assicurati alla giustizia; b) perche' l'episodio criminoso e' stato comunque chiarito; c) perche' a distanza di anni i collegamenti con le strutture dei sodalizi criminosi non venuti meno e non sussistono piu' riferimenti di fatto; d) perche' in alcuni tipi di organizzazioni criminose a compartimento stagno il soggetto e' stato comunque posto ab initio nella impossibilita' di fornire un contributo, come recita l'art. 58- ter della legge penitenziaria, nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati. E per tali ultimi casi sembra evidente la disparita' di trattamento rispetto a coloro che comunque, per una serie di circostanze talvolta indipendenti dalla loro volonta', tale collaborazione possono prestare. In conseguenza delle eccepite questioni di legittimita' costituzionale il procedimento sulla revoca della misura alternativa resta sospeso e, quindi, il La Rocca Fedele puo' continuare a fruire del regime di semiliberta'. Restano ovviamente fermi i poteri di questo ufficio di disporre la sospensione e la revoca del beneficio qualora il detenuto si dimostrasse nel futuro indegno della misura alternativa a norma dell'art. 51 della legge penitenziaria.
P. Q. M. Sentiti il detenuto interessato ed il suo difensore; Su difforme parere del p.m.; Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale indicate nella parte motiva di questa ordinanza; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per le decisioni di competenza sulle proprie questioni; Sospende il procedimento in corso e dispone che La Rocca Fedele continui ad usufruire del regime di semiliberta'; Manda alla cancelleria per le comunicazioni, le notificazioni e le forme di pubblicita' in genere previste dall'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, e dalle altre disposizioni sul procedimento di sorveglianza. Cosi' deciso in Campobasso, addi' 2 dicembre 1992 Il presidente: MASTROPAOLO Il collaboratore di cancelleria: FAZIOLI 93C0136