N. 72 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 1992

                                 N. 72
 Ordinanza  emessa il 21 ottobre 1992 dal tribunale di sorveglianza di
 Firenze nel procedimento di sorveglianza per la revoca  della  misura
 alternativa della semiliberta' nei confronti di Buono Francesco
 Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici (nella
 specie:   semiliberta')   per   gli  appartenenti  alla  criminalita'
 organizzata o per i condannati di determinati delitti - Revoca  degli
 stessi  a  seguito  di  comunicazione  dell'autorita'  di  polizia in
 assenza delle condizioni previste dall'art.  58-ter  della  legge  n.
 354/1975  (collaborazione  con  la  giustizia)  - Automaticita' della
 revoca  rimessa   alla   "discrezionale"   comunicazione   da   parte
 dell'autorita'  di  polizia  -  Prospettata violazione del diritto di
 difesa,  del  principio  di  irretroattivita'  della   legge   penale
 sfavorevole,  della  funzione  rieducativa  della  pena,  nonche' dei
 principi di precostituzione del giudice e di soggezione  del  giudice
 solo alla legge.
 (Legge  26  luglio  1975,  n.  354,  art.  4-bis,  primo comma, p.p.,
 modificato dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 15, convertito,  con
 modificazione, nella legge 7 agosto 1992, n. 356).
 (Cost., artt. 24, 25, 27, 101 e 109).
(GU n.9 del 24-2-1993 )
                     IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    A  scioglimento della riserva espressa nell'udienza del 21 ottobre
 1992;
    Visti ed esaminati gli atti della  procedura  di  sorveglianza  in
 materia di revoca semiliberta' nei confronti di Buono Francesco, nato
 il  16  agosto 1952 a Fucecchio, detenuto nella Casa circondariale di
 Lucca;
    Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale;
                             O S S E R V A
    Nella   procedura   suindicata   si   e'  sollevata  eccezione  di
 incostituzionalita'  per  la  quale  si  rimanda   alla   motivazione
 contenuta nei fogli allegati.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara non manifestamente infondate le questioni di legittimita'
 costituzionale  cosi' come dettagliatamente indicate ed articolate al
 n. 6 della motivazione allegata;
    Sospende la procedura  di  sorveglianza  in  corso  relativa  alla
 eventuale  revoca  della  misura  alternativa  della semiliberta' nei
 confronti di Buono Francesco;
    Dispone la trasmissione degli atti alla Corte  costituzionale  per
 la decisione in merito alle questioni sollevate;
    Manda alla cancelleria per le comunicazioni, le notificazioni e le
 forme  di  pubblicita'  in  genere previste dall'art. 23 citato della
 legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dispone,  a  conferma  di  analoga  precedente  disposizione,   la
 prosecuzione   della   misura   alternativa  della  semiliberta'  nei
 confronti del Buono.
      Firenze, addi' 21 ottobre 1992
                        Il presidente: MARGARA
                            Il collaboratore di cancelleria: PETTINARI
    Depositato in cancelleria il 28 novembre 1992.
                                  ___
                        MOTIVI DELLA DECISIONE:
    1. - Buono Francesco e' ammesso alla semiliberta' presso  la  Casa
 circondariale di Lucca, detenuto anche per il delitto di associazione
 a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti.
    La  Questura  di  Lucca,  con  nota  del  10  giugno 1992, dava la
 comunicazione prevista dal secondo comma dell'art.  15  del  d.l.  8
 giugno  1992,  n.  306,  ora convertito nella legge 7 agosto 1992, n.
 356.
    In effetti, il citato art. 15 del d.l. ora detto:
      nel primo comma, modificando il primo  comma  dell'art.  4-  bis
 della  legge 26 luglio 1975, n. 354, dispone: " .. le misure alterna-
 tive previste dal capo sesto della legge 26 luglio  1975,  n.    354,
 possono   essere   concesse  ai  detenuti  ..  per  delitti  commessi
 avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-  bis  del  c.p.,
 ovvero  al fine di agevolare le attivita' delle associazioni previste
 dallo stesso articolo, nonche' per i  delitti  previsti  dagli  artt.
 416-  bis  e 630 del codice penale e all'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre
 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti ..  collaborano  con
 la giustizia a norma dell'art. 58- ter";
      nel secondo comma dell'art. 15, si dispone: "Nei confronti delle
 persone detenute .. per taluno dei delitti indicati nel primo periodo
 del  primo  comma  (quelli  sopra citati) che fruiscano, alla data di
 entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla
 detenzione  ..,  l'autorita'  di  polizia  comunica  al  giudice   di
 sorveglianza  competente che le persone medesime non si trovano nella
 condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio
 1975, n. 354. In tal caso, accertata l'insussistenza  della  suddetta
 condizione,  il  tribunale  di  sorveglianza  dispone la revoca della
 misura alternativa alla detenzione ..".
    La  nota  citata  della  questura  di  Lucca  (che,  in  sostanza,
 riferisce di una mancata collaborazione dell'interessato, senza  dare
 conclusioni definitive, come e' logico e doveroso) determina pertanto
 la  necessita'  di  procedere  per  la  eventuale revoca della misura
 alternativa della semiliberta', cui il  Buono  e'  ammesso.  Cio'  e'
 stato  fatto,  ma con ordinanza 1½ luglio 1992, si provvide al rinvio
 della decisione in attesa della definizione,  da  parte  della  Corte
 costituzionale  di  eccezioni  di  incostituzionalita'  sollevate  da
 questo tribunale in procedura analoga.  Anche  in  considerazione  di
 alcune  modifiche  intervenute  nella  legge  di conversione 7 agosto
 1992, n. 356, al d.l. 8 giugno 1992, n. 306, appare  necessaria,  in
 questa sede, la riproposizione della questione di costituzionalita'.
    Questo tribunale, per gli aspetti e le considerazioni che seguono,
 ritiene     non    manifestamente    infondato    il    rilievo    di
 incostituzionalita' della normativa ora introdotta.
   2. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova  normativa  di  cui
 alla  prima  parte  del  primo  comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del  d.l.  8
 giugno 1992, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, ed inoltre
 anche  della  previsione di cui al secondo comma dell'art. 15 citato,
 per contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    2- a. - Si ricorda  quanto  chiarito  dalla  Corte  costituzionale
 nella sentenza n. 204 del 1974 circa il senso e la portata del citato
 art.  27, terzo comma, della Costituzione. In detta sentenza si legge
 che, sulla base del precetto di cui alla norma ora citata  "sorge  il
 diritto  per  il  condannato a che, verificandosi le condizioni poste
 dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della  realizzazione
 delle  pretesa  punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in
 effetti  la  quantita'  di  pena  espiata  abbia   o   meno   assolto
 positivamente  al suo fine rieducativo"; diritto questo - nota ancora
 la sentenza citata - che "deve  trovare  nella  legge  una  valida  e
 ragionevole garanzia giurisdizionale".
    Questi  precisi  significato  e portata della norma costituzionale
 sono  richiamati  anche  in  piu'  recenti  decisioni   della   Corte
 costituzionale:  si  veda la sentenza n. 343 del 1987 (motivazione in
 diritto, n. 7, infine); si veda ancora la sentenza n. 282  del  1989,
 che  al  n.  8  della  motivazione in diritto riporta proprio i passi
 della sentenza n. 204/1974 sopra  richiamatisi;  si  veda  infine  la
 recentissima  sentenza n. 125/1992, che, al n. 4 della motivazione in
 diritto, torna a citare e a confermare i principi suindicati.
    2- b. - Premesso quanto sopra non si  puo'  non  ritenere  che  il
 diritto  del condannato a vedere riesaminare se "la quantita' di pena
 espiata abbia o meno assolto positivamente al suo  fine  rieducativo"
 sia  messo  radicalmente in crisi e contesto quando viene subordinato
 al  verificarsi  di  una  condizione  che  prescinda   dal   percorso
 rieducativo-risocializzativo   compiuto  dall'interessato.  Nel  caso
 della  nuova  normativa  di  cui  al  citato  art.  4-bis,  senza  la
 "collaborazione   con   la   giustizia"  ivi  indicata,  il  percorso
 rieducativo-riabilitativo che si deve  accompagnare  alla  esecuzione
 della  pena e' reso irrilevante, frustrando pertanto quella finalita'
 della pena che l'art. 27 stabilisce e l'esercizio del  diritto  sopra
 indicato che ne deriva.

    Sara' bene chiarire due punti.
    Il  primo. La "collaborazione con la giustizia" di cui all'art. 4-
 bis  citato  e'  quella  che   si   puo'   chiamare   "collaborazione
 processuale"  e  che viene esplicitamente descritta dall'art. 58-ter,
 cui l'art. 4- bis rinvia. Sono considerati "collaboratori" coloro che
 "si sono adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata
 a  conseguenze   ulteriori   ovvero   hanno   aiutato   concretamente
 l'autorita'  giudiziaria  nella  raccolta di elementi decisivi per la
 ricostruzione dei fatti e per l'individuazione  o  la  cattura  degli
 autori dei reati".
    Il   secondo   e   conseguente.   La   sede   naturale  di  questa
 collaborazione e' nel processo, prima della sentenza di condanna.  E'
 vero   che   l'art.  58-  ter  prevede  la  ipotesi  di  condotta  di
 collaborazione (con le stesse  caratteristiche  suindicate)  prestata
 dopo  la  sentenza  di  condanna,  ma  l'attivita' in questione resta
 confinata  nel  momento  dell'accertamento  dei  reati  e  dei   vari
 interventi  in  ordine  agli  stessi  e  alle  loro  conseguenze.  Un
 intervento dopo la  condanna  ha  ancora  queste  caratteristiche  ed
 evidentemente  sara' possibile solo se non vi sia gia' stato l'intero
 chiarimento sullo svolgimento dei fatti e l'intero  intervento  sugli
 effetti degli stessi.
    Non  sembra  dubbio allora che la "collaborazione" in questione e'
 prestata di norma prima che inizi il  processo  di  esecuzione  della
 pena  e,  quando  interviene  a  processo  di esecuzione iniziato, si
 ricollega sempre alla situazione processuale di cognizione dei  fatti
 e deriva la sua possibilita' (o impossibilita') dalle caratteristiche
 di quella situazione.
    Dunque:   e'   tale   "collaborazione",   posta   di  norma  prima
 dell'esecuzione o, se e quando possibile, riferita  a  quel  momento,
 che  decide  se  la esecuzione della pena potra' essere finalizzata a
 costruire un percorso di rieducazione-riabilitazione, nell'ambito del
 quale  il condannato potra' fare valere quel diritto al riesame degli
 effetti della esecuzione, di cui la citata sentenza costituzionale n.
 204/1974 ha parlato.
    2-  c.  -  Sara'  bene   chiarire   ulteriormente   il   contenuto
 sostanzialmente   mistificatorio   del   collegamento  che  si  vuole
 verosimilmente  stabilire  fra  "collaborazione"  e  svolgimento  del
 percorso  rieducativo-riabilitativo  di  cui  l'art. 27, terzo comma,
 parla.
    La  "collaborazione"  e'  un  opzione  pratica  che  nasce   dalla
 valutazione   della   convenienza   processuale   ed   e'  fortemente
 condizionata dall'andamento delle indagini e del processo. Il cammino
 della rieducazione-riabilitazione che deve caratterizzare il processo
 di esecuzione  della  pena  corrisponde  invece  ad  un  percorso  di
 rivisitazione  dei propri valori, delle proprie condizioni di vita ed
 alla creazione, nella fase riabilitativa, di valori e condizioni  che
 favoriscono un corretto reinserimento sociale.
    Chiariamo quindi che:
      si puo' "collaborare" senza interessarsi a compiere quel cammino
 di cui si e' ora detto:
      si  puo'  non  essere  nelle  condizioni per collaborare per una
 serie di ragioni e situazioni, che ora si cerchera'  di  dettagliare:
 eppure, in tal caso, si puo' invece compiere correttamente il cammino
 di rieducazione-riabilitazione di cui si e' parlato.
    Chiariamo  allora  le situazioni relative alla possibilita' e alla
 praticabilita' della "collaborazione":
       a) non si puo' ignorare il caso di chi non sia responsabile del
 delitto  per  cui  e'  stato  condannato:  caso  che  si  puo'  anche
 considerare  estremo,  ma  che  non  si pone fuori dal nostro sistema
 giuridico se viene previsto e regolato  nelle  sue  conseguenze  agli
 artt.  643  e  647  del  c.p.p.  E  si  puo'  aggiungere che l'errore
 giudiziario regolato e'  quello  verificato  processualmente  con  la
 revisione,  mentre  vi  puo'  anche  essere  un errore non verificato
 eppure egualmente sussistente. E' in questo caso, quando la revisione
 non cancella il giudicato e la pena sopravvive in base a questo,  che
 si verifica una situazione in cui la "collaborazione" di cui si parla
 e'  impossibile.  Si  puo' aggiungere, per vero, che, in tal caso, ci
 sarebbe  da  discutere  anche  sulla  possibilita'  del  percorso  di
 rieducazione-riabilitazione,  di  cui  si e' parlato, il quale potra'
 comunque consistere, al di la' di quanto avvenuto e  commesso  o  non
 commesso  dall'interessato,  nella  dimostrazione  da parte sua della
 capacita' di rispettare le regole di convivenza generale e di sapersi
 correttemente  reintegrare  dal  carcere  nell'ambiente  sociale.  Si
 ripete,  pero': non si puo' chiedere la "collaborazione" in questione
 a chi non e' autore dei fatti per cui e' stato condannato;
       b) ne' la collaborazione e', all'opposto, possibile  quando  le
 indagini  hanno,  fin dall'inizio, per la flagrante constatazione dei
 fatti o comunque  per  la  loro  rapida  ricostruzione,  chiarito  le
 responsabilita' e rimosso le conseguenze dirette dei reati commessi;
       c)  e'  inoltre,  rispetto  alla  "collaborazione"  in  parola,
 possono essere decisive,  e  ostative,  le  specifiche  posizioni  di
 singoli concorrenti, posizioni riferite ai fatti o al processo.
    E', infatti:
      il  partecipe  di  secondo  piano  puo' non conoscere che il suo
 collegamento  con  il  livello  superiore:  riconosciuto   a   questo
 collegamento delle indagini o dalla ammissione del partecipe di grado
 superiore,  nessuna "collaborazione" e' possibile per quello di grado
 inferiore. Si entra insomma in ordine di  concetti,  che  puo'  anche
 essere  accettabile  sul  piano  della  efficacia processuale, ma che
 diviene francamente inaccettabile quando e' in giuoco, diciamo cosi',
 il "merito penitenziario": l'ordine dei concetti e' che e'  favorito,
 nel  prestare  la  "collaborazione", il piu' responsabile rispetto al
 modesto secondario partecipe;
      e ancora: secondo l'andamento del processo, vi puo'  essere  chi
 e' raggiunto dallo stesso quando cio' che poteva dire o su cui poteva
 incidere  e'  gia'  stato  detto o fatto: anche qui, "collaborazione"
 impossibile.
    Se ci si stacca, poi, dalla osservazione relativa al  momento  dei
 fatti  e  si  pensa a quali e quanti possono esserne gli sviluppi nel
 tempo (tanti di piu' quanto piu' lungo e' il tempo trascorso), ci  si
 rende  conto  di  come,  in  particolare,  la  richiesta  oggi  della
 "collaborazione processuale" che allora non ci fu  puo'  non  trovare
 risposte  possibili,  attendibili,  verificabili.  Ci  possono essere
 situazioni in cui qualcosa sia ancora possibile ma in  molti,  troppi
 casi cio' non accadra' ed e' verosimile che non possa accadere.
    A  questo  riguardo,  sembra  inevitabile  una  riflessione: se la
 norma,   introdotta,    nella    sua    genericita',    si    applica
 indifferentemente  in tutte le situazioni, ignorando quelle in cui e'
 impraticabile, la norma stessa appare, cosi'  com'e',  inaccettabile.
 La stessa si risolve, nei fatti e ciecamente (per le diversita' della
 casistica),  in  una  inammissibilita'  pura e semplice al sistema di
 interventi penitenziari alternativi  alla  detenzione.  Il  che  vuol
 dire:  inammissibilita'  al rilievo (e, in sostanza: allo svolgimento
 rilevante) del  percorso  rieducativo-riabilitativo  essenziale  alla
 esecuzione  della pena; inammissibilita' al riesame dello sviluppo di
 quel percorso, finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno
 raggiunto il fine che le e' proprio: riesame ricognizione che sono un
 "diritto"  dell'interessato,  secondo  quanto  indicato  dalla  Corte
 costituzionale  nella  sentenza  n.  204/1974 e in quelle successive,
 sopra citate; diritto che viene, quindi, negato.
    Ed allora il contrasto della nuova normativa con l'art. 27,  terzo
 comma,  della  Costituzione  puo'  essere  ragionevolmente  ritenuto;
 ritenuta  comunque,  non  manifestamente   infondata   la   questione
 relativa.
    2-  d.  -  In  margine  alla conclusione su questo punto, si crede
 utile una ulteriore riflessione. La nuova  normativa  si  basa  sulla
 convinzione   che   particolari  delitti  sono  commessi  sovente  da
 soggetti, strettamente inseriti in  organizzazioni  criminali,  dalle
 quali e' improbabile il distacco.
    Se  cio'  e'  vero  in  vari  casi,  non  e'  un valido sistema di
 individualizzazione di questi autori quello della tipizzazione basata
 sulla astratta previsione dei titoli di reato, sistema cui  ha  fatto
 ricorso  la  nuova  normativa  in esame. Infatti, la casistica, molto
 varia, che i delitti in questione presentano  rileva  che  il  legame
 degli  autori  con  organizzazioni  criminali, in molti casi, non era
 presente  all'epoca  dei  fatti  e   tantomeno   puo'   essere   dato
 automaticamente per esistente oggi.
    Cosi',  vi  sono  casi di sequestro di persona, in cui vi e' stata
 una aggregazione occasionale  e  estemporanea  di  persone,  che  non
 sembrano  affatto operare nel quadro di organizzazioni criminali. Del
 pari e' a  dirsi  per  l'associazione  finalizzata  allo  spaccio  di
 sostanze  stupefacenti,  che e' stata, in vari casi, riconosciuta nei
 confronti di gruppi di persone legate dalla  tossico-dipendenza,  che
 gestivano   in   comune   l'approvvigionamento  delle  sostanze,  con
 contatti,  verosimilmente,  ma  senza  inserimenti  in   associazioni
 criminali,  cosi'  che  la  scoperta  dei fatti e la celebrazione del
 processo hanno determinato  il  dissolversi  della  aggregazione  del
 gruppo.  E  anche  per  il  piu'  significativo  dei  tipi  di  reato
 richiamati  nella  prima  parte  del  nuovo  testo  dell'art.  4-bis,
 l'associazione  a delinquere di cui all'art. 416- bis del c.p., se si
 vuole esaminare la situazione razionalmente e senza i condizionamenti
 indotti dalla gravita'  degli  attacchi  attuali  della  criminalita'
 organizzata,  si  deve  rilevare  che, accanto a casi di permanente e
 incontestabile pericolosita', ve ne sono altri (tanto piu'  frequenti
 quanto  piu'  si  allontana  nel  tempo  il periodo dell'aggregazione
 criminale), in cui la dissoluzione del gruppo particolare in  cui  il
 soggetto  era  inserito,  la  sua partecipazione di secondo piano, il
 distacco da persone e ambienti, che puo' essere  stato  agevolato  da
 particolari  storie  personali;  tutte  queste  circostanze, insomma,
 possono rendere possibile la dissociazione  il  distacco  dal  gruppo
 criminale di passata appartenenza.
    La  tipizzazione  per  titoli  di  reato,  operata dal nuovo testo
 dell'art. 4- bis, accomuna dunque situazioni eterogenee e prevede per
 tutte la stessa disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda  del
 loro  rilievo e della loro pericolosita'. E' questo appunto l'aspetto
 negativo di una disciplina normativa che conduce ad una inaccettabile
 inammissibilita' ai benefici in tutti i casi,  mentre,  al  contrario
 una disciplina flessibile potrebbe consentire di escludere i casi che
 siano  espressione  di  permanente pericolosita', ammettendo, invece,
 gli altri ad un esame nel merito. Disciplina,  questa,  che  potrebbe
 essere  compatibile  con il precetto dell'art. 27, terzo comma, della
 Costituzione cosi'  come  interpretato  dalla  Corte  Costituzionale,
 secondo  quanto  precisato  in  precedenza.  Il che, per quanto si e'
 detto, non avviene con l'attuale previsione  normativa  del  ripetuto
 art. 4-bis.
    2-  e.  - La questione di costituzionalita' non viene meno dinanzi
 alle modifiche introdotte al d.l. 8 giugno 1992, n. 356, dalla legge
 di conversione 7 agosto 1992, n. 356. Questa  ha  aggiunto  al  nuovo
 testo  dell'art.  4-bis,  dopo la indicazione dei delitti per i quali
 sono inammissibili, salva la ipotesi di collaborazione, le misure al-
 ternative,  questa  ulteriore  proposizione:  "Quando  si  tratta  di
 detenuti  o  internati  per  uno  dei  predetti delitti, ai quali sia
 praticata una delle circostanze attenuanti previste dagli  artt.  62,
 n.  6,  anche  qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la
 sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione
 dell'art.  116,  secondo  comma,  dello  stesso  codice,  i  benefici
 suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene
 offerta  risulti  oggettivamente irrilevante, purche' siano acquisiti
 elementi  tali  da  escludere  in  maniera  certa  l'attualita'   dei
 collegamenti con la criminalita' organizzata".
    Con  riferimento  a  quanto gia' detto nelle pagine precedenti, si
 possono svolgere queste osservazioni:
       a) la normativa introdotta con la legge di conversione  non  fa
 che   dare,   in  situazioni,  particolari,  un  regime  speciale  di
 applicazione della stessa regola stabilita, con  il  d.l.  8  giugno
 1992,  n.  306,  nella  prima  parte  dell'art.  4-  bis. La modifica
 introdotta  con  la  legge  di  conversione  lascia   inalterata   la
 situazione  che  si  era  rilevata  sub 2- d), dove si osservava: "La
 tipizzazione per titoli di reato, operata dal nuovo  testo  dell'art.
 4-bis,  accomuna  situazioni eterogenee e prevede per tutte la stessa
 disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda del loro  rilievo  e
 della loro pericolosita' ..". Il che "conduce - si diceva subito dopo
 -  ad  una inaccettabile inammissibilita' ai benefici in tutti i casi
 ..". Come si puo' rilevare agevolmente la  modifica  apportata  dalla
 legge  di  conversione  non  fa che prevedere, per casi particolari e
 ristretti, la necessita' di una collaborazione attenuata, compensata,
 pero', dalla dimostrazione "in maniera certa"  di  un  dato  negativo
 quale  e'  la  mancanza  di attuali "collegamenti con la criminalita'
 organizzata".   La   regola,   di   cui   si   e'    contestata    la
 costituzionalita', resta quindi ferma;
       b)  si  puo'  aggiungere che, proprio perche' il nuovo testo fa
 pur sempre riferimento ad una  collaborazione,  sia  pure  attenuata,
 restano  ferme  tutte  le  obiezioni al sistema fatte sul punto della
 impossibilita'  o  della  impraticabilita'  della  collaborazione  in
 alcune situazioni (v. sub 2-c);
      c)  e  si aggiunge, a quanto detto, il rilievo che la necessita'
 di provare "in maniera certa" la mancanza  di  attuali  "collegamenti
 con  la  criminalita'  organizzata"  impone l'onere della prova di un
 dato negativo, tanto piu' irraggiungibile quanto  piu'  l'interessato
 non  abbia  mai  avuto  collegamenti del genere, come accade nei casi
 ricordati in precedenza sub 2-d);
      d) con queste gravi riserve di fondo,  si  puo'  anche  rilevare
 come  le  modifiche  introdotte  con  la  legge  di conversione siano
 limitate nonche' scarsamente  logiche  e  coerenti:  in  una  parola:
 scarsamente razionali.
    Infatti:
      intanto, l'art. 62, n. 6, e 116 del c.p. interessano solo alcuni
 dei  tipi  di reato cui la prima proposizione dell'art. 4- bis - come
 modificato dal d.l. n. 306/1992 - si riferisce: possono  riguardare,
 infatti,  le  prime due ipotesi, legate all'art. 416-bis, e quella di
 cui all'art. 630 del c.p., non le altre:  c'e'  da  chiedersi  se  vi
 fosse  la  consapevolezza  e  comunque  se ci sia una razionalita' in
 queste distinzioni fra tipi di reato rispetto allo stesso regime;
      il riferimento all'art. 116  del  c.p.  introduce  un  ulteriore
 elemento di possibile irrazionalita': se vi sia una rapina per cui e'
 stata  ritenuta l'aggravante del collegamento con una associazione di
 stampo mafioso (art. 628, terzo comma, n. 3) in occasione della quale
 e' stato commesso un omicidio,  potra'  rendersi  applicabile  l'art.
 116,  inapplicabile  invece  quando  la  rapina  non sia accompagnata
 dall'omicidio; se e' possibile parlare di art. 116 per  un  sequestro
 di  persona,  aggravato  dalla  morte dell'ostaggio, non se ne potra'
 parlare nel caso in cui non si sia verificato questo evento.  Dunque:
 un regime di minor sfavore (se cosi' si voglia chiamare quello che si
 sta  esaminando)  vale  in  casi di maggiore gravita' e non e' invece
 proponibile in casi di minore gravita';
      la  previsione  della  ipotesi del risarcimento del danno, anche
 successivo alla sentenza di condanna, prende in considerazione coloro
 che hanno una certa disponibilita' patrimoniale, non sempre e' chiaro
 i meno colpevoli;
      anche l'ipotesi di applicazione dell'art. 114 del c.p. e'  molto
 limitata  specie  in riferimento alla previsione del secondo comma di
 tale articolo che esclude  l'applicabilita'  della  norma  "nei  casi
 indicati  dall'art. 112": questo prevede al n. 1 il caso del concorso
 nel reato di 5 o piu' persone, caso molto  frequente,  anzi  di  gran
 lunga  prevalente,  nella casistica che ci interessa. E una ulteriore
 precisazione alla previsione di questa particolare attenuante: sub 2-
 d) si era rilevato come la nuova  normativa  di  inammissibilita'  ai
 benefici colpiva indistintamente i partecipi senza distinguere i loro
 ruoli, principali o subalterni, informati di tutto, perche' al centro
 dell'azione  criminale, o a conoscenza solo di parte della stessa. Si
 deve ora chiarire che la previsione  dell'art.  114  del  c.p.  nella
 legge  di  conversione  che  qui  si  esamina,  non coglie affatto la
 preoccupazione che si era avanzata: anche se il ruolo di un partecipe
 e'  subalterno,  non  si  arriva  che  in   casi   eccezionali   alla
 possibilita'  di  applicazione dell'art. 114, esclusa, comunque, come
 si e' accennato, quando il numero dei concorrenti (come  sara'  quasi
 sempre) e' di 5 o piu'.
    Concludendo:  la  legge  di conversione, con la modifica che si e'
 esaminata, non ha modificato la sostanza della  normativa  introdotta
 con  il  d.l.  n.  306/1992:  restano  pertanto  ferme le riserve di
 costituzionalita' avanzate sulla normativa stessa, anche  cosi'  come
 ora vigente per effetto della legge di conversione.
    2-  f.  -  Si  e' valutata sinora la incostituzionalita' del nuovo
 testo dell'art. 4- bis (prima parte del primo comma), norma  che  sta
 alla  base  della  situazione  in cui si trova l'interessato. Egli e'
 stato gia' ammesso alla semiliberta' e ne fruiva  regolarmente.  Tale
 misura  alternativa  dovrebbe  ora  essere  revocata  per il disposto
 dell'art. 15, secondo comma, del d.l. 8 giugno  1992,  n.  306,  che
 prevede  esplicitamente  la  revoca delle misure alternative in corso
 nei confronti di coloro che sono stati condannati per uno dei delitti
 di cui alla prima parte del primo comma dell'art. 4- bis e  che  "non
 si  trovano  nella  condizione  per  l'applicazione dell'art. 58- ter
 della legge 26 luglio 1975, n. 354".
    Due premesse:
      si esaminera' piu' oltre, al n.  5,  il  problema  di  come  sia
 introdotta la procedura di revoca e del ruolo in essa della autorita'
 di polizia rispetto all'organo giudiziario decidente;
      il  testo  del  secondo comma dell'art. 15 in discussione non e'
 del tutto perspicuo. La portata applicativa dell'art. 58- ter e'  per
 vero  limitata,  in  quanto  tale  norma stabilisce che i piu' lunghi
 termini di ammissione ai benefici previsti dal d.l. 13 maggio  1991,
 n.  152,  convertito  nella  legge  12  luglio  1991,  n. 203, non si
 applicano nei confronti di coloro che collaborano con  la  giustizia.
 E'  verosimile  pero'  l'ipotesi  che  la  norma  abbia  voluto  fare
 riferimento all'art. 58- ter solo per descrivere  le  caratteristiche
 della  collaborazione  con  la giustizia, prevista dall'art. 4-bis, a
 cui probabilmente era piu' logico rinviare.
    In  tal  senso  si  interpreta  pertanto il disposto dell'art. 15,
 secondo comma, in esame e quindi si apre nel caso, per effetto  della
 comunicazione  dell'organo  di  polizia (che si e' gia' riferita), il
 procedimento di revoca della misura alternativa, procedimento in cui,
 se si dovra' escludere la collaborazione ex art.  58-ter,  si  dovra'
 senz'altro revocare il beneficio gia' concesso.
    Rispetto  alla situazione generale di inammissibilita' ai benefici
 se non vi sia collaborazione, la normativa e la situazione che ora si
 esaminano ha una caratteristica in piu'. Qui il riesame che  la  pena
 ha  raggiunto  le sue finalita', che un percorso di riabilitazione si
 e' sviluppato e che, in esito a questo, si  e'  concessa  una  misura
 alternativa   alla   detenzione;  tutto  questo  e'  gia'  acquisito.
 L'interessato ha gia' esercitato il suo diritto a fare valutare se la
 pena ha raggiunto il suo fine e questa  valutazione  si  e'  conclusa
 favorevolmente  per  lui.  Si tratta ora quindi di invertire, diciamo
 cosi', la marcia, gia' avviata, della pena,  di  fare  cambiare  alla
 stessa natura e finalita'. Nessun diritto al riesame che le finalita'
 rieducative  sono  state  raggiunte,  azzeramento  del passato e gia'
 operato riconoscimento  di  quel  diritto:  la  pena  resta  soltanto
 afflittiva.   La   violazione  dell'art.    27,  terzo  comma,  della
 Costituzione, sembra ancora piu' plateale e stridente di  quanto  non
 sia  nella  parte  della normativa esaminata nelle pagine precedenti,
 quella  parte  in  cui  si  limita  la  ammissibilita'  ai   benefici
 penitenziari.
    Ed  allora:  la violazione della norma costituzionale ora detta si
 realizza:
      sia nella prima parte del  primo  comma  dell'art.  4-bis,  come
 modificato  dalla  nuova  e  ripetuta  normativa,  che  stabilisce la
 inammissibilita' ai  benefici  penitenziari,  salva  l'ipotesi  della
 collaborazione, per i condannati e detenuti per determinati delitti;
      sia  nell'ultima parte dell'art. 15 della nuova normativa (d.l.
 8 giugno 1992, n. 306, e legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356),
 che prevede, nei casi indicati, di cui alla  prima  parte  del  primo
 comma  dell'art.  4-bis,  la  revoca  dei  benefici penitenziari gia'
 concessi.
    Sembra,  pertanto,  tutt'altro  che  manifestamente  infondata  la
 questione di legittimita' costituzionale sui punti indicati.
    3.  -  Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa di cui
 alla prima parte del primo comma dell'art.  4-  bis  della  legge  26
 luglio  1975,  n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8
 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto  1992,  n.  356,
 nonche'  del  secondo  comma  dello stesso art. 15, per contrasto con
 l'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
    3- a. - La norma costituzionale  ora  citata  cosi'  dispone:  "La
 difesa   e'   diritto   inviolabile   in   ogni  stato  o  grado  del
 procedimento".
    La Corte costituzionale ha chiarito (sentenza 27 novembre 1979, n.
 267) che la garanzia costituzionale del diritto di difesa va riferita
 ai procedimenti giurisdizionali che abbiano contenuto decisorio. Tale
 e' il  procedimento  di  sorveglianza  in  cui  e'  sollevata  questa
 eccezione,  secondo  la  giurisprudenza per la quale il provvedimento
 conclusivo di tale procedimento ha natura di sentenza  e  produce  il
 normale effetto del giudicato (v. Cass. 24 ottobre 1979, in Foro it.,
 1980,  II,  164,  nonche'  Cass. 21 febbraio 1983 in Cass. pen. 1984,
 2054).
    E'  utile  un  altro  chiarimento  che  viene  dalla giurisdizione
 costituzionale. Nella stessa si precisa (v.  per  tutte:  sentenza  8
 giugno  1983,  n.  149)  che  il diritto di difesa comporta, in primo
 luogo, la garanzia di contraddittorio: il che e' quanto dire che quel
 diritto e' assicurato nella misura in cui si dara' all'interessato la
 possibilita' di partecipare ad una effettiva dialettica processuale.
    Sembra chiaro pertanto che  il  diritto  di  difesa  non  concerne
 soltanto  la  disponibilita'  degli  strumenti  con  cui la difesa si
 realizza, ma anche, per  cosi'  dire,  il  merito  della  difesa,  la
 scelta,  cioe', di una linea difensiva piuttosto di un'altra. Nessuna
 linea di difesa puo' essere imposta, anche se  e'  pacifico  che  una
 certa  linea  difensiva  puo'  comportare, attraverso altri riscontri
 processuali,  valutazioni  particolari  (ed  anche  sfavorevoli)  nei
 confronti  del soggetto interessato. Il che, pero', deve essere anche
 detto  senza  dimenticare  che  si  deve  distinguere   fra   verita'
 processuale  e verita' reale e che una certa linea difensiva puo' non
 essere in regola con la prima, ma esserlo con la seconda,  mentre  la
 valutazione  giudiziale  di  tale linea puo' essere, al contrario, in
 regola con la prima, ma non con la seconda.
    Orbene: la normativa in esame, condizionando  un  vero  e  proprio
 diritto del soggetto (cosi' come chiarito nelle pagine precedenti: il
 diritto,  cioe',  al  riesame degli effetti rieducativi-riabilitativi
 prodotti dalla esecuzione della  pena)  alla  c.d.  "collaborazione",
 vincola  il  soggetto  medesimo  ad  una  linea difensiva, negandogli
 pertanto la  liberta'  di  scelta  garantita  costituzionalmente.  E'
 chiaro   che   stabilire  che,  per  coloro  che  sono  detenuti  per
 particolari reati, nessun beneficio e' possibile se non nei  casi  in
 cui  "tali  detenuti  collaborano  con  la  giustizia  ..",  equivale
 puramente  e  semplicemente  a  costringere  gli   interessati   alla
 "collaborazione  processuale"  e, quindi, ad una particolare linea di
 difesa (equivalente alla  confessione  piena  e  incondizionata)  per
 essere  ammissibili  (ammissibili  in  astratto  e  non  ammessi)  ai
 benefici penitenziari.
    Due precisazioni. La prima. E' chiaro che qui non si  fa  derivare
 da  un  particolare atteggiamento difensivo una valutazione di merito
 sul soggetto: gli si preclude, a causa della mancata  collaborazione,
 l'accesso alla fruizione di un diritto (quale si e' sopra precisato).
 E  si  ricordi cio' che si e' rilevato sub 2- c) che in molti casi la
 "collaborazione processuale" richiesta dalla legge non  e'  possibile
 (in  tali  casi  pertanto  vi  e' la preclusione pura e semplice alla
 fruizione del diritto stesso).
   Seconda precisazione. Per quanto gia' detto e ora ricordato, quella
 "collaborazione"  non  va  confusa  con  il   percorso   rieducativo-
 riabilitativo  richiesto  dalla legge per la concessione dei benefici
 penitenziari, essendo la "collaborazione"  un  dato  ben  distinto  e
 diverso  e,  in  molti casi (come si e' detto poche righe sopra), del
 tutto impraticabile (v. sempre le gia' citate considerazioni sub 2- c
 circa la impossibilita' della collaborazione  in  molte  situazioni),
 anche in presenza di un percorso rieducativo completo. Quindi si puo'
 verificare    la   preclusione   alla   fruizione   di   un   diritto
 costituzionalmente garantito in casi  dei  quali  esistono  tutte  le
 condizioni per la fruizione dello stesso.
    3-  b.  -  Una  riflessione  va  fatta.  Cio' che si chiede con la
 normativa in discussione e' la "collaborazione processuale", come  si
 e' piu' volte ripetuto: cioe', una certa condotta difensiva, riferita
 alla  sede  del  processo  di  cognizione.  Qui  siamo  pero'  in  un
 procedimento  diverso:  e'  rilevabile  allora,  in  questa  sede  il
 sacrificio del diritto di difesa che si e' individuato?
    Una  prima  considerazione  e'  possibile.  Se noi consideriamo la
 normativa in esame (come e' inevitabile  fare)  come  quella  che  ha
 stabilmente modificato il regime penitenziario per coloro che vengono
 condannati  per  determinati  reati, deriva da essa il sacrificio del
 diritto di difesa proprio nell'ambito del procedimento di cognizione:
 nel quale, l'imputato sapra' che solo una certa  linea  difensiva  (e
 nessun'altra)  gli  dara' una prospettiva in sede di esecuzione della
 pena.  E'  pero'  da  ritenere  che,  in  sede  di  procedimento   di
 cognizione,    non    sia    possibile   sottoporre   ad   esame   di
 costituzionalita' una normativa che non regola quel procedimento,  ma
 una fase successiva, se si vuole, futura ed incerta.
    Ma, se quella fase si realizza, proprio questa, proprio il momento
 della  esecuzione, e quel suo particolare aspetto che e' la procedura
 di sorveglianza, diviene quello in cui il sacrificio del  diritto  di
 difesa  in sede di cognizione puo' essere fatto valere. E cio' potra'
 essere fatto non solo da coloro che scelsero di non  collaborare,  ma
 anche  e  soprattutto  da coloro che non avrebbero potuto collaborare
 pur se lo avessero voluto (v. i casi di cui sub  2-  c)  e  che  oggi
 vedono  sanzionata  la  mancata prestazione di una collaborazione che
 non avrebbero potuto prestare.
    Comunque - ed e' questa la seconda considerazione -  esiste  anche
 un  diritto  di  difesa  nella fase di esecuzione e in particolare in
 questa procedura di sorveglianza. Anche in questa fase, l'interessato
 ha diritto a mantenere  un  certo  atteggiamento  rispetto  ai  fatti
 giudicati  e  a scegliere una linea difensiva piuttosto che un'altra.
 Ed anche questo diritto di  difesa  e'  colpito  dalla  normativa  in
 discussione:  ed  e'  particolarmente  colpito  in  quei  casi in cui
 nessuna collaborazione e' ormai piu' possibile. In questi  casi  ogni
 dialettica processuale si chiude e l'interessato e' consegnato, senza
 potere fare nulla, alla passiva esclusione da ogni beneficio.
    3-  c.  -  Si  sono  svolte le considerazioni precedenti, pensando
 soprattutto alla situazione  del  primo  comma  dell'art.  4-bis:  di
 inammissibilita'  ai  benefici  quando  non vi sia collaborazione. E'
 chiaro che il discorso vale egualmente e ha piu'  forte  ragione  per
 coloro  che,  gia' ammessi ai benefici penitenziari, possono soltanto
 fornire la collaborazione se non vogliono vedere revocati i  benefici
 gia'  concessi.  Anche  qui  la  linea  difensiva  e' obbligata se si
 vogliono mantenere le conseguenze favorevoli  di  quel  riesame  (del
 raggiungimento   delle  finalita'  rieducative  della  pena),  a  cui
 l'interessato aveva diritto e che gli vengono  ora  negate  dopo  che
 erano state invece riconosciute.
    4.  -  Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa di cui
 alla prima parte del primo comma dell'art.  4-  bis  della  legge  26
 luglio  1975,  n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.l. 8
 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto  1992,  n.  356,
 nonche'  del  secondo  comma dello stesso articolo, per contrasto con
 l'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
    La  norma  costituzionale  ora  citata  stabilisce:  "Nessuno puo'
 essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in  vigore
 prima del fatto commesso".
    L'irretroattivita'  della  legge (art. 11 preleggi) costituisce un
 principio   generale   del   nostro   ordinamento   (sentenza   Corte
 costituzionale  4  aprile  1990, n. 155), che nella materia penale e'
 stato garantito costituzionalmente  (v.  la  giurisprudenza  uniforme
 della Corte costituzionale in proposito).
    Tale  principio,  nella materia penale, riguarda sia la previsione
 della fattispecie di reato, sia la previsione legale della pena.
    Ora, nella situazione  in  discussione,  come  si  e'  cercato  di
 chiarire nel rilievo di incostituzionalita' ex art. 27 (vedi sub 2- a
 e  segg.), e' un nuovo e profondamente incisivo regime della pena che
 viene introdotto. Si e' chiarito, in sostanza, che condizionare  alla
 c.d.  "collaborazione"  l'ammissibilita'  ai benefici penitenziari (e
 farlo, in particolare, in modo  generale,  cosi'  da  intervenire  in
 tutte   le   situazioni,   ignorando   anche   quelle   in   cui   la
 "collaborazione"  non  e'  praticabile)   equivale   a   determinare:
 inammissibilita'  al  rilievo  (e, in sostanza; allo svolgimento) del
 percorso rieducativo-riabilitativo, essenziale alla esecuzione  della
 pena;  inammissibilita'  al  riesame dello sviluppo di quel percorso,
 finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno  raggiunto  il
 fine  che  le  e' proprio: riesame e ricognizione che sono un diritto
 dell'interessato, secondo quanto indicato dalla Corte  costituzionale
 nella sentenza n. 204/1974 e in quelle successive sopra citate.
    Se   e'   cosi',  l'intervento  normativo  in  discussione  cambia
 profondamente il regime della pena nei confronti  di  coloro  che  vi
 sono gia' sottoposti.
    Tale  normativa  opera in modo retroattivo, cosi' profondamente da
 prevedere, nel secondo comma dell'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n.
 306, addirittura la revoca dei benefici gia' in corso da  tempo.  Non
 solo,  pertanto,  non  contiene alcuna clausola che escluda l'effetto
 retroattivo, ma lo afferma e lo dichiara in modo esplicito fino  alle
 estreme conseguenze.
    Non  sembra  davvero  manifestamente  infondato  affermare  che la
 normativa  in  questione   viola   quella   costituzionale   indicata
 all'inizio di questo numero.
    4- b. - La specifica norma ora ricordata, quella del secondo comma
 dell'art.  15  del  d.l.  n.  306/1992,  che prevede la revoca delle
 misure alternative gia' concesse,  e'  specificamente  applicata  nel
 caso qui in esame.
    Sotto   tale  profilo,  la  norma  costituzionale,  che  vieta  la
 retroattivita' in materia penale, sembra ancora piu'  disinvoltamente
 ignorata e violata.
    5. - Rilievo di incostituzionalita' del seconco domma dell'art. 15
 del  d.l.  8  giugno  1992,  n. 306, convertito nella legge 8 giugno
 1992, n. 356, per contrasto con  gli  artt.  25,  primo  comma,  101,
 secondo comma, e 109 della Costituzione.
    5- a. - Rileggiamo la norma in discussione di cui al secondo comma
 dell'art. 15.
    "Nei  confronti  delle  persone  detenute  ..  - vi si legge - per
 taluno dei  delitti  indicati  nel  primo  periodo  del  primo  comma
 (dell'art.  4- bis) che fruiscano, alla data di entrata in vigore del
 presente  decreto,  delle  misure  alternative  alla  detenzione   ..
 l'autorita' di polizia comunica al giudice di sorveglianza competente
 che   le  persone  medesime  non  si  trovano  nella  condizione  per
 l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n.  354.
 In tal caso, accertata la insussistenza della suddetta condizione, il
 tribunale  di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa
 alla detenzione ..".
    La   norma   in   questione,   di   cui   abbiamo   esaminato   la
 incostituzionalita'  per  altri  aspetti,  avrebbe potuto articolarsi
 come segue:
      enunciare  che  le  misure  alternative  per  i   detenuti   per
 determinati  delitti  dovevano  essere  revocate  se non risultava la
 collaborazione con la giustizia degli stessi;
      stabilire che il tribunale di sorveglianza,  per  verificare  la
 ricorrenza della collaborazione con la giustizia, seguiva i criteri e
 i modi di accertamento di cui all'art. 58-ter, primo e secondo comma.
    La norma in questione invece, pur dopo le modifiche introdotte con
 la   legge  di  conversione,  prevede  come  necessario  l'intervento
 dell'autorita' di polizia: e'  questa  che  comunica  al  giudice  di
 sorveglianza  la  situazione ed indica che le persone interessate non
 si trovano nelle condizioni  per  l'applicazione  dell'art.  58-  ter
 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
    Alla  previsione di questa comunicazione dell'autorita' di polizia
 non si puo' che dare il significato di iniziativa necessaria  perche'
 si proceda alla revoca. Senza quella comunicazione il procedimento di
 revoca  non  puo' nascere. Che poi l'organo giudiziario decida previe
 ulteriori verifiche e' un altro discorso: quelle  verifiche  verranno
 in  un  procedimento  di  revoca,  che  pero'  non  sorgera' senza la
 comunicazione dell'autorita' di polizia.
    E' indiscutibile che il senso non puo' essere  diverso  e  che  la
 norma  non  puo'  significare  che  e'  l'organo  di  sorveglianza ad
 informarsi, nei modi gia' previsti dall'art. 58-ter, presso  l'organo
 di  polizia  della  ricorrenza o meno della collaborazione. Se questo
 era il senso del discorso, bastava ripetere, con  le  variazioni  del
 caso,  una  previsione  analoga  a  quella  dei commi secondo e terzo
 dell'art.  4-bis,  previsione  che  rispetta,  sia   pure   in   modo
 discutibile e discusso, i ruoli dell'organo giudiziario, con funzione
 procedente  e  decidente,  e  dell'organo  di  polizia, con esclusiva
 funzione informativa.  No,  nella  disposizione  in  questione,  alla
 funzione   informativa   si   aggiunge  e  si  sovrappone  quella  di
 iniziativa, senza l'esercizio della  quale,  come  si  e'  detto,  il
 procedimento di revoca non sorge.
    Due considerazioni confermano questa lettura.
    La prima si ricava dall'impianto complessivo dell'art. 4-bis, alla
 fine  del  quale  va  in  sostanza  collocato  questo  secondo  comma
 dell'art. 15 del d.l. in questione. Lo stesso  (art.  4-  bis),  nei
 primi  tre  commi,  introdotti con la legge 12 luglio 1991, n. 203, e
 modificati in parte dalla nuova normativa, che  si  e'  esaminata  ai
 numeri precedenti, stabilisce determinati limiti alla concessione dei
 benefici  penitenziari e prevede accertamenti particolari, che devono
 essere compiuti dagli organi di sorveglianza  decidenti.  Si  possono
 muovere   riserve   sui   modi   previsti   dalla  legge  per  questi
 accertamenti, ma, in linea  generale,  come  si  e'  detto,  i  ruoli
 dell'autorita' giudiziaria e di quella di polizia sono rispettati.
   A  questi  tre  commi segue pero' il comma 3-bis, che si inserisce,
 anche formalmente, nell'art. 4-bis, e  quindi  l'ulteriore  comma  in
 esame,  non  formalmente  inserito  nell'art.  4-bis,  ma  conclusivo
 dell'art. 15 del citato d.l. n. 306/1992 e da esaminare  in  stretta
 connessione  con  i  vari  commi  dell'art. 4-bis. Orbene: questi due
 nuovi  commi  prevedono  entrambi  queste  forme  di  "comunicazione"
 all'organo dedicente di sorveglianza, che condizionano e limitano gli
 spazi decisionali dello stesso. Nello specifico caso del comma finale
 dell'art.  15  del  d.l.  n. 306/1992, cosi' definito dalla legge di
 conversione n. 356/1992, la "comunicazione" dell'organo di polizia e'
 la condizione perche' la procedura di revoca inizi.
    La seconda considerazione si spiega meglio alla luce della  prima.
 Queste  "comunicazioni"  presuppongono,  in sostanza, un'attivita' di
 polizia che verifica o la specifica pericolosita' del caso o/e  anche
 la  inutilita'  della  gestione dello stesso a fini informativi. Cio'
 che e'  significativo  e',  dunque,  che  queste  "comunicazioni"  ci
 possono  anche  non  essere:  e  cio'  avverra' nei casi che possono,
 appunto,  essere  utili  a  fini  informativi.  Il   che   significa,
 conclusivamente,  che  queste  "comunicazioni"  hanno  come  base  la
 discrezionalita' dell'organo di  polizia,  strettamente  legata  alla
 gestione dei casi a fini informativi.
    Come si e' gia' osservato, non cambia poi la sostanza del discorso
 la  circostanza  che  il  tribunale  decide  non  automaticamente, ma
 "accertata la insussistenza" della collaborazione. Cio'  che  qui  si
 rileva  non  e'  una  limitazione  nel  momento  decisionale,  ma una
 limitazione che sta a monte  dello  stesso,  nella  iniziativa  della
 procedura,  e  che  impedisce  di giungere al momento decisionale nei
 casi in  cui  l'organo  di  polizia  decidera'  di  non  fare  alcuna
 comunicazione.
    5- b. - Una normativa siffatta viola le varie norme costituzionali
 citate:
      l'art.  25 della Costituzione perche' l'iniziativa discrezionale
 dell'autorita' di polizia e, quindi, la possibilita' della stessa  di
 dare  o  meno  la "comunicazione", puo' sottrarre al giudice naturale
 precostituito per legge, che e'  il  tribunale  di  sorveglianza,  la
 revoca di una misura alternativa: si ripete: questa ci sara' o non ci
 sara'  perche'  l'autorita'  di  polizia  decide  di  dare  o meno la
 comunicazione, data la quale, all'organo di sorveglianza non restera'
 che la valutazione sulla prestata (o meno) collaborazione;
      l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, che  afferma  che
 il  giudice e' soggetto soltanto alla legge, mentre, con la normativa
 in esame, e' la scelta discrezionale dell'autorita' di  polizia,  che
 consente  di  aprire  la  procedura  di  revoca  e  di pervenire alla
 pronuncia  relativa,  rovesciando  cosi'  il  rapporto  che  dovrebbe
 intercorrere fra organo giudiziario decidente e organo informativo di
 polizia.    Anche   secondo   l'indicazione   dell'art.   109   della
 Costituzione, che, se  e'  scritto  con  riferimento  ad  un  aspetto
 organizzativo  del  procedimento di cognizione, presuppone ovviamente
 ed esprime chiaramente la relazione necessaria che deve  intercorrere
 fra funzione informativa e funzione decisionale e fra gli organi che,
 anche  fuori  del  procedimento di cognizione, gestiscono le funzioni
 stesse.
    Non  e'  pertanto  manifestamente  infondata   la   questione   di
 incostituzionalita' sopra indicata.
    6.  -  Nella procedura di sorveglianza per revoca della ammissione
 alla  semiliberta'  nei  confronti  dell'interessato,  si  ravvisano,
 quindi,  come  non  manifestamente infondate le seguenti questioni di
 incostituzionalita':
       a) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla  prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354,  cosi'  come modificato dall'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n.
 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, ed  inoltre  e  in
 particolare  anche della previsione di cui al secondo comma dell'art.
 15  citato,  per  contrasto  con  l'art.  27,  terzo   comma,   della
 Costituzione;
       b)  incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima
 parte del primo comma dell'art.  4-  bis  sopra  citato,  cosi'  come
 modificato dall'art. 15 del d.l. n. 306/1992, convertito nella legge
 n.  356/1992,  per  contrasto  con  l'art.  24,  secondo comma, della
 Costituzione;
       c) incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla  prima
 parte  del  primo  comma  dell'art.  4-  bis  citato, come modificato
 dall'art. 15  del  d.l.  n.  306/1992,  convertito  nella  legge  n.
 356/1992, ed inoltre e in particolare anche della disposizione di cui
 al  secondo  comma dello stesso art. 15, per contrasto con l'art. 25,
 secondo comma, della Costituzione;
       d) incostituzionalita' della nuova normativa di cui  al  citato
 secondo  comma  del ripetuto art. 15, per contrasto con gli artt. 25,
 primo comma, 101, secondo comma, e 109 della Costituzione.
 93C0174