N. 64 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 ottobre 1992

                                 N. 64
 Ordinanza emessa il 7 ottobre 1992 dal tribunale di  sorveglianza  di
 Firenze  nel  procedimento di sorveglianza per l'affidamento in prova
 al servizio sociale o l'ammissione alla semiliberta' sulla istanza di
 Colavito Alfredo
 Ordinamento  penitenziario  -  Impossibilita',  tranne  i casi in cui
 ricorrono le  condizioni  di  cui  all'art.  58-ter  della  legge  n.
 354/1975  (collaborazione con la giustizia), di concedere determinati
 benefici (nella specie: affidamento in prova al  servizio  sociale  o
 semiliberta')  ai  condannati per gravi delitti - Lamentato contrasto
 con il principio della funzione rieducativa della pena, con incidenza
 sul diritto di difesa e sul principio di irretroattivita' della legge
 penale sfavorevole.
 (Legge 26 luglio  1975,  n.  354,  art.  4-bis,  primo  comma,  p.p.,
 modificato  dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 15, convertito, con
 modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356).
 (Cost., artt. 24, 25 e 27).
(GU n.9 del 24-2-1993 )
                     IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    A scioglimento della riserva espressa nell'udienza del  7  ottobre
 1992;
    Visti  ed  esaminati  gli  atti della procedura di sorveglianza in
 materia di ammissione alla  semiliberta',  affidamento  in  prova  al
 servizio   sociale  o  liberazione  condizionale,  nei  confronti  di
 Colavito Alfredo nato l'11 aprile 1963 a Taranto detenuto nella  casa
 di reclusione San Gimignano;
    Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale;
                             O S S E R V A
    Nella   procedura   suindicata   si   e'  sollevata  eccezione  di
 incostituzionalita',  per  la  quale  si  rimanda  alla   motivazione
 contenuta nei fogli allegati.
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Pronuncia  nella  procedura  suindicata  nei confronti di Colavito
 Alfredo;
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione    di
 illegittimita'  costituzionale cosi' come dettagliatamente indicata e
 articolata al n. 5 della motivazione allegata;
    Sospende la procedura di sorveglianza in corso in  relazione  alle
 istanze come sopra avanzate dall'interessato;
    Dispone  la  trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per
 la decisione in merito alla questione sollevata;
    Manda la cancelleria per le notificazioni, le comunicazioni  e  le
 forme  di  pubblicita' in genere previste dall'art. 23, quarto comma,
 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
      Firenze, addi' 7 ottobre 1992
                        Il presidente: MARGARA
                            Il collaboratore di cancelleria: PETTINARI
                                 ____
                        MOTIVI DELLA DECISIONE
    1. - L'interessato ha chiesto l'affidamento in prova  al  servizio
 sociale o l'ammissione alla semiliberta' ai sensi degli artt. 47 e 48
 e  segg.  della  legge  penitenziaria  (norme inserite nel capo sesto
 della legge 26 luglio 1975, n. 354, la legge penitenziaria, appunto).
    Va precisato che egli  e'  stato  condannato  per  associazione  a
 delinquere finalizzato allo spaccio di sostanze stupefacenti (art. 75
 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, ora divenuto art. 74 del d.P.R.
 9 ottobre 1990, n. 309, del t.u. leggi stupefacenti per altri reati).
    Sulla   ammissione  a  tale  concessione  incide  il  nuovo  testo
 dell'art. 4- bis della legge penitenziaria (legge 26 luglio 1975,  n.
 354)  cosi'  come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n.
 306, ora convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356,  che  dispone:
 "  ..  le  misure  alternative previste dal capo sesto della legge 26
 luglio 1975, n. 354, possono  essere  concesse  ai  detenuti  ..  per
 delitti  commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416
 del codice penale, ovvero al  fine  di  agevolare  l'attivita'  delle
 associazioni  previste  dallo stesso articolo, nonche' per delitti di
 cui agli artt. 416- bis e 630 del codice penale  e  all'art.  74  del
 d.P.R.  9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti ..
 collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58- ter".
    L'interessato ha chiesto anche la liberazione condizionale, per la
 quale vale la stessa normativa suesposta  per  effetto  del  richiamo
 operato  alla  medesima  dal  primo  comma dell'art. 2 della legge 12
 luglio 1991, n. 203  (conversione  con  modificazione  del  d.l.  13
 maggio  1991,  n.  152).  Al riguardo si deve ritenere che, mutato il
 testo dell'art. 4-bis, norma richiamata, debba anche ritenersi mutato
 il contenuto della norma richiamante.
    Questo tribunale, per gli aspetti e le considerazioni che seguono,
 ritiene    non    manifestamente    infondato    il    rilievo     di
 incostituzionalita' della nuova normativa ora introdotta.
    2.  -  Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa di cui
 alla prima parte del primo comma dell'art.  4-  bis  della  legge  26
 luglio  1975,  n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8
 giugno 1992 convertito  nella  legge  7  agosto  1992,  n.  356,  per
 contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    2-  a.  -  Si  ricorda  quanto chiarito dalla Corte costituzionale
 nella sentenza n. 204/1974 circa il senso e  la  portata  del  citato
 art.  27, terzo comma, della Costituzione. In detta sentenza si legge
 che, sulla base del precetto di cui alla norma ora citata  "sorge  il
 diritto  per  il  condannato a che, verificandosi le condizioni poste
 dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della  realizzazione
 della  pretesa  punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in
 effetti  la  quantita'  di  pena  espiata  abbia   o   meno   assolto
 positivamente  al suo fine rieducativo"; diritto questo - nota ancora
 la sentenza citata - che "deve  trovare  nella  legge  una  valida  e
 ragionevole garanzia giurisdizionale".
    Questi  precisi  significato  e portata della norma costituzionale
 sono  richiamati  anche  in  piu'  recenti  decisioni   della   Corte
 costituzionale:  si  veda  la  sentenza  n.  343/1987 (motivazione in
 diritto, n. 7, in fine); si veda ancora la sentenza n. 282/1989,  che
 al  n.  8  della motivazione in diritto riporta proprio i passi della
 sentenza n. 204/1974 sopra richiamati; si veda infine la recentissima
 sentenza n. 125/1992, che, al n. 4 della motivaz. in diritto torna  a
 citare e a confermare i principi suindicati.
    2-  b.  -  Premesso  quanto  sopra non si puo' non ritenere che il
 diritto del condannato a vedere riesaminare se "la quantita' di  pena
 espiata  abbia  o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo"
 sia messo radicalmente in crisi e contestato quando viene subordinato
 al  verificarsi  di  una  condizione  che  prescinda   dal   percorso
 rieducativo-risocializzativo   compiuto  dall'interessato.  Nel  caso
 della  nuova  normativa  di  cui  al  citato  art.  4-bis,  senza  la
 "collaborazione   con   la   giustizia"  ivi  indicata,  il  percorso
 rieducativo-riabilitativo che si deve  accompagnare  alla  esecuzione
 della  pena e' reso irrilevante, frustrando pertanto quella finalita'
 della pena che l'art. 27 stabilisce e l'esercizio del  diritto  sopra
 indicato che ne deriva.

    Sara' bene chiarire due punti.
    Il primo. La "collaborazione con la giustizia" di cui all'art.  4-
 bis   citato   e'   quella   che  si  puo'  chiamare  "collaborazione
 processuale" e che viene esplicitamente descritta  dall'art.  58-ter,
 cui l'art. 4- bis rinvia. Sono considerati "collaboratori" coloro che
 "si sono adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata
 a   conseguenze   ulteriori   ovvero   hanno   aiutato  concretamente
 l'autorita' giudiziaria nella raccolta di elementi  decisivi  per  la
 ricostruzione  dei  fatti  e  per l'individuazione o la cattura degli
 autori dei reati".
    Il  secondo  e   conseguente.   La   sede   naturale   di   questa
 collaborazione  e' nel processo, prima della sentenza di condanna. E'
 vero  che  l'art.  58-  ter  prevede  la  ipotesi  di   condotta   di
 collaborazione  (con  le  stesse caratteristiche suindicate) prestata
 dopo la sentenza di  condanna,  ma  l'attivita'  in  questione  resta
 confinata   nel  momento  dell'accertamento  dei  reati  e  dei  vari
 interventi  in  ordine  agli  stessi  e  alle  loro  conseguenze.  Un
 intervento  dopo  la  condanna  ha  ancora  queste caratteristiche ed
 evidentemente sara' possibile solo se non vi sia gia' stato  l'intero
 chiarimento  sullo  svolgimento dei fatti e l'intero intervento sugli
 effetti degli stessi.
    Non sembra dubbio allora che la "collaborazione" in  questione  e'
 prestata  di  norma  prima  che inizi il processo di esecuzione della
 pena e, quando interviene  a  processo  di  esecuzione  iniziato,  si
 ricollega  sempre alla situazione processuale di cognizione dei fatti
 e deriva la sua possibilita' (o impossibilita') dalle caratteristiche
 di quella situazione.
    Dunque:   e'   tale   "collaborazione",   posta   di  norma  prima
 dell'esecuzione o, se e quando possibile, riferita  a  quel  momento,
 che  decide  se  la esecuzione della pena potra' essere finalizzata a
 costruire un percorso di rieducazione-riabilitazione, nell'ambito del
 quale il condannato potra' fare valere quel diritto al riesame  degli
 effetti della esecuzione, di cui la citata sentenza costituzionale n.
 204/1974 ha parlato.
    2-   c.   -   Sara'   bene  chiarire  ulteriormente  il  contenuto
 sostanzialmente  mistificatorio  del  collegamento   che   si   vuole
 verosimilmente  stabilire  fra  "collaborazione"  e  svolgimento  del
 percorso rieducativo-riabilitativo di cui all'art. 27,  terzo  comma,
 parla.
    La  "collaborazione"  e'  una  opzione  pratica  che  nasce  dalla
 valutazione  della   convenienza   processuale   ed   e'   fortemente
 condizionata dall'andamento delle indagini e del processo. Il cammino
 della rieducazione-riabilitazione che deve caratterizzare il processo
 di  esecuzione  della  pena  corrisponde  invece  ad  un  percorso di
 rivisitazione dei propri valori, delle proprie condizioni di vita  ed
 alla  creazione, nella fase riabilitativa, di valori e condizioni che
 favoriscono un corretto reinserimento sociale.
    Chiariamo quindi che:
      si puo' "collaborare" senza interessarsi a compiere quel cammino
 di cui si e' ora detto:
      si puo' non essere nelle  condizioni  per  collaborare  per  una
 serie  di  ragioni e situazioni, che ora si cerchera' di dettagliare:
 eppure, in tal caso, si puo' invece compiere correttamente il cammino
 di rieducazione-riabilitazione di cui si e' parlato.
    Chiariamo allora le situazioni relative alla possibilita'  e  alla
 praticabilita' della "collaborazione":
       a) non si puo' ignorare il caso di chi non sia responsabile del
 delitto  per  cui  e'  stato  condannato:  caso  che  si  puo'  anche
 considerare estremo, ma che non si  pone  fuori  dal  nostro  sistema
 giuridico  se  viene  previsto  e regolato nelle sue conseguenze agli
 artt. 643 e  647  del  c.p.p.  E  si  puo'  aggiungere  che  l'errore
 giudiziario  regolato  e'  quello  verificato  processualmente con la
 revisione, mentre vi puo'  anche  essere  un  errore  non  verificato
 eppure egualmente sussistente. E' in questo caso, quando la revisione
 non  cancella il giudicato e la pena sopravvive in base a questo, che
 si verifica una situazione in cui la "collaborazione" di cui si parla
 e' impossibile. Si puo' aggiungere, per vero, che, in  tal  caso,  ci
 sarebbe  da  discutere  anche  sulla  possibilita'  del  percorso  di
 rieducazione-riabilitazione, di cui si e' parlato,  il  quale  potra'
 comunque  consistere,  al  di la' di quanto avvenuto e commesso o non
 commesso dall'interessato, nella dimostrazione  da  parte  sua  della
 capacita' di rispettare le regole di convivenza generale e di sapersi
 correttemente  reintegrare  dal  carcere  nell'ambiente  sociale.  Si
 ripete, pero': non si puo' chiedere la "collaborazione" in  questione
 a chi non e' autore dei fatti per cui e' stato condannato;
       b)  ne'  la collaborazione e', all'opposto, possibile quando le
 indagini hanno, fin dall'inizio, per la flagrante  constatazione  dei
 fatti  o  comunque  per  la  loro  rapida  ricostruzione, chiarito le
 responsabilita' e rimosso le conseguenze dirette dei reati commessi;
       c)  e'  inoltre,  rispetto  alla  "collaborazione"  in  parola,
 possono  essere  decisive,  e  ostative,  le  specifiche posizioni di
 singoli concorrenti, posizioni riferite ai fatti o al processo.
    E', infatti:
      il  partecipe  di  secondo  piano  puo' non conoscere che il suo
 collegamento  con  il  livello  superiore:  riconosciuto   a   questo
 collegamento delle indagini o dalla ammissione del partecipe di grado
 superiore,  nessuna "collaborazione" e' possibile per quello di grado
 inferiore. Si entra insomma in ordine di  concetti,  che  puo'  anche
 essere  accettabile  sul  piano  della  efficacia processuale, ma che
 diviene francamente inaccettabile quando e' in giuoco, diciamo cosi',
 il "merito penitenziario": l'ordine dei concetti e' che e'  favorito,
 nel  prestare  la  "collaborazione", il piu' responsabile rispetto al
 modesto secondario partecipe;
      e ancora: secondo l'andamento del processo, vi puo'  essere  chi
 e' raggiunto dallo stesso quando cio' che poteva dire o su cui poteva
 incidere    e'    gia'    stato    detto    o   fatto:   anche   qui,
 "collaborazione"impossibile.
    Se ci si stacca, poi, dalla osservazione relativa al  momento  dei
 fatti  e  si  pensa a quali e quanti possono esserne gli sviluppi nel
 tempo (tanti di piu' quanto piu' lungo e' il tempo trascorso), ci  si
 rende  conto  di  come,  in  particolare,  la  richiesta  oggi  della
 "collaborazione processuale" che allora non ci fu  puo'  non  trovare
 risposte  possibili,  attendibili,  verificabili.  Ci  possono essere
 situazioni in cui qualcosa sia ancora possibile ma in  molti,  troppi
 casi cio' non accadra' ed e' verosimile che non possa accadere.
    A  questo  riguardo,  sembra  inevitabile  una  riflessione: se la
 norma,   introdotta,    nella    sua    genericita',    si    applica
 indifferentemente  in tutte le situazioni, ignorando quelle in cui e'
 impraticabile, la norma stessa appare, cosi'  com'e',  inaccettabile.
 La stessa si risolve, nei fatti e ciecamente (per le diversita' della
 casistica),  in  una  inammissibilita'  pura e semplice al sistema di
 interventi penitenziari alternativi  alla  detenzione.  Il  che  vuol
 dire:  inammissibilita'al  rilievo  (e, in sostanza: allo svolgimento
 rilevante) del  percorso  rieducativo-riabilitativo  essenziale  alla
 esecuzione  della pena; inammissibilita' al riesame dello sviluppo di
 quel percorso, finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno
 raggiunto il fine che le e' proprio: riesame ricognizione che sono un
 "diritto"  dell'interessato,  secondo  quanto  indicato  dalla  Corte
 costituzionale  nella  sentenza  n.  204/1974 e in quelle successive,
 sopra citate; diritto che viene, quindi, negato.
    Ed allora il contrasto della nuova normativa con l'art. 27,  terzo
 comma,  della  Costituzione  puo'  essere  ragionevolmente  ritenuto;
 ritenuta  comunque,  non  manifestamente   infondata   la   questione
 relativa.
    2-  d.  -  In  margine  alla conclusione su questo punto, si crede
 utile una ulteriore riflessione. La nuova  normativa  si  basa  sulla
 convinzione   che   particolari  delitti  sono  commessi  sovente  da
 soggetti, strettamente inseriti in  organizzazioni  criminali,  dalle
 quali e' improbabile il distacco.
    Se  cio'  e'  vero  in  vari  casi,  non  e'  un valido sistema di
 individualizzazione di questi autori quello della tipizzazione basata
 sulla astratta previsione dei titoli di reato, sistema cui  ha  fatto
 ricorso  la  nuova  normativa  in esame. Infatti, la casistica, molto
 varia, che i delitti in questione presentano  rileva  che  il  legame
 degli  autori  con  organizzazioni  criminali, in molti casi, non era
 presente  all'epoca  dei  fatti  e   tantomeno   puo'   essere   dato
 automaticamente per esistente oggi.
    Cosi',  vi  sono  casi di sequestro di persona, in cui vi e' stata
 una aggregazione occasionale  e  estemporanea  di  persone,  che  non
 sembrano  affatto operare nel quadro di organizzazioni criminali. Del
 pari e' a  dirsi  per  l'associazione  finalizzata  allo  spaccio  di
 sostanze  stupefacenti,  che e' stata, in vari casi, riconosciuta nei
 confronti di gruppi di persone legate dalla  tossico-dipendenza,  che
 gestivano   in   comune   l'approvvigionamento  delle  sostanze,  con
 contatti,  verosimilmente,  ma  senza  inserimenti  in   associazioni
 criminali,  cosi'  che  la  scoperta  dei fatti e la celebrazione del
 processo hanno determinato  il  dissolversi  della  aggregazione  del
 gruppo.  E  anche  per  il  piu'  significativo  dei  tipi  di  reato
 richiamati  nella  prima  parte  del  nuovo  testo  dell'art.  4-bis,
 l'associazione  a delinquere di cui all'art. 416- bis del c.p., se si
 vuole esaminare la situazione razionalmente e senza i condizionamenti
 indotti dalla gravita'  degli  attacchi  attuali  della  criminalita'
 organizzata,  si  deve  rilevare  che, accanto a casi di permanente e
 incontestabile pericolosita', ve ne sono altri (tanto piu'  frequenti
 quanto  piu'  si  allontana  nel  tempo  il periodo dell'aggregazione
 criminale), in cui la dissoluzione del gruppo particolare in  cui  il
 soggetto  era  inserito,  la  sua partecipazione di secondo piano, il
 distacco da persone e ambienti, che puo' essere  stato  agevolato  da
 particolari  storie  personali;  tutte  queste  circostanze, insomma,
 possono rendere possibile la dissociazione  il  distacco  dal  gruppo
 criminale di passata appartenenza.
    La  tipizzazione  per  titoli  di  reato,  operata dal nuovo testo
 dell'art. 4- bis, accomuna dunque situazioni eterogenee e prevede per
 tutte la stessa disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda  del
 loro  rilievo e della loro pericolosita'. E' questo appunto l'aspetto
 negativo di una disciplina normativa che conduce ad una inaccettabile
 inammissibilita' ai benefici in tutti i casi,  mentre,  al  contrario
 una disciplina flessibile potrebbe consentire di escludere i casi che
 siano  espressione  di  permanente pericolosita', ammettendo, invece,
 gli altri ad un esame nel merito. Disciplina,  questa,  che  potrebbe
 essere  compatibile  con il precetto dell'art. 27, terzo comma, della
 Costituzione cosi'  come  interpretato  dalla  Corte  costituzionale,
 secondo  quanto  precisato  in  precedenza.  Il che, per quanto si e'
 detto, non avviene con l'attuale previsione  normativa  del  ripetuto
 art. 4-bis.
    2-  e.  - La questione di costituzionalita' non viene meno dinanzi
 alle modifiche introdotte al d.l. 8 giugno 1992, n. 356, dalla legge
 di conversione 7 agosto 1992, n. 356. Questa  ha  aggiunto  al  nuovo
 testo  dell'art.  4-bis,  dopo la indicazione dei delitti per i quali
 sono inammissibili, salva la ipotesi di collaborazione, le misure al-
 ternative,  questa  ulteriore  proposizione:  "Quando  si  tratta  di
 detenuti  o  internati  per  uno  dei  predetti delitti, ai quali sia
 praticata una delle circostanze attenuanti previste dagli  artt.  62,
 n.  6,  anche  qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la
 sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione
 dell'art.  116,  secondo  comma,  dello  stesso  codice,  i  benefici
 suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene
 offerta  risulti  oggettivamente irrilevante, purche' siano acquisiti
 elementi  tali  da  escludere  in  maniera  certa  l'attualita'   dei
 collegamenti con la criminalita' organizzata".
    Con  riferimento  a  quanto gia' detto nelle pagine precedenti, si
 possono svolgere queste osservazioni:
       a) la normativa introdotta con la legge di conversione  non  fa
 che   dare,   in  situazioni,  particolari,  un  regime  speciale  di
 applicazione della stessa regola stabilita, con  il  d.l.  8  giugno
 1992,  n.  306,  nella  prima  parte  dell'art.  4-  bis. La modifica
 introdotta  con  la  legge  di  conversione  lascia   inalterata   la
 situazione  che  si  era  rilevata  sub 2- d), dove si osservava: "La
 tipizzazione per titoli di reato, operata dal nuovo  testo  dell'art.
 4-bis,  accomuna  situazioni eterogenee e prevede per tutte la stessa
 disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda del loro  rilievo  e
 della loro pericolosita' ..". Il che "conduce - si diceva subito dopo
 -  ad  una inaccettabile inammissibilita' ai benefici in tutti i casi
 ..". Come si puo' rilevare agevolmente la  modifica  apportata  dalla
 legge  di  conversione  non  fa che prevedere, per casi particolari e
 ristretti, la necessita' di una collaborazione attenuata, compensata,
 pero', dalla dimostrazione "in maniera certa"  di  un  dato  negativo
 quale  e'  la  mancanza  di attuali "collegamenti con la criminalita'
 organizzata".   La   regola,   di   cui   si   e'    contestata    la
 costituzionalita', resta quindi ferma;
       b)  si  puo'  aggiungere che, proprio perche' il nuovo testo fa
 pur sempre riferimento ad una  collaborazione,  sia  pure  attenuata,
 restano  ferme  tutte  le  obiezioni al sistema fatte sul punto della
 impossibilita'  o  della  impraticabilita'  della  collaborazione  in
 alcune situazioni (v. sub 2-c);
      c)  e  si aggiunge, a quanto detto, il rilievo che la necessita'
 di provare "in maniera certa" la mancanza  di  attuali  "collegamenti
 con  la  criminalita'  organizzata" impione l'onere della prova di un
 dato negativo, tanto piu' irraggiungibile quanto  piu'  l'interessato
 non  abbia  mai  avuto  collegamenti del genere, come accade nei casi
 ricordati in precedenza
  sub 2-d);
      d) con queste gravi riserve di fondo,  si  puo'  anche  rilevare
 come  le  modifiche  introdotte  con  la  legge  di conversione siano
 limitate nonche'  scarsamente  logice  e  coerenti:  in  una  parola:
 scarsamente razionali.
    Infatti:
      intanto, l'art. 62, n. 6, e 116 del c.p. interessano solo alcuni
 dei  tipi  di reato cui la prima proposizione dell'art. 4- bis - come
 modificato dal d.l. n. 306/1992 - si riferisce: possono  riguardare,
 infatti,  le  prime due ipotesi, legate all'art. 416-bis, e quella di
 cui all'art. 630 del c.p., non le altre:  c'e'  da  chiedersi  se  vi
 fosse  la  consapevolezza  e  comunque  se ci sia una razionalita' in
 queste distinzioni fra tipi di reato rispetto allo stesso regime;
      il riferimento all'art. 116  del  c.p.  introduce  un  ulteriore
 elemento di possibile irrazionalita': se vi sia una rapina per cui e'
 stata  ritenuta l'aggravante del collegamento con una associazione di
 stampo mafioso (art. 628, terzo comma, n. 3) in occasione della quale
 e' stato commesso un omicidio,  potra'  rendersi  applicabile  l'art.
 116,  inapplicabile  invece  quando  la  rapina  non sia accompagnata
 dall'omicidio; se e' possibile parlare di art. 116 per  un  sequestro
 di  persona,  aggravato  dalla  morte dell'ostaggio, non se ne potra'
 parlare nel caso in cui non si sia verificato questo evento.  Dunque:
 un regime di minor sfavore (se cosi' si voglia chiamare quello che si
 sta  esaminando)  vale  in  casi di maggiore gravita' e non e' invece
 proponibile in casi di minore gravita';
      la previsione della ipotesi del risarcimento  del  danno,  anche
 successivo alla sentenza di condanna, prende in considerazione coloro
 che hanno una certa disponibilita' patrimoniale, non sempre e' chiaro
 i meno colpevoli;
      anche  l'ipotesi di applicazione dell'art. 114 del c.p. e' molto
 limitata specie in riferimento alla previsione del secondo  comma  di
 tale  articolo  che  esclude  l'applicabilita'  della norma "nei casi
 indicati dall'art. 112": questo prevede al n. 1 il caso del  concorso
 nel  reato  di  5  o piu' persone, caso molto frequente, anzi di gran
 lunga prevalente, nella casistica che ci interessa. E  una  ulteriore
 precisazione alla previsione di questa particolare attenuante: sub 2-
 d)  si  era  rilevato  come la nuova normativa di inammissibilita' ai
 benefici colpiva indistintamente i partecipi senza distinguere i loro
 ruoli, principali o subalterni, informati di tutto, perche' al centro
 dell'azione criminale, o a conoscenza solo di parte della stessa.  Si
 deve  ora  chiarire  che  la  previsione dell'art. 114 del c.p. nella
 legge di conversione che  qui  si  esamina,  non  coglie  affatto  la
 preoccupazione che si era avanzata: anche se il ruolo di un partecipe
 e'   subalterno,   non   si  arriva  che  in  casi  eccezionali  alla
 possibilita' di applicazione dell'art. 114, esclusa,  comunque,  come
 si  e'  accennato, quando il numero dei concorrenti (come sara' quasi
 sempre) e' di 5 o piu'.
    Concludendo: la legge di conversione, con la modifica  che  si  e'
 esaminata,  non  ha modificato la sostanza della normativa introdotta
 con il d.l. n.  306/1992:  restano  pertanto  ferme  le  riserve  di
 costituzionalita'  avanzate  sulla normativa stessa, anche cosi' come
 ora vigente per effetto della legge di conversione.
    3. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa  di  cui
 alla  prima  parte  del  primo  comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del  d.l.  8
 giugno  1992,  n.  306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356,
 per contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
    3- a. - La norma costituzionale  ora  citata  cosi'  dispone:  "La
 difesa   e'   diritto   inviolabile   in   ogni  stato  o  grado  del
 procedimento".
    La Corte costituzionale ha chiarito (sentenza 27 novembre 1979, n.
 267) che la garanzia costituzionale del diritto di difesa va riferita
 ai procedimenti giurisdizionali che abbiano contenuto decisorio. Tale
 e' il  procedimento  di  sorveglianza  in  cui  e'  sollevata  questa
 eccezione,  secondo  la  giurisprudenza per la quale il provvedimento
 conclusivo di tale procedimento ha natura di sentenza  e  produce  il
 normale effetto del giudicato (v. Cass. 24 ottobre 1979, in Foro it.,
 1980,  II,  164,  nonche'  Cass. 21 febbraio 1983 in Cass. pen. 1984,
 2054).
    E' utile  un  altro  chiarimento  che  viene  dalla  giurisdizione
 costituzionale.  Nella  stessa  si  precisa (v. per tutte: sentenza 8
 giugno 1983, n. 149) che il diritto  di  difesa  comporta,  in  primo
 luogo, la garanzia di contraddittorio: il che e' quanto dire che quel
 diritto e' assicurato nella misura in cui si dara' all'interessato la
 possibilita' di partecipare ad una effettiva
    Sembra  chiaro  pertanto  che  il  diritto  di difesa non concerne
 soltanto la disponibilita' degli  strumenti  con  cui  la  difesa  si
 realizza,  ma  anche,  per  cosi'  dire,  il  merito della difesa, la
 scelta, cioe', di una linea difensiva piuttosto di un'altra.  Nessuna
 linea  di  difesa  puo'  essere  imposta, anche se e' pacifico da una
 certa linea difensiva puo'  comportare,  attraverso  altri  riscontri
 processuali,  valutazioni  particolari  (ed  anche  sfavorevoli)  nei
 confronti del soggetto interessato. Il che, pero', deve essere  anche
 detto   senza   dimenticare  che  si  deve  distinguere  fra  verita'
 processuale e verita' reale e che una certa linea difensiva puo'  non
 essere  in  regola con la prima, ma esserlo con la seconda, mentre la
 valutazione giudiziale di tale linea puo' essere,  al  contrario,  in
 regola con la prima, ma non con la seconda.
    Orbene:  la  normativa  in  esame, condizionando un vero e proprio
 diritto del soggetto (cosi' come chiarito nelle pagine precedenti: il
 diritto, cioe', al riesame  degli  effetti  rieducativi-riabilitativi
 prodotti  dalla  esecuzione  della  pena) alla c.d. "collaborazione",
 vincola il soggetto  medesimo  ad  una  linea  difensiva,  negandogli
 pertanto  la  liberta'  di  scelta  garantita  costituzionalmente. E'
 chiaro  che  stabilire  che,  per  coloro  che  sono   detenuti   per
 particolari  reati,  nessun beneficio e' possibile se non nei casi in
 cui  "tali  detenuti  collaborano  con  la  giustizia  ..",  equivale
 puramente   e   semplicemente  a  costringere  gli  interessati  alla
 "collaborazione processuale" e, quindi, ad una particolare  linea  di
 difesa  (equivalente  alla  confessione  piena  e incondizionata) per
 essere  ammissibili  (ammissibili  in  astratto  e  non  ammessi)  ai
 benefici penitenziari.
    Due  precisazioni.  La prima. E' chiaro che qui non si fa derivare
 da un particolare atteggiamento difensivo una valutazione  di  merito
 sul  soggetto: gli si preclude, a causa della mancata collaborazione,
 l'accesso alla fruizione di un diritto (quale si e' sopra precisato).
 E si ricordi cio' che si e' rilevato sub 2- c) che in molti  casi  la
 "collaborazione  processuale"  richiesta dalla legge non e' possibile
 (in tali casi pertanto vi e' la  preclusione  pura  e  semplice  alla
 fruizione del diritto stesso).
   Seconda precisazione. Per quanto gia' detto e ora ricordato, quella
 "collaborazione"   non   va  confusa  con  il  percorso  rieducativo-
 riabilitativo richiesto dalla legge per la concessione  dei  benefici
 penitenziari,  essendo  la  "collaborazione"  un  dato ben distinto e
 diverso e, in molti casi (come si e' detto poche  righe  sopra),  del
 tutto impraticabile (v. sempre le gia' citate considerazioni sub 2- c
 circa  la  impossibilita'  della collaborazione in molte situazioni),
 anche in presenza di un percorso rieducativo completo. Quindi si puo'
 verificare   la   preclusione   alla   fruizione   di   un    diritto
 costituzionalmente  garantito  in  casi  dei  quali esistono tutte le
 condizioni per la fruizione dello stesso.
    3- b. - Una riflessione va  fatta.  Cio'  che  si  chiede  con  la
 normativa  in discussione e' la "collaborazione processuale", come si
 e' piu' volte ripetuto: cioe', una certa condotta difensiva, riferita
 alla  sede  del  processo  di  cognizione.  Qui  siamo  pero'  in  un
 procedimento  diverso:  e'  rilevabile  allora,  in  questa  sede  il
 sacrificio del diritto di difesa che si e' individuato?
    Una prima considerazione e'  possibile.  Se  nio  consideriamo  la
 normativa  in  esame  (come  e'  inevitabile fare) come quella che ha
 stabilmente modificato il regime penitenziario per coloro che vengono
 condannati per determinati reati, deriva da essa  il  sacrificio  del
 diritto di difesa proprio nell'ambito del procedimento di cognizione:
 nel  quale,  l'imputato  sapra' che solo una certa linea difensiva (e
 nessun'altra) gli dara' una prospettiva in sede di  esecuzione  della
 pena.   E'  pero'  da  ritenere  che,  in  sede  di  procedimento  di
 cognizione,   non   sia   possibile   sottoporre    ad    esame    di
 costituzionalita'  una normativa che non regola quel procedimento, ma
 una fase successiva, se si vuole, futura ed incerta.
    Ma, se quella fase si realizza, proprio questa, proprio il momento
 della esecuzione, e quel suo particolare aspetto che e' la  procedura
 di  sorveglianza,  diviene quello in cui il sacrificio del diritto di
 difesa in sede di cognizione puo' essere fatto valere. E cio'  potra'
 essere  fatto  non solo da coloro che scelsero di non collaborare, ma
 anche e soprattutto da coloro che non  avrebbero  potuto  collaborare
 pur  se  lo  avessero  voluto  (v. i casi di cui sub 2- c) e che oggi
 vedono sanzionata la mancata prestazione di  una  collaborazione  che
 non avrebbero potuto prestare.
    Comunque  -  ed e' questa la seconda considerazione - esiste anche
 un diritto di difesa nella fase di esecuzione  e  in  particolare  in
 questa procedura di sorveglianza. Anche in questa fase, l'interessato
 ha  diritto  a  mantenere  un  certo  atteggiamento rispetto ai fatti
 giudicati e a scegliere una linea difensiva piuttosto  che  un'altra.
 Ed  anche  questo  diritto  di  difesa  e' colpito dalla normativa in
 discussione: ed e'  particolarmente  colpito  in  quei  casi  in  cui
 nessuna  collaborazione  e' ormai piu' possibile. In questi casi ogni
 dialettica processuale si chiude a l'interessato e' consegnato, senza
 potere fare nulla, alla passiva esclusione da ogni beneficio.
    4. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa  di  cui
 alla  prima  parte  del  primo  comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del  d.l.  8
 giugno  1992,  n.  306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356,
 per contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
    La norma  costituzionale  ora  citata  stabilisce:  "Nessuno  puo'
 essere  punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
 prima del fatto commesso".
    L'irretroattivita' della legge (art. 11 preleggi)  costituisce  un
 principio   generale   del   nostro   ordinamento   (sentenza   Corte
 costituzionale 4 aprile 1990, n. 155), che nella  materia  penale  e'
 stato  garantito  costituzionalmente  (v.  la giurisprudenza uniforme
 della Corte costituzionale in proposito).
    Tale principio, nella materia penale, riguarda sia  la  previsione
 della fattispecie di reato, sia la previsione legale della pena.
    Ora,  nella  situazione  in  discussione,  come  si  e' cercato di
 chiarire nel rilievo di incostituzionalita' ex art. 27 (v. sub 2- a e
 segg.), e' un nuovo e profondamente incisivo regime  della  pena  che
 viene  introdotto. Si e' chiarito, in sostanza, che condizionare alla
 c.d. "collaborazione" l'ammissibilita' ai  benefici  penitenziari  (e
 farlo,  in  particolare,  in  modo  generale, cosi' da intervenire in
 tutte   le   situazioni,   ignorando   anche   quelle   in   cui   la
 "collaborazione"   non   e'   praticabile)  equivale  a  determinare:
 inammissibilita' al rilievo (e, in sostanza;  allo  svolgimento)  del
 percorso  rieducativo-riabilitativo, essenziale alla esecuzione della
 pena; inammissibilita' al riesame dello sviluppo  di  quel  percorso,
 finalizzato  alla  ricognizione che la pena abbia o meno raggiunto il
 fine  che  le  e' proprio: riesame e ricognizione che sono un diritto
 dell'interessato, secondo quanto indicato dalla Corte  costituzionale
 nella sentenza n. 204/1974 e in quelle successive sopra citate.
    Se   e'   cosi',  l'intervento  normativo  in  discussione  cambia
 profondamente il regime della pena nei confronti  di  coloro  che  vi
 sono gia' sottoposti.
    Tale  normativa  opera in modo retroattivo, cosi' profondamente da
 prevedere, nel secondo comma dell'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n.
 306, addirittura la revoca dei benefici gia' in corso da  tempo.  Non
 solo,  pertanto,  non  contiene alcuna clausola che escluda l'effetto
 retroattivo, ma lo afferma e lo dichiara in modo esplicito fino  alle
 estreme conseguenze.
    Non  sembra  davvero  manifestamente  infondato  affermare  che la
 normativa  in  questione   viola   quella   costituzionale   indicata
 all'inizio di questo numero.
    5.  -  Riepilogando:  si  ritiene  di  sollevare,  nella  presente
 procedura, eccezione di costituzionalita' sotto i seguenti profili:
       a) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla  prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354,  cosi'  come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n.
 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, per contrasto  con
 l'art. 27, terzo comma, della Costituzione;
       b)  incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354, cosi' come modificato dall'art. 15  del  d.l.  8  giugno  1992,
 convertito  nella  legge  7  agosto  1992,  n. 356, per contrasto con
 l'art. 24, secondo comma, della Costituzione;
       c) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla  prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354,  cosi'  come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n.
 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, per contrasto  con
 l'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
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